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I nova in appello e il giudice “esegeta”: brevi considerazioni a margine di Cass. n. 23794/2011 - Judicium

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ILARIA TREVISAN

I nova in appello e il giudice “esegeta”: brevi considerazioni a margine di Cass. n. 23794/2011

1. La pronuncia che in questa sede si commenta solletica la curiosità dello studioso con riguardo ad uno specifico aspetto dell’attività giudiziaria: l’opera esegetica degli atti processuali affidata al giudice; in particolare, di quelli introduttivi del giudizio, siccome preordinata all’individuazione della domanda, quale operazione prodromica alla concessione o negazione della tutela giurisdizionale.

In breve si ripropongono i fatti di causa.

La titolare delle quote di un fondo monetario, risolvendosi per l’alienazione delle stesse, chiedeva l’accreditamento del ricavato su un determinato conto corrente.

All’esito della vendita tuttavia, gli importi ottenuti non erano trasferiti nelle modalità richieste, bensì venivano stornati su altro conto, in passivo, intestato ad una s.n.c. di cui la figlia della titolare delle quote, cointestataria assieme alla stessa di un conto di servizio accessorio al fondo monetario ed adibito alle correlative operazioni di gestione, figurava quale fideiussore.

La titolare delle quote agiva in giudizio per il recupero delle somme indebitamente sottrattele, vincendo in primo grado e ottenendo la condanna della banca alla restituzione degli importi in questione.

Impugnava l’Istituto di credito soccombente, che risultava vittorioso in seconde cure.

Le eredi della titolare – essendone medio tempore intervenuto il decesso – attivavano la tutela in legittimità, articolando diversi motivi di censura, e in particolare allegando, quale rilievo considerato dalla S.C. dirimente ai fini della soluzione della vicenda, la violazione dell’art. 163, nn. 3 e 4 c.p.c., per aver il giudice di seconda istanza ritenuto inammissibile (in quanto domanda nuova) la richiesta di

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annullamento del contratto avanzata nella comparsa in appello; non esplicitamente formulata in seno alla citazione in primo grado.

A contrario, le ricorrenti deducevano che “la loro dante causa aveva implicitamente richiesto, già nelle conclusioni rassegnate nell'atto di citazione, l'annullamento per vizio del consenso del contratto o, quantomeno, della clausola che ne prevedeva la cointestazione alla figlia”.

La Cassazione concludeva per l’accoglimento del ricorso, con assorbimento degli altri motivi in base al principio della ragione più liquida, avendo il giudice d’appello “in palese error in judicando” ritenuto che “la domanda di annullamento del contratto, avanzata nell'atto d'appello, fosse nuova solo perchè <<non esplicitamente>> formulata in citazione”.

2. La problematica sottesa alla vicenda in esame può essere compendiata nei seguenti termini: fino a che punto il tenore letterale con cui le parti redigono i relativi atti processuali risulta vincolante per il giudice ai fini dell’individuazione della richiesta di tutela (domanda)?

E’ ormai orientamento consolidato quello maturato in seno alla giurisprudenza di legittimità che riconosce al giudice – nella sua attività “interpretativa” (in senso lato, nel prosieguo se ne espliciterà il significato) degli atti introduttivi e non solo – la possibilità di superare il dato letterale e di provvedere all’individuazione della sostanziale richiesta di tutela spiccata dalla parte; fino a postulare la ricorrenza di un vizio di omessa pronuncia laddove siffatta pretesa, implicitamente dedotta, non sia poi esaminata.1

1 A partire da Cass. n. 7941/1994: “Il giudice di merito, nell’indagine diretta alla individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad attenersi alla mera lettera degli atti nei quali dette domande risultino articolate, ma deve avere riguardo, piuttosto, al contenuto sostanziale delle pretese, desumibile dalla natura delle situazioni dedotte in controversia, senza altri limiti che quelli connessi all’esigenza del rispetto del principio della corrispondenza tra la richiesta e la pronuncia ed al divieto di sostituire d’ufficio domande non esperite a quelle formalmente proposte” e, più recentemente Cass. nn. 3012/2010, 19331/07, 23819/07. Vedasi anche quanto statuito da Cass. 18653/2004, dalla quale possono trarsi utili spunti per l’individuazione delle variabili che il giudice deve considerare nella conduzione della sua attività interpretativa: “Ai fini di una corretta interpretazione della domanda, il giudice di primo grado è tenuto ad interpretare le conclusioni contenute nell’atto di citazione, alle quali si è riportato l’attore in sede di precisazione delle conclusioni, tenendo conto della volontà della parte quale emergente

