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CAPITOLO III EUTANASIA E CODICE PENALE

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CAPITOLO III

EUTANASIA E CODICE PENALE

SOMMARIO: 1. Il rigore del codice penale italiano. - 1.1. L’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.). - 1.2.

L’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.). - 2. Proposte de iure condito. - 2.1. Il consenso della vittima. - 2.2. Il movente pietistico. - 2.3. Incapacità di intendere e volere dell’agente. - 2.4. Mancanza del dolo nell’agente. - 2.5. Scriminante dello stato di necessità. - 2.6. Scriminante dell’adempimento di un dovere. - 2.7. Scriminante tacita dei fatti socialmente adeguati. - 2.8. La grazia. - 3. Proposte de iure condendo. - 3.1. Abbassamento dei minimi di pena per il reato di omicidio. - 3.2. Pietà come circostanza attenuante dell’omicidio. - 3.3. Nuova ed autonoma fattispecie per il reato di eutanasia. - 3.4. Legalizzazione dell’eutanasia. - 4. Conclusioni. Il diritto a non soffrire e il compito del diritto.

1. Il rigore del codice penale italiano

Nel nostro ordinamento manca una disciplina specifica che prenda espressamente in considerazione l’eutanasia attiva, di conseguenza viene ricondotta nella regolamentazione delle norme generali in materia di omicidio, delineate per far fronte a fenomeni criminologici profondamene diversi. In particolare, stante la duplice modalità con cui può prendere forma l’eutanasia consensuale attiva (richiesta ad un terzo di essere uccisi; richiesta ad un terzo di essere aiutati a morire), essa richiama l’applicazione ora dell’omicidio del consenziente, ora dell’istigazione o aiuto al suicidio.

In ambedue i casi, ne deriva un quadro sanzionatorio che la dottrina, comunemente, ritiene eccessivamente rigoroso1; di qui la richiesta, a più voci, di un intervento mirato

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da parte del legislatore, affinché colmi la lacuna, contribuendo, al contempo, ad una maggior ragionevolezza dell’ordinamento.

1.1. L’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.)

La tematica coinvolge in primo luogo l’art. 579 c.p. che, delineato per la prima volta dal Codice Rocco del 1930, sanziona l’omicidio del consenziente. Nonostante non prenda espressamente in considerazione l’eutanasia, la sua configurazione non è del tutto estranea al dibattito a tal proposito intercorso tra la dottrina penalistica nel corso del XIX secolo. E’ sul finire dell’Ottocento, infatti, che si registrano alcune autorevoli prese di posizione a favore del desiderio del paziente di anteporre al bene indisponibile della vita la liberazione dalla sofferenza.

Mi riferisco, per quanto concerne l’Italia, ad Enrico Ferri, il quale, in una monografia del 1884 sull’omicidio-suicidio, elaborò una teoria sul “diritto a morire”, che può ritenersi antesignana degli attuali dibattiti sull’eutanasia, nonché del tutto rivoluzionaria a fronte dell’allora egemone brocardo cattolico dell’indisponibilità della vita2.

In particolare, per quanto riguarda la responsabilità del terzo che compie un omicidio col consenso della vittima, l’elemento cui occorre dare rilevanza, sosteneva, non è tanto il consenso medesimo, quanto piuttosto le motivazioni che hanno indotto l’uccisore a compiere l’atto. Impostato così il discorso, dunque, l’omicida non può ritenersi giuridicamente responsabile se, oltre che dal consenso della vittima, il suo

2 E. FERRI, L’omicidio-suicidio, Torino, IV ed., 1895, 19. L’autore scriveva: <<Pare a me, che il diritto

alla vita sia rinunciabile o abdicabile, per parte di colui che ne è soggetto, e che l’uomo, cioè, come ha diritto di vivere così abbia il diritto di morire>>; anche perché, argomentava, se il diritto alla vita è annullabile, in certe circostanze, ad opera dello Stato (pena capitale) e anche ad opera del privato (stato di necessità, legittima difesa), non si vede come non possa rinunciarvi lo stesso titolare.

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comportamento è stato determinato da un motivo morale e legittimo3. In tal caso, infatti, viene meno quell’animus delinquendi aut nefandi caratteristico dei reati.

La teoria del Ferri suscitò subito una forte reazione inversa, propria di un contesto storico-culturale ancora impreparato ad accogliere simili asserzioni. Era inevitabile, dunque, che proprio in quest’ultima direzione si ponesse il Codice Zanardelli del 1889, adottando una linea di estremo rigore nel tutelare la vita; riconduceva, infatti, in un’unica ed indifferenziata fattispecie tutte le ipotesi di omicidio doloso4.

Diversamente si mosse invece la giurisprudenza, la quale, sensibile alla teorizzazione del Ferri, dette spesso una lettura “distorta” della fattispecie di omicidio. Invalse, infatti, la prassi giurisprudenziale di non equiparare i casi concreti di uccisione del consenziente all’omicidio comune, ricercando a tal fine attenuanti che non di rado conducevano all’assoluzione dell’imputato.

Il legislatore del 1930 non ritenne che tale atteggiamento fosse il frutto di un diffuso sentimento sociale a favore di un accoglimento dell’eutanasia attiva, ma che semplicemente registrasse la necessità di operare una differenziazione tra due fattispecie sostanzialmente diverse, a fronte della sperequazione che, allo stato, si ingenerava. È così che, con il Codice Rocco, prende luce l’art. 579 sull’omicidio del consenziente, il quale, lungi dal rispondere ad una maggior benevolenza per il caso in cui fosse un malato terminale o afflitto da incessanti sofferenze ad invocare la propria uccisione, mirava piuttosto a ripristinare una piena tutela della vita, negando ogni legittimazione dell’eutanasia pietosa. Simili intenzioni sono chiaramente desumibili da due dati testuali. In primo luogo, notando come l’art. 579 c.p. si differenzi dalla fattispecie

3 <<E questi motivi – cioè il carattere di pericolosità o non pericolosità nell’uomo che ha compiuto

quell’azione – non cambiano di valore morale e penale a seconda che il consenso alla propria uccisione si ritenga giuridicamente valido oppure no>>. E. FERRI, op. cit., 508.

4 Si tratta dell’art. 372, il quale così recitava: <<Chiunque determini altri al suicidio o gli presta aiuto è

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dell’omicidio comune di cui all’art. 575 solo per il profilo soggettivo del consenso. Del tutto irrilevante è infatti il profilo soggettivo, ovvero le motivazioni di pietà che inducono il terzo ad uccidere il consenziente, le quali non sono prese in considerazione neppure come attenuanti, se non sulla base dell’art. 62 n. 1 c.p. che si riferisce in generale a <<motivi di particolare valore morale e sociale>>5, e sulla base dell’art. 62bis, che prevede le attenuanti generiche. In secondo luogo, dal trattamento sanzionatorio, che, nonostante sia meno rigoroso rispetto all’ipotesi ordinaria di omicidio, non può di certo considerarsi mite, essendo prevista la reclusione da sei a quindici anni.

