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Memorie magistrali: riscoprire il Movimento di Cooperazione Educativa per una critica dell’innovazione

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Academic year: 2022

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Memorie magistrali:

riscoprire il Movimento di Cooperazione Educativa per una critica dell’innovazione

Antonio Sofia

Abbiamo intervistato diciotto insegnanti del Movimento di Cooperazione Educativa attivi dagli anni ’60 in poi, per ricostruire la visione dell’Associazione affrontando alcuni temi: la pedagogia dell’ascolto, il libro di testo, l’organizzazione di spazio e tempo, la documentazione e la valutazione, le tecnologie, la scuola come laborato- rio di democrazia. L’analisi dei racconti ha restituito i limiti del discorso sulla scuo- la attuale che ricodifica i riferimenti pedagogici delle loro esperienze, orientate alla costruzione della democrazia dopo il Fascismo, in modo funzionale alla conserva- zione di un eterno presente neoliberista.

We interviewed eighteen teachers who were active in the Movimento di Coopera- zione Educativa, a teachers’ independent association founded after the fall of the Italian Fascist dictatorship. We asked them about their practice of the pedagogy of the association: the “pedagogia dell’ascolto”, the critic about school textbook, the organization of space and time, the use of documentation, evaluation, technol- ogy in didactics, the school as a laboratory for democracy. Their stories contrib- ute to a critical prospective on the present discussion about school innovation in Italy.

Parole chiave: Movimento di Cooperazione Educativa, innovazione, storia orale, educazione e politica, sociologia dell’educazione

Keywords: Movimento di Cooperazione Educativa, innovation, oral history, educa- tion and politics, sociology of education

1. Dalla tipografia al montaggio

Il progetto Memorie Magistrali, all’interno della linea di ricerca

“Valorizzazione del patrimonio storico” di INDIRE, propone percorsi di riflessione sul racconto della scuola italiana, una raccolta di docu- menti ereditati e offerti da chi è stato protagonista e testimone di una Storia cui ritornare con domande sempre rinnovate, mosse dalla ten- sione alla ricerca e dalla responsabilità nel presente e sul futuro.

Costituire un patrimonio di narrazioni non è solo un’azione dovuta, diretta a preservare dall’erosione del tempo i reperti fondativi di un

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essere nazione e cultura, i tratti in cui riconoscersi, i presupposti del sentimento di qualsiasi appartenenza. Significa anche intessere una trama tra elementi concorrenti alla comprensione di ciò che abbiamo alle spalle.

Significa, inoltre, porre al plurale la memoria, perché si possa pro- cedere dalle domande sul presente all’interpretazione delle ricorrenze, delle dissolvenze, delle rotture e delle trasformazioni mediante cui il presente è in relazione con il passato, remoto e recente.

Significa, infine, poter dare dimensione ai fenomeni, districare va- lore e senso dai coaguli di parole, offrire strumenti e opportunità per resistere al pregiudizio e per asseverare il limite del giudizio.

Da questa premessa si è sviluppato il percorso dedicato al Movi- mento di Cooperazione Educativa, documentato in sei video1 di mon- taggio dai titoli:

C’è una scuola che sveglia Libri di testo e no

Apparecchiare la scuola Valutare con cura

Tecniche, tecnologie e pratiche di Movimento Maldiscuola

Abbiamo voluto attingere a una delle esperienze collettive che ha coinvolto con estrema pervasività gli insegnanti italiani nella seconda metà del secolo scorso. Nei nuclei territoriali e poi nei gruppi nazio- nali, gli aderenti all’MCE si sono interrogati su come la scuola potesse rispondere ai bisogni di una società tumefatta nelle carni e nello spi- rito dalle due Guerre Mondiali e dal Fascismo, su come orientare bambini e giovani all’indagine e alla comprensione quali precondi- zioni per partecipare attivamente al cambiamento e sostenere i propri diritti2. Il boom economico avrebbe lenito lo smarrimento e il benes- sere avrebbe addomesticato la vergogna: si riscrivevano le possibilità occupazionali, le istituzioni, le relazioni affettive; i riferimenti cultu- rali dominanti erano posti in crisi in ossequio alle esigenze di una so- cietà meno rigida nelle intenzioni e più aperta ai desideri, rivelatasi 1 Tutti i video sono visibili nella playlist su Youtube al link: https:// go-

o.gl/ZoRzUf. Saranno inoltre pubblicati in una sezione apposita del sito istituzionale di INDIRE (http://www.indire.it).

2 Cfr. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967.

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poi solo più malleabile e sconnessa per l’inesorabile egemonia del ca- pitalismo di fine Novecento3.

Sin dalla scelta di porsi in continuità con la proposta di Célestin ed Elise Freinet agli esordi della Cooperativa della tipografia a scuola nel 19514, il Movimento ha individuato nella documentazione, nella condivisione e nell’interrogazione continua, le coordinate della ricerca applicata all’educazione, realizzando nel discorso sui metodi e nella pratica scolastica una salda connessione tra pensiero politico e intento pedagogico.

Obiettivo della scuola MCE era favorire la maturazione di un citta- dino libero, quindi dotato di senso critico, cosciente dell’unicità del soggetto e della forza moltiplicativa dell’agire cooperativo, animato da un sentimento ecologico dello stare al mondo e nutrito dal senti- mento della bellezza; un progetto, tuttavia, mai autoreferenziale o ide- alista, bensì concreto, radicato nell’esplorazione dei territori e delle storie. Il Movimento proponeva la costruzione della conoscenza come competenza fondamentale di cui dotare ogni bambino, prima risorsa per procedere verso la crescita e la realizzazione del sé.

Così, mutuando l’approccio all’indagine proposto ai bambini, già celebre nelle restituzioni di Albino Bernardini5, di Mario Lodi6, di Bruno Ciari7 e avanti nel tempo fino al più recente contributo di Fran- co Lorenzoni8, abbiamo provato a rivolgere alcune domande a diciotto insegnanti che hanno incontrato e animato l’MCE durante la loro car- riera9. Abbiamo voluto ascoltarli10 per capire qualcosa in più del Mo- 3 Cfr. P. P. Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1975; Idem, Lettere lute- rane, Torino, Einaudi, 1976; M. Fischer, Realismo capitalista, Roma, Nero, 2018.

4 Cfr. R. Rizzi, Pedagogia Popolare, Foggia, Edizioni del Rosone, 2017.

5 Cfr. A. Bernardini, La scuola nemica, Roma, Editori Riuniti, 1973; Idem, Un anno a Pietralata, Firenze, La Nuova Italia, 1973.

6 Cfr. M. Lodi, Il paese sbagliato, Torino, Einaudi, 1973.

7 Cfr. B. Ciari, Nuove tecniche didattiche, Roma, Editori Riuniti, 1972; Idem, La grande disadattata, Roma, Editori Riuniti, 1973; Idem, I modi dell’insegnare, Ro- ma, Editori Riuniti, 1973.

8 Cfr. F. Lorenzoni, I bambini pensano grande, Palermo, Sellerio, 2014.

9 Si tratta dei seguenti insegnanti: - Isabella Albano nasce a Venezia nel 1954 e nel veneziano svolge tutta la sua attività scolastica. Insegna come maestra elementa- re dal 1973 al 1984. Ricopre l’incarico di Direttrice Didattica dal 1984. Dal 2003 al 2012 è Dirigente Scolastico in un liceo scientifico, dal 2013 al 2017 in un liceo arti- stico; -Tiziano Battaggia nasce a Cassino nel 1958. Dopo una prima esperienza co- me educatore negli asili nido, diventa maestro elementare nel 1983 in provincia di Venezia; - Annalisa Busato nasce nel 1948 e nel territorio veneziano svolge tutta la sua attività scolastica. Inizia a insegnare nel 1967 e, dopo due anni di supplenza, en-

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tra di ruolo. Insegna come maestra elementare nel Circolo Didattico di Mortellago (Venezia) dal 1974 al pensionamento nel 2005. Pratica come psicopedagogista, dal 1991 al 1997, presso lo stesso Circolo Didattico; - Bruna Campolmi nasce a Firenze nel 1941. Pratica come maestra elementare tra Prato e Firenze, dal 1966 al 2001. - Domenico Canciani nasce a Portogruaro (Venezia) nel 1951. Lavora in fabbrica co- me operaio fino al 1976, anno in cui diventa maestro elementare in una scuola a tempo a Eraclea (Venezia). Dal 1984 al 2012 passa a insegnare nelle scuole medie materie letterarie sempre nel territorio veneziano;- Umberto Cattabrini nasce a Fi- renze nel 1943. Pratica come maestro elementare a Firenze dal 1970 al 1983; - Gian- carlo Cavinato nasce a Venezia nel 1948. Inizia a insegnare come maestro elementa- re nel 1967, entra di ruolo nella scuola primaria nel 1973. Nel 1984 diventa Direttore Didattico ad Eraclea (Venezia), mantiene questo incarico fino al 2013; - Maria Rosa- ria Di Santo nasce a Bomba (Chieti) nel 1950. Dal 1969 al 1973 insegna alla Scuola Popolare di Bomba. Entra in ruolo nel 1975 come maestra elementare e pratica fino al 1999; - Marta Fontana nasce a Napoli nel 1952, insegna inglese nella scuola me- dia dal 1976 fino al 2001. Nel 2002 passa a insegnare nella scuola superiore dove rimane fino al 2013, anno della pensione; - Marisa Giunti nasce a Firenze nel 1943.

