11. LA VARIAZIONE DELLA SEDE DI LAVORO
All’atto di assunzione, nel contratto individuale di lavoro viene precisato il luogo preposto allo svolgimento della prestazione lavorativa; tuttavia, il datore di lavoro può nel corso del rapporto di lavoro mutare il luogo di esecuzione della sua prestazione.
Il potere di modificare il luogo di svolgimento della prestazione del lavoratore è stato ritenuto tradizionalmente compreso nel potere direttivo datoriale, potere attribuito al datore di lavoro ai sensi dell’art. 2086 del codice civile.
Tale potere datoriale però è stato negli anni sia da parte del legislatore che da parte delle contrattazione collettiva fortemente limitato, sia in funzione dell'esistenza di peculiari caratteristiche dei lavoratori (fra cui disabilità, anzianità, svolgimento di particolari mansioni) e sia nel caso di trasferimenti collettivi.
Questo potere si estrinseca in tre possibili mutamenti del luogo di esecuzione delle prestazioni lavorative:
1) trasferimento, disciplinato dall’art. 2103 del codice civile, che determina un mutamento definitivo del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, disposto unilateralmente dal datore di lavoro, soltanto in caso di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive dell'impresa.
2) trasferta , quando il lavoratore è dislocato temporaneamente fuori dal luogo normale di esecuzione della prestazione lavorativa, individuato dal contratto individuale di lavoro, per attività. La durata della trasferta deve essere determinabile con l’esaurimento di un determinato scopo o progetto per il quale
è stata disposta la trasferta del lavoratore; la durata non deve essere necessariamente predeterminata né tanto meno di breve periodo, in quanto potrebbe benissimo essere anche di lungo periodo, l’importante è che non sia permanente. La trasferta dà diritto al ricevimento di un’indennità di trasferta e/o di un rimborso spese sostenute in aggiunta alla retribuzione normalmente spettante. Anche laddove vi fosse un lungo protrarsi dello spostamento del lavoratore in un altro luogo di destinazione, per scelta unilaterale datoriale in base alle sopravvenute esigenze aziendali, questo non costituisce di per sé circostanza atta a mutare la trasferta in trasferimento121, in quanto non viene
meno il permanente legame funzionale del lavoratore con l’unità produttiva di provenienza.122
3) distacco, quando il lavoratore viene distaccato temporaneamente123 presso
un’altra impresa del gruppo societario o presso un'altra filiale dell'impresa, eventualmente anche estera, quindi presso un altro datore di lavoro, affinché venga resa in favore di quest’ultimo la sua prestazione lavorativa.
L'interesse del datore di lavoro al distacco del lavoratore deve essere diverso dal mero interesse a lucrare sull'attività svolta dal lavoratore presso l'impresa distaccataria; normalmente si tratta di interessi di tipo commerciale infragruppo o legati ad un contratto di appalto. L'interesse del datore di lavoro non può
121 Cassazione, 21 marzo 2006, n. 6240; Cassazione, 5 luglio 2002, n. 9744; Cassazione, 19 novembre 2001, n. 14470.
122 Cassazione, 20 luglio 2007, n. 16136; Cassazione, 6 ottobre 2008, n. 24658.
essere, secondo la giurisprudenza124 quello di alleggerire temporaneamente il
costo della manodopera dell'impresa, nel caso in cui si trovi in una situazione di crisi, al fine di evitare la riduzione del personale mediante la dislocazione temporanea distaccata.
Il rapporto con l’originario datore non viene meno ma viene soltanto temporaneamente sospeso, poiché parallelamente ne sorge un altro con un differente datore di lavoro.
Ai sensi dell'art. 10 terzo comma del D. Lgs. n. 136/2016, il datore di lavoro deve comunicare preventivamente on line125 al Ministero del Lavoro il distacco del lavoratore, entro le ore 24 del giorno antecedente l'inizio del periodo di distacco.
Il consenso del lavoratore al distacco è necessario solo nei casi in cui venga contestualmente proposto anche un mutamento di mansioni126; se invece il
distacco avvenisse ad altra sede o unità produttiva di lavoro, distante a più di 50 km da quella di provenienza dovranno sussistere le condizioni richieste dall'art. 2103 ultimo comma del codice civile, ossia la sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Oggetto di disamina in questa tesi sarà soltanto il trasferimento, in quanto determina un mutamento definitivo del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, a differenza degli altri due casi nei quali il mutamento è soltanto provvisorio.
124 Secondo le sentenze della Cassazione, 7 giugno 2000, n. 7743; Cassazione, 23 aprile 1992, n. 4851.
125 Al seguente sito: www.cliclavoro.gov.it compilando l'apposito modello UNI_Distacco_UE
Brevemente ricordiamo che il trasfertismo è un fenomeno ben diverso dal trasferimento e dalla trasferta, in quanto il lavoratore è tenuto, in base al contratto individuale di lavoro stipulato o in base alla natura dell’attività da svolgere, all’esecuzione della prestazione lavorativa in luoghi sempre diversi e variabili. In questo caso non essendo prevista una sede di lavoro fissa e predeterminata non si può configurare una vera e propria trasferta127, a meno che il datore di lavoro richieda al dipendente di svolgere la
propria prestazione al di fuori dell’ampio ambito territoriale nel quale svolge la sua prestazione lavorativa, seppur in modo itinerante.
Come già esposto precedentemente, la definizione della sede di lavoro è uno degli elementi fondamentali da inserire, per scritto, nel contratto individuale di lavoro; invece, il trasferimento potrebbe anche essere comunicato al lavoratore soltanto oralmente, salvo che il contratto collettivo applicato non prescriva, in tal caso, la forma scritta.
Dunque, in assenza di un’espressa previsione collettiva, la forma dell’atto di trasferimento è da ritenersi libera in virtù del principio di libertà di forma, per tutti quegli atti rispetto ai quali l’uso della forma scritta non sia prevista dalla legge come indispensabile, ad esempio si potrebbe disporre il trasferimento in forma orale128;
secondo la Suprema Corte129 tale libertà di forma è applicabile anche nel caso di
successiva richiesta di motivazione dell’atto da parte del lavoratore e nella seguente risposta del datore di lavoro.
127 Cassazione, 14 agosto 2004, n. 15889; Cassazione, 16 maggio 1995, n. 5355.
128 Cassazione, 21 febbraio 1986, n. 1065; Cassazione, 5 gennaio 2007, n. 43.
129 Cassazione, 18 febbraio 1994, n. 1563; Cassazione, 13 gennaio 1998, n. 167; Cassazione, 17 luglio 1986, n. 4572.
In ogni caso è sempre consigliabile l’utilizzo della forma scritta anche in assenza di espressa previsione collettiva, in quanto essa è prescritta come obbligatoria in base all’art. 3 del D. Lgs. n. 152/1997, in base al quale il datore di lavoro è obbligato a comunicare in forma scritta al lavoratore qualsiasi modifica degli elementi contrattuali previsti agli artt. 1 e 2 del suddetto D. Lgs. n. 152/1997, fra cui vi rientra l'indicazione del luogo di lavoro.
Ricordiamo inoltre che spesso la contrattazione collettiva prevede la definizione di un obbligatorio congruo termine di preavviso da dare al lavoratore, destinatario del trasferimento, posto a carico del datore di lavoro; secondo invece l’art. 3 del D. Lgs. n. 152/1997, la comunicazione di trasferimento dovrebbe essere data entro un mese dall’adozione del provvedimento. Tale termine appare alquanto intempestivo alla luce dell'incidenza del trasferimento sulla vita personale del lavoratore, che verrà a modificarsi definitivamente.
In casi di particolare urgenza, la contrattazione collettiva talvolta ha previsto la possibilità per il datore di lavoro di inviare il lavoratore in tempi rapidi e per periodi predeterminati presso la nuova sede di lavoro, riconoscendogli in questo caso il trattamento di trasferta.
L'obbligo di comunicazione del trasferimento, ex art. 3 D. Lgs. n. 152/1997 non sussiste nei casi in cui esso sia disposto in base a disposizioni di legge ed in base a clausole del contratto collettivo applicato al lavoratore.
Sono state ritenute valide e legittime dalla Cassazione130 quelle pattuizioni individuali o
collettive con le quali il datore di lavoro si impegna a non esercitare il diritto al
trasferimento, dal quale ne conseguirà l'illegittimità del trasferimento disposto dal datore in violazione di tali pattuizioni.