Peraltro, l’art. 579 c.p. difficilmente può trovare applicazione in caso di uccisione per eutanasia, data la presenza di alcune circostanze che sovente accompagnano l’atto eutanasico. L’articolo in esame, infatti, delinea una serie di ipotesi in cui il consenso della vittima deve ritenersi invalido6; tra queste rientra il caso in cui il consenso sia

prestato da una <<persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità>>. Ebbene, l’aspetto interpretativo che risulta maggiormente problematico si collega alle <<condizioni di deficienza psichica>>, formula, questa, che ricorre anche in altre disposizioni penali; motivo per cui è stata elaborata una nozione unitaria di deficienza psichica, ad indicare qualunque forma di menomazione psichica, tale da ridurre le capacità volitive e di discernimento

5 Peraltro scarsamente applicata dalla giurisprudenza. Si è infatti sovente escluso che nella società potesse

rinvenirsi un incondizionato apprezzamento delle pratiche eutanasiche. Così Cass. Pen. n 7 aprile 1989, in Cass. Pen., 1991, 550.

6 Art. 579 c.p. <<Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione

da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’art. 61. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno>>.

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dell’interessato7. Da qui l’insuperabile ostacolo nell’applicare l’art. 579 c.p. alle ipotesi

di eutanasia, dal momento che il consenso proviene spesso da malati in fase terminale o in preda a sofferenze, le cui condizioni mentali potrebbero essere alterate dalla malattia o dai trattamenti farmaceutici. Al fine di delineare un maggior ambito di liceità del consenso, come alcuni hanno fatto notare, non può neppure essere invocata un’interpretazione meno rigorosa del concetto di deficienza psichica, tale da poterlo ricondurre all’infermità di mente. Infatti, il testo dell’art. 579 c.p. è inequivocabilmente chiaro nel distinguere le due nozioni; e nello stesso senso induce anche la ratio della norma penale, la quale è volta ad apprestare la massima tutela alla vita umana.

All’esito di tali considerazioni, è evidente che la maggior parte delle ipotesi di eutanasia attiva consensuale, non potendo essere ricondotte alla fattispecie di omicidio del consenziente, ricadranno nell’ambito dell’omicidio comune doloso, come disciplinato dall’art. 575 c.p., che prevede la pena della reclusione non inferiore a ventuno anni. Non solo, ma il trattamento potrebbe risultare ancora più gravoso, considerato che con ogni probabilità la fattispecie risulterà aggravata dalla premeditazione (artt. 576, comma 1, e 577, comma 1, n. 3 c.p.), nonché, in numerose ipotesi, dall’utilizzo di sostanze venefiche e dal vincolo di parentela. L’unico strumento per attenuare la pena, pur nei limiti previsti dalla legge, rimane così il giudizio discrezionale del giudice (artt. 132-133 c.p.).

7 Secondo l’esegesi più diffusa, con tale locuzione il legislatore avrebbe richiamato <<tutte le forme,

anche non morbose e clinicamente non definite, di abbassamento intellettuale, di menomazione del potere di critica, di indebolimento della funzione volitiva o affettiva, che rendono facile la suggestionabilità e diminuiscono le capacità di difesa contro l’altrui opera di coazione psicologica o suggestione>>. F. GIUNTA, op. cit., 82.

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1.2. L’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.)

Ho già avuto modo di rilevare come il Codice Rocco non preveda una fattispecie incriminatrice del suicidio, nonostante continui di certo ad essere visto come aggressione ad un bene, la vita, non solo personale ma anche e soprattutto pubblicistico; una violazione di un dovere giuridico e sociale non molto dissimile dal comune omicidio. Per questo, accanto alla nuova fattispecie di cui all’art. 579, il legislatore del 1930 ha mantenuto, nell’art. 5808, il reato di istigazione o aiuto al suicidio già delineato

dal Codice Zanardelli (art. 370), da cui si differenzia però per la descrizione più analitica della condotta tipica, per la punibilità delle ipotesi in cui dal tentato suicidio sia scaturita una lesione <<grave o gravissima>>, nonché per l’inasprimento della pena.

Viene così portata a compimento la piena tutela della vita umana, con un’incriminazione che, peraltro, differenzia, caratterizzandolo, il nostro ordinamento penale rispetto alle altre legislazioni europee9.

La fattispecie di cui all’art. 580 c.p. è ritenuta una delle più ostiche del nostro sistema penale, stante la difficoltà di comprendere quali siano state le ragioni politiche-criminali che hanno portato alla descrizione delle condotte incriminate. Il legislatore, infatti, ha

8 Art. 580 c.p. <<Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito al suicidio, ovvero ne

agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni sempre che dal tentativo derivi una lesione personale grave o gravissima>>

9 Nella Grecia classica il suicidio rientrava fra gli atti di libertà, era considerato un gesto lecito e

rispettabile a prescindere dalla motivazione che lo aveva determinato. Con Aristotele e Cicerone si assiste invece ad un’inversione di tendenza, l’atto suicida inizia ad essere percepito come offesa allo Stato; non mancavano però opinioni, come quella di Seneca, che si collocavano sull’originaria concezione ellenistica. La diatriba viene messa a tacere con l’avvento della dottrina cristiana; per tutto il Medioevo il suicidio fu additato quale crimine gravissimo, non diversamente dall’omicidio, in quanto “negazione dell’appartenenza a Dio”. Inizia così una dura repressione, con la previsione di sanzioni non solo giuridiche, ma anche religiose, mitigate solo con il diffondersi della cultura illuminista, nell’ambito della quale si viene a propagare l’idea della sua liceità e non punibilità. Simile apertura culmina poi, nell’Europa dell’Ottocento, con la depenalizzazione del suicidio, grazie all’affermazione dell’ideologia liberale. Lo Stato borghese, nel nostro Paese, non riuscendo invece a porsi in chiave pienamente laica, ha continuato a mantenere una linea rigorosa, punendo il suicidio sia consumato che tentato (così, ad esempio, l’art. 585 del Codice Albertino del 1839). M. B. MAGRO, op. cit., 180 e ss.

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adottato la tecnica di tipizzazione tipica delle fattispecie concorsuali, ancorchè, nel caso dell’articolo in esame, la cooperazione non sia volta a commettere un fatto esplicitamente elevato a reato. Dunque, delle due l’una. O il suicidio è illecito, o il suicidio è lecito e allora è la partecipazione al suicidio a non esserla. Vari sono stati dunque i tentativi di giustificare l’assenza della fattispecie incriminatrice del suicidio.

