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BOSCHI E PAESAGGI

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– I.F.M. n. 3 anno 2007

MARIELLA ZOPPI (*)

BOSCHI E PAESAGGI

Paesaggio come testimonianza della continua trasformazione dei luoghi. Saint Fia- cre nell’VIII sec. divenne santo per aver tagliato un bosco, oggi la conservazione delle foreste e l’aumento della superficie boscata sono garanzia della salute del pianeta. Conci- liare la salvaguardia delle risorse naturali con lo sviluppo (Dichiarazione di Stoccolma, 1972) attraverso il mantenimento della diversità biologica, il controllo della desertifica- zione e dei cambiamenti climatici. Una politica per i governi, ma anche per le collettività locali ed i privati che riguarda lo sviluppo urbano e la gestione delle foreste. Il riscalda- mento del pianeta: scenari al 2090 (IPCC, Bruxelles, 2007). L’antica Mesopotamia: una lezione dalla storia.

Parole chiave: paesaggio; foreste; storia; trasformazioni; clima.

Key words: landscape; forests; history; transformations; climate.

Niente come il paesaggio porta in sé le stigmate e la memoria della sto- ria: esse sono nelle sue pieghe più profonde (geologia) come nei suoi strati più superficiali (colture). Come ogni essere vivente, come tutto in natura, il paesaggio è in continua, costante evoluzione: nulla resta immobile o immu- tato. Certo non gli uomini, né gli animali, né i fiori o gli alberi o i boschi.

Neppure la bellezza perfetta delle forme intagliate nel bosso dei giardini del Rinascimento, nonostante le cure continue, hanno potuto restare uguali nei secoli.

Documenti antichissimi ci testimoniano la natura «coltivata» ovvero legata alle esigenze degli uomini: giardini, campi, boschi. Una continua ricerca di utilità e bellezza che si accompagna alla storia degli uomini.

Sono passati oltre mille e trecento anni da quando Saint Fiacre (Fig. 1) il protettore dei giardinieri e degli ortolani, si conquistò la santità per aver disboscato un pezzo di terra e costruito un giardino vicino al suo monastero nella zona di Breuil (oggi, Saint-Fiacre-en-Brie). Un giardino ovvero uno spa-

(*) Professore ordinario di Urbanistica all’Università di Firenze.

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zio recinto in cui venivano coltivate piante per mangiare, piante per curare i mali del corpo e fiori per ornare l’altare. Alimentare il corpo e lo spirito.

Fiacre era un monaco irlandese letterato, ma anche un concreto uomo d’azione e non a caso viene rappresentato con la spada in una mano e un cesto di fiori, ortaggi e frutta nell’al- tro. Quando morì era l’anno 670 e l’estensione delle terre coltivate, in Europa, si era fortemente ridotta rispetto a due secoli prima, ovvero a prima della caduta dell’Impero romano d’Occi- dente, sotto il peso delle invasioni dei popoli del Nord. L’Europa, a quel tempo, era una regione impoverita ed impaurita, l’agricoltura era pove- ra, autarchica, al limite della sussistenza, i raccol- ti erano scarsi ed i boschi e le foreste avevano invaso molte delle terre che un tempo erano fer- tili. La gente cercava protezione e sopravvivenza entro le mura di borghi e castelli, che si elevava- no alti al di sopra di terre paludose.

L’anno Mille, com’è noto, è una discrimi- nante temporale importante per la comprensione dell’Europa moderna. La ripresa economica, dovuta ad una serie di concause quali l’evoluzio- ne del sistema feudale, l’incremento demografico e l’introduzione di alcune innovazioni tecniche, dall’aratro a versoio ai mulini ad acqua e a vento, portano al superamento di quell’agricoltura povera che aveva caratterizzato il periodo precedente. Il disboscamento e la conquista di terre incolte non sono più fatti eroici tali da far conquistare la santità, ma azioni sistematiche per recuperare nuove terre da destinare alla produzione. Le abbazie non sono più soltanto luoghi di trasmissione del sapere, ma acquistano un’im- portanza sociale ed economica come centri di lavoro, di produzione e di sperimentazione: un bell’esempio di organizzazione territoriale lo abbiamo (sarebbe meglio dire l’avevamo), qui vicino, nella Badia a Settimo, ubicata lungo il percorso dell’Arno fra Firenze e Signa. Si ristabilisce un equilibrio fra città e campagna e col perdurare della maggior sicurezza del vivere, si andranno ad interessare campi sempre più lontani ed i boschi non solo non verranno lasciati in abbandono, ma verranno coltivati ed abitati in quanto da essi si trarrà sostentamento e ricchezza materiale e, per questo, piantati là, dove se ne rilevava la necessità. Non era cosa nuova, già i Romani aveva-

Figura 1 – Saint Fiacre, protet- tore dei giardinieri e degli orto- lani rappresentato con la spada e il paniere di fiori e frutti.