Dal 1970 al 1982 insegna matematica e scienze nelle scuole medie dei Comuni di Firenze e Pontassieve. Dal 1982 al 2001 insegna presso la Scuola-città Pestalozzi; - Lando Landi nasce a Firenze nel 1931. Insegna come maestro elementare a Firenze presso la Scuola-città Pestalozzi dal 1959 al 1975; - Laura Lemmi nasce a Firenze nel 1950. Insegna come maestra di scuola elementare dal 1974 al 2010 nelle scuole del Comune di Firenze; - Leonardo Leonetti nasce nel 1948 ad Andria, inizia a lavo- rare a Napoli in una scuola elementare paritaria nel 1971 ed entra nella scuola ele- mentare statale nel 1976. Passa poi alla scuola media come insegnante di lettere. Di- venta Dirigente Scolastico nel 1985 e resta in servizio fino al 2011, anno della pen- sione; - Franco Lorenzoni nasce a Roma nel 1953. Inizia come maestro elementare nel 1976 in una scuola di Roma, alla Magliana, per poi proseguire, dal 1980, a Giove (Terni) in Umbria. In pensione dal 2018; - Salvatore Maugeri nasce a Catania nel 1944, comincia a lavorare come maestro di scuola elementare nel 1970 all’Istituto per ipovedenti di Firenze, dove rimane fino al 1979. Tra il 1980 e il 1990 accetta un incarico come insegnante di sostegno nelle scuole elementari dei comuni di Prato, Sesto Fiorentino, Bagno a Ripoli. Dal 1990 al 1993 ottiene un distacco al Comune di Firenze come psicopedagogista. Dal 1993 al 1995 rientra come maestro elementare alla scuola “Gaetana Agnesi” di Firenze; - Lena Mazzi nasce a Firenze nel 1951. In- segna come maestra elementare dal 1975 al 2016, nelle scuole primarie dei comuni di Firenze e Prato; - Chiara Puppini nasce nel 1945. Inizia a insegnare nel 1969 pres- so le scuole medie nel veneziano. Dal 1974 insegna italiano e storia all’Istituto Tec- nico per Geometri “Giorgio Massari” di Mestre, dove resta fino alla recente pensio- ne; - Nerina Vretenar nasce nel 1948, svolge supplenze brevi nelle scuole elementari dal 1966. Entra in ruolo come maestra elementare nel 1971 a Treviso. Nel 1983 si sposta poi a Moliano Veneto, sempre in provincia di Treviso, dove resta fino alla pensione nel 2007. Le interviste sono state realizzate da Veronica Forni, Pamela Giorgi, Antonio Sofia, Chiara Zanoccoli. La sceneggiatura e il montaggio dei video sono di Antonio Sofia. Sono stati intervistati: a Firenze, Bruna Campolmi, Umberto Cattabrini, Maria Rosaria Di Santo, Marisa Giunti, Lando Landi, Laura Lemmi, Sal- vatore Maugeri, Lena Mazzi; a Napoli, Marta Fontana, Leonardo Leonetti; a Vene-

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vimento di Cooperazione Educativa dalla loro esperienza11 e l’ab- biamo fatto con delle videoriprese che ci han permesso di guardare e riguardare le risposte ai nostri interrogativi. A seguito di ogni incontro nel gruppo di ricerca discutevamo di quanto raccolto, condividevamo le impressioni, sviluppavamo connessioni con le conversazioni prece- denti e ricalibravamo le domande per gli appuntamenti successivi.

Non abbiamo quindi somministrato un’intervista strutturata o semi- strutturata sempre uguale, bensì abbiamo provato ad assecondare un processo di continuo approfondimento12 che, per la qualità del mate- riale registrato e per la natura organica delle riflessioni sviluppate nel Movimento, da una parte imponeva una continua messa a fuoco nella vastità dei temi sollecitati, dall’altra permetteva che a ogni in- terlocuzione ciascun tema trovasse nuova linfa per l’indagine.

Gli incontri si sono svolti nelle sedi di INDIRE a Firenze e Napoli, a Venezia presso la sede dell’MCE e in provincia di Terni alla Casa- Laboratorio di Cenci, senza la pretesa di procedere all’esaurimento delle questioni che sono pure emerse. Come i ricordi dei genitori, dei nonni, dei vicini di casa contribuivano a far familiarizzare i bambini

“ricercatori” con la Storia attraverso le storie – storie di connessioni forti nelle famiglie, nelle comunità, negli eserciti, nelle fabbriche – così le biografie degli insegnanti che abbiamo incontrato, attivi in luo- ghi e tempi diversi o comuni nell’MCE, ci han consegnato l’idea di un’innovazione della scuola da cogliersi nelle innovazioni che ogni docente aveva sperimentato e condiviso nella comunità di cui sentiva di far parte.

Il passo successivo è stato quello di proseguire in continuità con la suggestione iniziale nel momento della restituzione: l’ispirazione è da- ta dalla macchina tipografica, quella macchina che impegnava i bam- bini nella restituzione di quanto vedevano, ascoltavano, dicevano e fa- cevano a scuola; quella macchina che era tanto pesante, secondo Ciari, da pretendere che l’uso coinvolgesse più bambini per volta, sti- molando un’idea potente di collaborazione; la macchina che nella stampa elevava i testi dei bambini e approssimava i libri, così meno

zia, Isabella Albano, Tiziano Battaggia, Domenico Canciani, Giancarlo Cavinato, Annalisa Busato, Chiara Puppini, Nerina Vretenar; presso la Casa Laboratorio di Cenci (Amelia), Franco Lorenzoni.

10 Cfr. C. Bermani, Introduzione alla storia orale, Roma, Odradek, 1999.

11 Cfr. P. Jedlowski, Storie comuni, Milano, Bruno Mondadori, 2002; Idem, Il sapere dell’esperienza, Roma, Carocci, 2008.

12 Cfr. L. Mortari, Ricercare e riflettere, Roma, Carocci, 2012.

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spaventosi e autoritari, da poterne discutere. Siamo in un’epoca in cui il rapporto con la memoria e la scrittura è stato totalmente sovver- tito13: nel tempo in cui si parla di economia della conoscenza, i libri sono ridotti al superfluo, la natura digitale dell’informazione presenta volatilità tecniche che connotano tanto le imprevedibili e sorprendenti trasformazioni del dato quanto l’irriducibile influenza di algoritmi gri- gi a orientarne peso e diffusione14. Non occorre più, sembrerebbe, ri- durre l’autorità del potere incarnato nel libro edito, operazione ne- cessaria al tempo in cui la distanza dalla stampa e dalla comunicazione pubblica cristallizzava altrimenti ruoli sociali e discriminazioni di ac- cesso. S’impongono, invece, sempre più l’assenza (se non il rifiuto) dell’autorevolezza, un dilagante impressionismo al servizio di parzia- lità funzionali, la suggestione del successo pubblico come garante cer- tificatore15. Occorre riaffermare che l’autonomia di ricerca è connessa imprescindibilmente alla dichiarazione di un metodo d’indagine rico- noscibile, ieri come oggi, anche nel campo educativo16. Pare urgente recuperare o ideare strumenti fondativi condivisi, impegnare risorse in una – al momento inimmaginabile – decontaminazione della verità dalle vacuità tautologiche della sua natura “più vera”, dalla più viru- lenta ostinazione al relativismo estemporaneo che nulla deve in più dell’enunciazione apodittica o di uno sproloquio su presunte evidenze.

In questo contesto, abbiamo individuato nel montaggio video una metafora della macchina tipografica e dal metodo globale, che l’MCE a lungo adottò per gli apprendimenti della letto-scrittura, abbiamo trat- to ispirazione per la sceneggiatura del video. Il montaggio è, infatti, l’ultimo passo nell’analisi delle interlocuzioni registrate.

In primis la frase significante, l’intervista di ogni docente, è stata ricevuta e posta in relazione con le altre in un movimento di con- fronto, ex post, tra le voci intervenute.