L’art. 2103 del codice civile all’ultimo comma prevede quanto segue: “il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo”.
Il datore di lavoro, in virtù del principio di libertà di forme riconosciuto dalla legge e secondo anche la Suprema Corte, con sentenza del 28 ottobre 2013, n. 24260 non è tenuto ad enunciare, contestualmente alla comunicazione del trasferimento, al lavoratore le ragioni che giustificherebbero il trasferimento stesso, ma qualora il lavoratore ne facesse richiesta, allora il datore sarà tenuto a provare l’esistenza e la fondatezza di tali ragioni.
Nel caso in cui il datore non fornisse tali spiegazioni, a seguito della richiesta a lui rivolta, quest’ultimo risulterà inadempiente, determinando così l’inefficacia sopravvenuta del provvedimento di trasferimento; in questo caso, secondo un orientamento ormai diffuso nella giurisprudenza131, si applicherebbe per analogia la
disciplina prevista dall’art. 2 della L. n. 604/1966, in tema di licenziamento, che prevede l’obbligo in capo al datore di lavoro di fornire i motivi del licenziamento ove vengano richiesti dal lavoratore licenziato.
Secondo tale prassi giurisprudenziale, che applica per analogia l’art. 2 secondo comma della L. n. 604/1966 in materia di motivazione del licenziamento, il lavoratore dovrebbe richiedere entro 15 gg dalla comunicazione del trasferimento i motivi fondanti il
131 Cassazione, 15 maggio 2009, n. 12156; Cassazione, 15 aprile 2004, n. 9290; Cassazione, 29 aprile 2009, n. 8268; Cassazione, 15 luglio 1986, n. 4572; Cassazione, 22 luglio 1987, n. 6440.
medesimo ed, entro 7 gg dalla pervenuta richiesta di motivazione, il datore di lavoro dovrà fornire la spiegazione in ordine alle comprovate ragioni tecniche e produttive, in riferimento sia alla sede di partenza che a quella di destinazione; non basterà una motivazione generica, riportante magari la sola dicitura “per ragioni tecniche si dispone il trasferimento”, in quanto la motivazione è fondamentale ai fini della validità e dell’efficacia del trasferimento stesso.
È possibile, inoltre, che vi siano clausole disposte dalla contrattazione collettiva, prevedenti un arco temporale necessario intercorrente tra la data di comunicazione del trasferimento e la sua concreta attuazione; tali previsioni collettive sono legate ovviamente al rispetto delle esigenze di vita e familiari del lavoratore, destinatario del trasferimento, ma non hanno nulla a che vedere con i termini previsti per l’impugnazione del trasferimento.
Il trasferimento della sede rappresenta una modifica permanente del rapporto di lavoro e comporta, nella maggior parte dei casi, uno spostamento di residenza o di domicilio del lavoratore, che può determinare gravi e profondi cambiamenti nella vita personale e relazionale del lavoratore, in tal caso quest'ultimo certamente contesterà la legittimità del trasferimento, laddove ritenga non sussistenti le comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive asserite dal datore di lavoro nell'atto di trasferimento, specialmente in caso di mancanza di preventivi accordi tra le parti volti al riconoscimento di congrui emolumenti retributivi o di un superiore inquadramento a seguito del trasferimento di sede.
Laddove il lavoratore non si presenti a prestare la propria attività lavorativa nella nuova sede assegnatagli unilateralmente dal datore di lavoro si esporrà inevitabilmente
all'irrogazione di sanzioni disciplinari fra cui anche il possibile licenziamento, entrambi impugnabili dal lavoratore132.
Per quanto attiene alle ragioni tecniche, organizzative e produttive, esse devono sussistere al momento del trasferimento; il controllo giudiziale, ove richiesto dal lavoratore, non può sindacare in merito alla scelta operata dal datore di lavoro (tranne nel caso in cui dovesse emergere una pretestuosità o discriminatorietà o una natura fraudolenta del trasferimento), tra le possibili diverse soluzioni organizzative adottabili, individuando quella ritenuta la migliore, poiché la scelta del trasferimento è una prerogativa esclusivamente datoriale ma può solamente accertare se il potere datoriale è stato esercitato o meno in relazione ad esigenze oggettive dell’impresa, ovverosia se sussistono le comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive richieste dalla legge ovvero se esse sono veritiere ed attendibili, sia con riferimento all’unità produttiva di provenienza che a quella di destinazione e che vi sia la sussistenza di un nesso causale fra esse ed il trasferimento impartito. 133
Dunque, in sintesi, si tratterà di un più ampio margine di valutazione di cui viene investito il giudice, che, ad ogni modo, alla luce dell’art. 41 della Costituzione non potrà mai sindacare nel merito, o anche meglio detto sull’opportunità organizzativa -economica, della decisione assunta dal datore di lavoro di porre in essere in trasferimento del lavoratore.
132 Ex art. 32 della L. n. 183/2010 ed ex art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.
133 Cassazione, 23 febbraio 2007, n. 4265; Cassazione, 21 marzo 2005, n. 6017; Cassazione, 12 dicembre 2002, n. 17786.
È principio consolidato che le ragioni tecniche, organizzative e produttive possono consistere in un’effettiva inutilizzabilità del lavoratore presso la sede di provenienza134,
come ad esempio la soppressione di quest’ultima135, oppure quando a prescindere da una
vera modifica strutturale della sede di partenza si renda necessaria una modifica o una soppressione delle mansioni a cui il lavoratore era adibito136, tali da giustificarne il
trasferimento per non ricorrere ad un demansionamento; in ogni caso, il datore di lavoro effettuerà una scelta tra più possibili soluzioni organizzative ragionevoli ed alternative sempre secondo buonafede e correttezza.
Più controverso è il caso di trasferimento per far fronte ad un fabbisogno occupazionale nella sede di destinazione, a seconda del caso in cui il posto vacante sia l’effetto di una modifica strutturale (ad esempio l’apertura di una nuova sede o l’ampliamento di una già esistente) o l’effetto di un’assenza (ad esempio per licenziamento o dimissione di altro lavoratore). In quest’ultimo caso la giurisprudenza137 si è più volte trovata a
decidere se tale trasferimento possa essere accompagnato anche da un venir meno delle mansioni a cui era adibito il lavoratore nella sede di provenienza; infatti, potrebbe accadere che se le mansioni originarie non fossero state soppresse, potrebbero venire coperte attraverso atti ulteriori magari pregiudizievoli per gli altri lavoratori rimasti nella sede di provenienza, per tale motivo la Cassazione del 29 luglio 2003, n. 11660 ha riconosciuto in tal caso che il trasferimento non sarebbe stato necessario.
134 Cassazione, 22 marzo 2005, n. 6117.
135 Cassazione, 28 novembre 2004, n. 10122; Cassazione, 18 novembre 1998, n. 11634; Cassazione, 29 marzo 2000, n. 3927.
136 Cassazione, 27 novembre 2002, n. 16801.
A contrario, la giurisprudenza ammette lo spostamento del lavoratore laddove le sue capacità ed esperienze risultino essere più proficue in un altro reparto, oppure nel caso di una redistribuzione del personale in base ad un criterio di funzionalità produttiva al fine di ottenere una più soddisfacente resa dei servizi dell’impresa, ed anche nel caso di mutamento della qualifica professionale del lavoratore tale da giustificarne il trasferimento138.
Inoltre la giurisprudenza139 maggioritaria ritiene che il trasferimento è illegittimo, nel
caso in cui immediatamente dopo il trasferimento stesso, il lavoratore trasferito sia stato sostituito nell’unità di provenienza con un nuovo assunto, ciò nel caso in cui il trasferimento sia stato motivato con la soppressione del posto di lavoro in quest’ultima unità, non invece in tutti gli altri casi in cui il provvedimento sia stato adottato per soddisfare esigenze dell’unità di destinazione, cosicché diverrebbe addirittura necessario provvedere alla copertura del posto rimasto vacante.
La giurisprudenza maggioritaria140, inoltre, ritiene che nella scelta del lavoratore da
trasferire il datore di lavoro debba si osservare gli obblighi di buonafede e correttezza ma non sia tenuto ad operare una vera e propria comparazione con altri lavoratori, come invece è obbligato ad effettuarla in caso di licenziamenti collettivi, ex L. n. 223/ 1991.
