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In particolare, nel contesto sanitario, la forza riconosciuta alla libertà di autodeterminazione ha comportato un mutamento nel rapporto medico-paziente.

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CONCLUSIONE

All’esito dell’analisi dei principi costituzionali implicati nel dibattito sull’eutanasia attiva, non sembra potersi affermare vi sia un qualche ostacolo per una sua accorta legalizzazione anche nel nostro Paese.

La vita è certamente un valore pregnante l’intera trama costituzionale, implicitamente da annoverarsi nel novero dei diritti inviolabili. Tuttavia, si tratta di un diritto pur sempre tutelato in un’ottica liberale, ovvero precipuamente a fronte di aggressioni ad opera di terzi e non anche avverso atti di disposizione che il singolo decida di porre in essere. La centralità del principio personalista, infatti, impone a qualsivoglia disciplina giuridica di adottare quale presupposto imprescindibile il rispetto della dignità del singolo, inteso come unicum di fisicità e spiritualità, le cui scelte non possono essere sindacate se non a fronte dell’esigenza di salvaguardare più ampi interessi della collettività. Ne è prova la preminenza accordata alla determinazione del singolo che decida di rinunciare alla tutela della propria salute, pregiudicando la stessa fino al punto di lasciarsi morire, nei limiti in cui ciò si traduca in un danno anche alla salute di terzi.

In particolare, nel contesto sanitario, la forza riconosciuta alla libertà di autodeterminazione ha comportato un mutamento nel rapporto medico-paziente.

Quest’ultimo non è più mero oggetto di cura, secondo un’ottica paternalistica, bensì

soggetto cui il medico deve apprestare il proprio servizio professionale. Mettendo a

disposizione le proprie competenze, il medico deve informarlo del suo stato di salute,

fornendogli tutte le opzioni configurabili per ripristinarlo laddove danneggiato. Nel caso

in cui non vi sia alcuna alternativa, ovvero laddove la prognosi si riveli indefettibilmente

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infausta per il paziente, la malattia non altrimenti arrestabile e le sofferenze non efficacemente lenibili, non può negarsi come in tal caso il bene del paziente possa coincidere con l’anticiparne la morte. Ovviamente solo se questa sia la considerazione, tradotta in puntuale richiesta, da parte del malato.

La Costituzione non sancisce un obbligo di vivere, ma lo Stato, d’altro canto, non può neppure riconoscere un generalizzato dovere di uccidere a capo dei terzi, anche a fronte del consenso dell’interessato. Ma nella materia de qua, non si tratterebbe di un comportamento ammesso indiscriminatamente, bensì solo a fronte di determinate situazioni connotate dal presupposto oggettivo della terminalità della malattia e/o di sofferenze intollerabili.

Il principio pluralista impone di rispettare la decisione del singolo che, in base a concezioni anche difformi rispetto alla maggioranza, decida, sulla base di una valutazione personale della propria dignità, di anticipare il processo del morire nel caso in cui la vita abbia per lui perso ogni umana valenza. Una scelta, questa, determinata da motivazioni certamente non irrilevanti, se consideriamo che lo stesso Stato ha riconosciuto la necessità di impegnarsi attivamente a tutela del diritto a non soffrire dei malati terminali. Dunque, in quest’ottica, non è peregrino pensare come, allorquando la strada maestra delle cure palliative si riveli inidonea a placare l’agonia del malato, lo Stato possa adoperarsi per predisporre gli strumenti necessari per consentire una procedura medicalizzata di anticipazione della morte. Ovviamente, purché espressamente richiesta dall’interessato.

Da troppo tempo la discussione sull’eutanasia attiva sembra essersi polarizzata su di

un piano assiologico, che dovrebbe seguire e non precedere la constata necessità di un

intervento legislativo a protezione della libertà di coscienza di quei soggetti ad oggi

sforniti di qualsivoglia tutela. Il legislatore non può rimanere inerte, in attesa che l’acceso

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dibattito pubblico si plachi, segnando la vittoria di una o l’altra delle bioetiche in contrapposizione, giustificando tale latitanza con la debole motivazione dell’impossibilità di addivenire ad una soluzione a fronte di concezioni di per sé irriducibili.

È pur vero che, a supplire il vuoto giuridico, la giurisprudenza, nel tempo, si è fatta portavoce della diffusa sensibilità suscitata dalla materia, mostrando un atteggiamento di benevolenza nei confronti degli autori di gesti eutanasici; segnale questo, che evidenzia già di per sé l’inadeguatezza della normativa vigente a far fronte al fenomeno di cui trattasi. Nonostante gli sforzi ermeneutici compiuti dai giudici, tuttavia, i principi di legalità, tassatività e certezza del diritto impongono al legislatore di non perpetrare oltre il suo silenzio, accettando la sfida di fornire adeguate risposte ad una materia eticamente sensibile, che si fondino sull’inviolabilità della persona, ma, allo stesso tempo, sul diritto all’autodeterminazione terapeutica e sul rispetto della dignità umana e del pluralismo sociale.