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Nel caso di specie la questione origina dagli esiti accordati dal giudice d’appello all’operazione ermeneutica di confronto tra la comparsa in appello e la citazione in primo grado: dalla quale attività di comparazione è emerso, a sua detta, un inammissibile novum, una domanda (quella di annullamento del contratto) che, non essendo stata esplicitamente (leggasi, letteralmente) dedotta nell’atto introduttivo in primo grado, non poteva che qualificarsi come “nuova” nel giudizio di seconde cure, ove invece era stata avanzata espressis verbis. Con inevitabile declaratoria di inammissibilità.

E ciò, lo si ribadisce, pur se dal complessivo tenore della citazione introduttiva in primo grado poteva sostanzialmente ed inequivocabilmente desumersi l’istanza di annullamento del contratto.

3. Come si svolge dunque l’opera di individuazione della domanda? Quali sono le regole che la governano? Essa deve ridursi alla considerazione del tenore testuale o più svilupparsi in senso “sostanziale” (laddove per “sostanziale” deve intendersi un’interpretazione orientata alla comprensione dello scopo, dell’obiettivo di tutela che la parte vuole perseguire a mezzo del ricorso all’istanza giudicante)?

Nel caso che ci occupa, è l’interpretazione letterale della citazione in primo grado, operata dal giudice di seconde cure ai fini della valutazione di novità della domanda propostagli, ad aver avuto la meglio su ogni altra opzione ermeneutica, in contrasto con il supra richiamato orientamento “sostanzialistico” della Cassazione.

Il giudice d’appello si è mostrato infatti renitente ad abbracciare una chiave di lettura non formalistica della citazione de qua; non curandosi del fatto che l’istanza di annullamento del contratto emergesse sostanzialmente dal contesto dell’atto

non solo dalla formulazione letterale delle conclusioni assunte nella citazione, ma anche dall’intero complesso dell’atto che le contiene, considerando la sostanza della pretesa, così come è stata costantemente percepita dalle parti nel corso del giudizio di primo grado, tenendo conto non solo delle deduzioni e delle conclusioni inizialmente tratte nell’atto introduttivo, ma anche della condotta processuale delle parti, nonché delle precisazioni e specificazioni intervenute in corso di causa”.

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introduttivo: il fatto che non sia stata esplicitamente dedotta in primo grado è apparso sufficiente a qualificarla “novità” inammissibile in appello.

Deve dunque ritenersi che la forma linguistica con cui si redigono le conclusioni, e più in generale gli atti processuali, specie quelli introduttivi del giudizio, giochi un ruolo di tale importanza, nel senso della inconcepibilità logica di petita o conclusioni impliciti, eppur manifesti in relazione all’intero apparato argomentativo della citazione?

4. La questione si riduce, dunque, all’indagine delle tecniche “ermeneutiche”

utilizzabili per l’individuazione delle domande giudiziali; se cioè tali siano solo quelle dedotte espressis verbis, o anche quelle sostanzialmente spiccate, anche se non esplicitamente e formalmente proposte, per come desumibili dal complesso dell’atto in cui siano articolate.

In poche parole, occorre indagare i poteri interpretativi del giudice, con riguardo, questa volta, non già agli atti normativi o negoziali, ma al cospetto degli atti processuali.

Ché infatti, l’interpretazione dei disposti normativi trova un solido ancoraggio nelle disposizioni sulla legge in generale (in particolare, gli artt. 12 ss.), mentre l’ermeneusi contrattuale è guidata dagli artt. 1362 ss. c.c.

Quid dunque, con riguardo agli atti processuali2?

La loro esegesi non risulta infatti meno importante, in primis considerato che, oltre che domande concrete di tutela, tali atti costituiscono gli strumenti di esercizio di diritti fondamentali e a rilevanza costituzionale, i diritti di azione e difesa in giudizio; secondariamente in considerazione del fatto che per il loro tramite si

2 Si veda all’uopo la giurisprudenza che si è così pronunciata: “La domanda giudiziale è una dichiarazione di volontà diretta alla produzione di effetti giuridici tutelati dall’ordinamento, e pertanto il suo contenuto è definibile anche attraverso l’applicazione (in via analogica) delle regole di ermeneutica contrattuale” (Cass. 15299/2005). Contra Cass.

n. 4754/2004, che esclude l’applicazione dei criteri di interpretazione del contratto all’esegesi della domanda giudiziale,

“in quanto non esiste una comune intenzione delle parti da individuare, e può darsi rilievo alla soggettiva intenzione della parte attrice solo nei limiti in cui essa sia stata esplicitata in modo tale da consentire al convenuto di cogliere l’effettivo contenuto della domanda formulata nei suoi confronti, per poter svolgere una effettiva difesa”.