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no avuto cura di impiantare pinete vicino al mare, sulle coste del Lazio come in quelle del Ravennate, per trarre legname per le navi vicino ai mag- giori porti. Una delle numerose operazioni di razionalizzazione dell’econo- mia che hanno portato grandi trasformazioni del paesaggio e che, da sem- pre, si sono registrate sul territorio.

Il paesaggio cambia descrivendo le inclinazioni sociali, economiche ed estetiche dei vari periodi storici. Fino alla metà del XX secolo questi cam- biamenti erano lenti, interessavano una o più generazioni e restavano circo- scritti ad aree specifiche: per limitarci alla Toscana, possiamo citare le abeti- ne di Vallombrosa o la creazione dell’Abetone che il Granduca volle stazio- ne sciistica secondo la moda d’Oltralpe e importò le piante che riteneva più consone proprio dall’Austria, o ancora le pinete della Versilia nate per bonificare e proteggere l’entroterra da venti ritenuti malsani, (a Massa sotto la guida dell’agronomo Giuseppe Antonio Salvioni si piantarono intorno al 1780 quantità di Pinus pinaster, misti a ontano, frassino, lentisco ecc.), fino al rimboschimento di Monte Morello promosso all’inizio del Novecento per rimediare al degrado, frutto di secoli di disboscamento.

Boschi ordinati, coltivati, fonte di ricchezza e di piacere, che definisco- no paesaggi esteticamente gradevoli, preziosi divenuti identificativi di parti della nostra regione che, insieme alla Sardegna ed al Piemonte, possiede la maggiore estensione forestale fra le regioni italiane.

Dunque, nel tempo, il bosco è andato espandendosi o contraendosi secondo il tipo di economia e in relazione alle esigenze delle diverse zone.

Erano, come si è detto, operazioni che si compivano in un arco temporale assai lungo, che rispettava i ritmi della natura e che veniva assorbito dalle popolazioni divenendo parte di quel sentire comune che la recente Conven- zione europea del paesaggio lega al concetto di «percezione» ovvero di conoscenza e di identità fra luoghi e chi in quei luoghi vive e lavora. Ho letto di alcune preoccupazioni – che non condivido – legate a questo con- cetto, forse derivanti dal sospetto di una cattiva coscienza identitaria da parte delle popolazioni che potrebbe portare al sovvertimento di paesaggi storici o storicizzati: non credo – forse pecco di ottimismo di fronte a tante prove di cattivo uso del territorio – che sia così. Anzi penso che questo periodo di denunce «dal basso», di tanti cattivi usi ed abusi perpetrati sul territorio sia proprio il segno di quella acquisizione di coscienza identitaria da parte di chi si sente depositario di valori storici, ambientali, sociali ed economici e vuole responsabilmente e prioritariamente essere investito delle trasformazioni che avvengono sul quel territorio che sente «suo» nel presente e che vuole trasmettere a quelle generazioni future che per troppo tempo abbiamo dimenticato.

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Una relazione, quella fra passato, presente e futuro che si è rotta negli ultimi 50 anni per due fattori principali: la certezza che i danni (quando tali venivano considerati) non sarebbero stati irreversibili e la velocità con cui i cambiamenti, grazie alle nuove tecnologie, avvenivano. È mutato l’ambien- te domestico, ci sono stati enormi cambiamenti sul pianeta e, in generale, abbiamo fatto finta che tutta questa prepotente trasformazione non ci riguardasse. Un errore che rischia di diventare fatale.

