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1. IL PARLATO

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Academic year: 2021

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1. IL PARLATO

1.1. Parlare e scrivere

1.1.1. La variazione diamesica

Le lingue storico-naturali si realizzano in forme diverse a seconda delle varie modalità con cui vengono usate, in relazione alla natura del messaggio, alle sue finalità e alle situazioni nelle quali si attua la comunicazione.

Si distinguono quindi delle varietà, che insieme vanno a formare il “repertorio” di una determinata lingua, e che sono individuate in base ad alcuni criteri, detti “parametri” o “assi di variazione”.

I principali parametri di variazione sono cinque: la diamesia, legata al canale di trasmissione usato; la diastratia, legata alla condizione sociale e culturale dell’utente; la diafasia, dipendente dalla situazione comunicativa; la diacronia e la diatopia, connessa la prima con l’evoluzione della lingua nel tempo e la seconda con i suoi mutamenti nello spazio.

La variabile diamesica1, nostro oggetto di analisi, distingue quindi le due fondamentali varietà del parlato e dello scritto. A seconda del canale usato per la diffusione del messaggio verbale, si hanno le due

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differenti realizzazioni: nel primo caso il messaggio si realizza mediante suoni, nel secondo caso mediante segni grafici.

Non tutte le lingue del mondo dispongono di entrambe le varietà: molte sono solo parlate, pochissime sono soltanto scritte. Mentre nel caso di lingue sia scritte che parlate, esistono categorie sociali che si servono esclusivamente, o prevalentemente, della varietà parlata: è il caso degli analfabeti e dei semianalfabeti.

Un parlante medio di qualsiasi lingua che possegga le due varietà è in grado di cogliere le principali differenze tra le due e, almeno per quanto riguarda la tradizione occidentale, si può parlare di una consapevolezza metalinguistica ingenua, che non solo distingue parlato e scritto, ma attribuisce maggior importanza allo scritto (Bazzanella 1994: 7).

Alla semplice distinzione tra scritto e parlato si è aggiunto poi nello scorso secolo, grazie al progresso tecnologico, il “trasmesso”. Attraverso il telefono, il fax, la radio, la televisione, internet, sia la lingua parlata che la lingua scritta hanno avuto la possibilità di essere trasmesse a distanza e eventualmente registrate, assumendo quindi tratti innovativi e peculiari.

In più, di recente, si è sostituita la netta contrapposizione tra le due varietà con il concetto di continuum, che prevede tra i due opposti poli di "parlato-parlato" e di "scritto-scritto"2 una serie di realizzazioni intermedie con diversi gradi di formalità. In questo senso sono da considerare quei casi in cui un testo è recepito attraverso un canale diverso da quello della sua produzione: è il caso di testi letti ad alta voce o recitati, oppure di testi scritti sotto dettatura o dei verbali.

2 Le etichette di “parlato-parlato” e “scritto-scritto” designano l’oralità e la scrittura nelle loro

modalità più genuine, rispettivamente il parlato del libero scambio conversazionale e la scrittura non legata in alcun modo al parlato (Masini 2003: 17)

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1.1.2. Caratteristiche del testo parlato

Halliday (1985: 113-139) individua una prima distinzione immediata tra testo scritto e testo orale: il primo ha una maggiore “densità lessicale”, cioè una maggiore quantità di nomi, verbi e sostantivi, mentre il secondo una maggiore complessità grammaticale, si realizza cioè con un intrico di particelle, connettivi, voci indeclinabili come preposizioni, avverbi, congiunzioni, termini generici, che lo rendono frastagliato e all’apparenza più ambiguo semanticamente.

Questi tratti linguistici dipendono dalle condizioni in cui si realizza il testo parlato; tali condizioni, che possiamo definire come “tratti situazionali” (Bazzanella 1994), possono essere così sintetizzate (Bernardelli – Pellerey 1999: 55-57):

a) Elaborazione in tempo reale. Il testo orale è improvvisato, continuamente modificato rispetto al progetto iniziale, adeguato ai feed-back dell'interlocutore/i.

b) Compresenza. Parlante e interlocutore/i si trovano nello stesso posto e nello stesso tempo (Bazzanella 1994: 18), quindi in uno stesso contesto e con un insieme di conoscenze condivise che rendono possibile la deissi3 e il ricorso all'ellissi e all’implicitezza; inoltre potendosi vedere hanno la possibilità di accompagnare la voce con i gesti.

c) Adeguatezza specifica. Il testo orale è prodotto per uno specifico destinatario, in uno specifico contesto, per una specifica motivazione. d) Immediatezza e unicità di consumo. Non c'è distanza tra tempo di codifica e tempo di ricezione (Voghera 1992: 277). Il testo orale è prodotto per essere utilizzato immediatamente e una sola volta.

