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Le politiche dell’esclusione in Italia verso Rom e Sinti ci sono ancora

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Academic year: 2021

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CONCLUSIONI

“Non è che noi ci svegliamo alla mattina e diciamo che Rom e Sinti sono discriminati.

Nella seconda guerra mondiale, come tu sai bene, sono morti mezzo milione di Rom e Sinti.

Gli unici due popoli perseguitati e uccisi durante la seconda guerra mondiale per motivi razziali sono stati Ebrei e Rom e Sinti. Oggi i ghetti esistono ancora per gli Ebrei? Cosa succederebbe in Italia se ci fossero ancora i ghetti per gli Ebrei ? La rivoluzione! Mentre per i Rom e Sinti esistono ancora i ghetti, ci sono i campi nomadi. Le politiche dell’esclusione in Italia verso Rom e Sinti ci sono ancora. Vedi ancora i cartelli con scritto “Divieto sosta ai nomadi” o ad esempio le continue diffide che vengono attuate dalle Forze dell’Ordine contro i Rom e i Sinti….Queste politiche che ci portano indietro, non sono mai cessate. Le forze politiche dicono sempre che ciò che è accaduto nel periodo nazi-fascista non deve mai più accadere, ma per i Rom e i Sinti questo continua a succedere. Mancano le camere a gas, ma le politiche attuate 70 anni fa vengono ancora attuate oggi verso queste popolazioni.”

( Intervista a Yuri del Bar, del Comitato Rom e Sinti Insieme ,ottobre 2007)

“ Anche i nazisti, nella loro opera di sterminio, hanno per prima cosa privato gli ebrei di ogni stato giuridico, della cittadinanza di seconda classe, e li hanno isolati dal mondo dei vivi, ammassandoli nei ghetti e nei Lager; e, prima di azionare le camere a gas, li hanno offerti al mondo constatando con soddisfazione che nessuno li voleva. In altre parole è stata creata una condizione di completa assenza di diritti, prima di calpestare il diritto alla vita (…)Ma né la sopravvivenza fisica, assicurata da qualche ente assistenziale pubblico o privato, né la libertà di opinione cambiano minimamente la loro ( degli individui messi al bando dalla legge) situazione di fondamentale assenza di diritti. La continuazione della loro vita è dovuta alla carità e, non al diritto, perché non esiste alcuna legge che costringa la nazione a sfamarli; la libertà di movimento, se ce l’hanno, non dà loro il diritto alla residenza che è goduto persino dal delinquente incarcerato; e la loro libertà di opinione è la libertà dei matti, perché quel che pensano non ha importanza per nessuno. Qui è il nocciolo del problema. La privazione dei diritti umani si manifesta soprattutto nella mancanza di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto. Qualcosa di molto più essenziale della libertà e della giustizia, che sono diritti dei cittadini, è in gioco quando l’appartenenza alla comunità in cui si è nati, non è più qualcosa di naturale e la non appartenenza non è più oggetto di scelta, quando si è posti in una situazione in cui, a meno che non si commetta un delitto, il trattamento subito non dipende da quello

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che si fa o non si fa. Questa situazione estrema è la sorte delle persone private dei diritti umani. Esse sono prive non del diritto alla libertà, ma del diritto all’azione; non del diritto di pensare qualsiasi cosa loro piaccia, ma del diritto all’opinione.”

( Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, p.409-410)

I “ fatti di Opera” hanno rappresentato un importante spartiacque nella politica italiana, senza che nessuno o quasi se ne sia accorto e abbia denunciato la grave involuzione dei principi democratici che ne è seguita1.