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deducono ipotetiche violazioni dell’ordine giuridico, chiovendiane deviazioni dall’astratta volontà della legge, dal “ciò che doveva essere”, la cui corretta ermeneusi è imprescindibile per un altrettanto corretto ed effettivo ripristino della conformità al diritto.

E tuttavia non bisogna dimenticare che, a differenza degli atti normativi e negoziali, la funzione degli atti processuali è tipicamente strumentale; che essi sono destinati al giudice per ottenere, a fronte di una violazione, un intervento cui la parte non può provvedere autonomamente (in autotutela), altrimenti non richiederebbe l’ausilio giurisdizionale.

Se l’atto processuale è intrinsecamente strumentale, l’interpretazione dello stesso si risolve nell’individuazione della funzione alla quale esso è preordinato.

In altri termini il giudice, allo scandaglio della citazione di parte, opera una visione d’insieme, in virtù dei fatti ed elementi giuridici allegati dalla stessa e, con un

“colpo d’occhio”, procede alla individuazione del tipo di tutela richiesta, a seconda dell’obiettivo desunto, incasellando la domanda concreta e ascrivendola a un modello, con un meccanismo analogo a quello sussuntivo (individuazione dei fatti + qualificazione giuridica). Si può dunque parlare di interpretazione della domanda solo in senso molto lato, che rasenta l’improprietà lessicale.

Onde, l’interpretazione, che con riferimento agli atti normativi e negoziali è attività preordinata all’individuazione del significato, per desumere dagli stessi la regola di condotta; rispetto agli atti processuali diviene individuazione della funzione, dello scopo cui mirano.

E se questa risulta essere l’essenza dell’attività esegetica degli atti processuali, deve ritenersi ammissibile, in un’ottica sistematica, l’applicazione ai fini della loro interpretazione di tutti quei canoni ermeneutici, pur non pensati per l’interpretazione processuale, che si prestano all’individuazione dello “scopo”.

In primis dunque, il canone dell’individuazione della domanda sotto la lente dell’intenzione della parte (processuale), in analogia con l’intenzione del legislatore

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prevista dall’art. 12 preleggi e con il disposto dell’ art. 1362, comma 1 c.c. in materia contrattuale.

Funzionale alla comprensione dell’ “obiettivo di tutela” risulta poi la tecnica interpretativa “sistematica”, che mira all’isolamento dello scopo dell’atto mediante un’interpretazione sinergica delle varie sue parti, le quali “si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto”

(artt. 1363 c.c. e 12 preleggi).

In tale ottica ben si comprende come una domanda di tutela potrebbe essere individuata dall’intero contesto dell’atto, come nel caso che ci occupa3, ove il Supremo Consesso ha censurato la condotta del giudice di seconde cure che ha trascurato i diversi elementi dai quali inequivocabilmente avrebbe potuto ritenersi avanzata la richiesta caducatoria del contratto.

Ai fini del discorso in esame, rileva inoltre il disposto dell’art. 1367 c.c.

(Conservazione del contratto): “Nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”.

Alla stregua di tale canone ermeneutico, dovrebbe ritenersi che la deduzione, in seno all’atto processuale, di determinate circostanze giuridico-fattuali ad opera della parte, anche laddove di primo acchito paiano avulse da qualsivoglia richiesta di tutela, siano invece preordinate ad uno specifico scopo, che il giudice, a mezzo, se del caso, di un’esegesi sistematica, deve individuare.

3 Vedasi il passo della sentenza in commento, che proprio testimonia la messa in atto di una tecnica ermeneutica

“sistematica”: “nell'atto di citazione la C. aveva dedotto di aver acceso il c.d. conto corrente di servizio solo per le pressioni su di lei esercitate da un funzionario del Banco di Napoli, il quale gliene aveva prospettato l'assoluta necessità e per di più, affermando falsamente che ciò corrispondeva ad un suo interesse, l'aveva indotta anche a cointestarlo alla figlia; che, inoltre, proprio sulla scorta di tali circostanze, l'attrice non solo aveva sostenuto che era stata ordita una "macchinazione" a suo danno, ma aveva espressamente invocato il disposto dell'art. 1427 c.c., rilevando come "la fattispecie è (fosse) inquadrabile nella normativa che disciplina l'istituto del dolo quale vizio del consenso idoneo ad annullare l'atto". E' dunque palese l'error in iudicando compiuto dalla Corte di merito che, senza neppure interrogarsi sul significato da attribuire alla frase "accertata e dichiarata l'illiceità dell'operazione posta in essere dal Banco di Napoli", comunque inserita nelle conclusioni precisate dall'attrice, ha ritenuto che la domanda di annullamento del contratto, avanzata nell'atto d'appello, fosse nuova solo perchè "non esplicitamente" formulata in citazione.