Alcuni hanno sostenuto come essa sia implicitamente tipizzata, riconducendola nell’ambito del suicidio10. In particolare, si è fatto notare come la previsione di cui

all’art. 575 c.p. si concentri sul solo effetto della condotta (<<la morte di un uomo>>), piuttosto che sulle modalità di esercizio della medesima, le quali non vengono prese in considerazione. Da qui, la possibilità di configurare quale omicidio anche quelle ipotesi in cui si abbia identità tra autore e vittima del reato. Simile ricostruzione, però, non sembra essere plausibile, ponendosi in contrasto con il principio di tassatività e il divieto di analogia in materia penale.

Secondo una diversa interpretazione, cui ho già avuto modo di accennare precedentemente, il disfavore verso il suicidio sarebbe chiaramente tangibile non solo dalla legislazione penale, ma anche dal tessuto costituzionale, ponendosi esso in netta contraddizione con i più alti doveri di solidarietà (artt. 2 e 32 Cost.). Dunque, la sua mancata previsione sarebbe da ricondurre ad una ragione di opportunità, non potendo in tal caso la sanzione svolgere la sua tipica funzione preventiva e rieducativa del reo. È stato però obiettato come il codice penale ometta altresì di configurare il tentativo di suicidio, quello sì punibile; di qui la debolezza della tesi.

10 F. MANTOVANI, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Cedam,

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La maggior parte della dottrina è incline a considerare il suicidio come “libertà di fatto”; pur contraria agli interessi pubblici, rimane tuttavia relegata nella solitudine e nella privatezza individuale, non intaccando il perseguimento della diversa morale collettiva, motivo da cui l’omessa previsione di una sanzione.

Rafforzando la propria argomentazione facendo appello all’art. 50 c.p., altri hanno invece sottolineato come, alla stregua del postulato proprio di ogni ordinamento liberale, è da considerarsi lecito tutto ciò non espressamente vietato. Ancora una volta, dunque, non si comprende quale bene venga tutelato dall’art. 580, stante la liceità dell’atto quando commesso senza l’aiuto del terzo.

Ad una più attenta analisi, però, non può sfuggire come l’art. 580 c.p. non focalizzi l’incriminazione tanto sul fatto istigato, quanto piuttosto sulla condotta istigatrice, essa sì suscettibile di disvalore giuridico, in quanto manifestazione di un’ingerenza ad opera di terzi nella libera formazione del convincimento del singolo, che ne risulta indebitamente condizionato.

La conclusione sarebbe soddisfacente e la ratio della tutela giustificata, se l’articolo in esame non affiancasse all’istigazione anche la condotta di aiuto, ovvero la cooperazione materiale e non meramente psichica, al suicidio. In questo caso, infatti, il convincimento del singolo si è già liberamente formato, e il terzo si limita a fornire i mezzi necessari affinché quest’ultimo possa concretizzare il proprio proposito. Si riapre così il quesito circa la liceità o meno del suicidio, un circolo vizioso che non sembra condurre ad una soluzione univoca. Non solo, ma tali considerazioni fanno emergere un ulteriore profilo di inadeguatezza dell’art. 580, il quale omette di differenziare due condotte sostanzialmente diverse, configurando per entrambe la medesima pena che risulta, così, sproporzionata.

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L’art. 580 c.p. comporta poi ulteriori difficoltà applicative, laddove richiede di essere distinto rispetto all’incriminazione di cui all’art. 579; operazione, questa, non di certo agevole. In altre parole, con riguardo al fenomeno eutanasico, i giudici sono chiamati ad accertare se l’atto si configuri come aiuto al suicidio ovvero omicidio del consenziente; cosa non da poco, viste le diverse conseguenze che ne derivano. Secondo la Cassazione, la linea di confine tra le due fattispecie si rinviene nel c.d. “dominio sull’azione esecutiva”11. In sostanza, occorre accertare se l’ultimo atto della catena causale sia stato

compiuto dal paziente ovvero dal medico o da un terzo. Nel primo caso, la fattispecie rientrerà nell’aiuto al suicidio, il quale potrà essere comunque aggravato dalle condizioni di infermità di mente o di deficienza psichica determinata da altra infermità o da abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti; nel secondo caso, sempreché sussistano tutti gli elementi di validità del consenso12, rientrerà invece nell’omicidio del consenziente.

2. Proposte de iure condito

Dalle sentenze italiane trapela spesso il dilemma del giudice di infliggere una pena che, in relazione a certe situazioni, viene considerata dalla coscienza propria e sociale, come esorbitante ed iniqua. Di fronte all’inerzia del legislatore, il giudice si trova solo e caricato di un’eccessiva responsabilità, anche a fronte della difficoltà di sollecitare

11 <<Si avrà omicidio del consenziente nel caso in cui colui che provoca la morte si sostituisca in pratica

all’aspirante suicida, pur se con il consenso di questi […] mentre si avrà istigazione o agevolazione al suicidio tutte le volte in cui la vittima abbia conservato il dominio della propria azione, nonostante la presenza di una condotta estranea di determinazione o di aiuto alla realizzazione del suo proposito, e lo abbia realizzato, anche materialmente, di mano propria>>, Cass. Pen., 6 febbraio 1998, in Gius. pen., 1998, 449.

12 In particolare, la giurisprudenza afferma che il consenso dell’offeso deve essere <<valido e senza

riserve, mentre sono indifferenti le forme e il modo in cui esso si esprime>>, Cass. Pen., 24 aprile 1953; ovvero <<non solo serio, manifesto, esplicito e non equivoco, ma anche perdurante sino al momento in cui il colpevole commette il fatto>>, Cass. Pen., 13 novembre 1970.

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l’intervento della Corte Costituzionale la quale, in materia penale, ha per lo più mantenuto fermo il rispetto della discrezionalità legislativa.

Sembra difficile ipotizzare che la Corte possa prevenire ad una pronuncia manipolativa. Improbabile sarebbe anche una sentenza di accoglimento, ad esempio, sull’art. 579 c.p., nel qual caso, tra l’altro, verrebbe avvalorata la più severa disciplina dell’omicidio; la pronuncia della Corte verrebbe inoltre resa in malam partem, effetto, questo, che è solita evitare in materia penale. Quanto ad una sentenza parziale di accoglimento, essa non risolverebbe il problema di fondo di contemperare il diritto alla vita con le esigenze di un processo di morte doloroso ed imminente13. Infine, sebbene da più parti criticata nel merito, sono pochi a ritenere che la disciplina in vigore pecchi di incostituzionalità.

Allo stato, i giudici hanno quindi cercato espedienti per stemperare i toni del codice penale, ricercando attenuanti o esimenti a seconda del caso. Soluzioni, queste, che trovano l’avallo di quella parte della dottrina che, ben lontana dall’auspicare un intervento legislativo sul consolidato assetto penale dei reati contro la persona, cercano nel tessuto normativo vigente soluzioni atte a mitigare l’irrogazione delle pene agli autori di gesti eutanasici.

