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3. ARTE E SOCIETÀ NEL RINASCIMENTO ITALIANO

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Academic year: 2021

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XXXIII

3. ARTE E SOCIETÀ NEL RINASCIMENTO ITALIANO

L’arte e la sua connotazione creativa sono svelate dall’opera artistica come fattori essenziali della conoscenza della società e dei suoi meccanismi costitutivi ed evolutivi. Questo implica che l’Arte può essere vista come un mezzo capace di proporre una chiave originale di lettura delle relazioni tra gli uomini e le loro culture. Tra gli esempi più autorevoli si annoverano l’arte senese e quella veneziana, nelle quali riscontriamo forti messaggi di propaganda politica. A Siena la tradizione del Buon Governo trova nell’arte un punto di riferimento fondamentale con gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nella Sala della Pace (1338-40) e ancor prima nei messaggi civili della grande Maestà di Simone Martini. L’esaltazione del Bene Comune e la condanna della Tirannide e dei vizi ad essa collegati rappresentano il fulcro attorno al quale si sviluppa la tematica che caratterizza il percorso storico e culturale delle opere figurative commissionate dalla Repubblica senese. In questo panorama si collocano gli affreschi realizzati da Taddeo di Bartolo nell’Anticappella di Palazzo Pubblico (1413-14), nei quali il messaggio delle virtù civiche è espresso attraverso le immagini degli eroi dell’antica Roma e le iscrizioni in latino e in volgare. La Fonte Gaia, scolpita da Jacopo della Quercia quasi negli stessi anni, celebra

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XXXIV valori morali e politici connessi con le origini romane della città. Tra Quattrocento e Cinquecento l’iconografia politica manifesta la propria fede repubblicana in una serie di opere, tra cui si annoverano il bancale di Antonio Federighi nella Loggia della Mercanzia con i rilievi imponenti di cinque eroi romani elaborati come exempla virtutis e gli affreschi di Domenico Beccafumi nella Sala del Concistoro di Palazzo Pubblico che confermano la presenza e la continuità del Buon Governo, pochi decenni prima della fine dello stato senese, attraverso un linguaggio profondamente innovativo espresso in una estrema tensione stilistica.

Per secoli Venezia ha affermato di sé stessa l’immagine di perfetto governo e Stato migliore di ogni altro, soprattutto nel momento in cui la sua egemonia nel mediterranea stava irrimediabilmente declinando. La supremazia veneziana si esplicita nell’enorme telero del Paradiso di Jacopo Tintoretto, posto sulla parete sopra la tribuna, alle spalle del doge, nel salone del Maggior Consiglio, culmine della celebrazione della classe dirigente aristocratica veneziana. Rigido è il controllo della Signoria sull’iconografia ufficiale pittorica, scultorea e numismatica che ne illustra l’ideologia negli edifici pubblici e prima di tutto in Palazzo Ducale. I rappresentanti della Serenissima sono celebrati, specie in grandi raffigurazioni pittoriche che li vedono accanto alla Vergine, ai Santi, ad allegorie di Virtù.

Analizzando la società Fiorentina del quindicesimo secolo si osserva come una serie di obblighi ai quali dovevano sottostare le classi mercantili medio-alte, dettavano le regole di vita e di

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XXXV comportamento alle quali dovevano ubbidire uomini e donne. In una società in cui i confini tra la sfera pubblica e privata erano notevolmente sfumati, all’uomo spettava di prendere parte alla vita amministrativa dello stato, mentre alle donne di vivere nello spazio domestico a loro assegnato. In Italia le città rinascimentali, in generale e a Firenze, in particolare, la fedeltà alle famiglie e ai gruppi di appartenenza aveva la priorità sugli interessi strettamente personali, condizionando le scelte e le azioni degli individui e delle famiglie, che avevano effetti sulla vita pubblica. In questa prospettiva si comprende chiaramente il motivo per il quale il matrimonio non costituiva un atto privato tra due individui, ma era visto piuttosto come la base della moralità civica, l’esistenza stessa e la crescita della famiglia, dalla quale dipendeva appunto la stabilità del sistema politico, economico e dell’ordine sociale. Analizzata l’importanza del matrimonio diventa importante capire come questi ideali venivano trasmessi alle giovani generazioni nelle quali erano riposte tutte le aspettative della società. Proprio ai dipinti narrativi che decoravano gli arredi delle camere da letto dei novelli sposi era affidato questo fine istruttivo. Gli ideali ai quali le giovani coppie avrebbero dovuto ambire, guidava la scelta dei soggetti da rappresentare; questi exempla avevano la funzione di esortare ad agire seguendo il modello ideale e di ammonire i comportamenti che esulavano dalla morale.

