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VII Osservazioni sulla traduzione

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Academic year: 2021

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VII

Osservazioni sulla traduzione

The Dollmaker è un romanzo voluminoso, con una trama piuttosto semplice, ma che dal punto di vista traduttivo presenta molte complessità. I cinque capitoli che ho tradotto ne sono un esempio lampante: li ho scelti non solo perché rappresentano perfettamente le caratteristiche principali del romanzo – i primi tre ambientati nella natura del Kentucky, i capitoli 13 e 17 ambientati, invece, a Detroit – ma anche perché ben illustrano le maggiori difficoltà in cui può incappare chi si cimenti nella traduzione del libro.

È un testo narrato in terza persona, il che implica una certa distanza tra il lettore e i personaggi, il narratore ha il pieno controllo della narrazione ma, come già sottolineato, non ne approfitta mai, non giudica nessuno, ma lascia che il lettore si crei una propria opinione. C’è un’alternanza tra lunghi periodi descrittivi e periodi dialogati e il registro usato è per lo più informale anche se, qua e là, ci sono elementi più formali quali, per esempio, l’uso di for al posto di because o since.

Uno dei punti che mi ha creato maggiore difficoltà è stato il titolo del romanzo, The Dollmaker. Esso, infatti, rappresenta un lexical gap: in italiano non esiste un traducente unico che gli corrisponda alla perfezione, pertanto ho dovuto ricorrere a una perifrasi che in qualche modo disambiguasse il termine dollmaker e, nel contempo, avesse anche un sapore familiare per il lettore italiano. Per questa ragione ho optato per “La donna che intagliava le bambole,” poiché non solo specifica che la protagonista è una vera e propria artista del legno, ma ricorda anche la traduzione del titolo di un noto film americano “The Horse Whisperer,” per la cui resa in italiano si sono trovati di fronte a un problema simile:

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96 non avendo un traducente adeguato, hanno optato per la perifrasi “L’uomo che sussurrava ai cavalli.”

Nel testo troviamo molti altri lexical gap, uno dei quali è, per esempio, l’appellativo derogatorio usato per indicare tutti gli emigrati dagli Appalachi, hillbilly (211): in questo caso esistono dei traducenti singoli (per esempio “montanaro,” “buzzurro” o, addirittura “terrone”) ma nessuno di essi, secondo me, riesce ad avere lo stesso coefficiente d’intensità del termine originale. Ho provato a ricorrere a un’espressione che mettesse in evidenza il disprezzo della gente per la presunta ignoranza di queste persone, nonché la loro provenienza dalle montagne e la loro origine contadina, per cui ho optato per “bifolco montanaro.” Questo termine compare per la prima volta, nel romanzo, al capitolo 13 e, insieme a esso, un altro termine ha comportato una difficoltà simile, ossia sourballs (217): in questo caso, più che di lexical gap sarebbe il caso di parlare di cultural gap, nel senso che si tratta di un tipo particolare di caramelle in voga in America, più precisamente caramelle alla frutta (generalmente agli agrumi), di forma sferica, dure all’esterno ma con un ripieno morbido. In questo caso ho cercato la cosa più simile che abbiamo in Italia e quindi ho tradotto con “confetti alla frutta” che sono colorati e, in molti casi, hanno forma quasi sferica. Hominy (293), nel capitolo 17, è un altro esempio di cultural gap: si tratta di una sorta di polenta integrale tipica del sud degli Stati Uniti che ho tradotto semplicemente con “polenta.” Nel medesimo capitolo si parla poi di BB gun (289), altra locuzione che in italiano non ha un traducente letterale, ma che possiamo rendere con “pistola ad aria compressa.” In realtà si tratta di un tipo particolare di pistole ad aria compressa che sparano una speciale tipologia di proiettili, simili a palline, denominati, appunto, BB. Un’altra locuzione che mi ha creato difficoltà è stata “government windows” nel passo “The black alleys were all exactly alike. […], even the patterns of light on the snow from the government windows were always exactly the same, and […], for all were Merry Hill”

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97 (298, corsivo mio): all’inizio avevo pensato che l’autrice facesse riferimento a degli uffici amministrativi, ma leggendo il testo con più attenzione mi sono resa conto che, in realtà, sta parlando di abitazioni, non di uffici; per la precisione, sta descrivendo il quartiere di case popolari dove la protagonista si è persa perché non riesce a distinguere una casa dall’altra. Quindi ho preferito tradurre con “finestre di proprietà dello Stato,” anche a sottolineare il fatto che Merry Hill è un complesso residenziale concesso dal Governo agli operai delle fabbriche belliche di Detroit e alle loro famiglie.