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Riteniamo dunque che, la natura e l’essenza proprie degli atti processuali – e più di tutti, degli atti introduttivi del giudizio – in tanto in quanto strumentali, siccome cioè preordinati all’ottenimento di un risultato di tutela, non presentando un rilievo sostanziale, ma meramente endoprocessuale, reagiscano sulle modalità della loro interpretazione; che dunque diviene piuttosto individuazione della domanda, riconduzione della richiesta a un tipo di tutela4.

In ogni caso, e a ben vedere, una rapida panoramica codicistica rivela l’inesistenza di un disposto che espressamente regoli l’attività ermeneutica ascritta all’istanza giudicante.

Autorevole dottrina5 ha considerato tale vacuum iuris come sintomatico dell’impraticabilità di un’ermeneusi in senso proprio degli atti processuali.

Senza giungere a tali drastiche conclusioni6, e pur concordando sulla non assimilabilità degli atti processuali a quelli negoziali in senso lato, si dovrebbe ammettere che il giudice, nel già citato “colpo d’occhio” individuatore della tutela

4 Cfr. all’uopo SATTA,Diritto processuale civile, XII ed., CEDAM, 1996, pp. 260-261, che, rimandando a BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949, in particolare, pp. 269, ss., tuttavia intende l’attività

“interpretativa” (in senso lato) come preordinata all’individuazione dell’atto, non della domanda di tutela: “L’atto si individua dal complesso di tutte le rilevazioni prescritte, non dalla volontà di chi l’ha compiuto”.

5 Si rinvia ancora a SATTA,op.cit., pp. 260-261: “E’ molto significativo che in nessuna parte del codice di procedura civile si dettino regole sull’interpretazione degli atti processuali. Ciò può voler significare o che il legislatore ha rinviato alle norme di interpretazione dei negozi giuridici, o che ha ritenuto che gli atti processuali non sono suscettibili di interpretazione nel senso proprio di questa parola. Quel che abbiamo detto intorno alla fondamentale irrilevanza della volontà negli atti processuali induce a ritenere come vera quest’ultima ipotesi”. Partendo da una concezione dell’attività processuale realizzata dalle parti come improntata al principio di volontarietà e non di negozialità – di tal che al momento della richiesta di tutela l’attore non fruirebbe della disponibilità degli effetti giuridici, la tutela risultando accordata o meno, e secondo le modalità ritenute più opportune, dal giudice – il Satta ha ritenuto non potesse operarsi attività interpretativa di sorta in ordine agli atti processuali, suscettibili non di esegesi (interpretazione della volontà dell’agente), ma di individuazione, di riconducibilità ad un tipo, “in base a elementi puramente obiettivi”, ammettendo un minimo rilievo della volontà non in senso “efficiente”, ma “funzionale”, come elemento di individuazione dell’atto; mentre qui si sostiene il rilievo, parimenti funzionale della volontà nell’individuazione della domanda di tutela.

6 Cfr. ancora BETTI, op.cit., pp.267-268: “A qualunque classe appartengono, gli atti processuali non sono regolati da altra legge che da quella processuale. Inammissibile è una applicazione, anche analogica, di norme specifiche del diritto privato. A differenza degli atti e negozi del diritto privato, i quali sono dotati ciascuno di un’efficacia giuridica a sé stante, gli atti processuali di parte non hanno, per loro normale destinazione, che una efficacia circoscritta alla sfera del processo e un’influenza, mediata, sul provvedimento giurisdizionale che al processo mette fine. Negli atti processuali i vizi dell’elemento soggettivo non hanno, in linea di principio, quel rilievo che hanno nei negozi di diritto privato. (…) Salvo il limite della temerarietà nella domanda (c.p.c. 96, 86) e del dolo strumentale negli atti ulteriori (c.p.c. 395, n. 1), per l’ordinamento processuale è anche indifferente se alla dichiarazione della parte corrisponda effettivamente un intento e se vi corrisponda proprio l’intento dichiarato. Il giudice e la controparte restano gravati dell’obbligo di provvedere sulla domanda o dell’onere di agire in conseguenza, a prescindere dall’intenzione che può averla determinata”.