I boschi e le foreste costituiscono un’importante cartina di tornasole di questi fenomeni. Le scelte fatte dal nostro paese in materia ci restituiscono un quadro positivo (e, credo che un po’ di merito vada anche a questa Accademia e alla Scuola fiorentina nel suo complesso) che si inserisce in una politica europea consapevole ed attenta. Almeno per una volta non abbiamo da lamentarci. Infatti, secondo lo State of the World’s Forest 2007 della FAO, le foreste (Fig. 2), in Europa (con esclusione della Federazione Russa), al 2005, coprono un’area di 193 milioni di ettari e segnano un aumento del 7% rispetto al 1995. Al contrario del dato mondiale che per lo stesso periodo vede una diminuzione del 3% della superficie forestale. Il forte incremento in Europa (Fig. 3) è dovuto ai programmi messi in atto fra il 2000 ed il 2005 in Spagna (296.000 ettari/anno) e in Italia (106.000 etta- ri/anno), seguite da Bulgaria, Francia, Portogallo e Grecia. Va anche rileva- to che una grande percentuale di aumento è da ascriversi a paesi che aveva- no basse percentuali di superfici forestale come l’Islanda e l’Irlanda. La Russia è la sola parte d’Europa che nel periodo 2000-2005 presenta un netto decremento di -96.000/anno, che tuttavia rappresenta solo lo 0,01%

del totale delle sue foreste.

Delle foreste ci interessano molti aspetti: dalla conservazione degli ambiti naturali fondamentali per la difesa della biodiversità, alla salute e la vitalità degli insiemi. Nel grafico riportato (Fig. 4) si può notare come il fuoco costituisca solo il 9% delle cause distruttive, che sono invece imputa- bili a insetti nocivi per 34%, a malattie 17% e ad altri fattori legati al clima, come gli uragani per oltre il 40%, dalla funzione produttiva che interessa il 73% delle foreste europee, alla protezione della qualità dell’aria, dell’acqua e del suolo di una data regione, dalla funzione socio-economica (declino dei posti di lavoro dal 1990 in Europa appare particolarmente grave per i paesi del Nord Europa ed è soprattutto in relazione con la stagnazione dei prezzi dei prodotti derivati/effetto della globalizzazione dei mercati), al quadro legislativo, politico ed istituzionale che, fortunatamente almeno in Europa, appare dall’inizio del nuovo millennio più stabile e rivolto verso uno svilup- po più sostenibile e alla conservazione sia per quanto riguarda le aree pub- bliche che quelle private.

Sono i primi effetti positivi di una politica di applicazione di direttive

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Figura 2 – Distribuzione e consistenza delle foreste in Europa (fonte: FAO, 2007).

internazionali volontariamente sottoscritte e coerentemente applicate e dunque la buona politica europea deve essere sorretta dall’impegno dei colossi dei grandi delle foreste (Fig. 5) come Russia, Brasile, Canada, Stati Uniti, Cina e Australia.

Va, comunque, rilevato che da queste statistiche sono escluse quelle superfici che sono interessate dall’espansione del bosco in quanto aree agri- cole in abbandono, che vengono considerate dagli organismi come la FAO fenomeni di tipo locale e visti come espansioni «semi-naturali»: un aumen- to che resta fuori controllo rispetto a questo tipo di statistiche che li consi- dera «non rilevanti». Tuttavia questi territori «in transizione» costituiscono per le nostre regioni motivi di forte preoccupazione sia dal punto di vista dello stato del territorio (perdita di colture, di caratteri identitari, di viabi- lità minore, sovvertimento dei valori tradizionali), sia come spia di una maggiore vulnerabilità (mancanza di cura e controllo, frane, smottamenti),

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che per gli effetti visibili e vistosi che producono nei cambiamenti degli sce- nari di paesaggio.

È questo un aspetto che tocca da vicino il nostro paese e certo non esclude la Toscana, che ha visto negli ultimi decenni un costante aumento di superfici boscate appartenenti a questa tipologia: un fenomeno da asso- ciarsi a fattori sociali rilevanti (esodo dalla montagna, invecchiamento della popolazione, ad es.) che hanno come effetto il sovvertimento del paesaggio tradizionale: si pensi per esempio ad degrado dei terrazzamenti ed alla spa- rizione dei muri a secco, particolarmente gravi in aree collinari e montane (stabilità dei versanti).

Ancora una volta ci troviamo ad affrontare un cambiamento che si palesa inevitabilmente in una mutazione di paesaggio, che come una sorta di pelle fa trasparire aspetti lontani e profondi che attengono alla struttura dei territori, alle attività della gente che su di essi vive ed opera e all’econo- mie che essi stessi generano o subiscono.

Fenomeni lontani come quelli connessi alla mondializzazione o vicini

Figura 3 – Incremento/decremento delle foreste in Europa nel periodo 2000/2005 (fonte: FAO, 2007).