La Cassazione del 1998 n. 1912 ha ritenuto che, in caso di trasferimento, ove vi sia eventualmente una disposizione della contrattazione collettiva, in ottica più
138 Cassazione, 15 maggio 2004, n. 9290; Cassazione, 2 gennaio 2001, n. 27; Cassazione, 18 febbraio 1994, n. 1563.
139 Cassazione, 18 novembre 1999, n. 12812; Cassazione, 2 gennaio 2001, n. 27; Cassazione, 9 giugno 1993, n. 6408; Cassazione, 17 giugno 1991, n. 6832.
140 Cassazione, 23 febbraio 1998, n. 1912; Cassazione, 26 gennaio 1995, n. 909; Cassazione, 18 febbraio 1994, n. 1563; Cassazione, 15 ottobre 1992, n. 11339.
garantistica nei confronti dei lavoratori ai fini dell’applicazione della disciplina dell’art. 2013 del codice civile, la quale attribuisca rilievo alle esigenze familiari dei lavoratori ai fini della scelta del personale da trasferire, in ogni caso il datore di lavoro non è obbligato a valutare tali esigenze, non implicando così l’effettuazione di una comparazione tra le situazioni dei possibili destinatari del trasferimento, salvo appunto una diversa ed espressa previsione a tal proposito da parte della contrattazione collettiva.
Laddove esistesse un obbligo di comparazione a carico del datore di lavoro, esso si porrebbe in contrasto con il potere direttivo ed organizzativo di sua prerogativa, il quale comprende la possibilità di effettuare una scelta discrezionale tra più soluzioni tutte ugualmente ragionevoli. Secondo, invece, un orientamento avallato dalla giurisprudenza maggioritaria141, il datore sarebbe tenuto comunque, anche in assenza di uno specifico
obbligo normativo o contrattuale collettivo, a valutare le situazioni personali e familiari del lavoratore da trasferire, in base alle clausole generali di buonafede e correttezza; in tal modo si imporrebbe di trasferire il meno disagiato socialmente tra i lavoratori, in possesso dei requisiti tecnici professionali ritenuti dal datore di lavoro essenziali a garantire l’efficienza del trasferimento.
Solo se risultassero comprovate le ragioni del trasferimento addotte dal datore di lavoro, il trasferimento può ritenersi pienamente legittimo; ed in caso di rifiuto, non motivato da valide ragioni, da parte del lavoratore, il datore di lavoro potrà disporne il licenziamento per giustificato motivo soggettivo142.
141 Cassazione, 18 ottobre 1996, n. 9086; Cassazione, 23 febbraio 1998, n. 1912; Cassazione, 5 maggio 1992, n. 5345.
Tra le ragioni che legittimerebbero il trasferimento del lavoratore la giurisprudenza vi riconosce anche ristrutturazione e la crisi dell'unità produttiva presso cui il lavoratore era adibito in origine.143
In caso contrario, ovvero laddove non risultassero comprovate le ragioni del trasferimento addotte dal datore di lavoro, il trasferimento può ritenersi illegittimo; in tal caso sarebbe valido il rifiuto del lavoratore, ed in caso di suo successivo licenziamento sarebbe illegittimo anch’esso, inoltre, il lavoratore avrebbe diritto alla retribuzione per tutto il tempo in cui, rifiutando il trasferimento, sia rimasto a disposizione del datore di lavoro senza essere riammesso in servizio presso la sede originaria144.
Il lavoratore potrà senz’altro invocare una tutela d’urgenza ex art. 700 del codice di procedura civile, in caso di carenza dei requisiti richiesti dall’art. 2103 del codice civile, al fine di ottenere la sospensione del trasferimento ed il reintegro nel luogo di lavoro originario, riservandosi così il merito della pronuncia sull’illegittimità del trasferimento e sull’eventuale risarcimento dei danni subiti, senza però esporsi al rischio di un recesso dal rapporto di lavoro da parte del datore. In ogni caso, se il giudice, adito in via d’urgenza, sospende il trasferimento in quanto ritiene sussistenti i requisiti del fumus bonis iuris e del periculum in mora, richiesti dall’art. 700 del c.p.c., il lavoratore sarà comunque tenuto ad eseguire la propria prestazione lavorativa nella sede di lavoro originaria. 145
143 Cassazione, 29 marzo 2000, n. 3827; Cassazione, 18 ottobre 1996, n. 9086.
144 Cassazione, 27 ottobre 2010, n. 21967; Cassazione, 10 novembre 2008, n. 26920.
Per quanto riguarda invece i termini e le modalità di impugnazione del trasferimento, ritenuto dal lavoratore illegittimo, occorre fare riferimento a quanto disposto dal Collegato lavoro146 all’art. 32, si dovrà effettuare dapprima un’impugnazione
stragiudiziale, a pena di decadenza, entro 60 gg dal ricevimento della comunicazione del trasferimento, e successivamente entro 180 gg dall’impugnazione stragiudiziale o si depositerà il ricorso giudiziale o si richiederà un tentativo di conciliazione o di arbitrato (raramente si fa tale ultima richiesta per le cause di lavoro). Qualora il lavoratore non impugnasse in via stragiudiziale il trasferimento nei termini sopra riportati decadrà per sempre dal diritto di impugnare il trasferimento, il quale diverrà definitivo.
La disposizione dell’art. 2103 del codice civile fa riferimento al caso di trasferimento disposto unilateralmente dal datore di lavoro, tale per cui non rientrano nell’applicazione della fattispecie in questione quei trasferimenti concordati tra le parti o quelli disposti a seguito di accoglimento della richiesta avanzata da parte dello stesso lavoratore.
Ulteriore precisazione da effettuare è che per trasferimento debba intendersi solo quello disposta fra unità produttive differenti, e non quello disposto all’interno della medesima unità produttiva, in questo ultimo caso, secondo la Suprema Corte di Cassazione del 26 maggio 1999, n. 5153 non si è propriamente di fronte ad un trasferimento, quindi sarà sufficiente per il datore di lavoro rispettare la prima parte dell’art. 2103 del codice civile, ai fini della regolarità dell’atto dispositivo, in quanto il cambio di reparto potrebbe implicare una modifica dei compiti assegnati al lavoratore, tale per cui occorrerà prestare attenzione alla corretta attribuzione delle mansioni da svolgere.
Partendo dal presupposto che non esiste una definizione legislativa che definisca cosa debba intendersi per sede di lavoro, va rilevato che il legislatore spesso ha utilizzato termini diversi per attribuire diritti ed obblighi alle parti contraenti di un rapporto lavorativo.
Dunque in considerazione di tale mancanza legislativa ed anche in base alle interpretazioni giurisprudenziali si può ritenere accettabile che la sede di lavoro sia quel luogo geografico preso in considerazione ai fini legali, amministrativi e fiscali mentre per unità produttiva si intenda l'area fisica o geografica dove è situato il posto di lavoro, da intendersi quest'ultimo come la concreta posizione dove fisicamente il lavoratore svolge principalmente le proprie mansioni.
Occorre precisare che per unità produttiva sarà altresì da intendersi, così come definito dall’art. 35 dello Statuto dei Lavoratori, “ciascuna sede, stabilimento, ufficio o reparto autonomo”; inoltre, anche il D. Lgs. n. 626/1994, in materia di sicurezza sul lavoro, definisce come unità produttiva “lo stabilimento o struttura finalizzata alla produzione di beni o servizi, dotata di autonomia finanziaria e tecnico funzionale”.
Il lungo dibattito giurisprudenziale sulla possibile definizione di unità produttiva è pervenuto alle stesse conclusioni contenute nelle definizioni legislative sopra esposte; infatti, anche secondo la giurisprudenza147 di merito per unità produttiva si intende,
solitamente, un’autonoma articolazione dell’azienda idonea a svolgere un’attività di produzione di beni o servizi dell’impresa, avente indipendenza tecnica ed amministrativa, al cui interno è possibile effettuare un intero ciclo produttivo o parte di esso.
