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Cosa consigliare a una donna dopo un aborto?

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Cosa consigliare a una donna dopo un aborto?

written by Redazione | 06/02/2019

Associazioni no profit, psicologi, psicoterapeuti e ginecologi a confronto per una sempre più mirata terapia del dolore materno post aborto.

“Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. […] sì c’eri.

Esistevi. Mi si è fermato il cuore”. Questo l’incipit dell’ormai celebre “Lettera a un bambino mai nato” a firma di Oriana Fallaci. Un romanzo che, per ammissione della stessa autrice, si originò da una sorta di disobbedienza. Alla giornalista infatti sembra che non fosse stata commissionata un’opera biografica, quanto una vera e propria inchiesta su di un tema caldo ora come all’epoca in cui correvano gli anni

’70. Ma se l’esperienza vissuta dalla scrittrice si annovera tra i cosiddetti aborti spontanei, vale a dire tra le morti naturali dell’embrione o del feto prima che sia in grado di sopravvivere in modo autonomo, le interruzioni di gravidanza possono essere anche di carattere volontario, oltre che terapeutico. Una casistica dunque diversa quanto a fattori motivazionali, cause scatenanti e tempi di attuazione, ma con una sorta di K costante: l’evento morte. E se la fine vita avviene proprio all’interno del grembo materno deputato, per sua natura, a proteggere e a dare nutrimento, il “corto circuito” prima o poi è destinato ad accadere. Quasi scontato dire che il principale crocevia di tutto questo è la donna che quindi inevitabilmente

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nella fase post-abortiva si troverà, in un sol colpo, a fare i conti con la sua identità più intima legata alla sessualità, nonché alla maternità e moralità. Una triade di nodi esistenziali che forse non deve far sentire nessuno così sicuro di riuscire a rispondere alla domanda: cosa consigliare a una donna dopo l’aborto? Ed infatti è con un certo “timore reverenziale”, tanto per usare un’espressione cara al vocabolario giuridico, che approcceremo la questione che affianca la vicenda aborto alla vita della donna e non solo.

Normativa in materia di maternità e I.V.G.

Forse non tutti hanno a mente che con il 22 maggio 2018 si è tagliato il

“traguardo” dei quaranta anni dall’approvazione della L. n.194 del 1978 [1] che ha reso legale l’interruzione volontaria della gravidanza con acronimo I.V.G., regolandone altresì gli svariati aspetti.

Una normativa, per certi aspetti, fortemente voluta e anche molto controversa che ha dato risposte ad alcuni slogan di piazza sul genere di “L’utero è mio e me lo gestisco io”. Ma se l’evento, di per sé, non si presta a campanilismi di carattere geografico, ben altra cosa è quando si ha che fare con la legge. Infatti se in ambito U.E. la stragrande maggioranza degli stati si è nel tempo allineata alla posizione presa dalla Finlandia che per prima [2] ha riconosciuto la legalità delle pratiche abortive, sebbene a determinate e codificate condizioni, è pur vero che ciò non è vero ovunque.

L’Irlanda ad esempio consente l’aborto solo in caso di pericolo per la vita della donna, mentre Malta ha opposto un deciso no alla legalizzazione dell’aborto.

Infatti a Malta l’I.V.G. è vietata in ogni circostanza con pene per chi trasgredisce variabili da 18 mesi a 3 anni di carcere. Ma vi è di più, se ad infrangere la legge è il medico, si può arrivare fino ai 4 anni di carcere e all’ interdizione a vita dalla professione. Il che la dice lunga sull’estrema delicatezza della materia.

I.V.G. e aborto terapeutico: una diversità d’implicazioni per la donna

Seppur entrambi volontari, c’è una differenza sostanziale tra l’interruzione volontaria della gravidanza e l’aborto cosiddetto terapeutico o I.T.G. Se infatti la prima situazione ricade esclusivamente all’interno del primo trimestre di

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gravidanza, la seconda evenienza può verificarsi anche dopo i primi 90 giorni di gravidanza e solo in presenza di patologie gravi a tal punto da poter potenzialmente causare la morte della donna o anche patologie a carico suo o del nascituro. Con queste premesse, le diverse implicazioni che l’una e l’altra situazione possono comportare per la donna sono abbastanza intuitive.

La decisione dell’aborto del primo trimestre ricade quasi esclusivamente sulla donna, anche se a tale riguardo non tutti sono poi così d’accordo, come si vedrà nei passaggi successivi, mentre la valutazione inerente all’aborto del secondo trimestre spetta agli specialisti del servizio ostetrico-ginecologico ospedaliero. Per cui i sensi di colpa e la vergogna che le donne dovranno fronteggiare nel caso dell’I.V.G. sono di una portata ben maggiore rispetto al caso dell’aborto terapeutico.

Il ruolo delle associazioni no profit e potere dell’ascolto

Stando alle confidenze raccolte dal personale che opera all’interno di associazioni no profit, sorte prevalentemente all’estero, per fornire supporto alle donne che hanno scelto di abortire, il punto di partenza è la capacità di ascoltare.

Se infatti, come dice il detto, “tutti sentono, ma solo pochi sanno davvero ascoltare”, le operatrici di queste associazioni sono la “prova provata”, per usare una terminologia giuridica, che l’ascolto può fare la differenza, squarciando quel velo di silenzio misto a solitudine che avvolge le donne intenzionate a dare la morte al figlio che portano in grembo.