Ogni intervista è stata poi segmentata, scomposta, per individuarne gli elementi costitutivi; quindi, si è progettato il posizionamento di 13 Cfr. R. Casati, Contro il colonialismo digitale, Bari, Laterza, 2014; D. Wein-

berger, La stanza intelligente, Torino, Codice, 2012.

14 Cfr. V. Campanelli, Infowar, Milano, Egea, 2013; E. Parisier, Il filtro, Milano, Il Saggiatore, 2012; T. Terranova, Cultura network, Roma, Manifestolibri, 2006.

15 Cfr. A. Keen, Vertigine digitale, tr. it., Milano, EGEA, 2013; G. Lovink, L’abisso dei social media, tr. it., Milano, Università Bocconi Editore, 2016; E. Mo- rozov, L’ingenuità nella rete, tr. it., Torino, Codice, 2011.

16 Cfr. R. Laporta, Per una didattica della secondaria superiore, Firenze, La Nuova Italia, 1959; Idem, La difficile scommessa, Firenze, La Nuova Italia, 1971.

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questi segmenti nella riflessione estesa e su temi longitudinali intorno a cui procedere per aggregazioni.

Al termine dell’analisi del discorso e della scomposizione è stata, infine, elaborata la ricomposizione al montaggio: i segmenti ricavati sono stati allineati in rinnovate costruzioni di senso sulla base delle coordinate acquisite dalle interviste e dalla ricca bibliografia dell’

MCE, proponendo nel video una sorta di scrittura collettiva.

I partecipanti “interloquiscono” in differita tra loro attraverso l’editing e i sei video realizzati non sono materia grezza di supporto alla comunicazione, ma un’interpretazione al cuore della stessa indagine (in- terpretazione non mimetica, evidenziata anche da alcune scelte estetiche che rimarcano la natura tecnica dell’immagine low-fi e l’intervento pro- duttivo nell’uso del bianco e nero). Le sintesi proposte nella seconda parte di questo articolo tirano le fila di quanto emerso, in coerenza a un’opzione metodologica per cui forma e sostanza siano dichiaratamente connesse. Si ricostruisce nella postproduzione video e nel testo la varietà di voci che nel soggetto collettivo diventa coralità; si evidenziano echi tra le esperienze, sfumature nelle argomentazioni, le declinazioni di un progetto di Movimento sostenuto da un’identità organizzativa chiara.

L’identità dell’MCE risiede in princìpi a più riprese confermati nelle conversazioni: nella curiosità e nell’accoglienza; nella pedagogia dell’ascolto e nella didattica attiva; nella ricerca scientifica come base imprescindibile della pratica educativa; nella responsabilità politica dall’essere promotori di una scuola democratica; nell’innovazione come vitale interesse e desiderio di partecipazione alle vicende del mondo.

2. I video delle interviste: content analysis e composizione

Nei seguenti paragrafi sono sintetizzati i sei video realizzati analiz- zando, segmentando e componendo le interviste dei diciotto inse- gnanti MCE. Queste sintesi non sostituiscono la visione dei video, che sono disponibili online ai link in nota; esse si integrano con i video nella restituzione della ricerca, introducendo ed esplicitando il punto di vista maturato dallo studio dei contributi raccolti.

2.1. C’è una scuola che sveglia

Il primo video raccoglie riflessioni su cosa significa essere inse- gnante e sulla visione pedagogica maturata e proposta dall’MCE: ne è

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emerso un quadro sfaccettato ma coerente, in cui testimonianze lonta- ne nella geografia e nel tempo dell’esperienza si sono ricomposte sen- za fatica, con armonia.

“Noi ci incontravamo sempre in tutti i laboratori per adulti che fa- cevamo in MCE una volta alla settimana. Io frequentavo il laboratorio di Matematica, il laboratorio di Antropologia… Li facevo tutti perché ero molto voglioso di imparare” – così Franco Lorenzoni racconta la sua preparazione all’insegnamento con il gruppo romano dell’MCE, negli anni ’70.

Emergente e ricorrente nei racconti è la pratica dell’ascolto nella quotidianità scolastica: nell’ascolto trovano premesse l’inclusione e la formazione professionale, come valori della comunità educante. Con- cretamente, questa impostazione si realizza, per esempio, nella pro- grammazione collegiale, nell’ascolto reciproco tra colleghi, come ri- sultato di un’adesione autentica e diffusa ai principi del Movimento, al di là dall’appartenenza allo stesso.

“Allora c’era stata questa adesione al tempo pieno da parte soprat- tutto dei giovani insegnanti, e quindi lavoravamo moltissimo facendo programmazione insieme, anche programmazione a lungo termine, con aperture di classi” – rammenta Lena Mazzi.

L’ascolto, però, è soprattutto apertura, curiosità verso i bambini.

Una scuola diversa è un movimento rivoluzionario che parte dall’in- dividuo e dall’immagine che si ha del bambino (il riferimento condi- viso da Lorenzoni è l’influenza di Alessandra Ginzburg). Si può co- struire cultura incorporando il sapere e perché questo avvenga occorre partire da ciò che i bambini rivelano: laboratorio e scoperta, crescita nella comprensione dei fenomeni, delle storie, delle persone. La matu- razione di un senso di cittadinanza democratica e l’appropriarsi di un approccio critico autonomo sono inscindibilmente connessi. La rela- zione educativa si compone di considerazione del contesto dell’al- lievo, di accoglienza e organizzazione, di alleanza con le famiglie; si fonda su pratiche che han cura della globalità del discente, corpo e mente, della situazione sociale in cui l’azione educativa si realizza, dei tempi e delle esigenze specifiche di ciascun allievo.

“Mi ricordo che all’epoca cercavo dei trafiletti sul giornale che fos- sero leggibili anche in classe, e ci coinvolse, su richiesta dei bambini, il problema delle morti bianche, perché erano bambini che avevano avuto parenti a cui, nel lavoro, erano successi dei guai” – è la testimo- nianza di Bruna Campolmi.

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La giovinezza è una caratteristica del Movimento che ritorna nelle memorie: sono insegnanti accesi dall’intraprendenza quelli che met- tono in discussione la tradizione e improntano all’ascolto e, quindi, al dialogo la loro azione pedagogica. Con la Lettera a una professoressa dei ragazzi di Barbiana, l’ispirazione di Don Milani ha destato in tanti il desiderio di cambiamento, di discontinuità con la scuola della tradi- zione del primo Novecento.

Così ricorda Nerina Vretenar la sua predisposizione all’incontro con l’MCE:

“Mi ero avvicinata al Movimento di Cooperazione Educativa attra- verso i libri, prima, preparando i concorsi. Era uscita nel ’67 la Lettera a una professoressa e quella credo che abbia cambiato la vita a molti.

Anche a me ha cambiato la vita, il pensiero e i desideri rispetto al fare scuola. Avevo già in mente che si poteva, si doveva, sarebbe stato bel- lo lavorare in modo diverso”.

Essere insegnanti è l’interpretazione alta di un’idea politica. La for- za dei contenuti e la vitalità delle idee sono le premesse di una scuola protagonista nei territori, motore attivo della coesione sociale, non so- lo attraverso l’alfabetizzazione di base.

Con i decreti delegati del ’74, afferma Laura Lemmi, “la scuola non era più qualcosa di separato dalla società ma era la società che en- trava dentro alla scuola”.

L’acquisizione di un metodo scientifico nell’approccio alla cono- scenza, la presa di coscienza dei diritti e dei doveri, l’ampiezza degli scenari in cui interpretare ciò che accade e la creatività nell’immagi- nare interconnessioni sono obiettivi condivisi e quotidiani dell’inse- gnante che opera sempre nella dimensione della ricerca educativa.

Leonardo Leonetti cita gli interrogativi dei suoi allievi di Pomi- gliano d’Arco, in un percorso iniziato con la lettura di Passaggio a Sud-Est di Giorgio Moser: “Ma, qua, che succede intorno a noi?

Com’è che noi viviamo il nostro tempo? A partire dalla scuola ma an- che fuori dalla scuola... Ma noi che vogliamo fare? Ci limitiamo a co- noscere o vogliamo pensare a fare qualcosa? Ecco che nacque tutto un percorso di ricerca finalizzato a provare a modificare il proprio conte- sto”.

Uscire dalla classe per esplorare, partire dai bisogni per progettare sono state le conseguenti pratiche di una scuola attiva, orgogliosa- mente responsabile di fondare la partecipazione dei cittadini a una so- cietà nuova, libera e democratica.

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2.2. Libri di testo e no

“Di per sé il sapere non può essere qualcosa che è concentrato, pre- parato come un ricettario a cui io attingo perché ho da fare la storia, la geografia, eccetera. Noi volevamo sviluppare nei bambini un senso critico, un atteggiamento di ricerca, e per far questo avevamo bisogno di una pluralità di offerte, quindi di una pluralità di testi. C’era anche il libro di testo, però non ci bastava”.