147 Cassazione, 22 marzo 2005, n. 6117; Cassazione, 26 maggio 1999, n. 5153; Cassazione, 22 agosto 1997, n. 11092.
La Suprema Corte di Cassazione del 22 marzo 2005, n. 6117 ha precisato altresì che per unità produttiva si può intendere anche quella eventualmente costituita da minori organismi, detti anche rami, non necessariamente ubicati nel medesimo comune, sembrerebbe dunque richiedersi in questo caso un qualche apprezzabile trasferimento geografico del lavoratore dalla sede di provenienza a quella di destinazione; invece non possono essere considerate unità produttive quei minori organismi aziendali, che seppur corrispondenti a stabilimenti o uffici o reparti, anche se dotati di minima autonomia tecnica, sono destinati a scopi meramente strumentali rispetto all’attività produttiva dell’impresa. 148
Vi è altresì un filone giurisprudenziale149 che ritiene il trasferimento legittimo
qualora ricorrano le condizioni poste dall’art. 2103 del codice civile anche per lo spostamento fisico del lavoratore da o ad una destinazione che non risponda propriamente ai requisiti di unità produttiva finora esposti; in tal caso avremmo un trasferimento da o per una minore articolazione produttiva dell’azienda ed un’estensione della tutela del lavoratore in caso di trasferimento che altrimenti non si avrebbe se si interpretasse la norma in questione rigidamente.
In senso contrario vi sono, anche, sentenze delle Suprema Corte, come ad esempio 15 maggio 2006, n. 11103 che sostiene la non applicabilità dell’art. 2103 del codice civile, in quanto non configurerebbe l’ipotesi di trasferimento il caso di spostamento del lavoratore all’interno della medesima unità produttiva.
148 Cassazione, 29 luglio 2003, n. 11660.
Una particolare tipologia di trasferimento, nato nel pubblico impiego e ormai diffuso anche nel lavoro privato, considerato dalla giurisprudenza150 pienamente legittimo ai
sensi dell’art. 2103 del codice civile, è quello per incompatibilità ambientale, ossia quello correlato a situazioni comportamentali e/o ambientali, i quali finiscono per costituire le stesse esigenze tecnico produttive che giustificherebbero il trasferimento stesso.
In realtà non si tratta di una vera e propria sanzione disciplinare irrogata al lavoratore ma è evidente che trae spunto dal comportamento tenuto dal lavoratore e dalle sue relazioni interpersonali con gli altri lavoratori, della medesima unità produttiva, tali da rendere non più proseguibile il suo rapporto di lavoro in quella stessa unità produttiva.
Lo scopo di tale trasferimento è il ripristino del buon funzionamento dell’ufficio o dell’unità produttiva e mira ad eliminare la causa oggettiva dei disagi e delle difficoltà operative che vengono fatte discendere dalla presenza del lavoratore ritenuto responsabile di tutto ciò o discendenti dalla condotta del lavoratore tale da pregiudicarne la sua permanenza nella sede di lavoro originaria, in tal caso si può parlare di trasferimento ambientale a misura di natura organizzativa. 151
Vi sono anche casi, pienamente legittimi per la giurisprudenza152, di trasferimenti per
incompatibilità ambientale disposti a seguito di irrogazione di sanzioni disciplinari; in tal caso, in ragione del rapporto cronologico, prima la sanzione e poi il trasferimento, lo stesso trasferimento non assume il valore di sanzione, poiché un fatto disciplinarmente
150 Cassazione, 23 febbraio 2007, n. 4265; Cassazione, 10 marzo 2006, n. 5320.
151 Cassazione, 22 agosto 2013, n. 19425; Cassazione, 6 luglio 2011, n. 14875.
152 Cassazione, 23 febbraio 1998, n. 1912; Cassazione, 26 gennaio 1995, n. 909; Cassazione, 18 febbraio 1994, n. 1563; Cassazione, 15 ottobre 1992, n. 11339.
rilevante può costituire altresì una delle ragioni tecniche, organizzative e produttive, ai fini della legittimità del successivo trasferimento, ex art. 2103 del codice civile (ad esempio, il pregresso illecito disciplinare suggerisce al datore di lavoro di disporre un immediato cambiamento di sede per il lavoratore autore dell’illecito commesso e sanzionato).
È altresì possibile che il trasferimento venga irrogato come vera e propria sanzione disciplinare153, ciò è possibile solo ed esclusivamente se la contrattazione collettiva lo
prevede come sanzione irrogabile154; in caso contrario, il datore di lavoro non potrà
sanzionare l’illecito commesso o l’inadempimento del lavoratore con il trasferimento del medesimo, in quanto ricordiamo che il potere disciplinare del datore di lavoro, conseguenza diretta del suo potere direttivo, può essere esercitato solo nel rispetto degli obblighi di legalità, ovverosia di predeterminazione e tipicità sanciti dall’art. 7 quinto comma dello Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970).
Frequentemente i contratti collettivi155 sono intervenuti per disciplinare più
dettagliatamente il trasferimento, ad esempio legandolo al cambiamento di residenza del lavoratore oppure ponendo dei limiti geografici o anagrafici al potere unilaterale del datore di lavoro in materia di trasferimento oppure prevedendo la possibilità per il lavoratore di rifiutare il trasferimento e di potersi dimettere senza obblighi di preavviso.
153 Cassazione, 28 settembre 1995, n. 10252; Cassazione, 27 giugno1998, n. 6383.
154 Ad esempio il Regio Decreto n. 148/1931 prevede espressamente per gli autoferrotranvieri la sanzione disciplinare del trasloco punitivo, sia in via autonoma, nel caso di incompatibilità locale, che in via accessoria, nei casi di infrazioni per le quali sia prevista la sanzione della sospensione e della retrocessione.
Ricordiamo inoltre che è nullo, ex art. 15 dello Statuto dei Lavoratori, L. n. 300/1970, quel trasferimento che sia discriminatorio per affiliazione o meno sindacale che per motivi ricollegabili alla persona del lavoratore (quali orientamenti politici, orientamenti sessuali, età, razza, sesso e handicap).
Infine, trattiamo il caso possibile del trasferimento collettivo, ovverosia quel trasferimento disposto dal datore di lavoro avente come destinatari una pluralità di lavoratori.
Normalmente tale trasferimento viene disposto a seguito di una riorganizzazione aziendale, fattispecie distinta dal trasferimento di ramo d’azienda, disciplinato invece dall’art. 2112 del codice civile, poiché nel caso di trasferimento collettivo il datore di lavoro rimane il medesimo.
Trattandosi di un trasferimento, che tanto per il datore quanto per i lavoratori coinvolti, risponde ad interessi maggiori rispetto a quelli di un trasferimento individuale, è tale da meritare un attento vaglio da parte delle organizzazioni sindacali dei lavoratori.156
Sebbene in tale caso le sentenze su tale tipologia di trasferimento sono datate e poche, la giurisprudenza157 ha ritenuto che, anche nel caso in cui il contratto collettivo
prevedesse l’espletamento di un’apposita procedura sindacale, comportante l’obbligo per il datore di lavorodi una preventiva comunicazione del trasferimento collettivo alle relative organizzazioni sindacali, non sarebbe necessaria anche una contestuale comunicazione individuale, ovvero ai singoli lavoratori oggetto di trasferimento
156 Cassazione, 2 marzo 1999, n. 1753.
collettivo, dei motivi che giustificherebbero tale trasferimento e tale omissione non costituirebbe violazione dell’art. 2103 del codice civile.
La giurisprudenza 158 ritiene altresì applicabile, anche in questo caso, per analogia la
disciplina prevista dall’art. 2 della L. n. 604/1966, in materia di richiesta e motivazione del licenziamento.
Infine ricordiamo che, per talune categorie di lavoratori, il legislatore ha disposto delle maggiori limitazioni al potere di trasferimento del datore di lavoro, in ragione delle differenti peculiarità dei lavoratori oggetto di trasferimento:
- per i dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali (RSA) e per il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza per analogia, i quali godono di un trattamento privilegiato in virtù dell’art. 22 dello Statuto dei Lavoratori, secondo il quale occorre, oltre alla sussistenza delle ragioni tecniche ed organizzative richieste ai sensi dell’art. 2103 del codice civile, anche il preventivo nulla osta al trasferimento da parte delle associazioni sindacali di appartenenza, al fine di evitare un allontanamento dalla unità produttiva del dirigente al mero scopo discriminatorio, teso a ledere i diritti di esercizio e di libertà sindacale interni all’azienda. E’ ormai pacifico che non siano sindacabili i motivi sottostanti al rifiuto del nullaosta, che oltretutto l’associazione sindacale non sarebbe tenuta nemmeno a motivare.