Questa visione del ruolo del matrimonio all’interno della società fu avanzata dagli scrittori che nel quindicesimo secolo si occupavano dell’argomento, come mostrano due dei più famosi trattati sul

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XXXVI matrimonio e sulla famiglia scritti: il De re Uxoria di Francesco Barbaro (1415), e il Della Famiglia di Leon Battista Alberti (1430-1440). Essi affermano infatti che il primo e più importante dovere di un uomo è sposarsi e procreare. Avere molti figli era indice di prosperità per la famiglia e, di conseguenza, per lo stato. La famiglia stabilisce un ambito sicuro all’interno del quale si può sviluppare la crescita delle virtù e, pertanto, l’evoluzione di un carattere nobile e morale. In Della Vita Civile di Matteo Calmieri (1436 circa), il matrimonio e la famiglia sono visti come la base su cui si fonda la città, tenuta insieme da legami e alleanze del sistema dei parentadi. Il matrimonio, voluto dalla società e incoraggiato dalle leggi, era ciò che ci aspettava dai membri che ne facevano parte; il celibato era visto d’altro canto come una sciagura familiare. La committenza di arredi nuziali era una pratica utilizzata per celebrare questo fondamentale rito di passaggio nella vita di un uomo e di una donna1.

3.1. Gli arredi dipinti

Per chiarire l’importanza che questi oggetti avevano nella cultura rinascimentale può essere utile un breve excursus sulla pittura da cassone che visse il momento di maggior splendore nel Quattrocento. Nonostante ebbe i suoi principali centri di produzione in molte città italiane, fu soprattutto in Toscana, e a Siena e a Firenze in particolare,

1 Cfr. P. Tinagli, Women in Italian Renaissance Art: Gender Representation

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XXXVII che vide il maggior sviluppo. La produzione di cassoni dipinti conobbe una certa diffusione fin dal Tardo Medioevo, ma è nel Quattrocento che il fenomeno esplode, favorendo la nascita e la moltiplicazione, specie a Firenze, di numerose botteghe specializzate, dove accanto al capobottega e sotto la sua supervisione operava una studio di collaboratori, compresi il legnaiolo che provvedeva alla struttura lignea, il forzierinaio addetto al rivestimento interno con stoffa e cuoio, e gli specialisti della doratura e dell’arricchimento decorativo, con i loro strumenti per lavorare l’oro sia in foglia che in polvere, le pastiglie, le lacche e le vernici resinose, le sapienti punzonature e graniture2.

Le parti più importanti erano il letto degli sposi, i cassoni, i lettucci, e una serie di pannelli di spalliere e cornici, e proprio su queste venivano dipinte le scene educative e celebrative. I cassoni, (o forzieri come venivano chiamati a Firenze) e le ceste erano decorati con scene ricche di particolari e spesso lascive; il padre della sposa era colui che originariamente si assumeva l’onere di pagare; questa tradizione cambiò dopo la metà del secolo, quando erano il padre o i parenti dello sposo a finanziarli. Gli altri pezzi, che componevano l’arredamento della coppia novella, erano quasi sempre commissionati dalla famiglia dello sposo, in quanto andavano a rinnovare una delle stanze della casa patronale.

Le storie dipinte non erano scelte solo per le loro qualità decorative, ma dovevano svolgere anche una funzione celebrativa ed

2 Si veda G. Huges, Renaissance cassoni. Masterpieces of Early Italian Art:

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XXXVIII esortativa, che fosse d’auspicio all’unione dei due coniugi, e d’esempio per i comportamenti che dovevano assumere, insieme alle qualità morali che dovevano possedere. Le istorie erano cariche di significati simbolici pubblici e privati, seguivano infatti la rinomata concezione rinascimentale dell’exemplum virtutis; in realtà sarebbe quanto mai riduttivo pensare che le storie illustrate fossero solo un’esposizione del gusto e delle conoscenze dell’epoca.

Dall’analisi su quali erano i modelli di comportamento ai quali dovevano sottostare le donne e gli uomini fiorentini del quindicesimo secolo, spicca l’obbedienza, ritenuta un requisito fondamentale, in particolar modo per le donne. La società considerava le giovani donne sostanzialmente deboli e remissive, avevano bisogno quindi di una guida morale costante; l’obbedienza doveva mostrarsi nei confronti dei genitori prima, e del marito poi. Nel secondo libro del De Re Uxoria (1414) e in Della Famiglia dell’Alberti (1433-1441) si celebra appunto la dote della remissività muliebre come qualità indispensabile nel matrimonio.

L’unione nuziale era il traguardo al quale un uomo nel quindicesimo secolo doveva ambire; era visto infatti come l’apice di un lungo processo di socializzazione che lo avrebbe trasformato da giovane senza un ruolo ben preciso, in uomo fatto, con le proprie responsabilità. Il periodo adolescenziale, da sempre contraddistinto da un comportamento turbolento e problematico, sarebbe terminato con il matrimonio. L’uomo sposato acquisiva uno status con il quale dimostrava di possedere la virtù civile, attraverso l’assunzione di

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XXXIX obblighi nei riguardi della comunità. Per il celibe, il non essere gravato da questi doveri, era considerata la causa del loro comportamento antisociale: la seduzione di donne sposate, atteggiamenti violenti e lo sperperamento del patrimonio erano la dimostrazione della mancata maturazione.

