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INTERVENTO DEL PROF. AVV. GIULIO PROSPERETTI AL CONVEGNO A.I.D.LA.SS. DI PADOVA DEL MAGGIO DAL LAVORO SUBORDINATO AL LAVORO COORDINATO

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INTERVENTO DEL PROF. AVV. GIULIO PROSPERETTI AL CONVEGNO A.I.D.LA.SS. DI PADOVA DEL 21-22 MAGGIO 2004.

DAL LAVORO SUBORDINATO AL LAVORO COORDINATO

Il lavoro a progetto viene spesso interpretato sbrigativamente come una restrizione garantistica rispetto al dilagare del lavoro coordinato e continuativo; cioè rispetto a quelle collaborazioni che si distinguono dal lavoro subordinato in quanto il loro oggetto è una prestazione di lavoro autonomo.

Nel nostro sistema il carattere rigido e vincolativo del contratto di lavoro subordinato aveva determinato una fuga dello schema del lavoro subordinato verso i cd. co.co.co., che costituiscono una forma contrattuale riconosciuta dall’ordinamento sul piano della contrattazione collettiva, del diritto processuale, del diritto tributario e del diritto previdenziale.

Di collaborazione coordinata e continuativa parla già la L. 741 del ‘59, con la quale è stata data efficacia erga omnes non solo ai contratti collettivi dell’epoca ma anche agli accordi economico-collettivi, cioè a quegli atti dell’autonomia collettiva che regolano i rapporti professionali dei lavori autonomi che collaborano sistematicamente con le imprese.

L’art. 409 del c.p.c. fu modificato dalla L. 533 del 1973 istitutiva del rito del lavoro, e in tale norma si prevede l’applicazione dello speciale rito del lavoro anche a quei rapporti di collaborazione continuativa e coordinata, prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato.

La configurazione del lavoro autonomo, legato però alla personalità della prestazione nelle forme della coordinazione che non arriva a rivestire il carattere della subordinazione, si risolve sul piano sociale nella ipostatizzazione di un tertium genus che si colloca tra il lavoro subordinato ed il lavoro autonomo non continuativo e coordinato.

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Ma la dottrina ancorata alla canonica distinzione tra locatio operis e locatio operarum rifiutò l’ipotesi di costruire una nuova categoria.

Il legislatore invece ha continuato nell’opera di costruzione di tale istituto distinguendo sul piano fiscale i professionisti ed i lavoratori autonomi, propriamente detti, dai lavoratori coordinati per i quali ultimi ha escluso la necessità della partita IVA, così distinguendo il lavoratore autonomo che imprende dal lavoratore autonomo che collabora personalmente nell’ambito di una impresa eterodiretta.

Del resto l’importanza del fenomeno dei lavoratori coordinati aveva già portato il legislatore nel 1995 (L. n. 335 del 1995 “Legge Dini”) ad istituire la quarta gestione INPS prevedendo una contribuzione previdenziale che è andata via via crescendo ed appare destinata ad aumentare (come previsto della recente legge delega in materia previdenziale) e che appare destinata in futuro ad attestarsi su valori non dissimili rispetto alla contribuzione prevista per i lavoratori subordinati, forse grazie anche ad una qualche diminuzione di quest’ultima.

Tutte queste leggi hanno perciò concorso a configurare di fatto uno speciale statuto del lavoratore coordinato, diverso sia dal lavoratore autonomo che dal lavoratore subordinato.

Sul piano sociale fu proprio la configurazione fiscale della fattispecie a far nascere i co.co.co. che già godevano di una loro speciale previdenza; tutto ciò portò a riconoscere la meritevolezza sul piano sociale di tale distinzione del lavoro coordinato dal lavoro subordinato.

Tutto ciò, ancorché il problema non fosse stato risolto sul piano teorico ma solo per così dire sul piano pratico, veniva garantito infatti uno speciale regime sia fiscale che previdenziale, che costituiva a ben vedere un ibrido tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato.

Ora con il d. lgs. 09.10.2003 n. 276, la c.d. legge Biagi, oltre alla previsione di una serie di rapporti speciali di lavoro, volti a flessibilizzare l’utilizzazione del lavoro subordinato, è stato introdotto il lavoro a progetto che, a nostro avviso, costituisce la fattispecie legale la quale, a fronte delle norme collettive, previdenziali, processuali e

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fiscali (che hanno contribuito a dare cornice accessoria al fenomeno del lavoro coordinato), finalmente risolve per così dire dal punto di vista ontologico il problema della configurazione di un tertium genus legale di contratto di lavoro.

Il lavoro subordinato, che oggi ricomprende sia l’operaio che il manager, è l’evoluzione del lavoro servile previsto dal codice civile del 1865, che riprende il codice napoleonico del 1804.

Solo con il codice del 1942, attualmente in vigore, si arriva a modificare in un unico istituto (il contratto di lavoro subordinato) il lavoro intellettuale con il lavoro manuale “alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore” (art. 2094 c.c.).

Questa formula corrisponde alla realtà industriale improntata sull’impresa fordista organizzata “militarmente”, in divisioni, reparti e squadre; dove si dovevano attuare gli ordini dell' imprenditore ed organizzare la fabbrica secondo i principi tayloristici della divisione del lavoro.

In questo contesto la collaborazione nell’impresa era vista nell’ambito della catena gerarchica tutta volta a realizzare la volontà datoriale.

L’organizzazione imprenditoriale oggi assume, invece, formule più complesse, non si tratta di dare attuazione ai progetti imprenditoriali, ma di mettere al servizio delle imprese competenze professionali capaci non solo di attuare, ma di concorrere a determinare gli stessi obiettivi aziendali.

