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LA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE IN OSTETRICIA E GINECOLOGIA Dr. Giovanni Cannavò*

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LA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE IN OSTETRICIA E GINECOLOGIA Dr. Giovanni Cannavò*

Fino ad alcuni decenni fa la casistica riguardante azioni penali o civili per responsabilità professionale in campo medico era decisamente contenuta, o addirittura sporadica. Negli ultimi dieci anni invece il contenzioso giudiziario avente per oggetto casi di responsabilità professionale ha subito un incremento quasi esponenziale.

È difficile individuare cronologicamente con esattezza il momento di questa inversione di tendenza. Un’indagine compiuta in Italia alla fine degli anni ’80 (Martelli – Mastroroberto, Implicazioni assicurative della responsabilità professionale del medico nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale), evidenziava che, se nell’anno 85 rispetto all’84 l’aumento delle denunce e/o delle richieste di risarcimento era contenuto nell’ordine di alcuni procenti, nell’86 si registrava un aumento del 90% rispetto all’85. Uno studio successivo documenta un incremento costante del fenomeno dal 1983 al 1995, mentre sembrerebbe evidenziare proprio a partire dal 1995 un’inversione di tendenza.

In realtà questa tendenza alla riduzione dei casi è solo apparente, e nasconde in sé il fenomeno delle cosiddette “denunce tardive”, che contribuisce a rendere ancora più rilevante quanto sta accadendo in Italia in questi ultimi anni. Infatti, in conseguenza del nuovo orientamento giurisprudenziale, per il quale la responsabilità professionale medica delle strutture del S.S.N. si colloca nel campo della responsabilità contrattuale, il termine della prescrizione è diventato decennale; ciò fa sì che un gran numero di casi vengono denunciati molto tempo dopo. Così, tale fenomeno contribuisce a far crescere ulteriormente il numero delle denunce effettuate in questi ultimi anni.

Alcuni, soprattutto esponenti della classe medica, sostengono che gran parte della responsabilità per quanto sta accadendo sia da imputare all’enfasi data dagli organi di informazione ad eventi spesso troppo semplicisticamente etichettati con la definizione ormai tanto in voga di “malasanità”.

Non bisogna credere che l’aumento delle denunce sia da imputare ad un peggioramento della Sanità, e in particolare della Sanità pubblica. Infatti diverse indagini hanno evidenziato una crescita dello standard medio della qualità delle strutture sanitarie e d’altra parte l’esplosione delle denunce per presunta responsabilità professionale medica

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è più consistente proprio in quelle zone in cui si ha un livello medio di qualità dell’assistenza sanitaria tra i più elevati del nostro Paese.

È probabile che l’enfasi data dai giornali alle questioni di responsabilità professionale abbia contribuito al diffondersi di certo sentimento di sfiducia, ma è altrettanto vero che gli organi di informazione rispecchiano l’attualità di un fenomeno realmente esistente; essi possono forse amplificarlo, ma non sono in grado di generarlo dal nulla.

La causa va ricercata in motivazioni diverse, tra cui le principali sono una diversa coscienza del concetto di diritto alla salute, il cambiamento della giurisprudenza nei confronti della colpa professionale medica e le crescenti aspettative nei risultati della Medicina.

Un elemento fondamentale alla base del diverso atteggiamento del cittadino nei confronti della sanità e della salute è costituito dai profondi cambiamenti sociologici sempre più evidenti negli ultimi anni. Si è passati da una Società a tre classi ad un notevolissimo ampliamento della classe media istruita, da una società confinata all’ambito nazionale ad una società globale nella quale è sempre più facile muoversi ed avere contatti con realtà diverse.

Queste condizioni, insieme alla sempre crescente informazione data dai mass media, hanno portato il cittadino a sviluppare una maggiore conoscenza pubblica, una maggiore coscienza dei propri diritti e del concetto di “danno ingiusto”.

Nel contempo è cambiata la visione che si aveva del medico, prima visto come figura di prestigio, quasi un “semi-dio”, e adesso considerato semplicemente come un professionista che fornisce un servizio.