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richiesta, sulla base degli elementi allegati, debba farsi in qualche modo guidare dall’intenzione, dall’auspicio di tutela della parte, per come trapela dall’atto introduttivo, che solo il provvedimento giurisdizionale può soddisfare.

A ciò non può essere d’ostacolo la mancata cristallizzazione formale della richiesta di tutela nelle conclusioni dell’atto, laddove la stessa domanda comunque trapeli, e l’intenzione di postularla risulti suffragata dalla deduzione di tutti gli elementi giuridici e fattuali necessari per la sua trattazione.

Sotto altro profilo, è però di tutta evidenza che l’interpretazione (nel senso ora chiarito) non può tradursi in uno snaturamento della richiesta di tutela.

Il giudice non può dunque desumere dall’istanza della parte qualcosa che non le sia almeno corrispondente7.

Il suo è infatti un intervento “sollecitato” dal cittadino, e la “delimitazione del tema” è operata da chi si rivolge all’istanza giurisdizionale per ottenere tutela (principio della disponibilità della tutela giurisdizionale). Il giudice non interviene d’ufficio a correggere ciò che in concreto non va nel dinamico atteggiarsi degli interessi umani, e mai potrebbe.

E’ infatti chi sostiene la lesione del suo diritto che autoresponsabilmente lo individua e ne deduce la violazione.

Il nesso tra diritto sostanziale e diritto alla tutela giurisdizionale per l’ipotesi della sua lesione è talmente forte che, oltre a tradursi nel cardine processuale della legittimazione ad agire (corollario del diritto costituzionale di azione e difesa in giudizio) impedisce che il giudice possa sostituirsi nella scelta di cosa tutelare e cosa no.

Se lo facesse si macchierebbe di ultra o extra-petizione.

5. In tale senso, il disposto dell’art. 112 c.p.c. (“Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato”) può costituire, se non un canone ermeneutico che guida l’attività

7 Sussisterebbe cioè il limite di “non sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella esercitata” (Cass. n. 15802/2005).

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interpretativa del giudice civile – attenendo esso più allo svolgersi dei poteri decisori, che di quelli esegetici – un limite generale di non-snaturamento-della-richiesta-di- tutela.

In altri termini, l’art. 112 c.p.c., che disciplina l’attività del giudice al momento della decisione, si rifletterebbe indirettamente anche sul momento dell’individuazione della domanda, di tal che l’istanza giudicante, specie nei casi di confine, e all’atto di ritenere sostanzialmente (seppur non letteralmente) spiccata una domanda, dovrebbe chiedersi se essa sia stata ricompresa negli obiettivi di tutela della parte.

Nell’individuazione del “chiesto” dunque, nella sua riconduzione al tipo di tutela, il giudice non deve travalicarne i limiti a mezzo dell’interpretazione, non deve desumere più di quanto la parte abbia osato chiedere (“il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa”), omettendo di decidere alcuni punti o pronunciandosi su più di quanto richiesto.

E tuttavia egli “deve pronunciare su tutta la domanda”. E la domanda deve intendersi “tutta” non solo con riferimento ad eventuali istanze cumulate (più petita) ma anche nel senso di considerare la richiesta di tutela nella sua veste globale, valutandone la coerenza, e se del caso superando, laddove l’istanza risulti sostanzialmente inequivocabile, l’ostacolo espressivo, in altri termini la deduzione con una perifrasi, anziché a chiare lettere – ma sempre nella completezza degli elementi giuridico-fattuali necessari per la sua decisione – della domanda giudiziale.

Senza che ciò si traduca in un vizio di extrapetizione.

6. In questi termini si può dunque ritenere ammissibile che, nell’

“interpretazione” degli atti processuali, al giudice sia accordata la possibilità di impiegare un metodo diverso da quello letterale, un metodo teleologico in senso lato.

Censurando l’operato del giudice d’appello che “in palese error in iudicando abbia ritenuto che la domanda di annullamento del contratto, avanzata nell'atto d'appello, fosse nuova solo perché "non esplicitamente" formulata in citazione”, la

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S.C. ha avallato la ricostruzione qui proposta dei poteri interpretativi, o meglio individuativi, del giudice civile, non necessariamente astretti in una logica esegetica letterale, ma flessibilmente protesi verso tecniche ermeneutiche miranti all’individuazione di ciò che sostanzialmente è stato chiesto. Miranti dunque all’individuazione della funzione in concreto svolta dall’atto processuale.