Ho trovato anche alcuni concetti di difficile traduzione perché non sono molto comuni nella nostra cultura: portables (219), che farebbe riferimento alle portable classrooms, ossia una sorta di piccolo edificio “portatile” che veniva installato temporaneamente nel cortile di una scuola quando gli studenti erano troppi e non c’era abbastanza spazio nell’edificio principale per ospitarli tutti. Dal momento che non ho trovato un traducente adatto in alcun dizionario, ho tradotto con “aule container,” come quelle dei terremotati. Un problema simile mi si è presentato nel capitolo 17 quando si parla di ration points (288) e di cash store (301). In realtà nel testo i due concetti sono legati: il primo fa riferimento alla misura del razionamento durante la Seconda guerra mondiale; si tratta di un sistema per limitare il consumo cui si ricorre, in circostanze di emergenza e in particolare durante le guerre, per distribuire equamente le disponibilità di beni di prima necessità (per lo più generi alimentari, tessuti, scarpe e via di seguito, ma a volte anche materie prime utilizzate da più industrie, energia elettrica, carburante eccetera), quando l’offerta è insufficiente a coprire la domanda. Anche in questo caso ho fatto ricorso a una perifrasi per spiegare il concetto optando per “bollini” anziché “punti.” Quanto alla nozione di cash store, credo si tratti di un certo tipo di negozi che accettavano solo i contanti; per chiarire di cosa si sta parlando ho scelto di renderlo con “negozio che accetta solo i contanti,” poiché nel testo compare durante una discussione tra Gertie e Clovis a

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98 proposito dei contanti che lei gli ha tenuto nascosti. Potrebbe anche trattarsi di un luogo dove venivano cambiate in contanti le paghe dei lavoratori, spesso pagate con coupon o assegni, ma navigando in rete mi sono imbattuta in vari glossari sulle tipologie di negozi statunitensi, che hanno confermato la prima ipotesi. Un'altra espressione che potrebbe ricadere sempre in questa categoria del vuoto lessicale è chicken-hearted (15) per la quale abbiamo diversi traducenti come “codardo,” “vigliacco,” ma se vogliamo mantenere l’elemento animale è interessante vedere che nella nostra cultura non è il pollo l’animale che indica i codardi, bensì il “coniglio”.

Ci sono poi vari casi di localizzazione come, per esempio, tutte le unità di misura in piedi, pollici, miglia e così via, che ho provveduto a convertire nelle unità di misura comunemente usate in Italia, oppure alcuni acronimi come WACS, o Women’s Army Corps (23), che in italiano diventa “SAF” (Servizio Ausiliario Femminile).

Un passo che ho trovato particolarmente complicato si trova nel capitolo 13, quando Gertie è alle prese con il modo di parlare degli abitanti di Detroit: “[…] School seemed broken into two hard pieces, ‘skoo-oal,’ and doctor seemed almost ‘doct-tork,’ but not quite” (223). Ho cercato di attenermi alla descrizione che ne fa la protagonista (“hard sharp sounds” [223]) e ne ho ricavato qualcosa tipo “skuo-ala.” Per doct-tork invece avevo provato a cambiare in italiano con “medico di famiglia” di modo che potessi giocare sul suono di “famiglia” e trasformarlo in “fami-idja,” ma poi mi sono resa conto che il cambiamento forse non era rispondente all’operazione del testo inglese, pertanto ho tradotto con “dok-torre.”