Ed è cambiata anche la posizione di chi chiede la prestazione: i pazienti sono diventati clienti.

Abbiamo infatti assistito, in seguito al diffondersi di sempre crescenti aspettative, alimentate dal continuo progresso scientifico e dalla ridefinizione del rapporto medico- paziente, alla disintegrazione del modello ippocratico-paternalistico, nel quale il medico aveva la facoltà ed il dovere di intervenire sul paziente in nome del principio di beneficialità, all’affermazione di un sistema personalistico che privilegia l’autonomia del paziente, il suo diritto all’autodeterminazione, l’inviolabilità della libertà personale.

Il cittadino, nell’ambito di una più generale consapevolezza dei propri diritti, pone al primo posto quello alla salute e si registra, dal punto di vista sociologico, una sempre

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minore accettazione della malattia e della menomazione come evento “naturalistico”, sensazione alimentata dalla convinzione di una Scienza Medica ormai in grado di risolvere la maggior parte delle malattie, fino ad ingenerare l’aspettativa di un risultato sempre positivo delle cure mediche.

A fianco dei cambiamenti nella società si pongono infatti quelli della medicina, con le innovazioni di alta tecnologia, le nuove procedure sperimentali, la telemedicina, le conquiste dell’immunologia e della genetica. Il medico adesso è responsabile non solo per sé, ma anche per la funzionalità dei macchinari che usa e il rapporto non è più solo medico-paziente, ma misto, personale e strumentale.

È il tempo della medicina d’équipe e computerizzata, ed anche la responsabilità che ruota intorno alla tecnologia medica si allarga sempre di più.

Il medico si trova, dunque oggi, a fronteggiare uno scenario complesso dovendo registrare non solo l’ostilità preconcetta di cittadini e mass media ma anche un mutato atteggiamento giurisprudenziale nei confronti della medicina.

Si è passati dal richiesta di risarcimento relativa al danno puramente economico ad un atteggiamento punitivo con il sempre più frequente ricorso al giudizio penale. Inoltre in seguito al notevole aumento delle denunce e delle richieste di risarcimento si stanno formando sempre più legali specializzati in RC medica ed è sempre più semplice trovare periti medico-legali esperti, mentre si evidenzia sempre più la tendenza a passare da scenari legislativi nazionali a criteri più omogenei a livello internazionale.

Infine, l’elemento più rilevante, che testimonia di quanto radicalmente sia cambiato lo scenario giurisprudenziale, è il fatto che secondo la giurisprudenza tradizionale spettava al paziente dimostrare il danno subito, mentre adesso l’onere della prova è sempre più spesso a carico del medico, nella convinzione che è molto più difficile per il paziente dimostrare di aver subito un danno dall’operato del prestatore di servizio, di quanto non lo sia per il medico, che dispone delle conoscenze tecniche necessarie e si troverebbe in una posizione di vantaggio per fornire la prova contraria.

Il paziente ha perso la fiducia reverenziale nel medico ed assume sempre più spesso atteggiamenti rivendicativi, incoraggiati dalla risonanza che i mezzi di comunicazione di massa offrono, spesso in maniera imprecisa e capziosa, ai casi di malpractice medica e dal miraggio di risarcimenti miliardari, il che porta ad un sempre crescente ricorso al giudizio

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penale che, diversamente dalle finalità sue proprie, ha spesso la sola motivazione di

“forzare” l’accesso all’azione risarcitoria.

Già nel il codice civile del 1942, con l’art. 2236, si era assunto il compito di elaborare una disciplina in materia, con l’intento, come detto nella nota di commento dell’allora Ministro Guardasigilli, di “trovare un punto di equilibrio fra due opposte esigenze: quella di non mortificare l'iniziativa del professionista, col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso, e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista”.

Alla luce di quanto sta accadendo oggi, questa è un’annotazione “illuminata”, che ben identifica quale dovrebbe essere il modo di intendere la colpa professionale, tracciando il confine che delimita da un lato il diritto del paziente ad agire nei confronti di chi lo ha curato male e, al tempo stesso, quello del medico di agire professionalmente con serenità in un campo, quale appunto quello della pratica medica, che è di per sé pericoloso e che spesso richiede iniziative decise e precise, anche se potenzialmente rischiose per il paziente.