L’Alberti, come molti altri scrittori dell’epoca, preoccupati per le pulsioni e le influenze distruttive che spesso caratterizzavano il comportamento di molti uomini celibi, discussero a lungo riguardo i vizi civili che minacciavano l’ordine sociale, come la rabbia, l’irascibilità, la volubilità, l’odio e il dissenso, l’avarizia, la cupidigia, il desiderio e la lussuria. Le passioni sessuali erano considerate le più barbare in assoluto. Un uomo che si abbandonava al piacere non agiva sotto la guida della ragione, ma seguiva le pulsazioni più animalesche. Durante i sermoni che parlavano del comportamento degli uomini giovani si scagliarono le condanne alla prostituzione e specialmente al peccato di sodomia, considerata una delle preoccupazioni più grandi del quindicesimo secolo. Si riteneva che le responsabilità nei riguardi della moglie e dei figli infondessero equilibrio, l’antidoto alla dissennatezza giovanile era pertanto il matrimonio.

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3.1.1. I rituali matrimoniali

Le immagini erano il mezzo mediante il quale si trasmettevano messaggi importanti, exempla, non solo nell’educazione dei bambini e degli adolescenti, ma anche nelle fasi successive. Fin dagli inizi della loro vita insieme, nella camera da letto la coppia era circondata da arredi dipinti, commissionati espressamente per loro e decorati con soggetti appropriati e ispiratori. Durante il quindicesimo secolo, la camera da letto fiorentina era il cuore della casa: non era soltanto il luogo privato in cui si riposava, ma anche la stanza dove si ricevevano parenti e amici, dove si studiava e si leggeva. Gli oggetti d’arredamento più preziosi come le spalliere decorative e i dipinti votivi erano commissionati proprio per la camera da letto.

La coppia di cassoni nuziali avevano una forte connotazione simbolica ancor prima che funzionale: l’uno per lo sposo e l’altro per la sposa, nei matrimoni di famiglie d’alto rango, erano portati solennemente in processione nella dimora dei novelli sposi, o più spesso in quella del padre dello sposo, entrando trionfalmente a far parte dell’arredo pregiato della casa. Con la processione, l’unione veniva resa pubblica agli occhi dell’intera comunità. Il corteo della sposa era anche l’occasione allo stesso tempo di esibire la ricchezza e il potere delle due famiglie, e di celare gli oggetti più preziosi tenendoli lontano dagli occhi indiscreti della folla, in accordo con le leggi suntuarie dell’epoca che cercavano di arginare l’ostentazione pubblica delle ricchezze. Questi cassoni erano dipinti con scene

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XLI narrative lussureggianti, arricchiti con foglie d’orate, nelle quali una moltitudine di figure eleganti e abbigliate con costumi dell’epoca recitavano storie su sfondi ricchi di dettagli, e rappresentavano un’allusione alla ricchezza degli oggetti nascosti all’interno. Non si deve sopravvalutare l’importanza delle loro qualità decorative, perché nonostante vi si cimentassero talvolta anche artisti di primo piano, come Piero di Cosimo, Paolo Uccello, o Botticelli, la pittura da cassone era in pratica monopolio quasi esclusivo di pittori, la cui attività si collocava in una zona di confine tra l’artigianato di lusso e la pratica artistica di medio o basso livello. La maggior parte di essi hanno pagato un prezzo inevitabile a una produzione semi-seriale, che ricorreva spesso a modelli e schemi ripetuti praticamente alla lettera, ma è giusto notare che alcuni di essi riuscirono ad emergere, mostrando una personalità di un certo rilievo e producendo opere dal gusto gradevole e dal notevole fascino. Ne sono un tipico esempio Apollonio di Giovanni e Giovanni di ser Giovanni detto lo Scheggia, fratello minore di Masaccio, i pittori cui facevano rispettivamente capo le due principali botteghe che dominarono il mercato fiorentino della pittura da cassoni nei decenni centrali del Quattrocento.

Lo stile al quale si ispiravano questi artisti era spesso e volentieri quello del Gotico Internazionale, persino dopo che passò di moda e non fu più utilizzato per altri tipi di commissioni, mentre l’argomento delle storie rifletteva gli insegnamenti umanistici dell’élite fiorentina istruita.

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XLII Una volta posti nelle stanze da letto della coppia, i cassoni non erano solo un luogo dove riporre gli abiti, infatti quando erano aperti molti rivelavano all’interno del coperchio dipinti di figure maschili e femminili idealizzate, rappresentate distese. Per la maggior parte erano nudi che simboleggiavano allegorie amorose, talvolta con funzioni apotropaiche, dato che si credeva che la contemplazione della bellezza fisica avrebbe aiutato a concepire figli belli. Molti soggetti venivano decorati sull’esterno dei cassoni, ciò avveniva anche per l’ampia gamma di arredi di lusso che facevano parte dell’arredamento della camera da letto degli sposi, come letti matrimoniali, lettucci e spalliere, per i quali venivano prodotti, come per cassoni, schemi e modelli che si ripetevano. Dalla metà del quindicesimo secolo, questi soggetti sono entrati a far parte della conoscenza di ogni persona mediamente educata a Firenze, e il significato affidato a queste immagini non era di difficile interpretazione. I Trionfi del Petrarca, specialmente il Trionfo di Amore e il Trionfo di Castità, comprese come allegorie del progresso dell’anima, forniscono un soggetto adatto per la glorificazione del tema nuziale, e dell’amore e della virtù all’interno del matrimonio. Alcune scene erano selezionate anche per il loro impatto visivo: battaglie storiche o recenti erano soggetti che riscuotevano grande successo e che riecheggiavano il mondo cavalleresco. Spesso le immagini dipinte immortalavano le fasi salienti della cerimonia, enfatizzando l’importanza del matrimonio, e dando la possibilità di esibire ornamenti e costumi fantasiosi, come nel grande pannello, forse una spalliera, commissionato per il