2.1. Il consenso della vittima

Alcuni autori ritengono che, con riguardo ai casi di eutanasia pietosa, viga una presunzione assoluta di invalidità del consenso. Il consentire alla propria morte, sarebbe di per sé indice di incapacità psichica, in quanto comportamento antitetico la stessa

13 A tal proposito, si può citare il noto caso “Papini”, in occasione del quale, venne evidenziata la

difficoltà di risolvere <<il conflitto dirompente tra il diritto alla vita, comunque esso sia, e quello, altrettanto imperioso, alla morte che attende>>, Corte d’Assise Roma, 25 febbraio 1984, in Foro It, 1985, II, 492.

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natura umana, la cui propensione è piuttosto la sopravvivenza14. Inoltre, il fatto che il soggetto non porti autonomamente a compimento il proposito, ma chieda l’aiuto del terzo, sarebbe sintomo dell’insidiosa attività istigatrice di quest’ultimo, che, approfittando della debolezza della vittima, è riuscito ad estorcerne il consenso. Sicchè l’omicidio del consenziente non sarebbe meno grave di un comune omicidio15.

La dottrina prevalente, tuttavia, si mostra sensibile alla situazione concreta in cui versa il malato, e ritiene che quest’ultimo “può”, ma non necessariamente “deve”, presentare condizioni tali da inficiare il suo consenso. Da qui la proposta di quanti ritengono di ricondurre la fattispecie eutanasia nell’alveo dell’art. 579 c.p., anziché nel comune omicidio, dimostrando la validità del consenso prestato16. In questo senso si è mossa sovente la giurisprudenza, la quale, dinanzi a casi limiti, una volta accertato il motivo pietistico, ha mostrato di dar grande rilevanza al consenso della vittima, pur in assenza dei presupposti “tradizionali” del consenso17.

14 Secondo Manzini, infatti, <<E’ da presumersi che chi consente alla propria uccisione sia per ciò solo

persona alterata di mente, e quindi incapace di un normale consenso, giacché il fatto di superare la forza inibitoria del più forte degli istinti, quello della propria conservazione, fa arguire un grave squilibrio psichico>>. Tesi riportata da G. GIUSTI, L’eutanasia. Diritto di vivere – Diritto di morire, Cedam, Padova, 1982, 29.

15 Contrariamente P. CENDON, op. cit., 231, per cui <<se la capacità dovesse giudicarsi in base alla

bontà e razionalità delle scelte compiute […] non sarebbe lecito parlare in nessun caso di omicidio del consenziente, con riguardo a nessun tipo di individuo, dovendo comunque ritenersi irrazionale, di per sé, il benestare prestato a gesti come quelli del potenziale omicida>>. Non solo, ma l’autore aggiunge altresì che <<se elementi di squilibrio fossero connaturati in ogni malato terminale, qualsiasi decisione di quest’ultimo dovrebbe ritenersi viziata, o impossibile, in materia sanitaria […]>>.

16 La stessa Relazione al codice penale sembrava orientarsi in tal senso, laddove affermava che in caso di

eutanasia, qualora il giudice avesse accertato l’assenza di una deficienza psichica del malato, avrebbe applicato la fattispecie ex art. 579 c.p.. C. TRIPODINA, op. cit., 77.

17 Si pensi al caso della donna triestina strangolata dalla figlia. In particolare, la vittima era affetta da un

tumore all’anca, il quale si era sviluppato attraverso delle metastasi. La donna era quotidianamente sottoposta ad incessanti sofferenze, non era più autosufficiente, e chiedeva costantemente alla figlia di porre fine alla sua vita. I giudici ritennero che la vittima, nonostante la malattia, non avesse perso la capacità di intendere e volere e ricondussero l’ipotesi all’omicidio del consenziente. Queste le parole della Corte: <<Non integra gli estremi del reato d’omicidio comune aggravato, bensì del reato d’omicidio del consenziente, l’uccisione della propria madre colpita da affezione morbosa inguaribile, anche se non giunta allo stadio terminale, quando risulti accertato che l’infermità non ha determinato nella vittima una deficienza psichica tale da renderne invalido il consenso>>, Corte d’Assise Trieste, 2 maggio 1988, in Foro It., 1989, II, 185,

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Alla luce di tale stato di cose, è stata evidenziata l’opportunità, ferma una disposizione che assicuri la capacità del soggetto che acconsente alla propria uccisione, di sostituire il riferimento all’infermità di mente e alla deficienza psichica con una formula che venga ad indicare, piuttosto, la funzione che tale requisito è chiamato a svolgere nella fattispecie18.

2.2. Il movente pietistico

Da parte di altri è intervenuta la proposta di dare maggior rilievo al movente pietistico che spinge il terzo all’uccisione, aprendo così la strada all’applicazione dell’attenuante generica dei motivi di particolare valore morale e sociale prevista dall’art. 62 c.p.. Argomentano in senso opposto quanti, invece, ritengono che proprio i legami di affetto, con particolare riguardo ai casi in cui siano i familiari a compiere il gesto eutanasico, non dovrebbero mai indurre ad uccidere un proprio caro19.

L’applicazione di simile attenuante, tuttavia, è subordinata all’accertamento di una diffusa approvazione sociale atta a mitigare l’antisocialità del fatto criminoso. Approvazione diffusa che sovente la giurisprudenza ha ritenuto di non ravvisare, escludendo così l’efficacia dei motivi di particolare valore morale e sociale al fine di addivenire ad un’irrogazione meno severa della pena20.

Rilavante è pure il caso “Papini”, il quale uccise il nipote diciottenne idrocefalo e dunque assolutamente incapace di esprimere un consenso alla propria morte. Tuttavia la Cassazione ravvisò il reato di cui all’art. 579 c.p., ritenendo di poter implicitamente desumere il consenso da alcune affermazioni rese in vita dal ragazzo e dai <<pregressi rapporti di natura affettiva ed educativa fra la vittima e l’autore del reato>>, Corte d’Assise Roma, 25 febbraio 1984, cit., 489.

18 Si eviterebbe così di <<riproporre nozioni psichiatriche destinate a possibili ulteriori rivoluzioni scientifiche>>, F.

GIUNTA, op. cit., 121.

19 A. CASSIANO, L’eutanasia, in Rivista penale, 1952, 358.

20 <<L’eutanasia infrange il nesso di proporzione […] in quanto pone a confronto due opposte esigenze, entrambe

apprezzabili, quella di lenire le sofferenze altrui e quella di rispettare la vita umana, postulando un giudizio di valore che, secondo la morale e il costume, non può che dare la prevalenza al rispetto della vita umana>>, Corte d’Assise Catania, 24 ottobre 1977, in Giurispr. di merito, 1978, II, 1210 e ss.. La circostanza in esame è ispirata

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2.3. Incapacità di intendere e volere dell’agente

Alcuni autori hanno sostenuto la non punibilità dell’autore dell’atto eutanasico, ritenendo ravvisabile un profilo di incapacità di intendere e volere, considerato il particolare stato emozionale e passionale in cui versava21.