Dopo Opera, in qualsiasi località d’Italia l’escalation delle violenze xenofobe verso Rom e Sinti, sono state accompagnate da una crescente legittimazione istituzionale, ovvero da un clima di assoluta impunità per i crimini d’incitamento all’odio razziale e di discriminazione razziale perseguibili ai sensi della legge 205/1993. Inoltre, in molti casi, l’incitamento all’odio razziale è stata una componente fondamentale non solo delle campagne elettorali, ma anche dell’amministrazione quotidiana delle città, da parte di diversi esponenti politici di destra e di sinistra. Nei proclami politici spesso i contenuti razzisti sono appena mascherati da astratti riferimenti al rispetto della legalità e da un’interessata preoccupazione per la sicurezza dei cittadini.

In realtà non è né il rispetto delle leggi, che vengono quotidianamente e sistematicamente ignorate da esponenti politici, media, gente comune, nella più completa impunità, né della sicurezza delle città, le cui cause hanno origine nella cultura maschilista, etnocentrica e razzista prodotta e riprodotta quotidianamente dai discorsi delle élite dominanti.

Essi mirano ad incanalare le frustrazioni collettive delle classi medie e medio basse, inasprite dalla crisi economica che l’Italia sta attraversando ormai da alcuni anni, verso un “ nemico comune” esterno o messo ai margini del corpo sociale. In tal modo si raggiunge un obiettivo

1 Cronologicamente essi hanno inizio il pomeriggio del 21 dicembre con gli appelli lanciati dal blog “ La Voce di Opera” ai cittadini della città di ribellarsi all’istallazione temporanea del campo Rom; sono poi proseguiti il 21 dicembre sera con l’interruzione del Consiglio Comunale e il rogo delle tende. Le vicende di Opera tuttavia non terminano con lo smantellamento del campo Rom il 10 febbraio 2007.

Infatti a marzo 2007 i Consiglieri della Lega nord Ettore Fusco e quello di Alleanza Nazionale, Pino Pozzoli, vengono indagati per istigazione a delinquere in relazione ai fatti avvenuti la sera del 21 dicembre, ma sono assolti proprio poche settimane prima delle elezioni politiche ed amministrative del 13 aprile 2008. Il 13 aprile 2008 il candidato della Lega Nord Ettore Fusco, dopo aver costruito la sua carriera politica, sfruttando le paure e gli odi ziganofobi dei suoi concittadini, corona la sua strategia vincente diventando sindaco di Opera. Il frutto degli avvenimenti di dicembre 2006- febbraio 2007 e della loro gestione è infine giunto a maturazione.

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chiave per il mantenimento del potere delle élite: soffiando sul fuoco del conflitto etnico, il conflitto sociale, vitale in una democrazia, viene neutralizzato.

In particolare la propaganda razzista delle élite pretenderebbe che in tema di sicurezza la divergenza di opinioni fra forze politiche e sociali sia inutile o peggio dannosa e che pertanto in materia sia opportuno un ricompattamento trasversale al corpo sociale dello Stato.

Questo richiamo all’unità nazionale ha successo solo grazie ad un appiattimento delle posizioni politiche e della cultura di sinistra su quella della destra e l’espulsione simbolica, e talvolta anche materiale, di taluni soggetti dai confini dello Stato.

E’ necessario a questo punto chiedersi che modello di sicurezza sia quello nel quale il trattamento subito non dipende più da quello “che si fa o non si fa”, ma da quello “che si è”.

O, in altre parole, che sicurezza sia quella nella quale i diritti e doveri non vengono riconosciuti e applicati in maniera uniforme, ma secondo la scala gerarchica delle appartenenze etniche. Come si può ancora definire democratica una società dove la legge non è più uguale per tutti?

Coloro che si sentono di appartenere alla comunità dei cittadini protetti dallo Stato, forti dell’appoggio delle istituzioni e dell’impunità di cui godono coloro che si macchiano di atti razzist,i si sentono altresì in diritto di “ farsi giustizia” da soli. Dal 2006 ad oggi in Italia si sono susseguiti in diverse città italiane episodi di razzismo ed antiziganismo anche gravi, comprendenti manifestazioni con striscioni esplicitamente razzisti, violenze fisiche e verbali dirette alle persone, diffamazioni, perquisizioni senza mandato e violazioni di domicilio, incitamento all’odio razziale, discriminazioni da parte di dipendenti pubblici nelle scuole, ospedali, fino ad arrivare a veri e propri pogrom contro campi Rom2.