Così Laura Lemmi introduce il secondo video, che affronta uno dei motivi di maggior impegno del Movimento, sin dagli esordi: la scuola ha bisogno di tanti libri, non di un solo libro di testo.

In classe un libro si può costruire insieme, scrivere insieme o sco- prire nelle impressioni dei compagni lettori. L’insegnante insicuro può temere la pluralità – è il punto sollevato da Salvatore Maugeri – ma la pluralità è una risorsa fondamentale per capire la bellezza della demo- crazia e acquisire senso critico, resta imprescindibile nella costituzione dell’offerta formativa.

Avviare in classe una biblioteca di lavoro arricchisce lo spazio e il tempo scolastico di continue opportunità: inoltre, laddove sono propo- ste, sostiene Bruna Campolmi, le biblioteche crescono in modo sor- prendente, nutrendosi dei contributi di tutti nel clima cooperativo.

Un libro di testo non è mai privo di implicazioni e parzialità: ciclo- stile e fotocopie han consentito la proposta di scelte alternative e auto- produzioni, che erano il risultato della continua formazione dell’inse- gnante ricercatore.

Si proponevano al Ministero strategie per ottimizzare le risorse a disposizione della scuola, senza danneggiare l’editoria: ne è un esem- pio l’opzione, illustrata da Umberto Cattabrini e già sperimentata all’estero, di far restituire annualmente i libri di testo al fine di riutiliz- zarli e destinare in questo modo la spesa alla biblioteca di lavoro. Op- pure ci si arrangiava con soddisfazione nella pratica, come riporta Domenico Canciani: “Con il buono scuola si compravano dei libri per la biblioteca di classe. I ragazzi, i bambini erano invitati a lasciare poi a fine anno i libri a scuola, e quindi la biblioteca si arricchiva di anno in anno. E si facevano tante fotocopie, ma per gestire autonomamente la didattica e anche per non dare quest’impressione del libro di testo unico che cadenza l’apprendimento, che decide cosa sai. C’era un doppio livello di fatica, ma anche l’orgoglio di fare una didattica al- ternativa”.

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Dai racconti dei docenti si ricostruisce, tuttavia, che dopo una pri- ma fase di rottura più radicale, dovuta anche alla volontà di esecrare gli elementi fortemente reazionari persistenti nei libri di testo del pri- mo dopoguerra, la quotidianità professionale è tornata ad avvalersi dei libri di testo. Probabilmente anche a seguito del dibattito sollevato dal Movimento, includendo nuovi approcci e maggiori aperture, i libri di testo sono migliorati. Lena Mazzi riporta come la produzione auto- noma dei docenti richiedeva molto lavoro, che si sommava al sempre più complesso inquadramento burocratico della professione, all’esi- guità delle risorse e alla volontà di non recedere dagli altri impegni della cooperazione educativa. I libri di testo, concepiti quindi con im- postazione rinnovata, possono ancora essere utili all'allievo per sinte- tizzare i discorsi svolti nella classe, ma resta l’indicazione che, nell'ot- tica di una scuola attiva, non si dovrebbe delegare a essi la pro- grammazione. Tiziano Battaggia, infatti, spiega: “Il bambino costrui- sce il linguaggio a partire anche da una testualità. Uno dei primi ap- procci che facciamo al libro è costruire dei libri con pieghe, con ori- gami, con cartoncino, costruire dei libri bianchi dove loro raccontano le loro storie: semplicemente, come primo approccio alla letto-scrit- tura, ancora prima dell’uso del quaderno. In modo che loro non ab- biano un’idea ‘dalla parola alla frase’, ma sia un approccio più natu- rale, legato a tecniche di vita”.

Raccontare è l’altra faccia della pratica dell’ascolto, raccontare a partire dalle esperienze, dai dubbi, dalle gioie e dalle inquietudini, per il docente e per gli allievi. Dall’ascolto e dal racconto, dunque, si ge- nerano le idee da sperimentare con metodo, costruendo strumenti, consultando documenti e testimoni, adoperando tecnologie. Così si capovolge la classe: l'insegnante accoglie le storie di bambini e ra- gazzi e offre loro le sue, apprende da loro e con loro, è “primus inter pares”, chiude la Lemmi, nella comunità che cresce.

2.3. Apparecchiare la scuola

Nel terzo video il confronto verte su come l’MCE ha proposto di innovare l’organizzazione dello spazio e del tempo scolastico.

“Nelle classi dove c’è un maestro MCE, la classe è abitata, è piena di materiali, è piena di colori, è piena di cose che fanno vedere la vita ricca di tutti i giorni a scuola” – dice Marisa Giunti.

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La classe racconta la storia degli studenti: si sovverte la disposi- zione classica degli arredi in aula, altrimenti allestita a conferma di di- stanze che inficiano la relazione educativa; si sperimenta per mettere in discussione fissità prestabilite.

Isabella Albano non ha dubbi nel merito, anche in riferimento alla sua esperienza come direttrice didattica: “Non è la classe che si deve adattare allo spazio imposto, ma sono la classe, l’attività che richie- dono una ristrutturazione dello spazio ad hoc”17.

Per insegnare occorre essere animati dalla curiosità per i materiali, per le strategie didattiche che possono rinnovare le potenzialità d’uso dello spazio classe e non solo. A volte gli edifici destinati alla scuola risultavano inadeguati e bisognava andar oltre quei limiti. Giancarlo Cavinato racconta della scuola in cui insegnava nelle vicinanze di Por- to Marghera, una scuola che intercettava il disagio conseguente all’

abbandono delle campagne per le fabbriche negli anni ’70, dopo il bo- om economico. Gli spazi angusti limitavano lo sforzo di un’orga- nizzazione in classi parallele, resa già complessa dalle storie di depri- vazione economica e sociale che la scuola accoglieva. “Avevamo or- ganizzato nel garage di alcuni amici un dopo-scuola alternativo stile Barbiana, stile Don Milani, non potendo usufruire di altri spazi dentro la scuola; lì facevamo ricerca, facevamo cartelloni, facevamo teatro”.

Lo spazio educativo è sempre in movimento, animato dalle discus- sioni, dai racconti, dalle attività, procede oltre le pareti della scuola stessa, si estende attraverso le collaborazioni con il territorio e si ali- menta delle occasioni di confronto e formazione tra colleghi, possibi- lità che il Movimento offriva a livello locale e nazionale.

In una schematizzazione efficace di Umberto Cattabrini si sintetiz- zano tre modalità dell’apprendimento a scuola, che può realizzarsi nell’apprendistato, nella lezione e nel laboratorio, modalità tutte u- gualmente necessarie. Spostare i banchi in cerchio o sedersi in terra, appropriarsi creativamente degli arredi trasformando la cattedra in un tavolo di lavoro, introdurre in classe strumenti, materiali grezzi, carte geografiche, sono alcuni orientamenti basilari di una didattica che ri- solve i blocchi della tradizione autoritaria nel dinamismo della scuola viva. Architetture non funzionali richiedono creatività e pongono li- 17 N.d.R. Sono state apportate piccole modifiche al racconto orale per migliorar- ne la leggibilità, senza intervenire sul senso della dichiarazione. In originale: “Non è la classe che si deve adattare allo spazio imposto, ma la classe, l’attività che richiede una ristrutturazione dello spazio ad hoc”.

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miti nel ridefinire gli spazi, ma anche i cambiamenti più piccoli (Frei- net tolse la pedana che sollevava la cattedra) possono travolgere equi- libri stantii.

Anche il tempo è una variabile su cui riflettere collettivamente per la progettazione, che richiede ricerca e vocazione al cambiamento.

Lando Landi descrive la Scuola-città Pestalozzi, ancor oggi modello di eccellenza nell’organizzazione integrata del tempo e dello spazio edu- cativi. Si può organizzare l’orario di tutta una scuola alternando atti- vità da svolgere in classe, momenti dedicati al lavoro di gruppo, com- presenze, assemblee collettive, laboratori interclasse. Dall’orario sco- lastico scandito per discipline si può passare alla programmazione per unità didattiche e aree multidisciplinari. I laboratori settimanali inter- classe possono essere destinati al recupero degli allievi in difficoltà e giovarsi delle competenze specifiche degli insegnanti, come ribadisce Cattabrini.