L’autrice fa poi un uso funzionale di certi suoni o parole che in alcuni casi ho provato a mantenere. È il caso della frase del primo capitolo, “round and round in the road” (3), che ho tradotto con “girando e rigirando sul manto stradale,” per cercare, in qualche modo, di conservarne il suono. Un altro esempio di uso funzionale di un termine è

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99 l’impiego ripetuto di “strange” nei seguenti passi del primo capitolo: “the mule tried to turn away from the strange black stuff,” “[…] even on a strange road,” “terrified by the strange sound, […] and the strangeness of the woman’s way” (2 – 3, corsivo mio), che ho tradotto con “strano,” cercando di mantenere l’atmosfera di inquietudine costruita dalla scrittrice. Inoltre, “strange” è un termine polisemico e difatti, nel capitolo 13 lo ritroviamo in alcuni passi dove però sono ricorsa a due traducenti diversi: quando l’autrice parla ripetutamente di “strange outdoor clothing” (212, 214, corsivo mio) ho continuato a usare “strano” perché si capisce dal testo che Gertie, abituata al clima più clemente del Kentucky, ritiene bizzarro questo nuovo tipo di vestiario, al quale non è abituata. Quando però Arnow parla di “strange school” (212, 223, corsivo mio) mi sembrava azzardato mantenere il traducente “strano,” dal momento che Gertie non ha ancora visto la suddetta scuola e ho pensato che stavolta intendesse utilizzare il termine col significato di “sconosciuto, estraneo,” pertanto ho tradotto con l’aggettivo “nuova.”

Nel testo è evidente anche l’uso funzionale di “adjust” presente in varie costruzioni, sia come verbo che come sostantivo, “adjustment”: “They’ll be all right. [...] They will […] adjust. This school has many children from many places, but in the end they all – most – adjust, and so will yours” (228, corsivo mio), oppure in: “My other talented one has adjusted – perfectly. […] He has adjusted – cartoons of the teacher – perfect adjustment […]” (229, corsivo mio). Anche questo lemma è polisemico perché può far riferimento al processo di adattamento a una nuova realtà ma, come mostra il testo, può riferirsi anche all’azione di aggiustare qualcosa: nel capitolo 13, infatti, si parla dell’adattamento dei bambini alla nuova realtà di Detroit ma poi, a un certo punto, l’autrice usa lo stesso termine riferendosi al direttore della scuola frequentata dai suoi ragazzi, che ha appena “aggiustato” delle macchine da cucire. Dato che l’autrice insiste su questo termine, tra l’altro con connotazione negativa, l’ho tradotto con “adattare” e ho provato a mantenerlo

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100 anche quando dice: “[…]But somehow, from the look of him, she thought he had fixed it. No, the other word – adjusted” (229, corsivo mio).

Ci sono poi molti riferimenti intertestuali dalla Bibbia di Re Giacomo da cui Gertie legge vari passi ai figli come, per esempio, nel terzo capitolo del romanzo in cui troviamo:

One generation passeth away, and another generation cometh: but the earth bidet for ever…. All the rivers run into the sea; yet the sea is not full; unto the place from whence the rivers come, thither they return again…. The thing that hath been, it is that which shall be; and that which is done is that which shall be done; and there is no new thing under the sun (41).

Ho voluto citare questo passo di Ecclesiaste in particolare perché, secondo me, è rilevante in funzione della filosofia di vita di Gertie e del prosieguo della storia. Un altro passo (sempre di Ecclesiaste) che cita è: “For man also knoweth not his time: as the fishes that are taken in an evil net, and as the birds that are caught in the snare; so are the sons of men” (43, corsivo mio); questo passo è interessante da un punto di vista traduttivo perché qualche riga dopo, la protagonista lo riprende e parla di “evil-net time” (44, corsivo mio), pertanto ho dovuto mantenere la stessa traduzione “rete fatale.”

Ritroviamo un’altra citazione intertestuale nel capitolo 17, quando Cassie, parlando

con l’amica immaginaria Callie Lou, cita Chicken Little1, personaggio dei cartoni animati e

dei fumetti Disney, ispirato a una fiaba nota nel mondo anglosassone (Chicken Little appunto, o Henny Penny), dove il protagonista è un pulcino che crede che il cielo stia per cadere e si precipita nel pollaio per avvisare tutti i suoi amici. Nonostante qualche anno fa sia uscita una nuova versione dello stesso cartone animato targato Disney anche nelle sale italiane, ho preferito mantenere il titolo della versione italiana della fiaba, ossia “Lolò

Yo-Yo,2” perché TD è ambientato negli anni del secondo conflitto mondiale.