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XLIII matrimonio di Boccaccio Adimari e Lisa Ricasoli nel 1420 (Firenze, Accademia) e attribuito a Giovanni di ser Giovanni.

3.1.2. Moralità e ideali: storia antica e del Vecchio Testamento

Nella seconda metà del secolo, le storie a sfondo didattico sono quelle che ricorrevano con più frequenza, costituendo un esempio di condotta virtuosa per i coniugi. Sin dall’infanzia, era tradizione osservare queste immagini che raccontavano la vita esemplare di uomini e donne. Queste storie erano l’espressione di miti e credenze popolari. Tali esempi sono efficaci proprio per la trasparenza delle loro allusioni.

Quando i membri dell’élite fiorentina iniziarono a considerare loro stessi come gli eredi legittimi del potere, delle virtù, e della civiltà degli antichi romani, ci fu un ricorso alle fonti antiche alla cui autorità venne affidato l’insegnamento morale. Le storie di eroi ed eroine dell’antichità divennero soggetti alla moda per cassoni, spalliere e arredi dipinti con personaggi che derivavano direttamente dagli storici come Livio e Plutarco, o che erano filtrati attraverso i lavori del quattordicesimo secolo, come il De Viris Illustribus del Petrarca e il De Casibus Virorum Illustrium di Boccaccio. Queste opere, e i più recenti scritti umanistici attivi nell’arena politica, come Coluccio Salutati e Leonardo Bruni, aiutavano ad ampliare la conoscenza delle

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XLIV vite e delle azioni dei protagonisti dell’antichità. I fiorentini del Quattrocento si ritenevano i legittimi eredi degli eroi del passato, in quanto riflettevano il loro ideale civico. Non c’era bisogno di spiegazioni per capire che Cesare fosse un simbolo di perdono, Traiano di amore e giustizia, Alessandro di generosità e della più indispensabile delle virtù civiche, la riconciliazione, avendo riunito sotto la sua figura l’oriente e l’occidente; eroi della storia repubblicana di Roma, come Orazio Coclite e Muzio Scevola indicavano la strada adatta per perseguire e difendere la repubblica, insegnamento particolarmente significativo per la quella Fiorentina. Alcuni di questi personaggi erano gli emblemi di un cattivo comportamento o di debolezze, che dovevano essere condannate. Dario e Serse, per esempio, erano visti come perdenti in guerra a causa del loro orgoglio.

Persino episodi della storia, che ai nostri occhi risultano privi di contenuto morale erano scelti come exempla, il Ratto delle sabine, ad esempio, oltre al riferimento alla discendenza romana dei fiorentini, era un tema adatto per celebrare la riconciliazione tra due nemici, grazie agli effetti benefici del matrimonio, che riguardavano sia i soggetti direttamente coinvolti che la società, e l’inizio di un nuovo lignaggio. Questa storia era vista come un esempio di sottomissione femminile, virtù necessaria per il mantenimento dell’equilibrio sociale.

Insieme a queste figure dell’antichità classica, personaggi dal Vecchio Testamento rappresentavano exempla per un comportamento morale. Davide, Salomone e Giuseppe personificavano la

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XLV magnanimità, la saggezza, la devozione verso la propria famiglia, la generosità, il perdono e la castità. La vittoria di Davide su Golia era l’emblema di un atto di coraggio civico.

3.1.3. Eroine dell’antichità e del Vecchio Testamento

Anche le eroine dell’antichità erano usate come modelli ideali di comportamento: nel De Re Uxoria Francesco Barbaro presenta continuamente alla donna esempi dell’antichità greca e romana per sottolineare la loro funzione etica. Assieme alle opere dei filosofi greci e degli storici latini, il De Claris Mulieribus, un libro scritto con l’intenzione di presentare esempi di vizi e virtù, rappresentava una ricca fonte di materiale.

Famose eroine del Vecchio testamento apparivano frequentemente nelle decorazioni degli arredi delle camere da letto. Sia Ester che Giuditta, con il loro coraggio e la loro iniziativa, impersonavano la forza per salvare il loro popolo ed erano viste pertanto come simboli di comportamento civico. La difesa di Susanna della propria virtù contro i due vecchioni lascivi, sembrava definire esattamente il comportamento ideale che la donna sposata nel quindicesimo secolo doveva seguire. Castità, coraggio, e desiderio di giustizia sono temi ricorrenti di queste storie, che dimostrano come erano sfumati i confini fra virtù pubbliche e private.