Muovere lo spazio vuol dire non irrigidire ruoli e relazioni, pren- dersi cura degli allievi, “apparecchiare lo spazio” per loro: Franco Lo- renzoni adotta così la felice espressione della regista teatrale Chiara Guidi. Con riferimento alla pedagogia dello sfondo di Andrea Cane- varo, Tiziano Battaggia illustra il valore dei riferimenti spaziali nella comprensione di una situazione relazionale, fondamentali perché cia- scuno possa dire: “Qui sta succedendo qualcosa che in qualche modo mi riguarda e qua ci sono tutti gli strumenti, i materiali, gli oggetti che mi permettono di poter conquistare la mia autonomia”. La disposi- zione a isola ne è una felice declinazione: accentua il protagonismo e l’autonomia degli allievi in gruppo, mentre l’azione del docente si o- rienta all’osservazione e al supporto. La gestione del tempo si integra con l’uso attivo dello spazio, dunque: la presenza di ritualità quoti- diane come il canto, la ricreazione come discontinuità che ravviva l'at- tenzione tramite possibilità di un impiego creativo del tempo, sono e- lementi che consentono all’allievo di prevedere ciò che gli succede, di aver consapevolezza e agire in una comunità.

Si può trascorrere la giornata scolastica all’aperto, nei giardini, nel- le strade, o nei luoghi delle istituzioni, come sperimentato da Elena Puppini nei suoi anni d’insegnamento in un Istituto per Geometri, quando conduceva i suoi allievi all’esplorazione degli Archivi di Stato veneziani. O come ricordato da Maria Rosaria Di Santo, insegnante nel piccolo centro di Bomba in Abruzzo, che aveva adottato una di- dattica orientata alla scoperta del territorio: “Cercavo di portare i ra-

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gazzi negli scavi archeologici, a visitare delle città, o anche a prendere consapevolezza delle origini del loro paese attraverso le interviste”.

Annalisa Busato non ha dubbi sul valore dirompente di una scuola aperta: “La rivoluzione consisteva nell’uscire dalla classe, invece di restare dentro. E ancora io penso che sia così. Infatti non è tanto se metti la penisola, se metti l’angoletto o se fai l’angolo del laboratorio:

secondo me è nel momento in cui vai fuori… Andavamo negli atri, se non disturbavamo, si andava a leggere in giardino, a scrivere sopra gli scalini… E poi il contatto col quartiere. Un po’ più tardi cominciavano i Consigli Comunali dei ragazzi, la partecipazione per chiedere la mo- difica delle strade fuori scuola, per esser più sicuri… Se cominci a parlare, ad ascoltare i bambini, capisci che non puoi fare scuola in cer- te maniere”.

Si può sperimentare in classi parallele, in verticale o nelle pluri- classi. Il cambiamento passa per il confronto e il supporto tra gli inse- gnanti, colleghi d’istituto, in connessione con il territorio. La coopera- zione può rinnovare l’entusiasmo e fornire spunti sempre nuovi per sperimentare strategie, pratiche, modelli organizzativi: una scuola che assolve il suo mandato sociale e politico è una scuola di cui poter es- sere felici, spiega Marisa Giunti, una scuola in cui si può resistere alla tentazione di arrendersi alla disillusione.

2.4. Valutare con cura

Il quarto video è dedicato al tema della valutazione. Annalisa Bu- sato introduce il tema spiegando come la valutazione sia considerata necessaria dagli stessi allievi, nell’accezione del dare valore, dedicare attenzione.

Occorre però una distinzione tra i gradi di istruzione e la fa Dome- nico Canciani, insegnante che ha avuto esperienza completa del primo ciclo: negli anni di insegnamento alla primaria valutare significava avviare la costruzione di un profilo del discente, e quindi il voto nu- merico risultava inutile e pernicioso; alla secondaria inferiore, pur ac- cettando di porre le basi di una riflessione sul livello degli apprendi- menti disciplinari conseguiti anche attraverso il voto, l’impegno più faticoso era quello di limitare negli scrutini l’assegnazione di giudizi negativi troppo pesanti, che anticipavano alla “preadolescenza scon- clusionata” le pressioni del percorso formativo successivo.

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In termini generali il voto è di per sé considerato dagli insegnanti intervistati uno strumento poco efficace perché sono troppi gli aspetti di cui una valutazione formativa si deve curare, troppi per esser con- densati in un numero: è necessaria la conoscenza delle storie personali degli studenti per comprenderne le necessità e le condizioni di vita;

occorre resistere alle scorciatoie delle bocciature che sanzionano senza prospettare possibilità di recupero; si deve valutare tenendo presente il rischio di scadere nell’orientamento superficiale, perpetuante condi- zioni di disagio; si può adottare l’autovalutazione come risorsa princi- pale per la costruzione dei profili.

La testimonianza di Marisa Giunti, insegnante della secondaria di primo grado a Rufina, in provincia di Firenze, evoca ancora il ricordo del priore di Barbiana: “Io avevo dei ragazzini che erano contadini fi- gli di contadini che venivano da venticinque chilometri lontano in ci- ma alla montagna e potevano essere gli alunni di don Milani. Quindi era chiaro che io non potevo trattarli in un modo da escluderli dal la- voro di tutti quanti. Dovevo fare in modo che anche loro si impegnas- sero, che lavorassero. E io dovevo valorizzare quello che facevano. E infatti c’erano i litigi per le bocciature, perché questi erano destinati alla bocciatura dal primo giorno di scuola”. La valutazione, inoltre, secondo Giancarlo Cavinato deve facilitare la comunicazione con a- lunni e famiglie: richiede la sperimentazione di un dialogo pedagogico difficile che può, però, trovare utili riscontri nell’autovalutazione degli allievi e nella documentazione qualitativa dei percorsi.

Il rifiuto del voto, le resistenze manifestate anche dall’MCE, porta- rono verso la fine degli anni ’70 alla sostituzione dei voti con i giudizi.

Anche i giudizi rivelarono presto grossi limiti, quelli di una redazione che si contorceva tra il dire e non dire, divagava sui problemi celando- li nella ripetizione appena variata e nel lessico specialistico.

Marta Fontana chiosa: “Dal ’78 c’erano i giudizi. Voi forse ve lo ricordate quando c’erano i giudizi: si dovevano scrivere tutte quelle diecimila parole per far capire se non aveva imparato o aveva impa- rato e così via. E per tanti anni abbiamo lavorato coi giudizi, che erano incomprensibili per i genitori. Per noi era un tormento e una tortura scrivere ciò che avevano appreso”. Concorda Leonardo Leonetti: “E- rano tutte cose che non dicevano niente. Nulla”.

Le voci dei docenti convergono nettamente su un punto: valutare significa contrastare la competizione, facilitare la relazione educativa e l’emersione in segno positivo delle diversità. Franco Lorenzoni è

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netto: il voto alla primaria è controproducente, mentre si deve valutare per dare valore. A questo proposito richiama ancora l’insegnamento di don Milani (“Non far parti uguali tra disuguali”) e sottolinea l’im- portanza degli errori, che non vanno nascosti: “Non è che il maestro deve lasciar fare, non è questo; ma bisogna stare attenti che non sia mai un confronto tra bambini, e per questo il voto numerico non va bene… Un bambino sarà più bravo a fare una cosa o un’altra. Ab- biamo bisogno di tante sensibilità diverse: perché valutarle, confron- tarle?… Diverso è il discorso dell’attenzione agli errori… Io vieto l’uso del bianchetto… Se la scuola è un luogo dove nascondo gli er- rori, vuol dire che c’è qualcosa che non va, perché l’errore devo pen- sarlo come un’occasione per capire qualcosa di più. E questo lo fai se scindi la valutazione da questo inferno del dire che è andata male, è andata bene, qui è andato meglio, che poi è quello che mina il senso della scuola”.

Negli ultimi due decenni, ricostruisce Umberto Cattabrini, l’indi- vidualizzazione, che ambiva a sostenere il diverso profilo di appren- dimento di ciascuno per conseguire obiettivi comuni, ha subito la ten- sione politica verso la personalizzazione, che anticipa l’attribuzione di diversi obiettivi sulla base di talenti o attitudini predeterminati: è la ri- caduta sulla scuola della traiettoria culturale che ha visto competi- zione, ottimizzazione e produttività affermarsi come valori egemoni e la solitudine imporsi come condizione globale. Anche per questo, in occasione della più recente reintroduzione del voto numerico alla scuola primaria, l’MCE ha promosso la campagna Voti a perdere, spiega Bruna Campolmi.

Isabella Albano sostiene che se lo studente non lavora al meglio è in primis per una carenza degli insegnanti; si rifiuta il voto numerico per ribadire l’importanza della metodologia didattica nell’apprendi- mento. Al centro di ogni considerazione deve essere il percorso del bambino, “che è in costante evoluzione”, afferma Laura Lemmi.