La classe medica, seguendo il modello americano non è rimasta passiva e possiamo citare come primo esempio di mutamento del comportamento, quella che viene definita,

"medicina difensiva", ovvero l’attuazione di quei atteggiamenti ed accorgimenti finalizzati ad evitare possibili conflitti ed in particolare il contenzioso giuridico.

Essa è stata giustamente distinta in positiva e negativa, intendendo per positiva quella che non danneggia sostanzialmente il paziente, ma comunque caratterizzata da:

ricoveri inutili ed inutilmente prolungati, esami del tutto inutili prescritti al solo fine di cautelarsi, dirottamento dei casi rischiosi verso strutture più qualificate, applicazione stretta delle linee guida, verbali di consenso esasperati sotto il profilo della esagerazione dei rischi, in modo da coprire tutte le eventuali nicchie di pericolo, il che però finisce per aggravare la preoccupazione degli ammalati.

La medicina difensiva negativa è invece esemplificata dalla situazione del chirurgo che, dopo aver vissuto un’esperienza di processo penale, di fronte ad un intervento complesso decide di non eseguire l'intervento radicale, che mira a salvare la vita del paziente, ma si limita ad un intervento di minima, nel timore che eventuali menomazioni più gravi di quelle attese possano assumere più rilevanza rispetto al risultato primario di aver salvato una vita.

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In ambito civilistico sono ormai lontani i tempi in cui di fatto era ritenuto censurabile solo l’errore commesso per gravi ed evidenti inadempienze, ed è nota la posizione assunta dalla Corte di Cassazione, soprattutto a partire dal 1994 (Cassazione Civile, III Sez. n.

8470, 1994), nell’estendere il concetto di danno risarcibile da trattamento sanitario, fino a ritenere “presunta” la colpa in quei casi in cui, a fronte di una prestazione sanitaria che non rivesta il carattere della speciale difficoltà (casi che di fatto rappresentano la stragrande maggioranza), si verifichi un evento avverso che determini un “...

peggioramento delle condizioni del paziente”.

La conclusione è concettualmente giusta, ma evidentemente non tiene conto del fatto che in una grande quantità di casi il danno da trattamento sanitario è legato ai limiti stessi della Medicina, al realizzarsi cioè di complicanze accidentali, che si realizzano in maniera inevitabile in una certa percentuale che non sarà mai ulteriormente abbattibile.

Il problema sta anche nel fatto che spesso si tende ad esprimere i giudizi più sulla base degli esiti negativi del caso e non tenendo in sufficiente considerazione le circostanze reali in cui i fatti si sono svolti.

Inoltre bisogna anche tener conto del fatto che in un gran numero di casi non è possibile stabilire con ragionevole certezza se all’origine dell’esito negativo di una prestazione sanitaria vi sia un errore censurabile o meno. Infatti in non più del 20% dei casi è possibile accertare un’evidente colpa professionale e in un ulteriore 20% dei casi è possibile escluderla con certezza quasi assoluta.

La classe medica, dunque, è sempre più esposta al rischio di contenzioso giudiziario ed è stata costretta a stipulare polizze assicurative personali per tutelarsi in caso di errore professionale.

Anche i medici dipendenti delle strutture pubbliche, che fino a pochi anni fa godevano di una condizione di privilegio, in quanto la struttura pubblica di appartenenza provvedeva integralmente alla copertura assicurativa, sono oggi esposti al rischio di incorrere nell’azione di rivalsa da parte dell’ente di appartenenza in caso di colpa grave.

Le Compagnie di Assicurazione, inoltre, avendo fino ad oggi gestito in prima persona la quasi totalità di questo fenomeno, sempre sul piano civilistico, ma spesso anche in sede penale, hanno registrato negli ultimi anni un andamento economico del settore pesantemente negativo, nonostante la crescita esponenziale dei premi richiesti alle Aziende Sanitarie ad ogni rinnovo del contratto. A motivo di ciò sta non solo l’espandersi

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della casistica, ma anche l’incremento che ha avuto, soprattutto in questi ultimi anni, il valore economico del risarcimento del danno alla persona in Responsabilità Civile.