Secondo la Suprema Corte, con le sentenze del 9 luglio 2013, n. 16981 e del 22 agosto 2003, n. 1684 e del 13 giugno 1998, n. 5934, il nullaosta non sarebbe necessario nel caso di trasferimento nell’ambito della stessa unità
produttiva ma solo quando esso preveda uno spostamento ad un’altra unità produttiva rispetto a quella in cui il dirigente esercita le sue funzioni sindacali. Laddove il datore effettuasse il trasferimento in assenza di nullaosta ed in assenza di una successiva specifica procedura di conciliazione, oltre a giustificare il rifiuto al trasferimento da parte del rappresentante sindacale, si esporrebbe al rischio di condanna per condotta antisindacale ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori;
- Lavoratori che fruiscono del congedo per maternità o paternità , i quali in base all’art 56 del D. Lgs. n. 151/2001 hanno il diritto ad essere trasferiti alla stessa unità produttiva o in altra ma dello stesso comune di provenienza;
- lavoratori eletti a cariche pubbliche negli enti locali, ex art. 78 D. Lgs. n. 267/2000, ai quali è riconosciuto il diritto a non poter essere trasferiti dalla sede di lavoro senza il loro consenso e nel caso in cui non vi sia coincidenza tra luogo di lavoro e luogo in cui viene svolto il mandato amministrativo hanno il diritto a veder esaminata dal datore di lavoro con criteri di priorità la loro richiesta di riavvicinamento al luogo in cui viene svolto il loro mandato amministrativo;
- lavoratori italiani trasferiti all'estero, solo in stati extracomunitari (fuori dall'Unione Europea saranno da intendersi) occorrerà la necessaria e preventiva autorizzazione, ex art. 2 del D.p.r. n. 346/1994, del Ministero del Lavoro e della DTL competente alle quali sarà indirizzata la richiesta di trasferimento;
- lavoratori portatori di handicap o familiari che li assistono (anche non conviventi), che in base all’art. 33 delle L. n. 104/1992 prevede il loro necessario consenso al trasferimento nonché ove possibile il diritto di scegliere la sede più vicina al loro domicilio. Vi sono delle eccezioni 159 a tali
diritti, secondo cui il trasferimento si possa disporre ugualmente per tali lavoratori in caso di incompatibilità ambientale e di ridotta distanza tra la nuova sede di lavoro e la precedente. Nel caso in cui sia il lavoratore che assiste un familiare con handicap, la sua richiesta di trasferimento di sede più vicina al domicilio del familiare che assiste sarà subordinata dal fatto che in tale nuova sede vi siano le condizioni tecniche, organizzative e produttive che possano consentirne il trasferimento la convivenza con il familiare con handicap sia stata interrotta per effetto dell'assegnazione della sede originaria di lavoro, che sarà ripresa con la nuova assegnazione di sede.
In conclusione, ricordiamo che il datore di lavoro dovrà riconoscere al lavoratore una serie di interventi atti a risarcire e compensare quest’ultimo di tutte quelle spese personali e familiari a cui andrà incontro, a seguito del mutamento definitivo della sede di lavoro, quali ad esempiole indennità di trasferimento, le spese di trasloco, le spese di viaggio del lavoratore e dei suoi familiari; il legislatore ha preso in considerazione taluni di questi interventi, previsti dalla contrattazione collettiva, per esentarli in tutto o in parte ad assoggettamento fiscale e contributivo.
Ricordiamo infine che laddove venisse accertata l'illegittimità del trasferimento160, ad
esempio per assenza di comprovate ragioni tecniche – organizzative addotte dal datore di lavoro, oppure per mancata comunicazione delle motivazioni sottostanti al trasferimento a seguito di tale richiesta da parte del lavoratore, oppure per trasferimento discriminatorio, vessatorio (mobbing) o disciplinare (non previsto dalla legge e dal CCNL applicato), oppure per mancato rispetto di disposizioni legali tassative, oppure per il mancato rispetto di pattuizioni individuali o collettive, ciò implicherà il ripristino della posizione di lavoro del lavoratore, il cui reinserimento dovrà avvenire nell’unità di provenienza e nelle mansioni originarie.
Qualora l’illegittimo comportamento datoriale avesse comportato dei danni al lavoratore, sia di tipo contrattuale che di tipo extracontrattuale, come ad esempio il sostenimento di maggiori costi sostenuti per il mutamento di domicilio o di residenza e danni biologici subiti, il datore sarà tenuto al loro risarcimento solo se verranno provati dal lavoratore.
La Cassazione del 16 maggio 2013, n. 11927 ha ritenuto che laddove venisse accertata la nullità del trasferimento, la mancata ottemperanza al provvedimento di trasferimento da parte del lavoratore, sia in attuazione dell'eccezione di inadempimento ex art. 160 del codice civile, sia da ritenersi privo di effetti nei confronti del lavoratore, in quanto gli atti nulli non producono effetti.
Precisiamo da ultimo che la modifica di un elemento importante del contratto individuale come è quella della sede di lavoro è ritenuto valido motivo per rassegnare le dimissioni per giusta causa da parte del lavoratore; in questo caso, in assenza di
160 Cassazione, 10 novembre 2008, n. 26920; Cassazione, 27 ottobre 2010, n. 21967; Cassazione, 25 luglio 2006, n. 16907.
precise pattuizioni collettive o individuali, la giurisprudenza161 di solito riconosce al
lavoratore il diritto a ricevere il TFR e l’indennità sostitutiva del preavviso come si avrebbe nel caso di licenziamento.
Sicuramente la giusta causa per rassegnare le dimissioni sussisterà sia quando il trasferimento presenti un profilo di onerosità particolare, sia per la distanza fisica tra le due sedi sia per la retribuzione che si ridurrà per la coperture delle spese da sostenere in virtù del trasferimento, laddove unitamente al trasferimento il lavoratore sia oggetto anche di demansionamento.
In ogni caso è doveroso osservare quanto disposto in merito dal contratto collettivo applicato al lavoratore.
161 Cassazione, 28 ottobre 2008, n. 25886; Cassazione, 8 maggio 2008, n. 11362; Cassazione, 8 novembre 2005, n. 21673; Cassazione, 11 luglio 2005, n. 14496.
12. LA MODIFICA DELL’ORARIO DI LAVORO
L’estensione temporale della prestazione lavorativa è uno degli elementi principali che caratterizzano il rapporto di lavoro subordinato e deve essere espressamente prevista nel contratto individuale di lavoro; la prestazione lavorativa può essere distribuita su un massimo di 3 turni nel corso della giornata, da intendersi quali mattina, pomeriggio e sera.
I limiti previsti, sia dalla legge che dalla contrattazione collettiva, sull’estensione temporale della prestazione rispondono a due esigenze fondamentali: la tutela dell’integrità fisica del lavoratore, ed una miglior conciliazione vita privata e lavoro.
Brevemente ricordiamo che il rapporto di lavoro subordinato, anche a tempo determinato, può essere svolto sia a tempo pieno che a tempo parziale; il tempo pieno è definito come l’orario normale di lavoro, ossia le 40 ore settimanali medie/8 ore giornaliere, da ciò ne consegue che il tempo parziale consiste in un orario di lavoro inferiore rispetto a quello normale, fissato dai contratti collettivi applicati.
Una gestione flessibile degli orari di lavoro è sempre stata vista dai datori di lavoro come una leva per incrementare la loro produttività e di conseguenza la loro competitività sul mercato; tale gestione si può concretizzare facendo ricorso al part – time e alle clausole elastiche162, nelle quali oggi confluiscono le “vecchie” clausole
elastiche, che prevedevano la possibilità di apportare una variazione in aumento della durata della prestazione lavorativa rispetto a quella inizialmente concordata, e le
162 A seguito delle modifiche apportate dal Jobs Act, nello specifico dal D. Lgs. n. 81/2015, alla disciplina del lavoro.
clausole flessibili, invece, che prevedevano la facoltà di variare la collocazione temporale della prestazione lavorativa.
La possibilità di apporre, nel contratto individuale di lavoro a tempo parziale, clausole elastiche è ammessa qualora il contratto collettivo, di qualunque livello, applicato le preveda e le disciplini; a seguito del Jobs Act, nello specifico il D. Lgs. n. 81/2015, è stato previsto che in assenza di una specifica disciplina collettiva163, le parti possono
concordare, per iscritto, tali clausole ad hoc davanti alle commissioni di certificazione, nelle quali il lavoratore potrà farsi assistere da un avvocato di sua fiducia o da un consulente del lavoro oppure dal sindacato a cui è iscritto, ed in tal caso troverà applicazione la disciplina legale suppletiva del D. Lgs. n. 81/2015.