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XLVI Il repertorio di queste figure femminili registra la presenza delle fonti antiche, medievali e umanistiche. In questa prospettiva segue l’analisi di alcuni di questi personaggi che spesso sono stati rappresentati nella pittura murale di palazzi pubblici o privati, come nei dipinti rivolti alle decorazioni degli arredi.

Artemisia, sorella e moglie di Mausoleo, sovrano del regno di Caria, è un esempio di amore coniugale, modello di fedeltà alla memoria del marito e ispiratrice del primo grande cenotafio: il Mausoleo. Raccolse la successione del marito dopo la sua morte, avvenuta nel 353 a. C. In memoria di lui eresse in Alicarnasso, un grandioso monumento funebre, chiamato appunto Mausoleo. Secondo le fonti, Artemisia avrebbe inghiottito da una coppa le ceneri del marito, miste alle proprie lacrime. In questo modo poté rendere sé stessa la tomba vivente del marito. Il tema di Artemisia lo ritroviamo sia nelle testimonianze antiche – come in Valerio Massimo nei Factorum et Dictorum Memorabilium Libri – che in quelle medievali e umanistiche. Boccaccio dedica all’eroina un lungo capitolo nel De Claris Mulieribus. Petrarca la inserisce nel Triumphus Cupidinis, in una gruppo di tre belle donne innamorate: Procri, Artemisia e Deidamia. In ambito senese, la sua prima attestazione figurativa ricorre in un dipinto del Maestro di Griselda, attualmente al Museo Poldi Pezzoli di Milano. Il pannello è costituito da una serie di personaggi che risalgono alla tradizione classica e biblica. L’opera fa parte del noto ciclo eroico Piccolomini e a causa della decurtazione in basso, è privo della scritta latina. La veste scura indica il lutto della

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XLVII regina. A sinistra, sullo sfondo, l’eroina soprintende alla costruzione del Mausoleo, in compagnia di una giovane donna. A destra è raffigurata con le braccia aperte e lo sguardo rivolto al cielo, segno della sua profonda disperazione, mentre un’ancella le sta offrendo il calice.

È probabile che l’ideatore del programma del ciclo deve aver conosciuto la Storia Naturale di Plinio, in cui si racconta che il Mausoleo era fregiato di rilievi e che alla morte di Artemisia non era ancora terminato. Anche Giovanni Boccaccio nel De Claris Mulieribus, racconta che Artemisia non era riuscita e vedere il monumento compiuto. Nel dipinto del Museo Poldi Pezzoli infatti, sulla sinistra, appare il Mausoleo non ancora ultimato e adorno di rilievi.

È possibile attribuire allo stesso soggetto anche un’opera di identificazione figurativa non immediata: una tavola in cui sarebbe effigiata Cleopatra, che nel 1964 Roberto Longhi pubblica come opera di Raffaello, da collocarsi tra il 1501-1503. Ma è a Girolamo Genga che più di recente viene attribuita l’opera, l’errore è da attribuirsi alle evidenti tangenze della sua attività con quella di Raffaello. Altri studiosi ritengono più opportuno accostare il dipinto ai tre pannelli con Donne Famose conservati nella collezione Chigi Saracini di Siena. Longhi pensava che il soggetto rappresentato fosse Cleopatra e che si trattasse dell’episodio nel quale la regina d’Egitto affermò al cospetto di Antonio che in una sola cena avrebbe dissipato dieci milioni di sesterzi. Da alcuni servi si fece portare in una coppa

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XLVIII dell’aceto, in grado di dissolvere persino le perle. Cleopatra, dopo essersi tolta dall’orecchino la splendida perla che indossava, la immerse nell’aceto, e una volta corrosa la inghiottì. Quando stava per prendere l’altra, il giudice della gara, Lucio Planco, la fermò, dichiarando Antonio vinto. Secondo quanto ricorda Plinio, la perla superstite, dopo la cattura di Cleopatra, fu tagliata in due metà che andarono alle orecchie di Venere, a Roma, nel Pantheon, affinché entrambe portassero l’emblema della celebre cena. La presunta Cleopatra, che ostenta una coppa, è stata identificata anche come una Sofonisba. Ma il gesto delle dita intente a sciogliere le ceneri del marito, che di lì a poco ingerirà, dimostra che la figura rappresenta piuttosto Artemisia. La regina di Caria è probabilmente il modello per l’Artemisia della Collezione Chigi Saracini, che accosta Cleopatra e Giuditta, costituendo una terna di donne famose.

Nel ciclo dipinto da Domenico Beccafumi in Palazzo Venturi, Artemisia è di nuovo ritratta nel momento in cui immerge le ceneri nella coppa con un gesto aggraziato delle dita, simbolo della sua dedizione assoluta.