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come quelli insiti in una quotidianità d’uso che sembrano comporre scenari frammentati ma che, al contrario, sono tutti in stretta correlazione e interdi- pendenza. Ogni parte, ogni frammento risulta inserito in un grande unico sistema cui appartiene, dipendendone e condizionandolo.

Concetti banali, che possono apparire scontati – e certo dovrebbero esserlo – in quanto appartengono agli inizi della problematica ambientalista e fanno riferimento a quella carta fondamentale che è la Dichiarazione di

Figura 4 – Fattori di distruzione delle foreste, 1998-2002 (fonte: FAO, 2007).

Figura 5 – I dieci paesi con la più grande area forestale nel 2005 (fonte: FAO, 2007).

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Stoccolma sull’ambiente umano (United Nations Conference on the Human Environment, 1972). La Dichiarazione, com’è noto, faceva propri anche i principi del Programma MAB (Man and biosphere – un program- ma che ha visto l’Italia fra i protagonisti con Francesco di Castri e Valerio Giacomini / ecosistemi urbani) e sottolineava l’importanza di salvaguardare le risorse naturali della terra per il beneficio delle generazioni presenti e future attraverso una pianificazione e una gestione appropriata ovvero in grado di conciliare i bisogni dello sviluppo – inclusa l’urbanizzazione – con quelli della protezione dell’ambiente naturale. Si tratta di un documento di 35 anni fa: molti di noi se lo ricordano e lo considerano un cardine nell’evo- luzione del pensiero ambientalista. Un documento «storico» che conserva intatta la sua drammatica attualità. C’erano fra le raccomandazioni del 1972, alcune che riguardavano le foreste come ad esempio la n. 24, con la precisa esortazione al Segretario Generale dell’ONU di favorire l’attiva cooperazione tra le varie istituzioni delle Nazioni Unite al fine di giungere ad una nuova conoscenza degli aspetti ambientali e gestionali delle foreste.

Da Stoccolma sono scaturite e si sono rafforzate alcune convenzioni specifiche sull’ambiente come quella sulle zone umide (Racc. 95, Conven- zione firmata a Ramsar in Iran nel 1971 – oggi ratificata da 154 paesi); si sono poste le basi del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) e si è sottolineata l’importanza della convenzione (allora in bozza) preparata dall’UNESCO sulla protezione del patrimonio mondiale (in cui, non a caso, si riconosce come «bene» dell’umanità il patrimonio culturale e quello naturale: monumenti materiali e naturali-riserve). Una convenzione fra le più conosciute, adottata dalla Conferenza Generale dell’UNESCO a Parigi, il 16 novembre dello stesso anno (all’ottobre 2006, la Convenzione conta 183 paesi e la «sua» lista include 830 siti).

Gli anni ’70 e ’80 hanno visto la creazione di diversi strumenti multila- terali sull’ambiente (per esempio la Convenzione sulle specie migratorie nel 1979, la convenzione di Vienna sulla protezione dello strato dell’ozono nel 1985, e il Panel Intergovernativo sui cambiamenti climatici nel 1988), ma l’opinione pubblica ed i media sono rimasti – ad eccezione di pochi – prati- camente assenti da questo dibattito fino al 1992, quando a Rio (United Nations Conference on Environment & Development - UNCED) si è posto il tema «ambiente/sviluppo». È stata l’occasione per comprendere il pro- blema nelle sua vera dimensione e complessità. È qui che attraverso l’Agen- da 21 e le tre convenzioni di Rio, si sono iniziati ad affrontare e a sistematiz- zare i grandi filoni legati alla diversità biologica, alla desertificazione ed ai cambiamenti climatici.

Quanto è avvenuto dal 1992 ad oggi è, possiamo dire, attualità e riguarda il protocollo di Kyoto e il Summit di Johannesburg. Nel primo,

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l’Unione Europea e 168 paesi si sono impegnati (ma sono pochi e mancano i «grandi») per la riduzione delle emissioni dei gas-serra. Una data impor- tante quella di Kyoto 1997, dunque, anche se poi si è dovuto aspettare il 16 febbraio 2005 per l’entrata in vigore del Protocollo. Inoltre, va sottolineato che siamo nel campo degli accordi volontari, per cui solo per i paesi che hanno ratificato l’accordo esiste l’obbligo di attenersi alle indicazioni del Protocollo: fra questi 35 paesi e l’Unione europea devono contrarre le emis- sioni di gas-serra al di sotto di limiti indicati specificatamente per ogni paese (Annex B) per poter arrivare ad una riduzione globale del 5% dei livelli di emissione esistenti nel 1990 entro il periodo 2008-2012.