Voti, giudizi, lettere, ancora voti: gli orizzonti politici si sono tra- dotti in continue riforme della valutazione. Secondo Leonetti, “si tenta di cambiare la scuola perché evidentemente controllare la scuola è la cosa che interessa di più a tutti: o controllarla per farle fare ciò che si vuole, o fare in modo che sia il meno possibile, che sia nulla, perché se la scuola poi non dà niente, di fatto vuol dire che il cervello fun- ziona poco e, quindi, non si è più propensi a dire dei ‘no’ motivati”.

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Marta Fontana, insegnante di Lingua inglese, presenta in breve gli ultimi approdi della valutazione, che consistono nella certificazione delle competenze e nelle rubriche, strumenti che dovrebbero rendere più comprensibile e comunicabile quanto acquisito nel percorso di formazione. In fondo, però, suggerisce Tiziano Battaggia, resta co- stante per il docente l’esigenza di riesaminare quanto agisce al fine di operare in primo luogo su di sé, anche attraverso la scrittura clinica e la documentazione, le verifiche e l’osservazione. La valutazione è la possibilità che gli insegnanti hanno di interrogarsi per non restare iner- ti dinanzi alla complessità delle relazioni che devono costruire ed è, al contempo, desiderata dagli allievi come riscontro di un progetto di crescita personale, nel dialogo quotidiano. Se la valutazione è così agi- ta, assicura la Busato, non importa molto quale sia l’indicazione for- male da assolvere.

2.5. Tecniche, tecnologie e pratiche di Movimento

Il quinto video tenta di restituire alcune tracce dell’innovazione di- dattica che l’MCE ha saputo proporre. Ciclostile, limografo, macchina tipografica, schede autocorrettive: le tecnologie e le tecniche possono coadiuvare la risposta ai bisogni formativi emergenti e fornire oppor- tunità di sviluppare curiosità e passioni nelle pratiche. Sperimentare è riflettere anche sul linguaggio, sui significati della tecnologia e sugli inneschi che essa apporta nella relazione educativa.

“In particolare, il ciclostile – ricorda Umberto Cattabrini – è stata la fortuna di un bambino molto difficile. Gli abbiamo fatto la festa in terza classe quando è riuscito a fare la sua firma18. E lui curava…

Guai a chi toccava il ciclostile! Perché lui lo teneva pulito, eccetera.

Nessuna delle altre classi doveva venire a romperci le scatole sul ci- clostile. Se dovevano stampare qualcosina gliela faceva lui, a mano.

C’era la manovella. Aveva questa capacità di mettere insieme i colori che era unica, veramente. Mi dispiace non aver conservato nulla dei disegni che aveva fatto lui”.

Marisa Giunti, a proposito della realizzazione di uno schedario di schede autocorrettive per la scuola secondaria di primo grado, esterna un rimpianto simile: “Purtroppo sono tutti materiali che non ab- biamo… Non avevamo l’orgoglio del lavoro che facevamo… Non ab- 18 N.d.R. In originale: “Gli abbiamo fatto la festa in terza classe ché ha fatto la

sua firma”.

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biamo conservato questi materiali… Perché sarebbero stati interes- santi. Questo la scuola non ce l’ha insegnato e noi non l’abbiamo im- parato”.

Un primo focus, quindi, è sulla documentazione dei processi: la documentazione dell’apprendimento, inteso come esperienza di cui conservare memoria, realizzando un racconto cooperativo costante, composto di testi ma anche di artefatti, cartelloni, oggetti; la docu- mentazione dei fenomeni osservati nelle attività in classe e fuori dalla classe, come fondamentale acquisizione di metodo. La documenta- zione, quindi, non è soltanto archiviazione o resoconto formale, bensì premessa di una creatività intesa come risorsa di sistema.

Nei racconti dei docenti emerge la molteplicità delle pratiche di- dattiche sperimentate. L’uso della fotografia sostiene il pensiero cri- tico (“Secondo me la maestra sbaglia”, rammenta Bruna Campolmi con soddisfazione l’intervento di un suo allievo), attraverso la rifles- sione sull’immagine tecnica, il coinvolgimento in tutte le fasi della produzione, la disamina del punto di vista e dello stile. Il metodo glo- bale – dalla frase viva alle parole calde, alle sillabe da ricombinare, spiega Domenico Canciani – intreccia la letto-scrittura con le storie di vita, ingrediente fondamentale nella costituzione del gruppo classe.

Così le descrive Canciani: “Poi si usava il registratore. Una delle attività più belle che ricordo era il quaderno delle storie di vita. La sto- ria personale era un altro degli strumenti fondamentali. I bambini rac- contavano delle storie personali a partire da alcuni stimoli che gli ve- nivano forniti. Per esempio io gli dicevo: ‘Oggi raccontate la prima volta che mi sono sentito grande’. Loro raccontavano, si registravano, si raccoglievano in un quaderno e venivano fuori delle storie di vi- ta…”.

Inoltre, dal racconto individuale discendeva la scoperta del con- cetto del Tempo storico. Isabella Albano sintetizza con efficacia: “Ho lavorato molto sulla storia del bambino e della bambina, come prope- deutica all’avvio alla Storia con la S maiuscola, anche rispetto alla percezione del tempo e all’individuazione dello spessore storico che è qualcosa che, appunto, permea tutte le attività umane”. La scoperta del concetto di Cultura avveniva, invece, attraverso gli schedari etnolo- gici. Conferma Canciani: “Questi popoli avevano il vantaggio che era più facile per i bambini comprendere il nesso fra ambiente, organizza- zione sociale, organizzazione produttiva e storia, mentre con la nostra società complessa era molto più complicato”.

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Il Movimento nella sua storia ha fatto i conti con l’invecchiamento e l’aggiornamento degli strumenti e delle pratiche didattiche, nasce con la macchina tipografica e giunge all’adozione del computer e alle reti informatizzate di oggi. Si riafferma l’esigenza di un progetto che sia cornice di senso “per co-costruire cultura insieme” – dice Giancar- lo Cavinato. L’approccio agli strumenti non è neutralizzato in modo ingenuo, ma in consapevole riferimento alla relazione educativa. Un esempio utile è quello della corrispondenza tra bambini e ragazzi di scuole lontane, una pratica sperimentata con successo dal Movimento e di cui si trova una splendida testimonianza ne Il paese sbagliato di Mario Lodi. La corrispondenza è stata adottata nell’insegnamento del- le lingue straniere, ambito di ricerca di Marta Fontana: l’impatto della comunicazione digitale sulla corrispondenza ha richiesto studio e ri- progettazioni, perché il cambiamento tecnologico apportato dall’e- mail, dalla messaggistica istantanea, non sovrastasse la visione peda- gogica.

La continuità tra la tipografia alle origini del Movimento e le suc- cessive tecnologie si riconosce, quindi, nell’ideazione di strategie d’uso attivo per qualsiasi strumento venga a essere incluso nella pro- gettazione didattica: i media audiovisivi possono essere integrati nel teatro delle ombre o nell’approfondimento scientifico; la Lavagna In- terattiva Multimediale può diventare un cartellone collettivo da com- porre in tempo reale; il laboratorio linguistico e il digibook possono liberare lo studio delle lingue dall’impostazione mnemonica priva di contesto.

Cambia la relazione educativa se a scuola si introducono nuovi strumenti? A questa domanda gli insegnanti rispondono ricorrendo a una disposizione uniforme: una didattica non rispettosa dei tempi dei discenti non è inclusiva né democratica.

Si suggerisce cautela nell’accelerare tentativi di conformare la scuola a quanto si diffonde con successo nella società, magari per in- seguire l’attrattività dell’intrattenimento a schermo, per lo più in osse- quio al potente trend-setting del mercato. Si corre il rischio di agevo- lare, o addirittura radicalizzare l’impoverimento nella cura della mo- tricità, della relazione fisica con l’ambiente e con gli altri, una pro- gressiva carenza di sensibilità con cui poi l’intera comunità scolastica deve fare puntualmente i conti. Nessun rifiuto a priori per la tecnolo- gia, dunque, laddove sin dalla fondazione dell’MCE se ne sono esplo- rate le potenzialità in ambito educativo, bensì un richiamo all’au-

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tonomia del pensiero pedagogico: che resti curioso verso le scoperte e le invenzioni della contemporaneità, e sia pure critico, diretto a tutela- re la crescita del bambino nella sua completezza.

Franco Lorenzoni così spiega il suo appello a procrastinare almeno fino al terzo anno della primaria l’uso dei dispositivi a schermo. Gli oggetti costruiti con le mani durante le attività, gli oggetti della memo- ria comune, le “cose belle”, favoriscono l’immaginazione e le connes- sioni, consolidano la personalità in formazione e, quindi, possono fa- vorire un contatto virtuoso anche con il digitale. L’approccio critico alle tecnologie e all’innovazione è premessa imprescindibile per la progettazione delle pratiche didattiche. Occorre ricercare e proporre il bisogno di un complesso equilibrio nell’approccio alla rete, allo schermo, alle informazioni: si propongono un’ecologia dei linguaggi e la scuola come controcanto della società anche in merito alla pervasi- vità digitale. Tutti i bambini del mondo hanno diritto di correre senza cadere, di conoscere attraverso la totalità del corpo.