Si tratta di una sfida non certo semplice, ma neppure impossibile, tale da dover essere confinata fuori dal campo del diritto. Metodo laico e approccio concreto sono le chiavi per l’elaborazione di una normativa che attui un bilanciamento dei valori in gioco, fornendo a ciascuno la garanzia che, in presenza di malattie incurabili o sofferenze intollerabili non altrimenti placabili, non sarà obbligato a vivere se non vorrà, potendo al contrario usufruire dell’aiuto necessario del sanitario che non si avvalga dell’obiezione di coscienza, di compiere l’ultimo gesto d’amore nei confronti di una vita qualitativamente per lui priva di valore.

Non vengono soggiaciute le difficoltà tecnico-giuridiche nell’elaborare una puntuale

disciplina giuridica in materia. Innanzitutto sarà necessario circoscrivere le sole situazioni

di dolore in grado di legittimare la richiesta eutanasica. A tal proposito, si è proposto di

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distinguere “tre aree di volontà del morire”

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, ovvero tre situazioni che possono essere alla base della richiesta di morte anticipata. Una prima area include tutte le richieste eutanasiche avanzate non in virtù di gravi dolori corporali, quanto da condizioni di grave degrado fisio-psichico (ad esempio deformazioni, umiliazioni, fallimenti in vita); una seconda area del morente che invoca l’eutanasia per motivazioni meramente mistico/ideologiche, senza che sussista alcun dolore fisico; infine, una terza area che abbraccia tutte quelle richieste di morte anticipata provenienti da malati terminali che soffrono di atroci dolori, non fronteggiabili né attenuabili in alcun modo. Ebbene, sulla base di tale distinzione, si potrebbe addivenire ad una prima scrematura, riconoscendo la possibilità di avvalersi dell’eutanasia attiva solo ai morenti che rientrano nella terza area, dovendosi al contrario escludere in relazione alle prime due.

Circoscritto così il campo, la normativa dovrà poi essere idonea a garantire, in primis, la genuinità della volontà del malato che chieda l’aiuto eutanasico. A tal fine, quanto ai particolari, la richiesta dovrà essere esplicita, preferibilmente scritta, ed in ogni caso alla presenza di un pubblico ufficiale o del direttore sanitario della struttura ospedaliera.

Inoltre, dovranno ricorrere prove, certe ed autorevoli, che attestino la piena capacità del richiedente, intesa come effettiva coscienza delle conseguenze delle proprie scelte. Sarà il legislatore, dunque, ad esplicitare l’impresentabilità delle istanze di morte provenienti da un soggetto il quale non sia pienamente consapevole.

In secondo luogo, dovrà cumulativamente configurarsi il presupposto oggettivo dell’irreversibilità della malattia, o l’appurata inidoneità delle cure palliative a controllare il dolore, ovvero la possibilità di fronteggiarlo solo ricorrendo ad interventi gravemente lesivi della dignità del malato. Simili condizioni, dovranno essere certificate da sanitari

1 P. CENDON, op. cit., 166 ss.

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appartenenti ad un’equipe diversa da quella presso cui si trova ad essere in cura il sofferente; in ogni caso, la persona potrà revocare la richiesta manifestata

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Non si nega come talvolta potrà risultare difficile riscontrare l’effettiva sussistenza di entrambi i presupposti. Da un lato, infatti, il dolore fisico è un’entità astratta, non scientificamente misurabile in quanto fortemente soggettivo. Dall’altro lato, può essere arduo stabilire se le motivazioni alla base della richiesta eutanasica siano frutto di meri atti autolesionisti, ovvero di condizioni di abiezione. A fronte di ciò, i confini tra le varie tipologie di richiesta di morte anticipata dovranno essere tracciati nel modo più netto possibile e, in relazione ai casi “borderline”, si dovrà far luogo a procedure maggiormente rigorose (ad esempio, reiterazione della richiesta eutanasica a distanza di un congruo lasso di tempo, assistenza psicologica più intensa, garanzia di cure palliative). Quanto detto, tuttavia, potrebbe costituire un buon punto di partenza su cui impostare una prima metodica. D’altra parte, solo con riguardo alle emergenze-tipo l’interprete dovrebbe apprestare un primo nucleo di sintomatologie e regole preventive; invece, in relazione alle ulteriori fattispecie configurabili, dovrebbe piuttosto intervenire di volta in volta, sulla base di un’analisi dei casi concreti, in modo tanto più minuzioso quanto più si rivelerà opportuno.

Qualsiasi difficoltà si possa presentare al diritto, ora più celermente, ora attraverso iter più lunghi e complessi, in ogni caso può essere affrontata e superata. La discussione parlamentare ed un intervento legislativo sono necessari affinché, dal confronto democratico di universi distinti, possa addivenirsi ad una soluzione compositiva nel rispetto della libertà di coscienza, purché sia fermo che la coscienza da rispettare per

2 Così P. CENDON, op. cit., 254-255.

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prima è quella degli interessati, i malati terminali, la cui autonomia non può essere

espropriata da una decisione politica che assuma connotati autoritari.

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