Importanti sono però le ripercussioni che tutto ciò ha determinato anche sui bilanci delle Aziende Sanitarie, che non solo hanno corrisposto in questi anni premi assicurativi sempre più elevati, ma si imbattono sempre più spesso nella difficoltà di trovare imprese di assicurazione disposte ad assumere questo rischio.

Vari studi pongono gli specialisti in ostetricia e ginecologia, insieme, agli ortopedici, i chirurghi e agli anestesisti, ai primi posti della graduatoria di rischio in termini di contenzioso giudiziario e nel caso dei ginecologi e degli anestesisti queste due categorie sono decisamente al primo posto in relazione all’entità delle somme erogate a titolo di risarcimento per danni derivanti direttamente o indirettamente dalla loro condotta.

L’attività ostetrica pone inoltre problematiche etico-giuridiche particolarmente delicate e difficili, in relazione alle aspettative connesse con il formarsi e lo sbocciare di una vita umana.

Le aspettative della gestante sono sicuramente condizionate dalla consapevolezza di vivere in un’era tecnologica avanzata e di poter usufruire di mezzi diagnostici sofisticati che consentono di controllare il benessere fetale e di intervenire tempestivamente in caso di accertato rischio ostetrico. Così l’aumento del contenzioso medico-legale in campo ostetrico è da ricercarsi nella ferma determinazione della coppia ad avere un figlio vivo e sano, frutto di una gravidanza programmata e che sempre più spesso, per motivi socio- economici e lavorativi, viene procrastinata. Inoltre, il costante aumento delle primipare ultra-trentacinquenni impone agli specialisti ostetrici-ginecologici una particolare attenzione nel monitoraggio della gravidanza e nella gestione del parto.

Le ipotesi di responsabilità professionale che più frequentemente coinvolgono l’ostetrico-ginecologo sono la nascita di un figlio indesiderato, la nascita di un feto malformato per omessa diagnosi durante la gravidanza, la morte del feto o la nascita di un feto menomato a causa di lesioni colposamente provocate dal medico durante la gravidanza o al momento del parto.

La nascita di un figlio indesiderato può essere un danno riconducibile ad un difetto di informazione della paziente sulla sicurezza e sulle caratteristiche dei metodi anticoncezionali, ad errore tecnico nell’esecuzione di un intervento abortivo, oppure a mancata o insufficiente informazione sulla necessità di effettuare controlli per verificare

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l’avvenuta interruzione della gravidanza. In quest’ultimo caso il diritto al risarcimento viene riconosciuto, secondo la Suprema Corte (Sentenza della Cassazione Civile N. 6464 dell’8 luglio 1994), “non per il solo fatto dell’inadempimento dell’obbligazione che il sanitario era tenuto ad adempiere, ma se sia anche provata la sussistenza della messa in pericolo o di un danno effettivo alla salute fisica o psichica della donna”.

Per quanto riguarda la nascita di un feto malformato per omessa diagnosi durante la gravidanza, i dati epidemiologici relativi alle patologie congenite mostrano un’elevata incidenza delle patologie congenite: su 24.000 nati vivi nel 1994 nella regione Toscana, 518 casi di vivi con difetti congeniti, per una percentuale del 2%.

È evidente che, nonostante l’introduzione di strumenti diagnostici sempre più sofisticati, in qualunque ospedale si può incorrere nel rischio di non diagnosticare una patologia di grande rilevanza.

L’ecografia ostetrica, è senz’altro un prezioso strumento di monitoraggio della gravidanza, ma presenta vantaggi e limiti. È necessario pertanto informare la gestante in maniera comprensibile ed esplicita sulla sensibilità diagnostica dell’ecografia, su eventuali metodi alternativi di screening prenatale, sulle indicazioni e rischi relativi. Si fa sempre più strada la necessità di acquisire il consenso informato anche nel caso dell’ecografia ostetrica, poiché le rivendicazioni risarcitorie di molti genitori derivano spesso dal difetto di informazione sui limiti di questa metodica diagnostica.