Tiziano Battaggia approva e rilancia con un’ulteriore apertura: la scuola vive anche e soprattutto fuori dall’aula, attraverso gli scambi e le esplorazioni del territorio, ma anche nel coinvolgimento dei geni- tori. Significa accogliere la pluralità delle famiglie, costruire un’al- leanza nella comprensione dell’ambiente in cui cresce ogni allievo, la- vorare perché le famiglie stesse maturino un senso di comunità. E non esclude che essa si realizzi anche mediante un uso avveduto dei social network.

In una rapida digressione sulla storia recente, Nerina Vretenar ha inquadrato nell’evoluzione del rapporto tra scuola e società una svolta di cui ha patito la collaborazione con le famiglie.

“Negli anni ’70 e, in particolare, negli ’80 c’era una società in fer- mento che cercava modi nuovi di trovare, mettere in piedi situazioni rispettose dei diritti. La scuola partecipava a questo. C’era molta ri- chiesta alla scuola di costruire situazioni in cui fossero rispettati i di- ritti dei bambini e delle bambine, anche dei più deboli, c’era una sen- sibilità verso questo e una grande possibilità di lavorare insieme con i genitori avendo il loro appoggio. Con l’andar del tempo il clima cultu- rale è cambiato: con gli anni 2000 e avanti, è diventato molto più dif- ficile. La società liquida e frammentata ha spesso impedito di costruire queste alleanze virtuose che permettevano alla scuola di lavorare con serenità. E spesso bisognava mettere in campo una grande fatica per spiegare…, per far vedere com’era nell’interesse dei bambini che si

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cercassero forme nuove e diverse da quelle che, magari, i genitori stessi avevano sperimentato o subito ai loro tempi”.

Resta una transizione storica non semplice da interpretare, ma so- prattutto difficile da affrontare a scuola. Sorto in un’epoca in cui l’educazione aveva la priorità di mediare la coscienza dei diritti e do- veri fondamentali nell’alfabetizzazione di massa, l’MCE si confronta con l’individualismo narcotizzato di una socialità compressa, deviata all’utilitarismo, minata dal proliferare continuo di steccati identitari.

L’azione su un presente così lontano dai suoi esordi è resa possibile dai fondamenti stessi del Movimento: la sensibilità artistica, la cura dell’uomo nella sua interezza, la riflessione politica non sono mai sta- te contrapposte all’inventiva della tecnica o alla meraviglia tecnologi- ca. Oggi si ribadisce il dovere morale di denunciare le perniciose con- seguenze della fruizione passiva di una qualsiasi operazione linguisti- ca in cui si mimetizzi uno sbilanciamento di Potere: che essa consista della comunicazione verbale del docente autoritario o trascenda nell’estasi multimediale di uno schermo sfavillante.

Parafrasando la riflessione conclusiva di Leonardo Leonetti, la strada verso il futuro appare ancora quella della ricerca condivisa e della disposizione all’ascolto: una direzione destinata a preservare ne- gli allievi il gusto per l’invenzione, per la creazione, il desiderio inap- pagabile di incidere sulla realtà del proprio tempo che può rivoluzio- nare la tecnologia stessa.

2.6. Maldiscuola

Nel sesto video gli insegnanti hanno risposto alla richiesta provo- catoria di individuare i mali della scuola di ieri e di oggi.

Bruna Campolmi denuncia l’eccesso di selezione, una deriva con- nessa alla patologizzazione diffusa: “C’è una situazione a volte di de- lega dell’insegnante allo psichiatra, al neuropsichiatra, allo specialista, forse perché l’insegnante non ha quella sicurezza in sé delle sue didat- tiche... C’è un’ottica di cominciare a guardare prima il difetto del pre- gio, questo è un male che credo sia al di là dei tempi. Allora si guarda quello che manca e non quello che c’è. E finché guardo quello che manca, dove semino?”.

La progettazione dei percorsi e delle attività, se non è fondata sull’esplorazione delle storie dei bambini che compongono la classe, risulta poco interessante. “Intanto non si conoscono gli studenti, sono

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solo dei numeri, dei nomi” – dice Lando Landi. L’insegnante che non coinvolge è destinato a fallire nella costruzione del sapere e della per- sonalità degli educandi e così il suo lavoro tradisce l’obiettivo di fon- dare sulla scuola il valore della partecipazione, il senso di una cittadi- nanza democratica. Maria Rosaria Di Santo collega la riflessione sul presente ai problemi già emersi in passato a proposito dell’abbandono:

“La motivazione dei ragazzi è alla base del Movimento di Coopera- zione Educativa. Anche il costruire una comunità, cosa che, invece, nella scuola non si tende più a fare: la comunità nell’ambito della clas- se, ma anche la comunità come scuola19. Non tenendo conto della mo- tivazione dei ragazzi e della cultura di cui ciascuno è portatore, molti ragazzi si perdono. Ecco, questo è il vizio di fondo: i ragazzi che per- di. Sarebbe quello che diceva Don Milani”.

Nerina Vretenar contribuisce all’analisi introducendo una prospet- tiva storica: dal secondo dopoguerra, fino agli anni ’80, la scuola e la società hanno vissuto un periodo di forte alleanza nel tentativo di cambiare radicalmente un sistema educativo trasmissivo e discrimi- nante, in virtù di un consenso diffuso che si traduceva nella partecipa- zione e negli investimenti delle istituzioni; è seguita, però, una lunga fase in cui ricerca e dialogo nella scuola e con la scuola sono stati sva- lutati dalla politica. Ha prevalso la concezione di una scuola di stampo

“tecnicistico, più controllabile”, tesa a isolare i tentativi di non alline- amento; sono state addomesticate l’inclusione e la promozione dell’autonomia nell’ottica di un funzionalismo che disarmasse la cri- tica rivolta al Potere. “Tutto è precipitato ulteriormente con la Buona Scuola… Questa tendenza si è consolidata e la scuola lì ha virato ver- so la richiesta agli insegnanti di prestazioni individuali in competi- zione quasi, non di favorire la collegialità… Cooperazione significa che le risorse individuali vengono messe a disposizione e diventano ri- sorse dell’Istituzione; che se restano risorse individuali servono a po- co” – conclude la Vretenar.

In questa scuola che condanna o nega la difficoltà, che rimuove l’

importanza del corpo e dello stare insieme, che elide il bisogno del docente di interrogarsi sul proprio essere e agire, secondo Franco Lo- renzoni, tutti patiscono la fatica senza scoperta: “Se vado la mattina a scuola pensando che devo imparare qualcosa allora sono attento, sono 19 N.d.R. In originale: “Anche il costruire una comunità, cosa che, invece, nella scuola non si tende più: sia la comunità nell’ambito della classe, ma anche la comu- nità come scuola”.

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vivo, altrimenti… Ciò che uccide la scuola è la routine stupida, perché poi la routine può essere anche molto interessante, la ritualità. Però c’è una routine ripetitiva che annoia prima di tutto l’insegnante e natural- mente anche i ragazzi. Questo è il nemico della scuola”.

Umberto Cattabrini individua nella formazione dei docenti una im- portante criticità: “Se la formazione è ancora fatta più per le cattedre che per gli studenti, credo che non avremo un grande successo. La no- stra scuola elementare risente, ha sempre risentito la società nelle sue parti negative e solamente gruppi molto ristretti hanno cercato di usci- re da qui. Ma non è la colpa degli insegnanti, questo vorrei fosse chia- ro: è che l’organizzazione della nostra scuola in questo contesto socia- le, salvo quel periodo degli anni ’70, non è riuscita più a ritrovare una dimensione di felicità del fare scuola”.

Salvatore Maugeri gli fa eco: la formazione iniziale risulta troppo teorica, quella in itinere priva di affondo autovalutativo. “Per formarsi bisognerebbe sformarsi, cioè la formazione può avere effetto soltanto se tu metti in discussione le certezze che hai” – afferma Maugeri –

“L’aggiornamento è sui contenuti: tu puoi aggiornare certi contenuti che sono necessari e indispensabili sulle varie discipline. Mentre la formazione è una cosa che deve andare molto nel profondo, deve esse- re capace di cambiare il tuo modo di fare scuola”.