“Molte di queste donne – è un’operatrice a dichiarare – vogliono parlare del bambino che hanno in grembo”. “Altre raccontano di come si prendano cura dei figli che già hanno, quasi ad assicurarsi di essere un buon genitore”. Dei veri e propri flussi di coscienza insomma che possono sgorgare prima dell’ingresso in sala operatoria o al termine della procedura abortiva, perché vale la pena rammentarlo, chi decide di ricorrere all’I.V.G. si trova spesso senza una rete di persone con cui condividere questo passaggio.

Non è poi infrequente il caso in cui la decisione a cui la donna perviene è frutto anche di pressioni operate dal compagno di vita o dal gruppo familiare di

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appartenenza. Ma il fatto che alla base ci sia un atto di volontà della donna, fa sì che la stessa sia più in difficoltà nel confrontarsi apertamente, da qui l’importanza di poter contare su persone non direttamente coinvolte nel proprio vissuto.

Dare voce al dolore con la parola scritta e parlata

Una convinta supporter che si debba dar voce all’agonia psicologica conseguente all’aborto è la psicologa e psicoterapeuta statunitense Theresa Karminski Burke, autrice insieme a David C. Reardon del libro che in italiano suonerebbe come “Il dolore proibito: il dolore indicibile dell’aborto” [3]. L’autrice è infatti dell’opinione che tanto la società, che i mezzi di comunicazione e gli stessi movimenti femminili, sottovalutino finanche ad ignorare o rifiutare il trauma spesso conseguente all’aborto. E’ sempre Burke a dichiarare in un’intervista [4] come memorie e sentimenti connessi all’aborto possano restare in uno stato d’incubazione all’interno della donna per poi esplodere anche a distanza di anni.

Non sono purtroppo infrequenti casi di stati depressivi, disturbi emotivi o comportamentali post aborto. Se a questo poi si aggiunge che l’aborto anche secondo Burke è spesso la scelta di qualche altra persona diversa dalla donna, il pressing da sostenere può davvero raggiungere livelli insostenibili di tristezza, angoscia, senso di colpa, vergogna e rabbia. Un “cocktail” davvero letale.

Il ruolo dei bimbi non nati all’interno delle

“costellazioni familiari”

Restando sulla linea delle necessità di elaborazione dell’evento, un altro approccio che induce ad una profonda riflessione è quello prospettato da Bert Hellinger, psicologo e studioso di pedagogia, nonché “ideatore” delle cosiddette

“costellazioni familiari”. Tale pratica affonda le sue radici all’interno della componente arcaica della struttura familiare. In estrema sintesi si può affermare che all’interno di qualsiasi sistema familiare esiste una sorta di coscienza del clan, per cui i torti fatti ai predecessori devono in qualche modo essere compensati dai successori in una sorta di ciclo dell’eterno ritorno. Per cui questa sorta di inconscio collettivo di tipo familistico non darà tregua fino a che non verrà dato all’escluso un posto e una memoria affettiva nel cuore.

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Non è infatti infrequente il caso che partecipando agli incontri, il cosiddetto

“costellatore” inviti il componente familiare che si rivolge per un consulto a mettere in scena il nodo esistenziale che intende risolvere, servendosi dei componenti del gruppo che dovranno incarnare i vari componenti del clan e se alle spalle della donna ci sono stati episodi abortivi, quei bambini mai nati ritrovano un proprio spazio.

Pertanto, si può dire che se da un punto di vista strettamente pragmatico per molti l’aborto può ridursi ad un mero sistema “anticoncezionale”, per chi si occupa di psiche la domanda centrale è se anche l’anima viaggi sulla medesima linea. A quanto sembra, la risposta non potrà che essere negativa.

E’ giusto consigliare una nuova gravidanza dopo un aborto spontaneo?

Stando a chi si occupa di sostenere la donna nella fase di elaborazione del lutto nel post-aborto, la risposta non potrà che essere negativa. Se infatti più o meno tutti abbiamo almeno una volta sentito parlare della “sindrome del nido vuoto”

nella quale incorre la madre quando i figli, ormai cresciuti, abbandonano il tetto familiare, lasciandolo appunto vuoto, forse non è così scontata la conoscenza della sindrome del grembo vuoto. Un malessere quest’ultimo che affonda le sue radici nell’amigdala, sede delle emozioni. Per cui lo stress che si origina nella madre per la perdita di un figlio sarebbe in grado, secondo gli studiosi del settore, di alterare i neurotrasmettitori al punto da far registrare alla donna un vuoto che dal suo corpo si estenderà alla mente e al cuore, quale centro emozionale. Con tali premesse, sembra quasi scontato asserire che la ricerca di una gravidanza subito dopo un aborto spontaneo, non sarebbe la via maestra da seguire, essendo necessario un periodo di tempo per elaborare la perdita subita. Di altro avviso invece i ginecologi, spesso allineati nel consigliare la donna, con abortività alle spalle, di concepire subito un altro figlio. Due pesi e due misure dunque!

L’I.V.G. può considerarsi una malattia?

Da un punto di vista strettamente giuslavoristico, la risposta deve essere affermativa. Vale a dire che l’interruzione di gravidanza durante i primi 180 giorni di gestazione va considerata come malattia determinata dalla gravidanza stessa.

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A chiarirlo è stato il Ministero del lavoro con un apposito interpello del 2008 [5] da parte del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro. Quanto poi all’onere della prova della cosiddetta “morbosità determinata da gravidanza“, deve ritenersi non necessaria l’esibizione al datore di lavoro di un certificato rilasciato da un medico specialista del servizio sanitario nazionale, essendo invece più che sufficiente un certificato rilasciato da un medico di base convenzionato.

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