1

Chicken Little fece il suo esordio nel mondo dell'animazione il 17 dicembre del 1943 quando venne distribuito nelle sale statunitensi l'omonimo special animato, diretto da Clyde Geronimi.

2

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101 L’autrice utilizza alcuni termini che, almeno in italiano, appartengono a un campo semantico diverso rispetto ai concetti a cui si riferiscono: per esempio, nel primo capitolo ho trovato la frase “The car stopped in a wash of light from a broad window” (24, corsivo mio), e il sostantivo wash non mi fa pensare alla luce, ma all’acqua. In un primo momento avevo optato per “cono di luce,” ma in questo caso si sarebbe trattato di una sorta di sottotraduzione poiché il coefficiente d’intensità di “cono di luce” è più basso rispetto a quello di a wash of light. Dopo varie riflessioni ho deciso di sostituire “cono” con “fiotto” e dato che volevo mantenere, in qualche modo, il campo semantico dell’acqua presente nel testo originale ho tradotto con “L’auto si fermò nel fiotto di luce di un’ampia vetrina.” Avevo anche pensato di sostituire il sostantivo con un verbo ottenendo, in tal modo, la frase “l’auto si fermò e fu bagnata dalla luce […]” ma poi ho preferito “economizzare” mantenendo lo stesso numero di parole del testo originale.

Nel capitolo 13 troviamo altri due esempi quando si parla di “stream of children” (219, corsivo mio), o quando Arnow scrive “The sea swallowed him, […]” (219, corsivo mio). Nel primo caso ho tradotto con “la fiumana di bambini” perché in italiano mi sembrava più appropriato di “corrente” o “flusso,” mentre nel secondo caso ho optato per “la marea umana lo inghiottì,” che è una locuzione più usata in riferimento a una grande folla rispetto a “il mare.”

Una delle difficoltà maggiori che ho incontrato è stata la traduzione dei due verbi whittle e carve; entrambi infatti hanno il significato di “intagliare il legno,” solo che whittle ha anche altri significati, come per esempio “tagliuzzare,” il che fa pensare a un lavoro più grossolano rispetto all’intaglio. L’autrice poi li usa entrambi con uno scopo preciso: whittle è il verbo utilizzato da Gertie per far riferimento al suo lavoro, difatti la donna non ha una grande autostima e non lo considera arte, mentre carve è il verbo che in città viene usato per indicare i suoi manufatti: i nuovi concittadini, infatti, considerano i suoi prodotti delle

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102 vere e proprie opere d’arte e, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, cominciano a commissionarle dei lavori d’intaglio. Arnow, a mio avviso, usa due verbi distinti proprio per sottolineare il fatto che la protagonista si sottovaluta mentre gli altri, invece, la considerano un’artista. Gertie spesso ripete nel corso del romanzo il concetto di “whittlen foolishness3” (19, 38, 227, 285 – 86), riferito alla sua arte: un concetto significativo per comprendere il personaggio. Inoltre, in certi passi, è evidente che quando gli altri utilizzano il verbo carve lei non ne coglie subito il significato, e la stessa cosa avviene anche al contrario, ossia quando lei usa il verbo whittle neanche i nuovi concittadini riescono ad afferrare immediatamente il senso della frase, per esempio nel passo presente nel capitolo 13, quando Gertie parla con l’insegnante di arte nella scuola dei figli e lui le chiede: “Oh, you carve?” e lei risponde: “Carve? Oh, you mean whittle […]” (227, corsivo mio). Oppure quando, nel capitolo 17, la figlia dei vicini le domanda dove ha comprato una gallina di legno, e Gertie replica: “I whittled it.” “Whittled?” “Yes, you took a knife an cut it out a wood” (284, corsivo mio). Partendo dal presupposto che a Detroit si parli un inglese più standard rispetto a quello degli appalachiani, ho tradotto carve con “intagliare,” anche perché, come già detto, loro considerano i prodotti in legno di Gertie dei veri e propri capolavori. Il problema per me è stato tradurre whittle; in un primo momento, avevo usato il traducente “tagliuzzare” dato che la donna non si rende conto di essere un’artista e che comunque si esprime nel dialetto montanaro. Tuttavia, in italiano il verbo “tagliuzzare” non fa pensare al legno, ma alla carta e poi significa “tagliare in pezzetti minuscoli, trinciare,” pertanto ho dovuto rivedere le mie scelte. Ho cercato i sinonimi di “intagliare,” ma non c’è una vasta scelta: alcuni sono decisamente troppo tecnici altri, troppo neutri. Alla fine, ho optato per “scarpellare,” la versione popolare di “scalpellare,” usato nel contesto della lavorazione della pietra e del legno. È anche vero però, che la nostra protagonista lavora il legno con un coltellino e non con uno scalpello, ma siccome il