A fronte dell’art. 90 c.p., che esclude gli stati emotivi e passionali dall’essere cause di non punibilità, i fautori della proposta in discorso, hanno ritenuto che le norme generali di cui all’art. 42 c.p., in base al quale <<Nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà>>, e di cui all’art. 85 c.p., il quale pone quale condizione della punibilità la capacità di intendere e volere, debbano considerarsi superiori e prevalenti rispetto al primo. Pertanto, gli stati emotivi o passionali a seconda dei casi concreti, possono acquistare rilevanza al fine di escludere o diminuire l’imputabilità, se il risulta che integrano una forma clinica di alterazione mentale. In tali ipotesi saranno applicabili l’art. 88 c.p. (vizio totale di mente) o l’art. 89 c.p. (vizio parziale di mente).

2.4. Mancanza del dolo nell’agente

Tra le varie argomentazioni riscontrabili, non è mancata quella secondo la quale, in caso di eutanasia pietosa, non si configura il dolo dell’agente, in quanto, spinto dal movente pietistico, egli non avrebbe coscienza dell’antigiuridicità della sua azione22.

esclusivamente a motivi altruistici che <<devono corrispondere a finalità, principi, criteri i quali ricevano l’incondizionata approvazione della società>>, laddove in tema di eutanasia <<proprio le discussioni tuttora esistenti sulla sua con divisibilità sono sintomatiche della mancanza di un generale suo attuale apprezzamento positivo, risultando anzi larghe fasce di contrasto nella società italiana contemporanea>>, Cass., 7 aprile 1989, Billo, in Giust. pen., 1990, II, 460 e ss..

21 M. ADAMO, L’eutanasia nei suoi riflessi giuridici e medico legali, in Corti di Bari, Lecce, Potenza,

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Dottrina e giurisprudenza23 hanno però sottolineato l’erroneità di tale posizione, dal momento che il concetto di dolo ricavabile dal codice penale è legato all’intenzione e alla volontà dell’agente, mentre non si fa cenno alcuno alla mancata percezione dell’antigiuridicità dell’azione. Anche perché è inequivocabile il brocardo “ignorantia

legis non excusat”.

2.5. Scriminante dello stato di necessità

In base al disposto dell’art. 54 c.p. <<Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo>>. Ebbene, la scriminante dello stato di necessità può ravvisarsi anche nei casi di eutanasia, dal momento che l’autore dell’uccisione pietosa salva il malato dal dolore e dall’agonia derivanti dalla patologia, ovvero imminenti alla stessa24.

Nonostante l’evidente forzatura, anche a voler ammettere una sua possibile applicazione, è lo stesso art. 54 c.p. che, nel porre quale condizione la proporzionalità tra rimedio e male minacciato, suggerisce la sua scarsa utilizzabilità a fronte di casi eutanasici. Infatti, in giurisprudenza, non è mancata l’occasione per affermare che <<la cosiddetta eutanasia, quale esigenza di porre termine alle altrui sofferenze con la morte, […] infrange il nesso di proporzione e di adeguatezza con la primaria esigenza di rispetto della vita umana, dinanzi alla quale si pone in posizione subalterna>>25.

22 Argomento discusso criticamente da A. CASSIANO, op.cit., 363 ss. 23 Cassazione, 18 novembre 1954, in Foro It., 1955, II, 151 ss.

24 F. GRISPIGNI, Il consenso dell’offeso, Anthenaeum, Roma, 1924, 445 e ss. 25 Corte d’Assise Verona, 5 febbraio 1988, Billo, cit..

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2.6. Scriminante dell’adempimento di un dovere

Pacificamente ammessa nel caso di eutanasia passiva ed indiretta, tale scriminante è stata suggerita anche con riguardo alla forma attiva. Il dovere del medico si configurerebbe in quanto egli dovrebbe farsi carico della sofferenza psichica del paziente terminale, motivo per cui non potrebbe sottrarsi alla sua richiesta di morte, sia procurandogli i mezzi per cagionarsela, sia procurandogliela direttamente.

In particolare, si fa appello all’evoluzione del concetto di salute, che ha subito mutamenti radicali, trovando un suo primo punto di arrivo negli anni Novanta, allorché la dimensione psichica del malato e della malattia è diventata un aspetto imprescindibile. Tale dato, unitamente all’ampio riconoscimento all’autodeterminazione del paziente, nonché alla trasformazione del rapporto col medico in termini di “alleanza terapeutica”, farebbe emergere un vero e proprio diritto a capo del paziente a ricevere trattamenti non solo per la sua salute fisica, ma anche, appunto, per quella psichica. Il ruolo del medico è mutato: da un lato il suo intervento si è esteso, ma, dall’altro, si è al contempo ristretto dato che egli non può prescindere dal prendere in considerazione “il vissuto del paziente e quindi dalle sue richieste”. Di fronte alla collisione tra la necessità di adempiere ad un dovere e l’incriminazione di cui agli artt. 579 o 580 c.p., l’unica soluzione appare essere la non punibilità del medico, il quale non può sottrarsi dall’attuare il mandato professionale26.

Il che sembra però non trovare riscontro nel codice di deontologia medica del 2006, il quale, se da un lato afferma che <<Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell'Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e

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della dignità della persona umana […]>>; dall’altro prende espressa presa di posizione riguardo all’eutanasia, laddove, all’art. 17 prevede che <<Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte>>.

2.7. Scriminante tacita dei fatti socialmente adeguati

Il tema della scriminante tacita o non codificata, è particolarmente dibattuto in dottrina. In particolare, ci si interroga sulla possibilità di creare nuove ipotesi scriminanti prescindendo da un’esplicita previsione legislativa, rievocando la teoria, di matrice tedesca, dell’ “azione socialmente adeguata”. Secondo quest’ultima impostazione, una condotta, sebbene apparentemente punibile, non rivestirebbe rilevanza penale nella misura in cui venga considerata socialmente adeguata, ovvero conforme alle finalità sociali perseguite da una determinata comunità. Si afferma, infatti, che anche il diritto penale debba essere in parte elastico, al fine di consentire un suo adattamento all’evoluzione del costume e della coscienza sociale27.

2.8. La grazia

Alcuni autori, infine, hanno ritenuto che l’unica via praticabile de iure condito sia l’istituto della grazia (art. 174 c.p.), da concedere all’omicida dopo la condanna.