Un ulteriore passo avanti sul tema dello sviluppo sostenibile viene fatto al Summit Johannesburg (World Summit on Sustainable Develop- ment, WSSD, 2002), quando si pone l’accento (Cap. 4 del Piano di attua- zione) sull’assoluta necessità di una gestione globale delle foreste da attuarsi tramite una partnership fra i governi e tutte le parti interessate: settore pri- vato, comunità locali, indigeni e ONG. Si afferma così che la responsabilità è non solo della politica dei governi, ma è un fatto collettivo in cui azioni pubbliche ed azioni dei privati sono corresponsabili nello sfruttamento delle risorse sul mercato mondiale. Sia a Kyoto che a Johannesburg la gestione delle foreste è sempre presente nei documenti e nelle azioni pro- poste, infatti i paesi possono diminuire le loro emissioni di gas effetto-serra nell’atmosfera con l’incremento di «pozzi» di assorbimento del carbonio che passano prevalentemente per una corretta gestione dell’uso del suolo e delle foreste. In questo quadro (Protocollo di Kyoto e Accordi di Marrake- sh) sono previste azioni che vanno dalla piantagione di nuove foreste (affo- restation), al ripopolamento ed al restauro delle esistenti (reforestation), cui si aggiunge la gestione delle foreste, dei terreni agricoli e dei prati-pascoli accompagnati dal rinverdimento (revegetation) delle superfici, ma – come sappiamo – è necessaria un’attenzione particolare perché ogni azione che comporti emissione di gas-serra (si pensi al pascolo, per es.) deve essere sostenuta da attività che inducano una quantità maggiore di assorbimento delle emissioni prodotte.

Se i media e i mezzi di informazione erano stati carenti, reticenti o scarsamente attendibili nel divulgare correttamente quanto scienziati di tutto il mondo andavano dicendo sui mali ed i rimedi per il pianeta, in que- sta ultima settimana siamo stati bombardati (e questo è un sintomo positi- vo) sui risultati del Rapporto sui Cambiamenti climatici (Report of Intergo- vernamental Panel on Climate Change 2007- IPCC) presentato lo scorso 6 aprile a Bruxelles, dove gli esperti del Working Group II, hanno posto di fronte ai governanti dei paesi della terra il quadro dei rischi, delle misure di protezione e della vulnerabilità nonché le analisi sugli effetti che i cambia-

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menti ormai in atto avranno nel corso del secolo sulla natura e sugli uomini.

Da questo rapporto emerge l’urgenza di un accordo globale per le politiche di sviluppo che hanno riflessi sull’ambiente. Riflessi immediati e drammati- ci e, soprattutto, per la prima volta, ravvicinati: gli scenari offrono proiezio- ni al 2090, individuando situazioni che interesseranno quanti nascono e sono nati in questo inizio del terzo millennio. Le generazioni future, in que- sto caso, sono molto vicine a noi, sono i nostri figli e i nostri nipoti.

Il nodo centrale del cambiamento è il riscaldamento del pianeta: intorno ad esso ruotano le tematiche dei disequilibri fra le zone artiche e le zone equa- toriali. Nessuno ne trarrà giovamento, i paesi poveri saranno più a rischio, ma da Shishmaref in Alaska (dove è allo studio il progetto di evacuazione dell’i- sola), a Londra (che sta intensificando le strutture di protezione per gli allaga- menti del Tamigi), alla Cina (che ipotizza una deviazione dello Yangtze verso zone più aride) a Perth (che dovrà dotarsi di un grande impianto di desaliniz- zazione acqua) tutti i continenti saranno colpiti. Molti, si è detto, si stanno preparando. Nessuno può più dirsi fuori, anche se le regioni più provate saranno l’Africa sub-sahariana, i poli, le piccole isole, i delta dei fiumi asiatici.

L’acidificazione dei mari, il loro innalzamento e l’erosione delle coste non sono più un evento futuribile, che interessa isole sperdute in oceani lontani da noi, è in gioco anche il Mediterraneo, un mare chiuso e fragile. Per la prima volta le previsioni risultano verificabili con grande allarme anche in Italia: dai ghiacciai alpini (il caso arcinoto del ghiacciaio della Sforzellina sulle Alpi Retiche, in Valtellina, che si è ridotto del 65% dal 1920 ad oggi) alla grande estensione di coste della nostra penisola, le aree in pericolo (un pericolo reale, già tangibile) sono molte (Fig. 6). Venezia è certamente il caso che nel panora- ma mondiale ha la maggiore visibilità e rilevanza, ma anche la Toscana non può dirsi immune da questo epocale cambiamento. Le coste della Versilia, del livornese e del grossetano da tempo soggette ad erosione o ad innalzamento del cuneo salino sanno che saranno travolte nel giro di qualche decennio da problemi che, se non affrontati subito e non solo a scala locale, non saranno più né controllabili né combattibili.