3

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103 dialetto appalachiano, come vedremo in seguito, fa molto spesso ricorso a termini arcaici, desueti, e che i Nevels sono considerati dei contadini ignoranti dagli abitanti di Detroit, non sarebbe stato strano per Gertie utilizzare, anche se non proprio in maniera pertinente, un termine antico come “scarpellare.” Inoltre è abbastanza diverso da “intagliare” perché possano insorgere delle incomprensioni tra chi usa l’uno o l’altro verbo come nel caso dei passi sopracitati.

7.1 Il dialetto appalachiano

Cercare di tradurre il dialetto della regione degli Appalachi non è stato facile: dal romanzo si evince che secondo i cittadini di Detroit si tratterebbe di una lingua sgrammaticata, piena di errori, che utilizza termini poco comuni. In realtà non è così: da anni molti linguisti affermano infatti che si tratta di una lingua le cui origini risalirebbero addirittura all’inglese elisabettiano4. In proposito, ritengo utile dedicare un paragrafo a parte a questa tematica così da poter giustificare le mie scelte.

L’idioma dei monti Appalachi è stato definito in molti modi, per lo più alquanto denigratori. Le persone istruite, generalmente, pensano che l’inglese moderno sia stato terribilmente stravolto dagli abitanti delle montagne. In realtà, questo è del tutto falso. La lingua parlata nella regione degli Appalachi, più che stravolta dovrebbe essere classificata

come “arcaica5”. Molte delle espressioni usate nella regione, infatti, si possono ritrovare in

moltissime opere dei più grandi autori britannici quali, per esempio, Chaucer, Shakespeare,

e perfino nella Bibbia di re Giacomo6.

4

Cfr. Dial, Wylene P., “The Dialect of The Appalachian People”, West Virginia History Journal, 30, 2, Jan. 1969, p. 463.

5

Ivi.

6

Per fare un esempio, “afeared,” termine che compare molte volte in TD, si trova anche ne “La Tempesta” di Shakespeare (“Be not afeard; the isle is full of noises. Sounds, and sweet airs, that give delight and hurt not. […]); “nigh” si può ritrovare nella bibbia di Re Giacomo (This people draweth nigh unto me with their mouth, and honoureth me with their lips; but their heart is far from me. MATTEO 15:8), e così via.

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104 Il dialetto appalachiano è certamente arcaico, ma il periodo storico che rappresenta si può circoscrivere al regno della regina Elisabetta I: si tratta, infatti, di una sorta di

inglese elisabettiano dal sapore scozzese7. Ma questo non dovrebbe stupire più di tanto

dato che i primi a colonizzare quest’area furono i cosiddetti Scotch-Irish (ascendenti dell’Irlanda del Nord), insieme a un gruppo ristretto di tedeschi palatini. Tuttavia i tedeschi non hanno avuto una grande influenza sulla lingua del luogo. La ragione per cui queste persone parlano ancora nel modo in cui i coloni scozzesi, inglesi e tedeschi (e pure qualche irlandese e gallese) facevano quando si sistemarono nella regione degli Appalachi, è dovuta al fatto che per generazioni essi sono rimasti tagliati fuori dal resto degli Stati Uniti proprio a causa delle colline e delle montagne, pertanto hanno mantenuto le forme più

antiche della lingua che erano cadute in disuso ormai da tanto tempo nel resto del Paese8.