A pena di nullità, devono essere previste le condizioni e le modalità con cui il datore di lavoro può richiedere l’attivazione di tali clausole al lavoratore.
Lo svolgimento di prestazioni lavorative in esecuzione di tali clausole, senza il rispetto delle condizioni e modalità e dei limiti previsti dai contratti collettivi, o in via suppletiva dalla legge, comporta il diritto del lavoratore, in aggiunta alla retribuzione dovuta, un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno.
Infatti, il datore, per poter applicare tali clausole, dovrà dare un preavviso di 2 giorni lavorativi al lavoratore (salvo un diverso termine, maggiore, concordato tra le parti) e corrispondere una maggiorazione del 15 %164 (salvo una differente percentuale prevista
dal contratto collettivo), della retribuzione oraria globale a lui spettante, comprensiva dell’incidenza della retribuzione sugli istituti retributivi indiretti e differiti, oltre a non
163 Dal tenore letterale della norma sembra debba intendersi la mancanza della disciplina in toto.
fare ricorso a tali clausole in misura superiore al 25% delle ore di lavoro settimanali concordate o della normale prestazione annua a tempo parziale.
La maggiorazione del 15% prevista in via suppletiva dalla legge non appare molto chiara, in quanto potrebbe intendersi sia come regola generica che come regola specifica nel caso in cui il contratto collettivo non disciplinasse le clausole elastiche; nel caso in cui venisse intesa come regola generale risulterebbe superata la facoltà lasciata all'autonomia collettiva invece dalla nuova formulazione normativa, in tal modo si arriverebbe ad un limite minimo legale di maggiorazione, per l'utilizzo delle clausole elastiche, migliorabile dalla contrattazione collettiva.
La compensazione da riconoscere al lavoratore, per l’attivazione delle clausole elastiche, non necessariamente deve essere di natura monetaria ma potrebbe anche consistere in forme miste di maggiorazione della retribuzione e permessi o riposi aggiuntivi; in ogni caso si dovrà tenere conto e rispettare quanto previsto specificamente a tal proposito dai contratti collettivi.
Inoltre, il lavoratore ha la facoltà di revocare il consenso prestato alla clausola elastica, a prescindere dal contenuto che essa possiede, nei casi previsti dalla legge165, quali
sussistenza di patologie oncologiche o gravi patologie cronico -degenerative ingravescenti inerenti il lavoratore o i suoi familiari o i suoi conviventi, nel caso anche di lavoratore / lavoratrice con figlio convivente di età inferiore a 13 anni o nel caso di figlio convivente portatore di handicap od anche nel caso di lavoratore studente.
165 Art. 10 primo comma dello Statuto dei Lavoratori, L. n. 300/1970 ed art. 8 comma 3,4,5 del D. Lgs. n. 81/2015.
Nel nuovo assetto normativo delineato dal Jobs Act permane l'impossibilità di modificare unilateralmente da parte del datore di lavoro la durata e la collocazione della prestazione lavorativa nel caso in cui queste siano modificate in modopermanente.
Nel nuovo assetto normativo, nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, viene riconosciuta al datore di lavoro la facoltà di richiedere al lavoratore, entro i limiti dell'orario normale di lavoro, lo svolgimento di prestazioni lavorative supplementari, intendendosi per tali quelle svolte oltre l'orario di lavoro concordato tra le parti, anche in relazione alle giornate, alle settimane o ai mesi.
Nel caso in cui il contratto collettivo applicato non disciplinasse il lavoro supplementare, il datore di lavoro potrà richiedere al lavoratore lo svolgimento di prestazioni lavorative supplementari in misura non superiore al 25 % delle ore di lavoro settimanali concordate.
In tale ipotesi il lavoratore potrà rifiutarsi di svolgere il lavoro supplementare a lui richiesto, in assenza di previsioni causali collettive per le quali il consenso del lavoratore potrebbe essere o non essere richiesto, solo se è giustificato da comprovate esigenze, quali lo svolgimento di altre attività lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale; tali giustificazioni potrebbero rivelarsi di ampia e generica portata ma pur sempre discutibili, dunque divenire una possibile fonte di contenzioso.
Ricordiamo che il lavoro supplementare corrisponde allo svolgimento della prestazione lavorativa oltre l’orario di lavoro concordato fra le parti ma sempre entro i limiti dell’orario normale166; il lavoro straordinario, invece, è quello prestato oltre l’orario
normale di lavoro.
166 Trattasi quindi di ore di lavoro aggiuntive prestate nella tipologia di contratto part- time orizzontale.
Nell'assetto normativo previgente il rifiuto alla prestazione di lavoro supplementare era libero mentre oggi, nel nuovo assetto normativo, è limitato a comprovate esigenze del lavoratore, in assenza di previsioni causali collettive in merito, rendendo così più difficoltoso ed oneroso il perseguimento dell'interesse individuale del lavoratore ad una programmabilità del proprio tempo.
Sicuramente i datori di lavoro personalmente o per il tramite di loro sigle sindacali rappresentanti cercheranno di cogliere le opportunità introdotte, dal nuovo assetto normativo, per poter inserire nella contrattazione collettiva causali che non richiedano il consenso del lavoratore per lo svolgimento di lavoro supplementare.
Inoltre secondo un’importante sentenza della Cassazione, 30 maggio 2011, n. 11905, l’utilizzo continuo e costante di lavoro supplementare, in un contratto part-time di tipo parziale, può costituire il presupposto per la trasformazione del contratto da part-time a tempo pieno; quindi, oltre al ricorso perpetuo di lavoro supplementare, che di fatto configurerebbe uno svolgimento dell’orario lavorativo a tempo pieno, anche l’assenza di una specifica esigenza organizzativa dell’impresa che possa giustificare il ricorso al lavoro supplementare, rispetto all’orario di lavoro originariamente pattuito, anche nel caso in cui si faccia ricorso ad esso in modo conforme alle previsioni limitative della contrattazione collettiva potrà determinare la trasformazione del contratto individuale di lavoro da part- time a tempo pieno.
Il rifiuto, da parte del lavoratore, di concordare variazioni dell’orario di lavoro, non costituisce, per espressa previsione normativa167, giustificato motivo di licenziamento.
Sulla base di quanto esposto sino ad ora, occorre precisare che il datore di lavoro non può ridurre unilateralmente l’orario di lavoro, nemmeno per legittime esigenze organizzative e produttive dell’azienda, tranne il ricorrere di particolari ipotesi, previste dalla legge o dai contratti collettivi, quali ad esempio il ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni oppure al Contratto di Solidarietà, e in conseguenza ad essi il datore di lavoro potrà effettuare un’erogazione ridotta della retribuzione spettante al lavoratore.
Laddove il datore effettuasse tale modifica unilaterale, al di fuori dei casi eccezionali sopra richiamati, tale modifica sarà da ritenersi illegittima e dunque priva di effetto, altresì il datore di lavoro sarà tenuto a corrispondere ugualmente al dipendente la normale ed intera retribuzione a lui spettante , ed eventualmente anche risarcire i danni cagionati al lavoratore.
Precisiamo che, al part-time è sempre stato attribuito, sin dalla sua istituzione, il ruolo cruciale di promotore dell’incremento del tasso di occupazione, specialmente in riferimento ai soggetti deboli del mercato del lavoro, quali i disoccupati, le donne, i giovani e gli anziani; ruolo affidatogli sia dalla Direttiva Europea 97/81/CE, che lo disciplinò in origine, e sia dal cosiddetto Jobs Act , nello specifico dal D. Lgs. n. 81/2015, che ne ha riformato la relativa disciplina, con un intento semplificatorio rispetto a quella previgente ma che tuttavia, di fatto, non ha apportato notevoli cambiamenti rispetto al passato.
Trattasi di una tipologia contrattuale che sovente è stata novellata dal legislatore, proprio peradeguarla ai continui cambiamenti del sistema economico - sociale; infatti, il part - time costituisce tradizionalmente il banco di prova del cambiamento del diritto
del lavoro e la soluzione per combattere la crisi occupazionale, ancora in atto, esplosa nel 2008, a seguito della forte crisi economica mondiale.