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Essa risulterebbe infatti idonea a salvaguardare il principio della tutela della vita e la funzione dell’ordinamento giuridico, dando al contempo rilevanza ai particolari motivi del fatto28.

Simile proposta non è certo stata esente da critiche; si è diffusamente evidenziato, infatti, che a prescindere dall’an e il quando della sua concessione, la grazia rischierebbe di determinare, stante la sua natura di provvedimento individuale, inaccettabili discriminazioni soggettive, evitando il problema senza però affrontarlo e risolverlo29.

3. Proposte de iure condendo

Altra parte della dottrina ritiene che non si possa adeguatamente fronteggiare il problema nelle maglie dell’attuale normativa penale. Ritengono necessaria una consapevole presa di posizione da parte del legislatore, un intervento mirato a dettare un’adeguata disciplina per il fenomeno eutanasico, fornendo ai giudici chiare indicazioni atte ad orientare la soluzione e l’irrogazione delle pene. A tal fine, vengono proposte, de iure condendo, alcune soluzioni di riforma.

3.1.

Abbassamento dei minimi di pena per il reato di omicidio

De iure condendo, una proposta meno radicale, ad opera di quanti non ritengono che

l’eutanasia, per i motivi pietistici cui si accompagna, sia di per ciò priva di disvalore giuridico, stante l’assolutezza del bene vita, è quella di operare un abbassamento dei

28 M. PORZIO, L’eutanasia, in Enciclopedia del diritto, vol. XV, Giuffrè, Milano 1967, 113.

29 Così F. MANTOVANI, Eutanasia, in Dig. disc. pen., cit., 430; S. SEMINARA, Riflessioni in tema di

suicidio e di eutanasia, in Riv. it. proc. pen,, 1995, 715; F: GIUNTA, op. cit., 121-122; R. ROMBOLI, op. cit.,308.

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minimi di pena per il reato di omicidio, con una contestuale modifica della sospensione condizionale della pena.

In questo modo, verrebbe salvaguardata la tutela della vita umana e, lungi dall’ammettere alcuna legalizzazione del fenomeno eutanasico, questo continuerebbe ad essere relegato nella sfera dell’illiceità30, garantendo la funzione generalpreventiva. Ciò

consentirebbe al contempo si addivenire a soluzioni giudiziarie più eque.

3.2. Pietà come circostanza attenuante dell’omicidio

Lo stesso risultato di cui sopra, nel senso della salvaguardia della tutela umana, unitamente all’irrogazione di pene più proporzionate, si potrebbe conseguire, secondo altri, con una riduzione fino ad un terzo della pena del reato di omicidio, con la previsione di una specifica attenuante data dai motivi di pietà31.

Alcuni autori hanno però rilevato come, regolando l’eutanasia solo attraverso un’attenuante per il motivo pietoso, si configurerebbe un ulteriore problema quanto al suo ambito di applicazione. Ci chiede, in particolare, se sia sufficiente la previsione di un generico motivo pietoso, ovvero sia necessario delineare criteri oggettivi per circoscrivere quali debbano essere le condizioni della vittima e le modalità del fatto32.

In questa seconda direzione si poneva il c.d. Progetto Pagliaro (“Schema di delega per l’emanazione di un nuovo codice penale”, 1992) che, rivelando di optare per

30 Con l’abbassamento dei minimi di pena per il reato di omicidio si impedirebbe <<che con qualsiasi

deroga si aprano spaventose falle, sulla china delle quali si rischierebbe, poi, di scivolare verso mostruose realtà>>, F. MANTOVANI, Eutanasia, in Dig. disc. pen., cit., 430.

31 F. LUPONE, Riflessioni sull’omicidio pietatis causa, in Arch. pen., 1975, 65.

32 F. MANTOVANI, Eutanasia, cit., 423, in particolare, ritiene necessario procedere con una

formulazione legislativa rigorosa, per evitare che categorie affini finiscano per beneficiare del trattamento più benevolo, finendo così con il provocare un’estensione “su larga scala” dell’eutanasia pietosa.

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l’adozione di una specifica attenuante del reato di omicidio, richiedeva, specificamente, che l’uccisione avvenisse con mezzi indolore e su persone afflitte da sofferenze psichiche particolarmente gravi (art. 59 nn. 1 e 3). Al contrario, è stato ritenuto più opportuno delineare in maniera più ampia la circostanza, lasciando alla discrezionalità del giudice la scelta circa la sua applicazione33.

3.3. Nuova ed autonoma fattispecie per il reato di eutanasia

In una prospettiva maggiormente incisiva si collocano quanti auspicano la previsione di una nuova e distinta fattispecie per l’atto eutanasico, che prenda in considerazione tanto le peculiarità oggettive quanto quelle soggettive del fenomeno34.

Per quanto concerne il profilo sanzionatorio, la norma incriminatrice dovrebbe prevedere l’irrogazione di pene non elevate e con un minimo edittale basso, tale da consentire al giudice di adeguare la pena in maniera più aderente al singolo caso concreto. Nei casi limite, inoltre, potrebbe consentire la sospensione condizionale della pena e l’affidamento in prova del reo35.

In questo modo si porrebbero le basi per affrontare anche tutte le nuove situazioni meritevoli di interesse, senza dover ricorrere all’analogia, ma anzi, grazie alla tipizzazione, si garantirebbe il rispetto del principio di legalità.

33 S. SEMINARA, op. cit., 717.

34 Secondo S. CANESTRARI, Relazione di sintesi. Le diverse tipologie di eutanasia: una legislazione

possibile, in S. Canestrari, G. Cimbalo, G. Pappalardo (a cura di), Eutanasia e diritto, cit., 232, la fattispecie dovrebbe contemplare i motivi di pietà e descrivere con precisione i presupposti fattuali quali, ad esempio, l’utilizzo di mezzi indolore, il grave stato di sofferenza, la prossimità della morte, etc.

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Perplessità sono invece manifestate da quanti ritengono arduo addivenire ad una descrizione analitica del fenomeno in grado di risolvere ogni incertezza applicativa e di comprendere tutte quelle situazioni altresì meritevoli di tutela36.

3.4. Legalizzazione dell’eutanasia

Parla di “legalizzazione” quella parte di dottrina che auspica un intervento innovativo del legislatore, favorevole al fenomeno eutanasico. In particolare, si tratterebbe di prenderlo in considerazione come fatto distinto dall’omicidio, riconoscendo valore giuridico all’autodeterminazione del paziente, in determinate circostanze, qualunque essa sia.

Tale proposta muove da due considerazioni di fondo. In primo luogo, fa appello al carattere laico e pluralista dello Stato, le cui leggi non devono farsi portatrici di una data concezione etica, ma devono porsi quale strumento attraverso cui coniugare le varie “anime” che convivono nella società. In secondo luogo, si sottolinea la centralità del principio personalista e l’ampio riconoscimento della libertà di autodeterminazione, che impongono di dare prevalenza alle decisioni di ciascun individuo. Eventuali limitazioni devono atteggiarsi come eccezioni, legittime solo se giustificate da ragioni che dimostrino il motivo per cui debbano ritenersi prevalenti.