Robert Hendrickson sostiene che, in realtà, né gli appalachiani moderni né i loro antenati parlano o parlavano il vero inglese elisabettiano, dato che la regina Elisabetta era morta da quasi due secoli quando i primi coloni si trasferirono. Malgrado ciò, Hendrickson

fa propria l’affermazione del celebre linguista Mario Pei9, affermando che: “The speech of

the Ozarks comes closer in many respects to Elizabethan English than does the present speech of London” e “is closer to that seventeenth-century speech than any present-day English dialect10.

7

“Pooch”, variante scozzese di “pouch” (in uso nel 1600); “hoove” è l’antichissimo participio passato del verbo “to heave” (dal 1600); “ingems” deriva dalla parola dialettale scozzese “inguns”. Questi sono solo alcuni esempi.

8

Cfr. Dial, Wylene P., op. cit., p. 464.

9

Mario Andrew Pei (Roma, 16 febbraio 1901 – New Jersey, 2 marzo 1978) è stato

un linguista statunitense di origini italiane, considerato uno dei maggiori poliglotti del XX secolo. Tra le opere maggiori pubblicate nel periodo in cui era professore di filologia romanza alla Columbia University da citare The Story of Language (1949) e The Story of English (1952, revisionata col titolo The Story of the

English Language nel 1967), quest'ultima considerata una delle maggiori opere sulla storia della lingua

inglese. Ha scritto l'articolo "Language" e altri articoli di linguistica per l'enciclopedia americana in 22 volumi World Book Encyclopedia.

10

Hendrickson, Robert, “Mountain Range – A Dictionary of Expressions from Appalachia to the Ozarks,”New York, Facts on File, Inc., 1997, p. iii.

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105 Molte parole ed espressioni hillbilly (un americanismo che risale all’inizio del

1904),11 per molto tempo considerate poco ortodosse, in realtà discendono direttamente

dall’antico inglese. Per esempio, tetchy, non è la cattiva pronuncia di touchy, come molti pensano, poiché la parola, che significa “irritabile,” “stizzoso” o “irascibile,” non ha nulla a che vedere con touch, ma deriva dal Middle English tecche, “cattiva abitudine,” che a sua volta deriva dal francese antico teche, “imperfezione,” “difetto.” Un altro esempio è l’espressione you-uns che invece può essere fatta risalire a ye ones dell’epoca di Chaucer, e la seconda persona collettiva you-together qualche volta si può ancora sentire nel dialetto dell’East Anglia e, magari, si potrebbe tradurre con “voialtri.”

Una caratteristica molto diffusa nel dialetto degli Appalachi e dunque anche in TD è l’aggiunta di una a davanti al participio presente, come in frasi tipo I’m a-talken oppure in I’m a-comen. Anche questa pratica affonda le sue radici in un lontano passato, poiché deriva dal prefisso dell’antico inglese “on” che precedeva l’infinito, come in onhuntan (= a-huntin’). Shakespeare usò a in quello stesso modo nell’Amleto quando scrisse: “Now

might I do it pat, now he is a-praying.12” Questa particolarità non è però rimasta

circoscritta all’area appalachiana poiché, per esempio, ha un uso molto frequente in alcune canzoni di Bob Dylan (originario del Minnesota, Midwest), fra le quali “The Times They Are A-changing,” probabilmente grazie all’influenza delle antiche ballate conservate e trasmesse oralmente e raccolte e studiate dagli anni Trenta in poi.

Afeared (al posto di afraid) è una parola tipica del dialetto montano che risale al Middle English (1150-1500) e che in TD compare molto spesso, per esempio in “Don’t be afeared, Dock. They’ll stop. […]” (3, corsivo mio). Una parola come such invece è diventata sich sugli Appalachi, come leggiamo in “They wouldn’t git two frum sich a little place” (46, corsivo mio).

11

Cfr. Ibidem, p.iv.

12

(12)

106 Per quel che ho potuto notare leggendo il romanzo, un gran numero di verbi assumono forme irregolari nella parlata montanara. Per fare qualche esempio, tuck diventa il passato di take, kilt di kill, rid sostituisce rode, heared è il passato di hear, mentre brung è quello di bring. Inoltre, nel dialetto, il verbo allow (o low nella forma abbreviata) prende il significato di “pensare,” “credere,” “supporre,” invece che di “permettere.”