Sempre più numerose sono le posizioni cd. di staff al di fuori di un rapporto gerarchico e le aziende si avvalgono di professionisti funzionalizzati ai medesimi obiettivi cui sono proposti i lavoratori dipendenti.

L’accentuazione di questa logica ha portato gli aziendalisti a parlare di flat company, per significare un’organizzazione senza gradi, ma dove tutti collaborano

sulla base di rapporti funzionali in base alle proprie competenze.

Se il fenomeno è di tutta evidenza relativamente al lavoro manageriale che riguarda i dirigenti, i quadri e gli impiegati direttivi, tuttavia anche nelle categorie più basse si deve riscontrare il possesso di peculiari professionalità nelle quali il livello di autodeterminazione è altissimo, ciò che consente al lavoratore in questione di operare

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scelte il cui contenuto è dettato più dalla propria competenza che non dal rispetto di precise disposizioni aziendali.

A questo punto è difficile distinguere tra lavoro professionale autonomo e lavoro subordinato, giacché la stessa competenza può essere acquisita in azienda indifferentemente assumendo un dipendente esperto ovvero stipulando un contratto di collaborazione.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha infatti finito con l’affermare che ogni attività umana può essere svolta indifferentemente sia come lavoro autonomo che come lavoro subordinato.

I giudici di merito sono così costretti ad operare la distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato attraverso indici sintomatici, come l’orario rigido, la previsione delle ferie, l’inserimento funzionale, la corresponsione di una retribuzione fissa, ecc.

Tutti elementi di per sé non decisivi al riconoscimento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, giacché possono tutti ben convivere anche con un rapporto meramente coordinato.

Insomma, oggi la subordinazione nella realtà post-industriale non è in molti casi identificabile di per sé, e riesce ad essere colta sul piano della qualificazione in giudizio solo in presenza di sintomi o indici di per sé non decisivi, ma sui quali il giudice fonda il proprio libero convincimento.

Si pensi al caso del professionista subordinato, come ad esempio il medico di una casa di cura, le cui prestazioni non si differenziano sul piano pratico da quelle di un medico, libero professionista, convenzionato con la medesima struttura.

In questo contesto è possibile che il lavoro a progetto sia destinato a divenire il normale rapporto di lavoro, sostituendo gradatamente i rapporti di lavoro subordinato.

Siamo in una realtà nuova, dove il lavoro professionale sostituisce il lavoro parcellizzato, nonché quelle forme di prestazione d’opera intellettuale che nella realtà industriale erano state assimilate al lavoro subordinato.

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Nel lavoro a progetto il datore non assegna più il lavoro, ma questo viene svolto con autonoma assunzione di responsabilità: una volta attribuita una funzione, suscettibile di essere assolta in autonomia, senza la eterodirezione, ora per ora e minuto per minuto da parte dell’imprenditore, nel contratto di lavoro a progetto c’è la determinazione dell’intera prestazione lavorativa, senza bisogno, appunto, di essere ulteriormente specificata.

Resta naturalmente il coordinamento, ed è questo l’elemento che avvicina la fattispecie al lavoro subordinato, ad esempio un liquidatore di una compagnia di assicurazioni che dovesse svolgere il suo incarico nell’ambito di un lavoro a progetto avrebbe l’onere di interfacciare gli uffici della compagnia negli orari di apertura di quest’ultimi, di usare determinati formulari e di attenersi a determinate regole, tutte comunque estrinseche rispetto al contenuto professionalmente autonomo della propria prestazione.

Alcuni sostengono che la prefigurazione di un progetto e la necessaria prefissione di un termine come previsto dalla fattispecie dell’art. 62 d. lgs. n. 276 del 2003, sia indice di una prestazione di risultato, ciò che farebbe assimilare in toto il lavoro a progetto ad un contratto di lavoro autonomo, escludendone la qualificazione come tertium genus.

A nostro avviso si tratta piuttosto di una prestazione di mezzi; invero già all’art. 61, primo comma, si parla di un coordinamento in funzione di un risultato e nel c.d. progetto, rientrano anche il programma di lavoro e le fasi di lavoro; inoltre, la durata è prevista come termine della prestazione di lavoro e non del perfezionamento del progetto.

Insomma, durata del contratto e realizzazione del progetto non sono intimamente connessi, sicchè, ferma restando la prefissione di una funzione autonomamente esercitabile, il termine di durata della collaborazione ben può essere definito in totale autonomia.

Naturalmente, a nostro avviso, la concreta praticabilità dell’istituto sul piano sociale è condizionata ad una contrattazione collettiva capace di coniugare flessibilità

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e garanzia, come anche indicato dal quarto comma dell’art. 61 che espressamente prevede il possibile intervento migliorativo di accordi economico-collettivi.

Potrebbe pertanto nascere una nuova stagione della contrattazione collettiva non più riferita ai contratti per i lavoratori subordinati, ma agli accordi per i lavoratori a progetto.

Se da una parte i contratti collettivi per il lavoro subordinato andranno incontro a processi di flessibilizzazione , come prefigurato dalla destrutturazione del rapporto di lavoro subordinato ad opera di tutti gli istituti previsti dalla Legge Biagi, per contro il lavoro a progetto dovrà cominciare a strutturarsi, prevedendo sul piano privatistico e dell’autonomia collettiva, tutele previdenziali di relativa stabilità, eventualmente giustiziabili sul piano arbitrale.

In conclusione, la new economy con l’impresa a rete (net company) e l’impresa piatta (flat company) ha creato una nuova classe di lavoratori che a ben vedere solo convenzionalmente sono inseriti nello schema del lavoro subordinato e sono alla ricerca di assetti più rispondenti alla nuova realtà rispetto a quella del lavoro industriale che ha improntato tutta la tradizionale legislazione lavoristica.

Prof Avv. Giulio Propseretti

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