Ammettere un’ “interpretazione teleologica8 della domanda giudiziale” – che vada oltre lo stretto tenore testuale, con i dovuti e supra ricordati limiti – significa agevolare il diritto fondamentale di azione in giudizio, superando la sua subordinazione a parametri formalistici, in conformità agli ultimi indirizzi della Corte Edu.9

Ciò in special modo laddove le deduzioni di una parte siano state a tal punto inequivocabili da non lasciar dubbi in ordine all’estensione del petitum nemmeno alla controparte, che indi abbia avuto la possibilità di difendersi e abbia strutturato le proprie argomentazioni dando per buona la domanda, pur non espressamente avanzata.

Se il nostro giudice di seconde cure avesse così ragionato, se avesse ritenuto, in conformità alle considerazioni in questa sede esposte, già formulata in prima istanza la domanda de qua, nella completezza dell’istruttoria approntata e benché assorbita nella decisione di primo grado (come si desume dal contesto della pronuncia commentata), pur nella carenza di un’esplicitazione del petitum, non avrebbe qualificato la domanda d’annullamento, a questo punto solo ri-proposta nell’atto d’appello (art. 346 c.p.c.), come domanda nuova e dunque inammissibile.

8 Ex multis Cass. n. 22893/2008: “L’interpretazione della domanda è operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, è censurabile in sede di legittimità solo quando ne risulti alterato il senso letterale o il contenuto sostanziale dell’atto, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire”.

9 Vedasi all’uopo l’orientamento emerso nella giurisprudenza della Corte Edu , la quale ha sanzionato l’eccesso di formalismo delle norme processuali, specie quando non sussista un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito. (Casi ZVOLSKỲ ET ZVOLSKÀ, 12 novembre 2002 e FERRE’ GISBERT, 13 ottobre 2009).

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Tale presa di posizione del giudice di seconda istanza non risulta neutra, ma ha delle precise implicazioni: non sfuggono infatti le ricadute connesse a tali valutazioni sul diritto fondamentale di azione e difesa in giudizio.

Del resto, sol che si ponga mente alla vicenda esaminata ci si avvede che, se non si fosse attivato il grado di legittimità, la domanda di annullamento del contratto sarebbe rimasta frustrata, in quanto già assorbita in primo grado.

Ma le norme processuali si prestano alle più varie strumentalizzazioni, e sotto il crisma dell’art. 345 c.p.c., si cerca talvolta di ricondurre (più o meno pretestuosamente) richieste di tutela non formalmente (benché sostanzialmente) dedotte, per autolegittimare l’esclusione del dovere di pronuncia, con una malcelata fictio di mancata richiesta di tutela10.

Inevitabile affiora dunque la riserva mentale conseguente a questo arrestarsi alla soglia del “letterale”: e cioè che tale opzione risulti funzionalizzata ad una più rapida definizione della controversia ed a un conseguente più celere smaltimento dell’arretrato.

Con buona pace dell’art. 24 Cost.

10Vedasi, con riferimento al problema delle domande nuove in appello e ai motivi specifici dell’impugnazione (art. 342 c.p.c.), distortamente utilizzati quali modalità di “decimazione delle impugnazioni proposte” ad opera dei “giudici insofferenti”, l’intervento di SASSANI al Convegno sull’appello civile, organizzato dalla Fondazione Giovanni Fabbrini a Grosseto nel 2008. Tali strumentalizzazioni sarebbero all’origine di “un difetto di comunicazione con la giurisprudenza che, utilizzando formule stereotipe anche di matrice dottrinale, si è irrigidita su posizioni di assoluta chiusura”, e che, con riferimento all’art. 342 c.p.c. “brandendo il vessillo della "revisio prioris instantiae”, esclude in modo sempre più netto dall’ambito dell’appello ogni possibile correzione di rotta, mentre invece, l’appello dovrebbe essere proprio la sede privilegiata del dialogo rispetto al materiale utilizzato in primo grado: dovrebbe cioè essere fisiologica la prospettazione di nuove questioni o focalizzazione solo su alcune di quelle già trattate”; mentre, con riguardo all’art. 345 c.p.c., esclude qualsiasi sattiana “strada nuova” per perseguire quanto già chiesto in primo grado, rendendo, a ben vedere inutile il gravame d’appello.

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