Inoltre ho trovato l’uso particolare del pronome plurale them al posto di those in frasi tipo “Bring them books over here.” Una frase così al giorno d’oggi sarebbe considerata sbagliata, ma nel 1500 era corretta. Oggigiorno, tuttavia, è un’espressione gergale, molto colloquiale, che esiste anche fuori dai monti. Ho notato, poi, che non fanno molta distinzione tra l’uso di were e was: infatti è molto comune trovare espressioni quali you was, they was e via dicendo, ma anche they al posto di there in espressioni tipo they warn’t, col significato di there wasn’t.

Fra gli altri usi particolari della lingua vorrei sottolineare acrost usato al posto di across, allus al posto di always, atter invece di after, onct per once. Tra le altre parole ed espressioni molto arcaiche usate spiccano: afore per before; mess col senso di “grossa porzione;” mighty al posto di very; nigh col significato di nearly, near; plum come sinonimo di mighty; oppure i verbi recollect e disremember (che rispettivamente stanno per remember e per forget); l’espressione a heap of intesa come a large amount of e, per finire, il termine diddle che nel dialetto appalachiano significa “pulcino” o “anatroccolo” ma che spesso è anche usato come richiamo per questi animali e fa riferimento al verso che emettono. Si potrebbe tradurre con “pio, pio, pio.”

Poi ci sono molte parole che sono scritte nel modo in cui si pronunciano, per esempio borry per borrow, stid per instead, ud per would, ull per will ma anche youngen che sta per young one e che col tempo ha preso il significato di child.

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107 Per la traduzione, dunque, ho dovuto tener conto del fatto che si tratta di un dialetto nato da un inglese antico, ma anche del fatto che gli americani contemporanei lo considerano una lingua parlata da persone poco istruite. Dato che Gertie Nevels è una donna che, per sua stessa ammissione (nonché per quella dell’autrice) è incapace di esprimersi correttamente, ho privilegiato l’aspetto sgrammaticato della lingua, ricorrendo talvolta a errori grammaticali o lessicali (per esempio “gnente” al posto di “niente”); all’uso della seconda persona singolare anche nelle forme di cortesia e ho favorito l’uso dell’indicativo laddove sarebbe stato più giusto usare il congiuntivo.

Per lasciare una patina antica ho invece optato per l’elisione di alcuni articoli, di alcune congiunzioni, della negazione “non” e così via; ho utilizzato il troncamento di certe parole, in particolare dell’infinito dei verbi (“fa’” al posto di “fare;” “prega’” al posto di “pregare,” e via dicendo), o della prima persona plurale del presente indicativo (“abbiam,” “facciam”).

Per finire, ho tradotto alcune parole arcaiche con termini desueti, poco usati nell’italiano standard moderno: per esempio, youngen è diventato “creatura;” al posto del participio passato “visto” ho usato “veduto;” recollect l’ho tradotto con “rammentare” e ho usato “addietro” al posto di “fa;” “prendere” è diventato “pigliare” e, come abbiamo già visto in precedenza, ho usato “scarpellare” al posto di “scalpellare.”

I capitoli 13 e 17 sono stati particolarmente problematici da tradurre poiché, come abbiamo visto, i nostri protagonisti vivono ora in un quartiere di Detroit, e lì le persone provengono dai posti più disparati: Polonia, India, Italia, Giappone e così via. Pertanto l’inglese che parlano è diverso da quello dei Nevels, ma non è nemmeno un inglese standard. In questo caso mi sono limitata a tradurre con un registro colloquiale e, quando si trattava di bambini, per differenziare la loro parlata da quella dei figli di Gertie, ho pensato che, in alcuni casi, avrei potuto farli parlare a raffica, ovvero senza mettere spazi tra una

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108 parola e l’altra. Per gli insegnanti dei figli di Gertie ho invece mantenuto un linguaggio standard.

Per concludere, la traduzione di TD è stata un lavoro molto impegnativo, ma proprio per questo stimolante: cercare di rendere in italiano il dialetto dei protagonisti è stato infatti molto difficile però, nel contempo, mi ha appassionato tantissimo.

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