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e) Evanescenza del testo. Il testo orale si consuma nell'attimo in cui è prodotto, serve per quella particolare situazione e non può essere riutilizzato successivamente, a meno che non venga registrato.

f) Irreversibilità. Il testo orale non può essere cancellato o modificato, è possibile solo la ritrattazione.

g) Frammentazione testuale e metamorfosi sintattica. Il contenuto del testo orale è in continua evoluzione e nella conversazione è caratterizzato da esitazioni, interruzioni, variazioni di costruzione sintattica, false partenze, presenza di enunciati incompiuti e riformulati (Berretta 1994: 244-245). L'organizzazione sintattica può variare durante l'enunciazione, si possono manifestare delle irregolarità, come ad esempio il mancato accordo tra soggetto e verbo. h) Linearità. La linearità è la produzione progressiva della catena fonica del locutore (Bazzanella 1994: 15).

i) Ordine e tempi di ascolto obbligati. E' il parlante che decide l'ordine degli argomenti, i tempi e il ritmo dell'esposizione. Gli interlocutori, in conseguenza alla linearità, non possono far altro che accettarne le condizioni, non possono, come accade con una pagina scritta, accelerare la lettura o saltare subito alle conclusioni.

j) Impossibilità dell'ascoltatore di tornare indietro. L'ascoltatore non può fermare il parlante e tornare indietro per riascoltare, come farebbe per un libro o un discorso registrato.

k) Irripetibilità. Un testo scritto non potrà mai essere ripetuto esattamente identico. Anche se non ci fossero variazioni nelle parole pronunciate, cambierebbero gli elementi prosodici e paralinguistici.

In conclusione, la lingua parlata, rispetto alla lingua scritta utilizza processi diversi per la costruzione del senso, diverse strategie. La lingua scritta, rispetto alla lingua parlata, rappresenta gli enunciati e le

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parole come prodotti, oggetti fisici, che si possono vedere e toccare, mentre la lingua parlata li struttura come eventi (Ong 1982).

1.1.3. Tipi di testo parlato: la conversazione

La differenziazione tra i vari tipi di testo parlato, pur meno ricca che nello scritto, è in grado di determinare strutture linguistiche differenziate.

La principale distinzione è quella tra testi “monologici” e testi “dialogici”.

I primi sono testi che hanno generalmente uno spiccato contenuto informativo, in parte, o spesso completamente, sono programmati, si basano su un testo scritto, o in forma integrale o come semplice scaletta, quindi sono meno spontanei e più sorvegliati linguisticamente. Richiedono più implicitezza e spesso una esecuzione più lenta.

I testi dialogici rappresentano invece la forma primaria e più tipica dell’oralità. Sono testi dialogici le conversazioni faccia a faccia, sia le “chiacchierate informali” nelle quali c’è un continuo scambio tra emittente e ricevente in una condizione di parità, che i dialoghi più formali e ritualizzati, come l’esame universitario, il colloquio di lavoro o le richieste d’informazioni, nelle quali gli interlocutori hanno ruoli diversi.

Altro tipo di testo dialogico è la discussione conflittuale in pubblico, che comprende i casi in cui gli interlocutori conversano di fronte ad un pubblico, in presenza quindi di un doppio destinatario: è il caso del talk-show, nostro campione di analisi, di cui parleremo in seguito (v. Capitolo 2).