Una nuova occorrenza dell’eroina si trova in un pannello della collezione Chigi Saracini attribuito ad un collaboratore di Bartolomeo di David: Artemisia è rappresentata sullo sfondo di un paesaggio desolato, affiancata da un albero sottile, mentre tiene lo scettro regale con la sinistra e l’urna funeraria in piedi, si appresta con l’altra mano a ingerire le ceneri del marito. Il pannello originariamente costituiva uno dei tre elementi decorativi che formavano una spalliera,

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XLIX commissionata in occasione delle nozze tra Girolamo d’Alberto Gabrielli e Cristofana di Giulio di Bartolomeo Landucci, celebrate il 7 marzo 15273. Ci sono altre due figure esemplari che si inseriscono nel complesso ligneo, e sono un eroe antico non identificato ed Ipsicratea. La sua vicenda è narrata nei Detti e Fatti Memorabili di Valerio Massimo, inclusa tra gli esempi stranieri di fedeltà coniugale. La regina amò a tal punto il marito Mitridate da assumere un aspetto maschile, tagliandosi i capelli e rinunciando alla sua straordinaria bellezza. Si esercitò nell’equitazione e nell’uso delle armi per essere in grado di stare vicino al marito in qualsiasi occasione; quando Mitridate, vinto da Pompeo, fuggì attraverso paesi barbari a lui ostili, l’eroina lo seguì con infaticabile coraggio e resistenza. Questo atto di fedeltà fu per lui il più grande e gradito conforto che lei gli potesse dargli in quella circostanza difficile e dolorosa.

La tavola che ritrae l’eroina è attribuita ad un collaboratore di Bartolomeo di David, simbolo di amore coniugale, è abbigliata con vesti virili, mentre immobile volge le spalle allo spettatore, con lo sguardo che denota un’imperturbabile sicurezza. È stato dato notevole rilievo ai consueti attributi: le forbici e l’elmo.

Ma la prima volta che Ipsicratea viene raffigurata in ambito senese, è negli affreschi di Palazzo Venturi di Domenico Beccafumi, il quale rappresenta l’eroina in posizione semidistesa nell’angolo sinistro di

3 Cfr. M. Caciorgna – R. Guerrini (a cura di), La Virtù Figurata, Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Siena, 2003, pp. 45-48.

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L una vela del ciclo decorativo, accanto all’oculo in cui si inserisce la storia di Deucalione e Pirra; anche in questo caso esibisce gli attributi che la contraddistinguono: nella mano destra ostenta le grandi forbici con cui ha reciso la capigliatura che stringe nella mano sinistra, e l’elmo, al suo fianco, caricato di un’importante significazione simbolica.4

3.1.4. Le eroine di Boccaccio: esempi di comportamento muliebre

Il Decameron di Boccaccio è stato la fonte per innumerevoli dipinti il cui tema centrale era la nobile condotta della moglie, specialmente per le virtù di onestà e obbedienza incarnate dalle sue eroine. Una delle più famose storie dell’intero libro era la novella di Griselda, l’ultima nel Decameron. Questa storia ha fornito il soggetto per tre spalliere dipinte nel 1500 circa da un artista vicino al Signorelli e Pinturicchio. Griselda era una contadina, scelta da Gualtieri, il Marchese di Saluzzo, come moglie, a condizione che lei gli promettesse una obbedienza incondizionata, qualsiasi cosa lui avesse detto o fatto. Nel primo pannello sulla sinistra, Gualtieri è visto mentre sta cacciando in campagna, e si imbatte nella strada che porta a casa di Griselda, mentre sulla destra, la incontra, coperta di stracci,

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LI vicina alla casa paterna. Al centro, sullo sfondo di un arco trionfale, Gualtieri sposa Griselda, adesso vestita elegantemente. La protagonista viene crudelmente e ingiustamente messa alla prova dal marito, che simula persino l’omicidio dei loro bambini: nel secondo pannello della serie, sulla sinistra, i bambini sono presi e portati via da un servo. Al centro, sotto la loggia, Gualtieri finge di aver ricevuto il permesso dal papa per annullare il loro matrimonio a causa delle umili origini della moglie. Così dopo tredici anni di matrimonio Griselda viene spogliata dei sui bellissimi abiti e, sulla destra, lei fa ritorno alla casa paterna, coperta solo da una camicia. Dopo questo rifiuto pubblico della moglie, Gualtieri, come dimostrazione finale di obbedienza, la richiama successivamente come serva della futura seconda moglie. Nel terzo e ultimo pannello, il mezzo narrativo continuo ci mostra la conclusione della storia sotto una loggia: sulla sinistra, Griselda vestita di grigio pulisce il pavimento in preparazione dell’arrivo della nuova sposa, sulla destra, accoglie la futura moglie, non riconoscendo in lei la figlia scomparsa da tempo. Gualtieri è ora soddisfatto: l’obbedienza della moglie è stata dimostrata, e la sua virtù ha conquistato persino il suo cuore. Griselda viene pertanto ricollocata nel posto che le spettava di diritto, come moglie di Gualtieri, e si ricongiunge con i due figli. Il banchetto riunisce tutti i protagonisti della storia.

Griselda non vacilla mai nella sua obbedienza, lealtà e amore per il marito. Vista con occhi moderni la novella può essere erroneamente interpretata come una dimostrazione di misoginia, e il personaggio

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LII femminile nella sua totale sottomissione, può apparire spiacevolmente masochista; in realtà Griselda è una figura mistica, modellata sulla rappresentazione dei santi nell’agiografia medievale, ed in considerazione delle tribolazioni presentate, è come se fosse una delle storie del martirio di Cristo.