In un clima del genere, figlio legittimo di una concezione di sicurezza basata sull’ingiustizia, la disuguaglianza, la paura e la repressione delle istanze provenienti dai gruppi etnici minoritari (non solo Rom e Sinti ), lo Stato di diritto vacilla. Non solo: a forza di reclamare sicurezza per un gruppo, ridefinito di volta in volta in maniera sempre più selettiva, di cittadini proprietari, le città stanno diventando luoghi inospitali per tutti. La diffidenza, l’odio, il rancore sono infatti sentimenti che si allargano a macchia d’olio se alimentati da politiche incoscienti, oltre che criminose.

L’insicurezza percepita aumenta, non perché ci siano più Rom e Sinti e/o immigrati pronti a delinquere, come vorrebbero far credere le élite al potere, ma soprattutto perché la

2 Per un resoconto di alcuni fra le principali manifestazioni ziganofobe che si sono avute in Italia fino a gennaio 2008 vedi il “Rapporto sulla situazione italiana” presentato da ERRC, COHRE, Osservazione e Sucar Drom. Purtroppo da gennaio al momento in cui queste conclusioni vengono redatte (giugno 2008) altri innumerevoli episodi di odio razziale verso Rom e Sinti sono stati compiuti. Ne ricordiamo soltanto uno, il pogrom contro il campo Rom di Ponticelli a Napoli.

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diffidenza e la paura delle relazioni umane con chi è per qualsiasi motivo diverso da noi vengono alimentate quotidianamente. L’insicurezza non è figlia dell’immigrazione, ma della paura del contatto diretto con gli altri, del ripiegamento su se stessi e in definitiva della falsa speranza di una nazione mono-etnica.

Le politiche discriminatorie contro Rom e Sinti, insieme alle manifestazioni di antiziganismo, sono sintomi di una grave patologia che sta devastando il tessuto socio- politico e culturale del paese e, per rimanere nella metafora, per la quale viene prescritta una cura che paradossalmente non fa che aggravarla. Poiché lo Stato, a livello istituzionale, non si assume la responsabilità politica di promuovere e favorire l’interazione e lo scambio paritario e consapevole fra le comunità Rom e Sinte e la società maggioritaria, ma ne demanda l’onore e l’onere ai cittadini “di buona volontà”, questa interazione viene percepita dalla società civile stessa come una scelta personale, alla stregua degli atti di carità cristiana.

Se si partecipa attivamente alla promozione degli scambi fra membri di diverse culture si è dei “buoni cristiani” (qualcosa in più dei “buoni cittadini”), se non lo si fa si può comunque essere dei buoni cittadini. Nella definizione di “ buon cittadino” infatti, non vi è nulla di più o di diverso di ciò che lo Stato esige o richiede e poiché per lo Stato il rapporto e il confronto fra persone di lingua, cultura, tradizioni diverse è un “di più”, si è buoni cittadini anche se si rifiuta l’interazione e il confronto.

Proprio per queste ragioni, coloro che vogliono il confronto e lo scambio paritario con Rom e Sinti devono scontrarsi con il disinteresse o anche l’ostilità delle istituzioni e di buona parte dell’opinione pubblica, oltre che con le barriere legislative e politiche esistenti in questo paese.

Completamente diverso è il discorso di chi, associazioni e singoli, in questi anni, hanno messo in atto iniziative caritatevoli di facciata verso le popolazioni Rom e Sinte, con l’unico scopo di promuovere la propria immagine, ricevere finanziamenti dallo Stato e/o porre in essere delle politiche per il controllo del territorio e di segregazione razziale. Costoro riconfermano pienamente il modello del “ buon cittadino”, poiché in virtù del loro “impegno sociale” si pongono in una posizione di superiorità morale, avendo fatto di più di ciò che veniva loro chiesto dalle istituzioni.