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La conversazione si realizza secondo procedure che ora andremo ad elencare (Bernardelli, Pellerey 1999: 64 – 67).

a) I turni di parola. La caratteristica primaria delle conversazioni è l’avvicendamento dei turni di parola. I partecipanti alla conversazione prendono la parola, la cedono e la riprendono secondo modalità che variano in dipendenza dei parlanti e della situazione. Sacks, Schegloff, Jefferson (1974) individuano tre principali regole di selezione per il cambio del parlante: il parlante seleziona il suo successore, qualcuno si autoseleziona, il parlante decide di mantenere il turno. Sono stati identificati anche particolari segnali con cui il parlante indica di aver terminato il turno: meccanismi intonativi e prosodici, fenomeni lessicali e sintattici come l’uso di marcatori o sintagmi particolari, gesti o posizioni del corpo.

b) Le sovrapposizioni. Durante la conversazione può capitare che due o più parlanti si sovrappongano, per esempio in un momento concitato, rompendo quindi le regole di separazione dei turni.

c) Le interruzioni. L’interlocutore può interrompere il turno di parola del parlante prima che questo abbia concluso. Si distinguono generalmente due tipi di interruzioni, quelle di supporto a chi sta parlando, come i suggerimenti, e quelle competitive, destinate a farlo smettere (Bazzanella 1994: 175 – 205).

d) Coppie adiacenti e sequenze inserite. Spesso i turni di conversazione si strutturano secondo “coppie adiacenti” del tipo domanda/risposta, richiesta/accettazione o richiesta/rifiuto. Altra struttura molto frequente è quella delle “sequenze inserite”, che si sviluppano al loro interno o sviluppano a parte un argomento connesso, come nel seguente esempio:

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“Devo comprare anche il latte?” (inizio sequenza inserita) “No, solo il pane” (fine sequenza inserita)

“Va bene, vado subito” (fine prima sequenza)

e) Le chiusure (closings). La conversazione viene chiusa quando alla conclusione di un turno non ne segue un altro e gli interlocutori si scambiano formule di saluto o di passaggio ad un’altra situazione. f) Approssimazioni. Le approssimazioni servono a superare un momento di incertezza o esitazione con una imprecisione, in genere di tipo lessicale, che però consente di proseguire il discorso, lasciando il turno di parola a chi sta parlando.

g) Incertezze, esitazioni, termini prolungati, pause sospese, intercalari riempitivi, formule stereotipate (“vedi”, “capisci”). Sono forme che vengono utilizzate nei momenti di difficoltà, per prendere tempo e riorganizzare il discorso, mantenendo il turno di parola.

h) Regole di cooperazione discorsiva. Sono norme implicite di organizzazione del dialogo che comprendono varie regole per lo scambio dei turni e per il buon accordo tra i partecipanti. Includono le regole di cortesia e tutto ciò che permette la buona riuscita della conversazione.

i) Riparazioni. Sono comportamenti, enunciati, che rimediano a possibili conflitti o infrazioni alle regole della cooperazione. Si distinguono le riparazioni auto-realizzate, cioè le auto-correzioni, spesso sotto forma di “false partenze”, e le riparazioni realizzate invece dall’interlocutore.

j) “Code-switching”. E’ il cambio da parte di un parlante da una lingua a un’altra o da una varietà ad un’altra della stessa lingua: ad esempio, quando ci sono inserti di dialetto, gergo, forestierismi, tecnicismi.

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k) Intercalare fàtico e discorsivo. Durante le conversazione è frequente l’uso di interiezioni e segnali discorsivi che sono usati sia in funzione fàtica che di riempitivi.

La presenza di queste strutture e strategie di discorso caratterizza la conversazione autentica: le conversazioni fittizie, ad esempio quelle della narrativa o dei copioni di cinema o teatro, ne sono prive.

1.2. L'italiano parlato

1.2.1. Problemi di analisi dell'italiano parlato e stato presente degli studi

L’analisi dell’italiano parlato pone dei problemi particolari, in primo luogo a causa della variazione diatopica che svolge nella dimensione orale un ruolo fondamentale, perciò è difficile riconoscere nei vari italiani regionali tratti non appartenenti allo standard scritto tradizionale e comuni a tutta la nazione. In seconda battuta, la dimensione diamesica rischia di essere sovrapposta a quella diafasica, dal momento che nel parlato compaiono tratti riconosciuti come tipici dell’italiano “dell’uso medio” (Sabatini 1985) o del “neo-standard” (Berruto 1987). In realtà la variazione diamesica attraversa tutte le altre dimensioni, in quanto il parlato comprende varietà di lingua diverse, legate alla situazione comunicativa, allo status sociale di appartenenza dei parlanti, al loro grado di istruzione e alla loro provenienza regionale.