La Direttiva 97/81/CE, istitutrice del part-time, come già anticipato, venne attuata in Italia dal D. Lgs. n. 61/2000 ma con decorrenza dal 25 giugno 2015, l’art. 55 del D. Lgs. n. 81/2015, ha abrogato il D. Lgs. n. 61/2000; ricordiamo che, con il D. Lgs. n. 81/2015 è venuta meno la definizione di tempo parziale, ed in tal modo esso viene ad essere così definito in maniera residuale rispetto al tempo pieno.
Il tempo parziale può essere previsto, sin da subito, nel contratto individuale di lavoro, all’atto dell’assunzione (a cui ovviamente corrisponderà una retribuzione inferiore a quella dovuta invece per lo svolgimento della prestazione lavorativa a tempo pieno), o potrà essere disposto o modificato successivamente solo con il consenso del lavoratore.
In entrambi i casi, per lo svolgimento dell’orario di lavoro ridotto si necessita della forma scritta che lo preveda, ai fini della prova del contratto individuale di lavoro a tempo parziale, in cui si dovrà altresì indicare la durata della prestazione lavorativa da svolgere e l’esatta collocazione temporale con riferimento al giorno, alla settimana, al mese o all’anno.
Nel caso di mancata forma scritta della previsione dell’orario lavorativo ridotto, il lavoratore ha la facoltà di richiedere e far valere in giudizio la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempopieno, con il diritto alla maggiore retribuzione spettante, ed ai relativi contributi previdenziali dovuti, per le prestazioni effettivamente rese anche per il periodo antecedente alla richiesta. Gli stessi diritti si avranno nel caso in cui vi sia l’omessa indicazione della durata della prestazione lavorativa ma soltanto a decorrere dalla data della pronuncia giudiziale, ed inoltre, in questo caso sarà richiedibile dal
lavoratore, per il periodo antecedente la pronuncia, un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno , da liquidare in modo equitativo.
Il momento a decorrere dal quale si intenderà costituito il rapporto a tempo pieno, come previsto dal Jobs Act, in mancanza della forma prevista, è dalla data della pronuncia giudiziale, la quale varrà anche nel caso in cui non venga espressa, nel contratto individuale di lavoro, la durata della prestazione lavorativa ridotta; invece, per quanto riguarda il caso del mancato riferimento alla collocazione temporale della prestazione lavorativa parziale, non vi è più il rimando all’autonomia collettiva, dunque spetterà al giudice determinare le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale, basandosi su un criterio equitativo, tenendo conto delle responsabilità familiari del lavoratore, della sua necessità eventuale di integrazione del reddito mediante svolgimento di altre attività lavorative, nonché alle esigenze organizzative – produttive del datore di lavoro.
Anche nel caso di omessa indicazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa spetterà al lavoratore, dalla data della pronuncia giudiziale, il diritto alla maggiore retribuzione, ed ai relativi contributi previdenziali dovuti, per le prestazioni effettivamente rese e per il periodo antecedente la pronuncia, e potrà richiedere un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno, da liquidare in modo equitativo.
Nel vecchio assetto normativo, prima delle modifiche apportate alla disciplina dal D. Lgs. n. 81/2015, si avevano tre tipologie di part-time:
1) orizzontale, in cui l’orario giornaliero di lavoro è ridotto rispetto al tempo normale;
2) verticale, quando l’orario di lavoro è normale soltanto in predeterminati periodi della settimana, del mese o dell’anno ed al di fuori di questa collocazione temporale, l’orario lavorativo sarà svolto in misura ridotta;
3) misto, è quella combinazione delle altre due tipologie precedenti di part-time.
Secondo la previgente disciplina, il lavoro supplementare era richiedibile, dal datore di lavoro al suo dipendente, solo nel caso di part-time orizzontale, mentre il lavoro straordinario e le clausole elastiche erano richiedibili solo per i part-time verticali e misti (quest’ultimi quando venivano esercitati in modalità verticale), invece le clausole flessibili erano applicabili in tutte e tre le tipologie di part-time.
Il D. Lgs. n. 81/2015 ha eliminato le definizioni delle tre tipologie di lavoro part -time, estendendo così a tutti i lavoratori a tempo parziale la possibilità di svolgere lavoro supplementare e straordinario, nonché di aumentare e variare la collocazione temporale della prestazione lavorativa, ovverosia di applicare liberamente le clausole elastiche e flessibili, ora riunificate sotto un’unica categoria onnicomprensiva, ossia quella denominata delle “clausole elastiche”.
L'aver eliminato, nel nuovo assetto normativo del Jobs Act, la distinzione dei tre tipi di part-time ha rimosso quelle discriminazioni che si erano create tra le varie tipologie proprio a causa delle limitazioni poste dalla legge; ad esempio nei part-time verticali si poteva solo avere lavoro straordinario oltre l'orario normale di lavoro e non supplementare, che invece era possibile richiedere al lavoratore solo nei part-time di tipo orizzontale.
Di fatto però nella prassi risulteranno ancora importanti le distinzione delle tre tipologie di contratto di lavoro part-time con riferimento ad esempio al tema ASPI e Naspi, ossia alle indennità di disoccupazione, tema su cui non ci soffermeremo in tale sede.
E’ evidente che l’intento riformante del legislatore è stato quello di attenuare la rigidità della collocazione della prestazione lavorativa, prevedendo la possibilità di concordare con il lavoratore clausole che potranno riconoscere al datore di lavoro il potere unilaterale di modificare la collocazione o la durata della prestazione lavorativa, in modo tale da avere una gestione più flessibile del personale in base alla mutevoli esigenze dell'impresa.
Il legislatore, nel D. Lgs. n. 81/2015, affida alla contrattazione collettiva, da intendersi sia quella nazionale che quella aziendale o territoriale, il compito di regolare le condizioni in presenza delle quali possono essere richieste: variazioni dell’orario di lavoro; i massimali temporali richiedibili al lavoratore; maggiorazioni retributivi da corrispondere ai lavoratori in caso di variazione dell'orario di lavoro; casi in cui è obbligatoria o meno l’esecuzione della variazione impartita dal datore di lavoro168, al
fine di ricercare l’equilibrio fra le esigenze contrapposte di conciliazione vita -lavoro del lavoratore e quelle datoriali.
Tuttavia, come già esposto precedentemente, nel caso in cui la contrattazione collettiva nulla disporrà in merito, si applicheranno le norme legali vigenti in via suppletiva; ad esempio, per il lavoro supplementare, il datore di lavoro non potrà richiederlo, unilateralmente, in misura superiore al 25 % delle ore settimanali concordate, ed il lavoratore potrà rifiutarsi solo se è giustificato da comprovate esigenze lavorative, di
168 Ed ancora casi in cui il lavoratore potrà rifiutarsi di eseguire la prestazione lavorativa di lavoro supplementare e/o straordinario.
salute, familiari o di formazione professionale. In tal caso, il datore di lavoro dovrà corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione, in misura del 15 % della retribuzione oraria globale di fatto.
Se, ad esempio, si avesse un prolungamento dell’orario ridotto si avrà lavoro straordinario, il cui massimale orario richiedibile dal datore di lavoro e la dovuta maggiorazione retributiva sono normalmente fissate dai contratti collettivi, con il solo limite legale che il ricorso a tale lavoro sia concordato tra le parti e per una durata massima di 250 ore annuali, soltanto i contratti collettivi possono derogare a tale limite legale anche in peius.
Nel nuovo assetto normativo il lavoro straordinario è oggi richiedibile in qualunque tipologia di contratto di lavoro part- time; ricordiamo inoltre che il ricorso al lavoro straordinario, anche notturno, per festività o festivo è ammesso soltanto nel caso di previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore.
In aggiunta a quanto sino ad ora esposto, vi sono altre importante novità introdotte dal Jobs Act fra cui: la scomparsa della prova testimoniale per la dimostrazione della stipula a tempo parziale del contratto individuale di lavoro; la scomparsa dell’obbligo per il datore di lavoro di informare annualmente le rappresentanze sindacali aziendali, qualora esistenti in azienda, sull’andamento delle assunzioni a tempo parziale, sulla relativa tipologia e sul ricorso al lavoro supplementare, tale per cui è venuta meno anche la sanzione collegata all’inadempimento di tale obbligo da parte del datore di lavoro; la facoltà di rinviare l’indicazione delle durata della prestazione a tempo ridotto e della sua collocazione temporale ai turni programmati di lavoro, articolati su fasce orarie prestabilite, nel caso in cui l’organizzazione del lavoro sia articolata in turni.