L’aumento di un solo grado della temperatura del pianeta (ipotesi scongiurabile solo con un pressoché impossibile blocco di tutte le emissioni di gas serra) porterà la terra alla condizione climatica di seimila anni fa, con la conseguenza che la radiazione solare assorbita da una superficie marina maggiore per lo scioglimento dei ghiacci, farà da acceleratore ad un succes- sivo incremento del surriscaldamento globale. Clima, vegetazione, mancan- za di acqua potabile, produzione accelerata di anidride carbonica concorre- ranno a creare un sistema apocalittico in cui epidemie, uragani, alternati a siccità, incendi, cambiamenti psicofisici di uomini e piante potrebbero fare della terra un pianeta ben diverso da quello che stiamo abitando.

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Non è il racconto di un film di fantascienza. Abbiamo già avuto le prime avvisaglie: l’uragano Katrina a New Orleans, il caldo dell’estate del 2003 con migliaia di morti in Francia, in Italia, valutati oltre 30.000 all’in- terno dell’Unione Europea, che sommati agli oltre 12 miliardi di euro di danni registrati in agricoltura, ci prospettano quadri che abbiamo il dovere scientifico, politico e morale di allontanare e respingere. L’impegno del- l’Europa è iniziato e le cifre riportate più sopra lo confermano, ma non basta: le grandi potenze della terra devono essere al fianco dell’Europa e dei paesi più poveri.

Ancora una volta dalla storia possiamo trarre alcuni insegnamenti e, per concludere, voglio ricordare come una grande potenza militare, econo- mica e culturale fu annientata proprio da mutazioni climatiche. È il caso della Mesopotamia: terra fertilissima fra due grandi fiumi, il Tigri e l’Eufra- te, una terra dotata di un poderoso complesso di canalizzazioni e di irriga- zione che le valse una grande prosperità e le consentì una potenza militare allora ineguagliabile. Lì, si dice, sia nata la civiltà, certo vi nacque la città moderna (la città di Uhr) e la sua organizzazione sul territorio quale ancora oggi possiamo riconoscere i caratteri fondanti, lì nacquero i primi giardini

Figura 6 – Le coste italiane a rischio.

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(i paradisi) e quelli di acclimatazione di piante che provenivano da terre lontane, conquistate come l’Anatolia ed il sud della Siria, lì progredirono le scienze e le arti. Poi, il cambiamento del clima e il conseguente innalzamen- to del cuneo salino determinò un periodo di trasformazioni colturali e lo spostamento sempre più a nord della capitale, fino al progressivo impoveri- mento di tutta l’area che condusse alla fine di quel magnifico regno.

Oggi la Mesopotamia, la terra benedetta fra i due fiumi, è deserto o palude salata, le tracce di un’antica civiltà sono presenti nonostante siano immerse in un teatro di guerra: esse popolano i musei di tutto il mondo, vive, palpitanti, con i loro colori scintillanti e la straordinaria capacità che ha l’arte di poter parlare agli uomini di tutti i tempi. Quello che l’antica Mesopotamia insegna, oggi, è che la potenza degli uomini non può reggere alla forza della natura: allora non c’erano i mezzi e le cognizioni per contra- starla, ma forse non c’era neppure l’arrogante ingordigia di quanti usano la tecnologia per un profitto immediato e non si fanno scrupolo di consegnare in mano di pochi il destino di un intero pianeta.

SUMMARY Forests and landscape

The landscape as a sign of the ongoing transformations of places. In the 7thcentury, Saint Fiacre became Saint for having deforested a wood; today forest conservation and the increase of forested area guarantee the future of the planet. Reconciling the safeguarding of natural resources with development (Stockholm Declaration, 1972) through the conservation and sustainable use of biological diversity, and the monitoring of desertification and climate change. Policies concerning urban development and forest management, for governments but also local communities, and the private sector. The global warming: scenarios up to 2090 (IPCC, Brussels, 2007). The ancient Mesopotamia:

a lesson from history.

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