Nel monitoraggio della gravidanza il ginecologo-ecografista dovrà attenersi alle linee guida ministeriali per lo screening ecografico delle malformazioni fetali.

Inoltre, per quanto riguarda l’importanza dell’ecografia, ricordiamo che il Comitato Nazionale per la Bioetica e la Diagnosi Prenatale, già nel 1992, aveva affermato che l’ecografia è l’unica procedura di diagnosi prenatale attualmente proponibile su larga scala e che si deve escludere un uso indiscriminato della diagnosi prenatale invasiva, non giustificato da un’indicazione medica.

In ambito giurisprudenziale si registrano tre fondamentali orientamenti in merito al diritto della madre al risarcimento del danno per aver dato alla luce un bambino malformato per errore diagnostico dei medici.

q Il primo individua nella condotta colposa del medico una violazione al diritto di informazione e di autodeterminazione della madre.

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q Il secondo riconosce un danno risarcibile soltanto nell’ipotesi in cui la gestante, informata dai medici sulle malformazioni del feto, avrebbe potuto lecitamente esercitare il diritto all’aborto (nei casi quindi in cui la prosecuzione della gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la propria salute).

Secondo tale corrente giurisprudenziale la madre avrà diritto al risarcimento del danno biologico e anche del danno patrimoniale.

q Il terzo orientamento, invece, riconosce ai genitori, anche quando non ricorrano i presupposti per l’esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza, il diritto al risarcimento del danno biologico subito per la notizia inaspettata della nascita di un figlio malformato.

Il rischio di provocare lesioni fetali durante la gravidanza è correlato all’utilizzo di metodiche diagnostiche prenatali invasive, che presuppongono l’obbligo di informazione per il medico circa le finalità dell’indagine, i rischi intrinseci alla metodica, la percentuale di aborti, la possibilità di causare al feto danni diretti o indiretti, e l’acquisizione del consenso in forma scritta.

Ribadiamo il concetto che il ricorso a metodiche diagnostiche prenatali invasive senza una precisa indicazione medica può rappresentare una pericolosa fonte di responsabilità professionale per l’ostetrico in caso di morte o danno fetale.

La giurisprudenza ha riconosciuto il diritto del neonato al risarcimento del danno all’integrità fisica subito durante la gestazione per imperizia del medico. In caso di morte intrauterina del feto per colpa professionale si configura l’ipotesi di reato di procurato aborto, pertanto alla madre potrà essere riconosciuto il risarcimento del danno morale.

Infine, un’altra ipotesi di responsabilità professionale che può coinvolgere l’ostetrico- ginecologo, è quella di morte del feto o nascita di un feto menomato a causa di lesioni colposamente provocate dal medico durante la gravidanza o al momento del parto.

Gli errori commessi nella condotta del parto sono riconducibili alle ben note ipotesi di colpa “generica”: imperizia, imprudenza e negligenza. Si tratta di errori che in molti casi provocano gravi handicap al neonato (dall’ipossia cerebrale alla distocia della spalla) cui corrispondono risarcimenti pluri-miliardari, nel determinare i quali si tiene conto del danno alla salute psicofisica subito dal neonato, dell’impossibilità di svolgere un qualsiasi proficuo lavoro, delle spese di assistenza che graveranno sulla famiglia e talora anche delle sofferenze psicologiche a questa arrecate.

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E’ utile, in caso di contenzioso che l’ostetrico durante il travaglio ed il parto si sia attenuto alle linee guida nazionali proposte dalla SIGO. Secondo il modello americano, ad esempio, soprattutto in alcuni Stati, come il Maine o il Minnesota, l’aderenza del medico alla linee guida viene considerata elemento a suo discarico ed anche in Italia si va facendo sempre più strada una mentalità giuridica che tende ad essere più comprensiva verso i medici che si siano attenuti a delle regole comportamentali.

Bisogna poi sempre acquisire il consenso informato della gestante quando si prospetta l’opzione tra parto cesareo e parto vaginale in condizioni di rischio. L’ostetrico, o meglio tutta l’equipe medica, dovrà prospettare alla gestante la scelta più aderente a quella indicata in casi consimili dalle linee guida nazionali.