È innegabile che, nella materia di cui trattasi, un interesse privato e pubblico meritevole di prioritaria tutela esiste. Il bene vita, nella misura in cui investe la sfera di terzi, non è suscettibile si soccombere arbitrariamente neppure in presenza di una libera determinazione del titolare in tal senso. Lo Stato non potrebbe mai ammettere un diffuso diritto a morire, in quanto può adempiere le funzioni costituzionali riconosciute

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solo se esistono cittadini, il venir meno dei quali non gli è dunque del tutto indifferente. Il principio personalista deve essere correttamente inteso; esso implica venga data piena tutela ad ogni persona “in quanto tale”, rispettandone il bagaglio identitario, unico e particolare, colto nel contesto sociale in cui si articola e sviluppa. Se dunque è vero che lo Stato non può anteporre qualsiasi interesse collettivo alla libertà persona di ciascuno, è anche vero, però, che i singoli non sono tutelati come monadi indipendenti e a sé stanti.

Tutto ciò per sottolineare come, la maggior parte dei fautori della legalizzazione dell’eutanasia attiva, ben consapevoli di tali premesse, non sostengono un riconoscimento del diritto a morire indiscriminato. Infatti, come riscontrabile dall’ampia letteratura in materia, l’eutanasia viene invocata per casi-limite di malati terminali o soggetti a patologie invalidanti irreversibili che comportano un’esistenza piena di sofferenza e priva di qualità. Questo serva a sciogliere i timori di chi, erroneamente intendendo il concetto “eutanasia”, identifica una sua eventuale legalizzazione come affermazione di una diffusa libertà ad una morte anticipata cui i sanitari dovrebbero sempre acconsentire.

I motivi del fraintendimento, forse, sono alimentati da quella parte di dottrina che, sostenendo la libertà del suicidio, operano una lettura costituzionalmente orientata del codice penale, addivenendo a conclusioni da cui, indirettamente, traggono le premesse per sostenere la legalizzazione dell’eutanasia.

La liceità del suicidio sarebbe desumibile dalla preminenza costituzionale della libertà di autodeterminazione quando gli effetti dell’atto dispositivo ricadono entro la sfera del singolo. Dunque, da un lato, la rilevanza costituzionale della libertà di morire non rende illegittima la disposizione di cui all’art. 580 c.p., nella parte in cui punisce

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l’istigazione al suicidio (in quanto il diritto di morire presuppone che il suicida formi autonomamente il proprio convincimento). Dall’altro lato, invece, la condotta di aiuto all’altrui suicidio non risulta compatibile con la Carta, perché la scelta di punire simile condotta si fonda sul disvalore dato dal legislatore fascista a siffatta partecipazione, frutto di una concezione paternalistica dei rapporti Stato-individuo in contrasto con la moderna secolarizzazione del diritto penale. Per questo tale dottrina auspica una depenalizzazione dell’aiuto al suicidio, da cui trarrebbe così beneficio la forma eutanasica del suicidio assistito. Dagli stessi argomenti, viene desunta la plausibilità dell’eutanasia attiva consensuale. Infatti, nella misura in cui l’art. 579 c.p. è considerato un “suicidio per mano altrui”, dalla depenalizzazione dell’aiuto al suicidio verrebbe meno la rilevanza penale anche del primo. Per quanto concerne poi la rivendicazione del diritto a morire come diritto sociale, l’eutanasia attiva consensuale dovrebbe essere consentita ai malati terminali che, per la particolarità della loro patologia, non sono in grado di darsi autonomamente alla morte, ma necessitano della collaborazione di un sanitario37.

Questa posizione non mi pare del tutto condivisibile. Una legge che renda lecita l’eutanasia, infatti, non si rivela necessaria solo per dare risposte concrete a vicende drammatiche, esonerando da responsabilità penale il terzo che abbia commesso un omicidio pietatis causa con il consenso della vittima. La sua opportunità è legata anche al fine di operare una trasposizione del fenomeno nel contesto medico, a prescindere dalla possibilità che l’interessato sia in grado di porre o meno fine alla sua vita in modo

37 F. GIUNTA, op. cit., 122 e ss.. Stesse conclusioni sono dedotte da M. B. MAGRO, op. cit.,209-210,

che ha ravvisato nell’art. 580 c.p. un profilo di incostituzionalità. Le condotte di aiuto e collegamento intellettivo, si fa notare, rientrano tra le modalità attraverso cui si esprime la libertà di associazione. Quindi, visto che l’art. 18 Cost. vieta solo l’associazione volta a commettere un fatto di reato, non è giustificabile il divieto dell’art. 580 c.p., dal momento che si riferisce ad un fatto non sanzionato penalmente.

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autonomo, in maniera tale da consentire un controllo effettivo circa la sussistenza di quelle malattie terminali e dolorose che la legittimano. Una depenalizzazione tout court dell’art. 579c.p., invece, comporterebbe la liceità di ogni omicidio del consenziente compiuto nella privatezza dell’ambito familiare, ancorché esso non venga posto in essere per liberare l’ucciso da una patologia concretamente afflittiva ed irreversibile. Se queste sono le premesse per sostenere un intervento a favore dell’eutanasia, risulta allora fondato il timore di quanti asseriscono che un’eventuale legalizzazione porterebbe ad un indebolimento del divieto di uccidere.

Se un intervento del legislatore atto a prendere in esame l’eutanasia deve essere auspicato, non credo che esso debba muoversi nel senso di una depenalizzazione di norme vigenti. Anche perché di depenalizzazione si può parlare se ed in quanto vi sia una fattispecie di reato che si ritiene non debba essere più qualificata come tale. Allo stato, invece, non abbiamo alcuna norma penale che sanzioni l’eutanasia, anzi, è proprio la mancanza di un’apposita disposizione che richiede con urgenza una presa di posizione del legislatore.

4. Conclusioni. Il diritto a non soffrire e il compito del diritto.

Come più volte sottolineato, allorché si tratti di bilanciare libertà di autodeterminazione e diritto alla salute e alla vita, nei casi in cui vengano coinvolti terzi, è necessario valutare quali siano le finalità sottese all’atto di disposizione e se esse siano o meno aderenti agli obiettivi perseguiti dallo Stato. Ebbene, dalle recenti innovazioni intervenute nell’ordinamento giuridico, credo vi siano buone ragioni per sostenere come la ponderazione dei valori in gioco, in caso di eutanasia, debba propendere a favore della richiesta di morte anticipata del malato terminale.