Superare la separazione sociale, la distanza generazionale per atti- vare una relazione educativa autentica, rinunciare a forme dogmatiche di erudizione e ascoltare gli allievi, sono rimasti capisaldi nel lavoro dell’insegnante MCE. Tuttavia, nella prospettiva di Annalisa Busato, la crisi della scuola pare dettata da un cambiamento culturale, antro- pologico, profondo, per cui l’estetica del successo orienta o annulla il bisogno di formazione: “Si è visto un grande cambiamento nel modo di allevare i bambini, nel modo di volerli autonomi, o forse di non te- nerci più di tanto a renderli autonomi. Questo è stato un grande male, ma non è il male della scuola: è un male di cui ha sofferto la scuola”.

D’altro canto, spiega Tiziano Battaggia, la struttura organizzativa della scuola si è involuta in meccanismi complicati, proponendo ai docenti incarichi e formalismi che spaventano e muovono alla rinun- cia, anche a seguito delle continue riforme imposte dall’alto, succe- dutesi senza il tempo necessario a sedimentare le sperimentazioni e di- radando le occasioni di confronto tra colleghi. Come già notato ri- spetto alla transizione nei valori culturali egemoni, anche a questo sci- volamento corrisponde una prospettiva analitica. Domenico Canciani

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affronta il tema con decisione: “Il dirigente manager non è stata una buona cosa, perché oggi questo pensiero economico dominante ha cancellato qualsiasi opportunità di tipo pedagogico, educativo, rela- zionale, umano,… e ha riempito la scuola di riunioni, carte, docu- menti, mail, tutte cose che debbono essere obbligatoriamente fatte e che appesantiscono quella libertà, quella spontaneità, quella creatività che ci vuole in questo mestiere. Perché se uno lavora coi bambini un po’ di speranza la deve avere, non gli può dire: ‘È già tutto fatto, voi dovete seguire il copione’. Questo non è educare. L’educare è anche che loro possano inventare la loro vita, creare il copione del loro per- sonaggio, tirar fuori le loro possibilità. E questo, con il pensiero eco- nomico dominante e unico, è terribile”. Si rilancia la possibilità al- trove sperimentata del “ruolo unico docente” dalla primaria alla se- condaria inferiore, con l’obiettivo di garantire continuità nella crescita e nell’educazione.

Vi sono segni leggibili dell’involuzione del sistema scolastico: Ma- risa Giunti li riconosce nella rinuncia al tempo pieno e nella svaluta- zione degli organi collegiali. Negli anni ’70 era emersa l’aspirazione a portare al tempo pieno tutte le scuole, investendo nella qualità e nella cooperazione educativa. “Purtroppo questa cosa si è andata perdendo, per cui abbiamo mille modelli di scuola. Invece bisognava andare ver- so la scuola a tempo pieno per tutti… L’altra cosa è il collegio e il Consiglio di classe che non funzionano20. Anche qui siamo andati ad accorpare le scuole, per cui ci sono dei Collegi che sono di duecento persone. Ma come si fa? È il contrario di quello che serve. Ci vogliono gruppi di persone che si conoscono, che collaborano, che lavorano in- sieme, che imparano a collaborare insieme. Ma si impara facendo, non si può imparare non facendo”.

Giancarlo Cavinato sottolinea come la successione delle riforme ha prodotto settorializzazione eccessiva e individualismi mentre, al con- tempo, venivano tagliate in modo significativo le risorse destinate all’Istruzione scolastica. Sono state depauperate la collegialità e la stessa attuazione dell’autonomia, sì ridotta a responsabilità ammini- strativa o a ottemperanza alle periodiche indicazioni della politica, funzionali al conseguimento di premialità e riconoscimenti. “L’MCE ha molto cercato di lavorare contro la settorializzazione, per la trasver- salità, per l’interezza dei soggetti, per i saperi interrelati, interdipen- 20 N.d.R. In originale: “L’altra cosa è il collegio e il Consiglio di classe che fun-

zionano”.

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denti… Attualmente, la situazione della scuola è di grande confusione e di grande incoerenza. Si sono moltiplicati, decuplicati i modelli di- versi, gli stili diversi. Non c’è la possibilità, non c’è il tempo, né lo spazio, né la voglia di andare a una discussione, a una condivisione, a una progettazione comune. È tutto molto ristretto, compartimentato, e soprattutto è la settorializzazione quella che preoccupa, il fatto che ognuno non veda più in là del proprio specifico… Nella scuola ele- mentare è stato particolarmente dirompente. Anche nella scuola media con la riduzione dell’orario di alcune discipline portanti. Ma in parti- colare nella scuola elementare, dove la compresenza è venuta meno, dove la collegialità, la condivisione è venuta meno, dove il tempo e gli spazi di coordinamento sono dedicati a tutt’altro, alla compilazione dei registri elettronici e ad altre cose. Quindi, c’è questa scomposizio- ne in cui ognuno fa per sé. Questo mi sembra il male maggiore. E mi pare che la Buona Scuola, la Legge 107, non faccia che incentivare puntando molto sul merito e non sulla condivisione, sulla collegialità, sulla co-costruzione di progetti e di percorsi”.

Isabella Albano ha scelto di anticipare il pensionamento dalla diri- genza scolastica per evitare la “iattura” della Buona Scuola, manife- stando così la sua disapprovazione: la valutazione dell’operato dei do- centi secondo criteri arbitrariamente elaborati da un nucleo interno, mina la progettualità comune e instilla sfiducia nell’autovalutazione.

All’interno dell’ultima riforma è anche l’obbligatorietà dell’alter- nanza scuola-lavoro. Elena Puppini, insegnante alla secondaria supe- riore, non giudica in modo negativo l’alternanza; ritiene, però, che es- sa realizzerebbe un valore se prevedesse “investimenti di energie e soldi”, le risorse necessarie a fornire una remunerazione minima per gli studenti.

Il confronto sui mali della scuola si completa con due considera- zioni sull’essere insegnante. Laura Lemmi, che incontra a Scienze del- la Formazione i giovani insegnanti, sostiene vi sia un equivoco nell’interpretare l’insegnamento come una professione puramente tec- nica: insegnare non può essere un lavoro come gli altri, richiede pas- sione di imparare, la curiosità e interessi personali sempre vivi, non direttamente spendibili nella scuola ma concorrenti all’arricchimento della persona.

Bruna Campolmi, infine, affronta con amarezza la difficoltà degli insegnanti precarizzati e divisi nel contrastare i cambiamenti struttu- rali recenti: sono cambiamenti che possono avvincere la relazione e-

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ducativa e l’azione pedagogica in costrizioni implicite o esplicite, in- compatibili con la libertà che è, invece, bisogno e condizione dell’es- sere umano e del fare scuola. “La libertà non ce la possiamo far toglie- re”, è la sua conclusione.

3. Conclusioni

Per non subire la vigente agenda, fittissima e ansiogena, di innova- zioni da introdurre nella pratica educativa, postulate con sommaria de- terminazione dalle istituzioni a governo del sistema scolastico e adot- tate talvolta con devozione fideistica da operatori più realisti del re, è possibile recuperare le memorie di chi ha anticipato l’esigenza di una scuola in discontinuità col passato, quando cambiare significava co- struire le basi della democrazia nell’Italia liberata dal regime fascista.

Con questo focus sono stati intervistati diciotto insegnanti del Mo- vimento di Cooperazione Educativa che hanno operato nei diversi or- dini di scuola dagli anni ’60 in poi. Sono i protagonisti di un periodo in cui la ricerca educativa era ispirazione diffusa tra i giovani docenti che “speravano di cambiare il mondo” – dice Lorenzoni nel primo vi- deo, ambizione politica e culturale a premessa di vivaci e creative in- terpretazioni della quotidianità scolastica.

L’MCE nasce nel 1951 come Cooperativa della tipografia a scuola, in ricevimento di quanto già proposto in Francia dalla Pedagogia Po- polare di Célestin Freinet. Per quanto sembri un’epoca distante, è suf- ficiente la lettura di Bernardini, Ciari, Laporta, Lodi tra i più noti, per riscontrare stupefacenti corrispondenze con l’attuale dibattito intorno all’innovazione della scuola, ricorrenze confermate nelle interviste re- alizzate. Temi di confronto e sperimentazione sono stati, per esempio:

la centralità dell’allievo e l’accoglienza a scuola di bambini e bambine cresciuti in ambienti deprivati e in culture differenti; il superamento dell’approccio trasmissivo nell’insegnamento e il contrasto alla vio- lenza nell’ambiente scolastico; la riflessione sul rapporto tra la scuola e il lavoro, la consapevolezza dei diritti e dei doveri del cittadino; la necessità di acquisire una prospettiva critica dinanzi ai prodotti della comunicazione e di dotarsi di un metodo nell’osservazione della real- tà.

Sono tracce che trovano indubbia eco nella retorica corrente, con una sostanziale differenza: l’essenza diacronica del tempo sembra es- ser stata rimossa e con essa la condizione ontologica del cambia-

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