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un incremento dei parti cesarei “elettivi”, spesso condizionato da irrazionali paure della gestante o da esigenze familiari di programmazione della nascita, in assenza di indicazioni squisitamente ostetriche. Una scelta operativa “compiacente”, in assenza di indicazione medica, anche quando vi sia esplicita richiesta della gestante, può diventare fonte di responsabilità per l’ostetrico:

ricordiamo infatti che il parto cesareo comporta un rischio di mortalità materna da 2 ad 11 volte maggiore rispetto al parto naturale.

È opinione ampiamente condivisa che l’induzione del parto mediante sostanze farmacologiche in grado di stimolare le contrazioni uterine e le terapie mediche durante il travaglio rientrino nella sfera di applicazione del consenso implicito da parte della paziente: il medico dovrà però fornire tutte le informazioni a riguardo astenendosi in caso di opposizione (purché non ricorra lo stato di necessità). L’esperienza medico-legale ci induce tuttavia a suggerire l’acquisizione del consenso informato in forma scritta in caso di induzione farmacologica del travaglio di parto, tenuto conto dei rischi documentati in letteratura.

Avviandosi alla conclusione dobbiamo rilevare come in conseguenza della trasformazione del rapporto medico-paziente in un vero e proprio “contratto di cura” e della crescente preoccupazione dei professionisti in relazione agli orientamenti della giurisprudenza, si ha l’esigenza pressante di trovare delle possibili soluzioni.

Il medico italiano, infatti, ha goduto per decenni di una situazione di privilegio, di una sorta di impunità, ed oggi si trova in un certo senso disarmato, sia intellettualmente che

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materialmente, di fronte a quella che vede come una massiccia e generalizzata aggressione.

È allora giunto il momento che la classe medica si doti di protocolli comportamentali, acquisisca una diversa cultura del rapporto con il paziente e una diversa coscienza dei rischi cui è esposto. È chiaro che non esiste la perfezione, e l’errore è possibile in tutte le attività umane, anche se sembra pesare di più nella professione medica, che ha a che fare con la vita umana. È necessario però porre delle linee distintive tra l’errore e la negligenza.

Per fare questo è necessario che la classe medica faccia riferimento alle linee guida e a protocolli che permettano di individuare quei comportamenti che esulano dalla prassi usuale e codificata.

È quanto viene fatto, abbiamo visto, in alcuni Stati americani, dove una buona applicazione delle linee guida nel monitoraggio intraoperatorio ha portato ad una riduzione delle lesioni ipossiche neonatali e di conseguenza ad una drastica riduzione dei premi assicurativi.

Tuttavia non sempre le esperienze cliniche nord-americane sono accettate nel contesto socio-culturale italiano. L’attuale contesto culturale della medicina italiana, infatti, necessita di un certo periodo perché dei riferimenti standard di buona pratica possano divenire credibili. È necessaria un’opera di sensibilizzazione volta a modificare le abitudini culturali e di lavoro dei medici ancora oggi legati ad un ruolo paternalistico nei confronti dei pazienti e di medici individualisti che non tengono conto del lavoro di equipe e della complessità delle strutture sanitarie.

Chi si oppone alle linee guida sostiene che esse comprimono l’autonomia professionale del medico e gli impediscono di fare le cose che “sente” di fare. Tali preoccupazioni sono il retaggio di vetuste concezioni della professione medica, più vicina ad un’arte che ad una scienza.

Noi riteniamo che, in casi di contenzioso assicurativo giuridico, l’aderenza alle linee guida emanate dalle società scientifiche tuteli il medico che, dimostrando di averle correttamente eseguite, potrà quanto meno affermare di essersi attenuto ad indicazioni concordate e condivise dal contesto generale della sua comunità clinico-scientifica.

Molte associazioni professionali e scientifiche si sono già dotate di linee guida comportamentali. Un esempio è quello delle linee guida ministeriali per lo screening ecografico delle malformazioni fetali, ispirate al Protocollo suggerito dalla Società Italiana

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di Ecografia Ostetrico Ginecologica (Linee Guida Ministeriali sull’Applicazione del D.M.