Un esempio dei doveri maschili e femminili è fornita da due serie di spalliere, entrambe dipinte dalla bottega di Botticelli durante la fine del quindicesimo secolo. Antonio Pucci commissiona per il matrimonio del figlio Giannozzo con Lucrezia Bini, nel 1483, quattro spalliere, nei quali viene raffigurata un’altra famosissima novella del Decameron di Boccaccio, la storia di Nastagio degli Onesti. I Pucci erano clienti della famiglia Medici, e il matrimonio tra Giannozzo e Lucrezia fu mediato da Lorenzo il Magnifico in persona5.

3.2. La ritrattistica nel Quattrocento: virtù e status

Un ritratto è la rappresentazione di un’immagine specifica, ma è anche un’immagine dell’individuo, che attraverso la somma delle idee artistiche e degli esperimenti sulle possibilità dell’arte, aiuta a creare o ridefinire ideali sociali e culturali. Il ritratto contiene per questi motivi una serie di segni che devono essere interpretati.

5 Cfr. P. Tinagli, cit., pp. 26-42.

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LIII I ritratti femminili dipinti in Italia durante il quindicesimo secolo possono impressionare l’osservatore moderno per la loro distanza. Quasi tutti ritratti femminili di piccolo formato mostrano la protagonista di profilo, nessun contatto visivo è pertanto concesso, dato che non esiste nessuna possibilità di comunicazione attraverso uno scambio di sguardi. Questi ritratti simboleggiavano la ricchezza e l’importanza del lignaggio delle famiglie alle quali appartenevano le protagoniste ritratte dai maestri del Rinascimento.

3.2.1. Ritratti e identità

Il ritratto può essere semplicemente definito come la rappresentazione di un individuo. Questa definizione presuppone che il concetto di individuo non sia problematico, perché immutabile e applicabile a tutte le culture e a tutti i tempi. I cambiamenti nel ritratto possono essere visti semplicemente come l’evoluzione nello stile, o in risposta ai cambiamenti nella sua funzione. A metà del diciannovesimo secolo Jacob Burckhardt ha definito il Rinascimento come il tempo in cui, in contrasto con il Medioevo, una consapevolezza della soggettività si è sviluppata, emancipandosi dal gruppo, inteso come famiglia, persone, corporazione. L’uomo è trasformato in un individuo, in una personalità indipendente e consapevole della propria identità. I protagonisti della storia del Rinascimento italiano, analizzati con occhio moderno, sono

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LIV caratterizzati dalla consapevolezza di sé stessi, dalla competitività e dall’individualismo, ma gli storici moderni hanno notato come, durante questo periodo l’identità si è sviluppata ancora in gruppi sociali, in cui, quello della famiglia, è forse il più influente. L’identità non è una questione privata, ma pubblica, e questo è stato particolarmente vero per il Rinascimento.

Quello che vediamo nel ritratto è l’aspetto pubblico dell’identità, modulato dagli ideali della società a cui appartiene: il ritratto si serviva dell’identità dell’individuo come espediente per raffigurare una realtà più ampia. Questa tradizione di dipingere l’uomo in quanto simbolo e non come persona era ripresa dall’Antichità, l’interesse verso la quale si rinnovò anche grazie all’aumento delle collezioni romane del quindicesimo secolo, e del ritrovamento di monete che divennero autentiche gallerie di ritratti di profilo. Le modalità utilizzate nella prima della metà del Quattrocento per illustrare questa tradizione erano i ritratti di profilo e i ritratti di busti. La consapevolezza dell’uso della ritrattistica antica e il culto degli antenati confluivano all’interno della funzione commemorativa del ritratto.

3.2.2. I ritratti di profilo e ciò che rappresentano

I ritratti di profilo maschili del quindicesimo secolo eseguiti nell’Italia del nord e a Firenze sono stati visti come allegoria visiva

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LV che rifletteva i diversi ideali dei rispettivi sistemi politici. Alla nobiltà di nascita dei membri delle dinastie aristocratiche, sia recenti che già consolidate, è contrastata la nobiltà dell’anima e il raggiungimento di virtù delle élite mercantile della repubblica fiorentina. Alle corti di Ferrara, Rimini, Milano e Urbino i ritratti di profilo come Leonello d’Este, di Pisanello (Figura 21), nel 1441 circa (Bergamo, Accademia Carrara), o Sigismondo Malatesta di Piero della Francesca (Figura 22), 1450 circa, celebrano il potere, l’eleganza e la ricchezza del signore. A Firenze le caratteristiche che dominano il ritratto maschile di profilo agli inizi del quindicesimo secolo sono: una limitata caratterizzazione del soggetto ritratto, la sobrietà nel vestiario, e la ripetizione dei motivi come il cappuccio spesso indossato dal modello. Leon Battista Alberti, nel suo trattato Della pittura a metà del 1430, menzionava ripetutamente i ritratti visti a Firenze in occasione della visita in città al seguito di papa Eugenio IV nel 1431. Secondo l’artista il modo per attirare maggiormente l’attenzione dello spettatore su un ritratto era quello di esaltare le particolarità fisiche del soggetto raffigurato.