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Sul finire dello scorso secolo, in ambito europeo, si registra una cresciuta attenzione nei confronti di una particolare categoria di individui, i “malati terminali”. Il progresso della scienza, infatti, ha dato autonoma luce ad una fase particolarmente delicata della vita, quale il “processo di morire”, chiamando il diritto a rafforzare le garanzie a presidio dei diritti e della dignità degli individui, stante, in tale stadio, la loro particolare debolezza. L’assoluta prevalenza dell’autodeterminazione del paziente, il rafforzamento della protezione contro discriminazioni ed abusi, sono così stati oggetto di specifici provvedimenti ad opera del legislatore sovranazionale e nazionale38. Non solo, ma il

dolore ha iniziato ad essere considerato come malattia, tanto da estendere il concetto di salute, riempiendolo di un nuovo significato che, progressivamente, ha portato all’affermazione di un vero e proprio diritto a non soffrire.

Nonostante i ritardi e le lungaggini rispetto ad altri Stati europei, anche nel nostro Paese è cresciuto l’impegno per la salvaguardia della “qualità” della vita. Infatti, attenuatisi i preconcetti circa i trattamenti del dolore, il legislatore con legge n. 12 del 2001 emanava “Norme per agevolare l’impiego di farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore” e stanziava finanziamenti atti a realizzare strutture ospedaliere specificamente destinate al trattamento del dolore e al supporto dei pazienti nelle fasi terminali delle malattie inguaribili39. Contestualmente, anche quanti si oppongono ad ogni forma di eutanasia, hanno mitigato la loro posizione, manifestando il proprio consenso alle cure del dolore, nonostante talvolta le sostanze antalgiche comportino, quale effetto collaterale, un’accelerazione del processo della morte.

38 Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997, resa esecutiva in Italia con la legge di ratifica 145/2001. 39 Si veda, ad esempio, il d.l. n. 450 del 28 dicembre 1998, convertito con la legge n. 39 del 26 febbraio

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Solo di recente però, con la legge n. 38 del 2010, il diritto a non soffrire è stato ufficialmente riconosciuto quale diritto del cittadino malato, nonché obiettivo prioritario del Piano Sanitario Nazionale40. Nonostante difetti ancora di sufficiente efficienza, si

tratta di un notevole progresso, ma si peccherebbe di eccessiva presunzione se si affermasse che, con l’ingresso delle cure palliative, si sia risolto ogni problema connesso alle richieste eutanasiche. Al contrario, a me pare che proprio oggi, grazie all’emersione del diritto a non soffrire, si siano dati argomenti maggiori per sostenere la necessità di una legalizzazione dell’eutanasia consensuale attiva.

Infatti, non possiamo non considerare l’esistenza di patologie tali per cui le terapie del dolore non sono sufficienti per lenire le sofferenze del malato e salvaguardare la qualità della sua vita. Pensiamo alla sclerosi laterale amiorfica, c.d. SLA, dove la paralisi progressiva provoca la perdita crescente di ogni funzione corporea; o, ancora, al morbo di Alzhaimer, che dà luogo ad un lento deterioramento delle funzioni cerebrali con conseguente perdita di memoria, incapacità di esprimersi sensatamente, impossibilità di svolgere occupazioni lavorative e di alimentarsi in modo autonomo. Purtroppo ci sono patologie dinanzi alle quali le terapie del dolore devono ammettere la propria inadeguatezza, essendo del tutto inutili a lenire una sofferenza che non è solo fisica, ma anche e soprattutto morale, considerato come il malato avverta un progressivo venir meno della propria dignità ed umanità, riducendosi, la sua vita, a mero dato biologico. In queste particolari situazioni, non ammettere la richiesta eutanasica del

40 Nell’art. 1 comma 3, viene espressamente richiamata l’obbligatorietà, per le strutture sanitarie che

erogano terapia del dolore e cure palliative, di assicurare programmi di cura orientati sia al malato che alla famiglia, garantendo la tutela della dignità e dell’autonomia del malato, nonché della qualità della vita fino al suo termine, oltre ad un adeguato sostegno sanitario e socio-assistenziale rivolto alla famiglia. Nell’art. 3 comma 1 viene sancito che la terapia del dolore e le cure palliative sono <<obiettivi prioritari del Piano Sanitario Nazionale>>.

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malato, significa negargli quel diritto a non soffrire riconosciuto invece a quanti si trovino nella terminalità di una malattia che può fruire dei benefici delle cure palliative. Di fronte ad una vita di dolore ed irreversibilmente volta alla capitolazione, il diritto non può non riconoscere al malato di rinunciare alla tutela giuridica di essa, consentendogli di esercitare l’ultimo atto di libertà non nella solitudine della privatezza, ma in un contesto sociale, affinché la solidarietà umana lo accompagni nella dolce morte. Bisogna invertire la prospettiva da cui si guarda l’eutanasia: non un abnorme atto di disprezzo del valore della vita, ma come ultimo gesto d’amore nei confronti di essa, in linea con gli obiettivi statali di salvaguardia della qualità della vita umana, secondo quanto richiede il neo-nato diritto a non soffrire.

L’eutanasia non è un semplice “fenomeno”, ma è una vicenda umana drammatica che non tollera reticenze ad opera del legislatore. Di certo, non è materia semplice da disciplinare, ma la difficoltà in cui versa il diritto non è elemento sufficiente per relegare l’eutanasia in seno alla filosofia, alla religione, o, al massimo, alla deontologia. Con ciò mi riferisco alla posizione di quanti ritengono che il diritto non sia in grado di affrontare la tematica in discorso, per due ordini di motivi. In primo luogo, l’eutanasia contraddice la natura del diritto quale strumento volto a regolare relazioni fra soggetti che si trovano in posizione di parità; infatti, ammettendola, si riconoscerebbe la prevaricazione di un soggetto sull’altro. In altre parole, a fronte della richiesta del paziente, il medico avrebbe sempre il dovere di agire. In realtà si tratta di un ostacolo superabile, se pensiamo che già in altre circostanze, con la previsione dell’obiezione di coscienza, è stata garantita la coincidenza fra la volontà dei due soggetti interessati dal rapporto, assicurando così la relazione. In secondo luogo, si è affermato che l’eutanasia, essendo un fenomeno eccezionale, non è suscettibile di essere regolamentata mediante

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previsione legislativa, dal momento che la legge è adatta solo a disciplinare situazioni ordinarie41. Tale obiezione, però, è stata puntualmente confutata notando come <<in generale è la nostra società che è diventata e diventa sempre più una società caratterizzata da complessità>> dunque pare implausibile <<che il diritto si dichiari incapace di affrontare la sempre crescente complessità dei fenomeni sociali>>42.

41 F. D’AGOSTINO, Non è di una legge che abbiamo bisogno, in S. Semplici (a cura di), Il diritto di

morire bene, cit., 27 ss.

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