10/9/98, ripreso dal Protocollo suggerito dalla SIEOG).

Riteniamo che il problema delle linee guida meriti grande attenzione. È opportuno che le associazioni professionali e le società scientifiche si attivino per elaborare delle indicazioni guida, piuttosto che optare per una resistenza passiva, destinata a subire linee guida imposte dall’esterno e accompagnate per legge da sanzioni disciplinari ed economiche. Le linee guida necessiteranno inoltre di essere aggiornate periodicamente in base alla letteratura nazionale ed internazionale.

Tale impostazione può sembrare riduttiva e costrittiva in una scienza dove rivestono ancora grandissima importanza, nel rapporto medico-paziente, il fattore individuale, la capacità comunicativa e l’empatia insite nella professione medica. Probabilmente, però, è preferibile adattarsi a tale situazione che eccedere in fantasia in un campo che lascia sempre meno spazio all’iniziativa individuale.

Un altro importante argomento da affrontare nell’ottica della “prevenzione” del contenzioso giudiziario-assicurativo è quello del consenso informato. È ormai chiara a tutti l’importanza dell’informazione e dell’acquisizione di un consenso consapevole ed esplicito.

Il professionista deve imparare a considerare l’informazione e l’acquisizione del consenso come momento fondamentale nel rapporto medico-paziente, dal quale dipende la liceità dell’atto medico, e non come un frettoloso preliminare.

Ancora una volta una situazione particolare è in campo ostetrico quella dell’analgesia da effettuare alla partoriente, che disturbata dal dolore e dallo stress del travaglio, può non essere in grado di recepire pienamente le informazioni fornite, se queste vengono date immediatamente prima del parto.

Le aspettative della donna, influenzate da pregiudizi o dall’informazione fornita dai mass-media, nonché da fattori culturali e socioeconomici, non sempre corrispondono alla realtà: il verificarsi di qualsiasi evento che non corrisponda a queste aspettative può essere percepito come una mancanza di assistenza da parte dei sanitari. L’informazione dovrà pertanto essere tempestiva, corretta dal punto di vista scientifico e al contempo facilmente comprensibile.

La scheda elaborata per l’acquisizione del consenso all’anestesia in ostetricia rappresenta un buon modello di comportamento. È opportuno che l’acquisizione di tale consenso si svolga in due tempi, il tempo dell’informazione e quello del consenso. La

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prima fase dovrebbe aver luogo durante i corsi di preparazione al parto, mediante appositi incontri con l’anestesista. La seconda fase è invece sempre individuale e va ottenuta per iscritto durante la visita pre-parto e confermata poi, questa volta anche solo oralmente, durante il travaglio. È opportuna una breve illustrazione delle tecniche di anestesia e/o analgesia proposte o possibili, l’informazione fornita deve essere corretta e precisa, sufficientemente tecnica da non dare adito a interpretazioni controverse, ma sufficientemente semplice da poter essere compresa da tutte le gestanti, e deve essere presentata in forma tale da non spaventare o mettere in ansia la gestante.

La realtà che giunge all’osservazione del medico-legale contrasta spesso in maniera clamorosa con tali direttive comportamentali in materia di acquisizione del consenso: ci si trova spesso dinanzi a schede superficiali, proposte e sottoscritte frettolosamente prima di entrare in sala operatoria, senza alcuna spiegazione in merito ai rischi cui la paziente si sottopone.

L’acquisizione del consenso informato rappresenta oggi il cardine fondamentale del rapporto medico-paziente ed una pericolosa fonte di responsabilità quando ad esso non si dedicano tempo ed energie sufficienti.