Il meccanismo sopra descritto è funzionale al mantenimento dello status quo, ossia all’immagine di una falsa neutralità e laicità dello Stato, che maschera una volontà politica contraria al cambiamento delle relazioni di potere fra società maggioritaria e minoranze e un disimpegno nello sviluppo delle metodologie interculturali in ogni ambito.

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Viceversa, una volontà politica di innovazione e cambiamento, richiederebbe alle istituzioni di attuare uno sforzo di recettività nei confronti delle istanze di Rom e Sinti, attraverso l’adozione di una pedagogia interculturale nelle scuole, di nuove politiche dell’abitare che favoriscano il “mescolamento” culturale anche grazie alla diffusione della progettazione partecipata degli interventi urbanistici e sociali. Questo genere di politiche conducono ad una presa di coscienza e ad una partecipazione consapevole di tutta la cittadinanza, poiché spingono persone di diverse appartenenze culturali e idee politiche, a conoscersi e ad incontrarsi, a dialogare e a dibattere, a entrare cioè in contatto le une con le altre.

All’ estremo opposto vi sono invece le politiche del raggiro, del plagio e dell’indottrinamento su cui si basa la pseudo-partecipazione (pseudo perché manca dell’elemento della consapevolezza dei fenomeni sociali) dei comitati anti-zingari, dei presidi e delle manifestazioni razziste. In questo tipo di manifestazioni, la conoscenza, il contatto diretto e lo scambio paritario sono osteggiati con ogni mezzo, poiché lo scopo finale non è la consapevolezza e la messa in relazione, bensì la separatezza e la prevaricazione di un gruppo sull’altro.

“Cosa succederebbe oggi in Italia se ci fossero ancora i ghetti per gli Ebrei?”, si chiede Yuri del Bar, del Comitato Rom e Sinti insieme. Questa domanda rivela in maniera drammatica che la lezione appresa dalla storia è stata selettiva. Infatti lo sterminio di Rom e Sinti durante il periodo nazi-fascista non solo è stato riconosciuto in maniera tardiva (solo nel 1982 in seguito alle pressioni delle associazioni Rom e Sinte) dalla Germania democratica, ma non ha nemmeno provocato né un ripensamento delle politiche discriminatorie attuate da secoli nei confronti di queste popolazioni, né una condanna e una decostruzione degli stereotipi e dei pregiudizi antizingari.

Il risultato, che è sotto gli occhi di tutti, è il permanere e l’incancrenirsi delle stesse condizioni di emarginazione sociale e culturale in cui vivevano Rom e Sinti al tempo del nazi- fascismo. Oggi, Rom e Sinti sono la minoranza storica presente sul territorio italiano più discriminata.

Il primo passo per uscire dallo squilibrio secolare che condanna Rom e Sinti a restare ai margini della società è il riconoscimento della presa di parola di Rom e Sinti che sta avendo luogo in Italia da parte delle istituzioni statali. Il riconoscimento cioè del potere di Rom e Sinti di autodeterminare la propria identità e le proprie istanze politiche e sociali.

Riconoscere l’identità di Rom e Sinti significa riconoscerla in tutti coloro che, diversi per paese di origine, ceto sociale, tradizioni culturali ed usanze, si autodefiniscono Rom e

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Sinti. In altre parole significa togliere i veli degli stereotipi e dei pregiudizi omogeneizzanti per essere pronti all’ascolto e all’incontro con le persone rom e sinte, la cui cultura non deve ricadere come una mannaia sulle loro teste condannandoli a non essere conosciuti e giudicati nient’altro che per la loro appartenenza etnica. Ciascuno di loro deve aver la possibilità di reclamare la propria originalità, capacità critica ed apertura sul mondo, al pari di qualsiasi altro essere umano.

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