Infine, il datore di lavoro, qualora intendesse assumere personale a tempo parziale, deve darne tempestiva informazione ai lavoratori, già in forza nella propria azienda, a tempo pieno occupati in unità produttive con sede nello stesso comune in cui intende effettuare assunzioni part-time, ed a dover prendere in considerazione secondo buonafede, quindi non necessariamente accogliere, le domande di trasformazione del contratto individuale di lavoro da tempo pieno a tempo ridotto pervenute di tali lavoratori precedentemente alla decisione datoriale.
L’avviso delle nuove assunzioni a tempo parziale dovrà avvenire anche tramite comunicazione scritta posta in luogo accessibile a tutti nei locali dell’impresa.
Per poter trasformare un contratto in essere, da tempo pieno a tempo parziale, o viceversa, occorrerà obbligatoriamente un accordo scritto tra le parti, fermo restando che il lavoratore non può essere obbligato a effettuare tale trasformazione e che il suo rifiuto non potrà mai costituire motivo di licenziamento169.
La trasformazione, ricordiamo, non è un diritto soggettivo del lavoratore, ad eccezione dei casi espressamente previsti dalla legge.
Viene riconosciuto, infatti, il diritto di richiedere la trasformazione del contratto individuale da tempo pieno a part-time soltanto a quei lavoratori affetti da patologie oncologiche o da gravi patologie croniche degenerative, che per effetto di tali situazioni presentano una residua e ridotta capacità lavorativa, accertata da commissioni mediche istituite presso l’azienda USL territorialmente competente.
In questo caso occorre rilevare che il concetto di gravità è rimesso alla discrezionalità delle commissioni mediche competenti in base della residua capacità lavorativa dovuta
dalla malattia o dagli effetti invalidanti della terapia, poiché la norma non stabilisce ad esempio una percentuale minima di invalidità. Altro dubbio riscontrabile nella normativa è afferente ai termini tecnici medici degenerativo ed ingravescente, in quanto bisognerà capire se il peggioramento dovuto alla malattia vada inteso come preordinato dal tipo di malattia stessa o se da altri fattori quali il tipo di mansioni a cui è adibito il lavoratore in questione o ad altri fattori ambientali o sociali.
Si può altresì notare che la nuova formulazione normativa fa riferimento ai soli lavoratori affetti da patologie croniche degenerative ingravescenti, escludendo così quelli affetti solo da patologie croniche , dunque il legislatore ha riservato il diritto alla trasformazione del contratto di lavoro in part-time solo ad un particolare sottoinsieme di lavoratori affetti da patologie, fermo restando che i contratti collettivi la portata di questo diritto potestativo.
In virtù del fatto che la tutela della salute del lavoratore è un interesse primario e protetto dalla nostra Costituzione, il legislatore ha riconosciuto il diritto potestativo del lavoratore ad avere latrasformazione del proprio contratto di lavoro, nel caso tassativo sopra menzionato, a prescindere dalle contrastanti esigenze aziendali, ovverosia anche laddove non vi fosse la necessità da parte dell'azienda di effettuare nuove assunzioni part-time, il datore di lavoro dovrà procedere dunque alla trasformazione del contratto di lavoro da tempo pieno a tempo ridotto per tali lavoratori.
In base alla Direttiva 2000/78/CE dovrebbe essere valutato caso per caso quale sia la soluzione migliore in concreto e la più ragionevole per tali lavoratori affetti da patologie gravi, in modo tale da non dover imporre al datore di lavoro a priori il part-time, in quanto magari si potrebbe optare per un adeguamento dei ritmi di lavoro o magari delle
attrezzature più consone, poiché il part-time potrebbe risultare essere molto oneroso finanziariamente specie per le piccole medio imprese.
Nel caso tassativo previsto è altresì riconosciuto al lavoratore il diritto di richiedere la ri- trasformazione del contratto individuale di lavoro da tempo parziale a tempo pieno.
Innovativa è l’opportunità riservata per una sola volta al lavoratore, in alternativa al congedo parentale, sia per maternità che paternità, ovvero entro i limiti del congedo ancora spettante ai sensi del D. Lgs. n. 151/2001, ossia per un massimo di 6-7 mesi, di richiedere la trasformazione temporanea del proprio contratto da tempo pieno a part-time, con una riduzione dell’orario di lavoro non superiore al 50 %, per poter avere una migliore conciliazione vita - lavoro. Il datore dovrà effettuare la trasformazione del contratto entro 15 giorni dall’avvenuta richiesta del lavoratore.
Al di fuori di questo ultimo caso e dei casi tassativi previsti dalla legge, già esposti precedentemente, è, invece, riconosciuto al lavoratore soltanto un titolo di priorità o precedenza nella trasformazione del contratto individuale di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, previa richiesta avanzata dal lavoratore che potrebbe realizzarsi nel caso in cui il datore decidesse autonomamente di effettuare delle trasformazioni contrattuali.
Tale priorità è riconosciuta dalla legge 170 nei confronti del:
- lavoratore che assiste familiari conviventi, quali coniuge, genitori e figli, affetti da patologie oncologiche o gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti ed anche nel caso di lavoratore che assista familiari conviventi, quali coniuge, genitori e figli, a cui venga riconosciuta una totale
e permanente inabilità al lavoro, con connotazione di gravità, ai sensi dell’art. 3 terzo comma della L. n. 104/1992, i quali abbiano la necessità di assistenza continua, in quanto non in grado di compiere gli atti quotidiani della vita;
- genitore lavoratore che ha un figlio convivente di età non superiore ai 13 anni;
- genitore lavoratore che ha un figlio convivente portatore di handicap grave, ai sensi dell’art. 3 della L. n. 104/1992.
Infine i lavoratori, il cui contratto individuale di lavoro era stato trasformato precedentemente da tempo pieno a tempo parziale , hanno un diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo pieno, per l’espletamento di ugual mansioni o di mansioni di pari livello e categoria legale rispetto a quelle oggetto del rapporto di lavoro a tempo parziale.
In questo ultimo caso, ossia di ritorno ad un contratto individuale di lavoro a tempo pieno, la nuova formulazione normativa nulla prevede più in merito a tale trasformazione, dunque sarà rimessa alla contrattazione collettiva o in mancanza di essa in sede di contrattazione individuale prevedere specifiche procedure o criteri di scelta per attuale tale trasformazione del contratto di lavoro.
Nel nuovo assetto normativo non sono più previsti i criteri di scelta da applicare in caso di presenza di più soggetti lavoratori aventi la priorità nella trasformazione del proprio contratto di lavoro in part-time; per cui si può ritenere che spetterà ai contratti collettivi, ancora vigenti e a quelli futuri, prevedere eventuali classifiche di priorità, fermo
restando il vincolo generale del rispetto delle clausole di correttezza e buona fede da parte del datore di lavoro.
Nonostante il legislatore ribadisca all’art. 7 del D. Lgs. n. 81/2015 che “il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto a quello spettante al lavoratore a tempo pieno di pari inquadramento”, il principio di non discriminazione, sancito dalla Direttiva Europea 97/81/CE ha subito una battuta d’arresto da tale decreto, in quanto esso ora sancisce che “il lavoratore a tempo ridotto ha gli stessi diritti e lo stesso trattamento economico e normativo del lavoratore a tempo pieno ma riproporzionato in ragione della sua ridotta entità della prestazione lavorativa”.
Si può notare che sebbene il Jobs Act, nello specifico il D. Lgs. n. 81/2015, ha ampliato gli aventi diritto e gli aventi la priorità alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, tale ampliamento però è avvenuto tagliando in contropartita le tutele economiche e normative spettanti ad essi dal riformato istituto, dunque questi lavoratori avranno oggi un diritto od una priorità ad un part-time depotenziato rispetto al passato sia in termini normativi che in termini economici.
In conclusione si può rilevare che le modifiche apportate dal D. Lgs. n. 81/2015 in materia di variazione dell'orario di lavoro hanno perseguito l'obiettivo di semplificazione normativa in una chiara ottica di maggiore flessibilità nella gestione del personale; si è voluto altresì affievolire la distanza tra lavoro supplementare e clausole elastiche, estendendole a tutte le tipologie di part-time, stabilendo in via legale la stessa misura quantitativa e la stessa maggiorazione retributiva in assenza di previsioni