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Gli studi sull’italiano parlato sono relativamente recenti, iniziati con ampio ritardo rispetto a quanto è avvenuto per altre lingue4.

I primi e più importanti lavori sono opera di romanisti di lingua tedesca, come il corpus di “parlato-scritto” letterario approntato da Leo Spitzer nel 1922 o il corpus di fiorentino parlato registrato da Harro Stammerjohann nel 1970. In Italia le prime riflessioni sulla natura della lingua parlata sono ascrivibili a Tullio De Mauro, con il suo studio intitolato Tra Thamus e Theuth. Uso scritto e parlato dei segni linguistici, del 1970, e a Rosanna Sornicola e alla sua monografia Sul parlato, del 1981.

In seguito è notevolmente aumentato l’interesse dei linguisti nei confronti dell’italiano parlato, sia come conseguenza di una più generale riflessione sullo stato della lingua nazionale nelle sue molteplici manifestazioni geografiche e sociali (Voghera 1992: 53); sia di una presa di coscienza riguardo la priorità della varietà parlata sulla varietà scritta (Bazzanella 1994: 9).

Lo studio del parlato è stato anche favorito dall’innovazione tecnologica, che ha reso disponibili strumenti per la raccolta e l’analisi dei dati sempre più sofisticati e veloci.

Negli anni Novanta è stato realizzato da De Mauro e altri il Lessico di Frequenza dell’italiano parlato (LIP), un ampio corpus comprendente 500.000 occorrenze, pari a 57 ore circa di registrazione.

A questo si sono poi aggiunti altri corpora di italiano parlato e trasmesso5.

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1.2.2. Tratti dell’italiano parlato

Per anni gli studiosi si sono interrogati sull’esistenza o meno di una “grammatica del parlato”, una grammatica cioè specifica della lingua parlata, diversa da quella che regola la lingua scritta. La risposta è stata tendenzialmente negativa. Scrive Berruto (1985: 146-47):

La grammatica del parlato non è un’altra grammatica. E’ bensì, semmai, una grammatica riveduta e ‘liberalizzata’, focalizzata sul parlante più che sul sistema e sulla sua esplicitazione a fondo; grazie anche, e ovviamente, alla possibilità di larga integrazione contestuale delle regole della grammatica. Una grammatica in fondo più libera e agile, se mi passano aggettivi antropomorfici per un’entità così arida e astratta come una grammatica.

Questo sia perché c’è una buona corrispondenza tra scrittura e pronuncia, sia perché a livello morfosintattico le differenze tra l’italiano scritto e l’italiano parlato consistono nella maggiore o minore frequenza di certi tratti piuttosto che nell’esistenza di regole realmente diverse.

Scopo del presente lavoro è ora quello di descrivere in linea generale alcuni di questi tratti6, che forniranno, insieme alle considerazioni sopra esposte riguardo i testi parlati e la conversazione, la base teorica per l’analisi più specifica sul corpus di italiano parlato televisivo.

1.2.2.1. Fonologia

Tralasciando i fenomeni ascrivibili alla variazione diatopica, si possono indicare come tratti propri dell’italiano parlato alcuni fenomeni di metatesi (Areoplano) e la tendenza alla ritrattazione

6 Per i tratti dell’italiano parlato qui descritti si è considerata la selezione fatta da Masini (2003: 37

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dell’accento sulla terzultima sillaba in una fitta serie di voci: èdile, persuàdere, mòllica, rùbrica, sàlubre ecc.

Frequenti sono anche fenomeni detti di “allegro”: esecuzioni cioè più trascurate o veloci che investono la catena parlata: le apocopi postconsonantiche (Son venuta presto, Non far finta di niente ecc.) e le forme con aferesi sillabica: bastanza per ‘abbastanza’, spetta per ‘aspetta’, somma per ‘insomma’, scolta per ‘ascolta’ e il frequentissimo sto per ‘questo’.