Elemento portante per la gestione del rischio resta comunque la prevenzione, che va costruita basandosi su tre livelli fondamentali.

q Il primo passo è la creazione di un rapporto positivo con il paziente, visto che spesso alla base della richiesta di danni si trova un problema di comunicazione.

q Il secondo punto riguarda l’errore medico in senso stretto, e impone quindi l’adozione di misure che permettano di ridurre l’incidenza di esiti negativi riconducibili ad un comportamento professionale non conforme ai parametri riconosciuti. È proprio a questo punto che l’adesione alle linee guida si profila come un utile riferimento.

q Infine al terzo punto si ribadisce l’importanza della scrupolosa compilazione della cartella clinica, che se risulta inesatta, o contrastante con la dinamica dei fatti altrimenti provata, pregiudica la figura del professionista nella mente del magistrato. Documentazioni mediche lacunose, cartelle cliniche incomplete, in sede di giudizio pesano sempre come gravi elementi a sfavore del medico.

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La creazione di una cultura della prevenzione non riguarda però soltanto i medici.

Uno studio della Physicians Insurers Association of America che raccoglie 24 compagnie specializzate nel settore RC medica e che sono riuscite a creare una banca dati che raccoglie tutti i casi di richiesta di risarcimento danni in cui sono state coinvolte ha permesso di evidenziare l’importanza di un’attenta compilazione delle cartelle cliniche, perché tutti gli operatori possano essere in grado di accedere alle informazioni del caso. Le cartelle devono riportare in modo completo tutti i sintomi accusati dalla paziente, i fattori di rischio riscontrati, la storia clinica di eventuali gravidanze precedenti, con le loro complicanze e il loro esito, prestando particolare attenzione ai casi di gravidanza oltre termine e documentando e discutendo tempestivamente con la paziente eventuali risultati positivi o incerti riscontrati in sede diagnostica.

L’iniziativa si è trasformata in un utilissimo strumento di monitoraggio della casistica, che permette di individuare i comportamenti maggiormente a rischio, su cui è utile concentrare gli sforzi di prevenzione.

In Italia sono comunque stati fatti dei passi in vanti in difesa dei medici ed utilissima appare l’obbligatorietà, prevista dal nuovo contratto, di ripartire sull’intera categoria medica il rischio patrimoniale, visto che una gran parte dei medici, soprattutto quelli appartenenti ad alcune specializzazioni considerate meno rischiose, non erano fino ad oggi assicurati, o lo erano al di sotto degli standard minimi necessari.

Un’altra interessante possibilità è quella di un intervento legislativo simile al modello svedese, dove è stato istituito un “fondo sociale” o “fondo per il rischio terapeutico”, che viene attivato in quei casi di macro menomazione in cui il rapporto causale tra condotta medica e lesioni sia dai contorni indefiniti e mal accertabili, riducendo così il rischio di esasperata conflittualità tra famiglia e medico, e indennizzando congruamente e rapidamente il portatore di handicap.

In conclusione la classe medica non deve vivere passivamente questa situazione che la vede pesantemente coinvolta, ma deve diventare soggetto attivo in grado di dare risposte adeguate ad un fenomeno che tende a degenerare sotto la spinta di interessi meramente economici, mettendo in discussione una professione che è sempre stata connotata per l’altruismo, la generosità e il sacrificio.

È necessario cercare di trovare un equilibrio che consenta certamente di proseguire

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nell’opera di maggior tutela del cittadino riguardo al diritto alla salute, cosa che però evidentemente non può e non deve significare soltanto garantirgli l’accesso ad un ristoro risarcitorio ogni volta che si registri il “fallimento” di un’attività medica, ma di consentire anche alla classe medica di operare con serenità e mettendo in campo tutte le sue risorse, senza il timore, quando non addirittura il freno, che eventuali insuccessi si trasformino automaticamente in un’azione civile, o addirittura penale, nei suoi confronti.

Si ribadisce allora l’urgente necessità di avviare un’attenta riflessione da parte di tutte le figure coinvolte, una riflessione indispensabile e urgente se si tiene conto del rischio che, evolvendo ulteriormente il fenomeno, si finisca per far prevalere la conflittualità e, dunque, la reciproca diffidenza, in un rapporto quale quello tra medico e paziente, tra cittadino-utente e strutture deputate ad erogare i servizi sanitari, che tutto dovrebbe avere tranne che, appunto, diffidenza e conflittualità.

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