1.2.2.2. Morfologia

I fenomeni più rilevanti a livello morfologico riguardano il sistema verbale e il sistema dei pronomi personali.

L’italiano parlato semplifica il sistema dei modi e dei tempi verbali. Il presente indicativo sostituisce il passato (“presente storico vivace”: Si mette lì in fila, e chi si trova davanti?) e spesso anche il futuro (Stasera danno un film giallo), che rimane comunque vitale, specie con valore epistemico (Sarà anche vero).

Il passato prossimo si usa al posto sia del passato remoto (Dieci anni fa sono andata a Londra) che del futuro anteriore (Quando ho finito l’università vado a Londra).

E’ in espansione la forma perifrastica stare + gerundio con valore progressivo (Sta piovendo).

L’imperfetto sostituisce il congiuntivo e il condizionale nel periodo ipotetico della irrealtà nel passato (Era meglio se venivi di persona) o assume un valore attenuativo (Volevo dirti un’altra cosa).

Il congiuntivo presente, nelle dipendenti completive, viene tendenzialmente sostituito con l’indicativo, presente o futuro (Penso che viene, o Penso che verrà).

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Raro è l’uso del passivo, sostituito da costrutti come la dislocazione a sinistra dell’oggetto (Il caffè l’ha comprato Maria) o, in assenza dell’agente, la terza persona plurale generica (Hanno aumentato le tasse) o il “si passivante” (Si fanno tante sciocchezze).

I pronomi personali sono più usati nel parlato che nello scritto, questo per il loro valore deittico e di enfasi.

Il pronome di prima persona io compare spesso e così quello di seconda persona, di frequente però nella forma te che sostituisce il tu. Alla terza persona lui e lei sostituiscono egli e ella e si estendono anche agli inanimati al posto di esso e essa; lo stesso al plurale, essi è sostituito da loro. A noi e voi si affiancano le forme aggreganti noialtri e voialtri in particolari situazioni.

Per quanto riguarda i clitici, gli è usato anche al femminile al posto di le, e soprattutto al plurale al posto di loro. Il locativo vi è di uso rarissimo, al contrario di ci, diffuso anche come semplice attualizzante, specie in dipendenza di alcuni verbi, dove tende a lessicalizzarsi: esserci (=esistere, stare), averci (=avere, possedere), volerci (=essere opportuno), entrarci (=essere pertinente), tenerci (=avere a cuore). Il pronome ne per il moto a luogo è raro, mentre è molto usato con valore di argomento (Ne ho parlato io) o di partitivo (Ne ho visti tre).

I dimostrativi sono spesso usati con valore vicino a quello degli articoli e rafforzati con avverbi per aumentarne il valore deittico (Questo libro qui). Codesto è usato solo in area toscana.

1.2.2.3. Sintassi di frase

Nella sintassi della frase il parlato tende a usare un ordine delle parole diverso da quello non marcato dell’italiano standard, ovvero la struttura SVO (Soggetto – Verbo – Oggetto). In particolare si

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preferiscono costrutti che mettano a fuoco un elemento attraverso la sua collocazione in prima sede, nella posizione di tema7.

La tematizzazione più ricorrente è la “dislocazione a sinistra” (Il pane lo compra Paola): l’elemento anticipato e posto in evidenza viene ripreso da un elemento anaforico, di solito un clitico (lo, ci) e non è separato da pause. In assenza di ripresa anaforica l’elemento dislocato a sinistra, sottolineato anche da un picco intonativo, ha invece funzione di rema (Il pane compra Paola – e non il latte): tale costrutto si chiama topicalizzazione contrastiva.

Altro caso di dislocazione a sinistra è l’”anacoluto” o “tema pendente” (Paola, le ho comprato il pane), in cui l’elemento dislocato a sinistra è del tutto esterno alla frase dal punto di vista sintattico e intonativo. Meno frequente è la “dislocazione a destra” (Lo compra Paola, il pane): il complemento viene anticipato con un clitico.

Altra struttura marcata usata nel parlato con scopi di tematizzazione è la “frasse scissa” (E’ Paola che compra il pane): la frase viene spezzata in due blocchi, il primo, contente l’informazione nuova, introdotto dal verbo essere, il secondo, contente l’informazione data, introdotto dal che.

Ultimo tratto notevole è il “c’è presentativo” (C’è che non ho comprato il pane): in questo caso non c’è un fine di tematizzazione ma il semplice scopo di spezzare l’informazione in due momenti distinti e più semplici, a vantaggio sia del parlante, che può così pianificare meglio il suo messaggio, sia dell’interlocutore, che lo riceve in due frasi distinte.

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1.2.2.4. Sintassi del periodo

Tratto tipico del parlato è il prevalere della paratassi: è frequente la coordinazione mediante congiunzioni come e, ma, però, poi, così, allora ecc. e l’asindeto, cioè la semplice giustapposizione delle frasi senza legamenti sintattici espliciti.

La subordinazione è molto meno frequente rispetto allo scritto e presente soprattutto con costrutti molto lineari, per esempio con l’uso di modi impliciti (Vado a comprare il pane), e nelle proposizioni esplicite di una gamma molto ridotta di congiunzioni: non vengono usate affinché e poiché, mentre sono molto usate siccome, dato che, visto che nelle causali, e perché nelle finali.

Frequente è l’uso di subordinate introdotte da un che non sempre definibile con precisione per categoria grammaticale e valore semantico, il cosiddetto “che polivalente” (Vado a letto che ho sonno, Siamo partiti che era l’alba, Chiedi a Paola che lo sa ecc. ), usato anche come relativo indeclinato (E’ un gatto che non gli piace la carne).

1.2.2.5. Testualità

Il parlato rispetto allo scritto ha una struttura più frammentata, meno lineare.

La sua coesione è assicurata più che dai legami sintattici da una serie di elementi chiamati “segnali discorsivi”, elementi che, svuotandosi in parte del loro significato originario, assumono dei valori aggiuntivi che servono a sottolineare la strutturazione del discorso, a connettere elementi frasali, interfrasali, extrafrasali e a esplicitare la collocazione dell’enunciato in una dimensione interpersonale (Bazzanella 1995: 225).

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Appartenenti a diverse categorie grammaticali, svolgono varie funzioni.

Una funzione importante è quella di “demarcativi”: servono per indicare l’inizio e la fine di un discorso, la presa e la cessione del turno nella conversazione, la scansione interna. Sono segnali di apertura: allora, ecco, beh, dunque, cioè, niente; sono segnali di chiusura: ecco, chiaro, no?, basta, insomma.

Altra funzione è quella dei “segnali fàtici”, cioè di assicurare il contatto con chi ascolta, richiamare l’attenzione e stimolare la partecipazione (guarda, vedi, sai, dai, scusa ecc.).

Infine, un’altra funzione importante è quella di “connettivi”, di indicare cioè il tipo di relazione tra le varie parti del testo, come le congiunzioni per lo scritto; spesso sono proprio le stesse congiunzioni ad essere usate per questo scopo, ma con modalità diverse che nello scritto: il perché poi ad esempio introduce una digressione.

Demarcativi, segnali fàtici e connettivi nel parlato vengono usati anche per riempire le pause, inevitabili nella produzione orale, permettendo così al parlante di prendersi del tempo per organizzare il suo discorso. Analoga funzione hanno le ripetizioni, usate anche per scopi di enfasi: esemplare da questo punto di vista è l’oratoria politica.

1.2.2.6. Lessico

Il lessico dell’italiano parlato non è diverso per sua natura da quello dell’italiano scritto, sono però diversi i meccanismi di selezione: il parlato privilegia il lessico dei registri informali e rifugge da quelli considerati troppo letterari.

Sono poi diverse le proporzioni quantitative e le scelte semantiche: la lingua parlata fa uso rispetto allo scritto di un nucleo più ristretto di

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frequente l’uso di perifrasi invece di termini specifici (quello dell’acqua = l’idraulico). Molto usate sono le parole alterate mediante suffissi, diminuitivi o accrescitivi (attimino, ragazzona), e i superlativi con valore espressivo (è verissimo).

Ammessi nel parlato contrariamente che nello scritto sono i termini disfemici, o comunque riferiti alla sfera sessuale, non più tabuizzati e usati sempre più massicciamente negli ultimi anni, in seguito al mutamento del costume linguistico (Nencioni, 1983: 5-33).

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