Le caratteristiche del ritratto di profilo sono state interpretate come personificazione del desiderio di creare la rappresentazione di un cittadino repubblicano ideale, visto come un individuo controllato dalla ragione e guidato dalla moderazione. Nel quindicesimo secolo fiorentino la rappresentazione dell’identità era centrata sulla necessità di celebrare l’ethos dell’oligarchia repubblicana attraverso il culto della famiglia e degli antenati, dando una dimostrazione di sobrietà e

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LVI di moderazione. L’enfasi rivolta non solo alle peculiarità delle caratteristiche del viso, ma anche alle acconciature, ai dettagli e agli ornamenti degli abiti nei ritratti dei nobiluomini del nord Italia, costituivano un contrasto espressivo con gli esempi fiorentini.

3.2.3. Ritrattistica femminile

Le donne avevano, rispetto agli uomini, altri ideali da incarnare, svolgendo un ruolo diverso nella società; questi sono gli elementi essenziali da prendere in considerazione quando esaminiamo i ritratti femminili di profilo. Abbiamo già visto come l’importanza delle donne nella società era centrata intorno al ruolo che svolgevano all’interno della famiglia, in quanto mogli e madri. Le donne erano gli strumenti attraverso i quali due casati si riunivano in importanti alleanze.

I ritratti di profilo dalle corti del nord Italia celebravano donne ritenute eccezionali per la loro origine aristocratica, ma il cui contributo alla società era visto principalmente in funzione della creazione di connessioni familiari attraverso i matrimoni, e nella preservazione del nome della famiglia attraverso la nascita degli eredi. La ritrattistica femminile nelle corti italiane e in quella di Firenze nel quindicesimo secolo riguardava ritratti dinastici, per ribadire l’importanza del lignaggio familiare. La maggior parte di questo tipo

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LVII di dipinti erano commissionati per commemorare un defunto da parte delle persone care, discendenti, amici o parenti.

Come nel caso dei ritratti maschili, ciò che si voleva presentare allo spettatore era un ideale, o piuttosto un’identità plasmata da un ideale. Non si trattava tanto di una persona specifica ma di un individuo qualsiasi, in cui era comunque riconoscibile una fisionomia vera e propria, modellata per comunicare un ruolo specifico. I ritratti di profilo di questo periodo, sia maschile che femminile, non sono studi dell’io: i valori che trasmettono sono sociali, non personali. Per la ritrattistica femminile, questo atteggiamento rimane invariato per quasi l’intero del secolo. Le donne rappresentate in queste opere – virtuose, belle e prestigiose – continuano a modificare i loro profili, offrendo sempre nuove soluzioni allo spettatore persino quando, nei ritratti maschili della seconda metà del quindicesimo secolo, questa posa venne abbandonata per una diversa serie di convenzioni che iniziarono a considerare un diretto coinvolgimento dello spettatore, permettendogli così di percepire l’io del soggetto dipinto. Nella volontà di non cambiare la tradizione nei ritratti femminili di profilo, si scorge il desiderio di continuità negli ideali che le icone femminili rappresentavano e continuavano a trasmettere di generazione in generazione.

I lineamenti che nel quindicesimo secolo costituivano i canoni di bellezza femminile, sembravano studiati per essere rappresentati di profilo: attraverso una prospettiva frontale, infatti, non sarebbero potute emergere le qualità decorative delle linee lunghe e sinuose che

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LVIII curvano ininterrottamente dalla fronte sporgente, evidenziata dai capelli tirati indietro fino alla base del collo. Questi tratti erano messi in risalto dalla ricchezza dei gioielli posti sulla testa, dalla complessità del copricapo e dalle ciocche di capelli intrecciate, scostate dalla faccia per esibire ed enfatizzare il profilo. L’utilizzo di questi canoni di bellezza, come la fronte alta e spaziosa, le sopracciglia arcuate, e l’uso calibrato di luce e ombre per marcare i lineamenti della guancia e della mascella, e la solidità della testa, lasciava spazio alla caratterizzazione della donna ritratta.

La posa di profilo non permetteva il contatto visivo con lo spettatore, sono altri gli elementi ai quali era affidata l’espressioni dell’individualità: le diverse forme dell’occhio, l’inclinazione della testa e il posizionamento del collo in relazione alle spalle. Altri elementi offrono la possibilità di caratterizzare il profilo ritratto, come i diversi modi di acconciare i capelli e l’uso di stoffe per abbellire le pettinature. Entro i limiti costituiti dalle convenzioni e dalla staticità delle pose, erano possibili variazioni raggiunte usando prospettive leggermente diverse e attraverso il cambiamento del rapporto tra il busto e il piano pittorico.

È principalmente attraverso l’eleganza della modella, dei suoi vestiti, degli ornamenti e dei gioielli che questi ritratti trasmettevano il loro significato allo spettatore. I simboli araldici, spesso ornavano i vestiti, mostrando il lignaggio al quale le donne appartenevano, sia quello della famiglia di origine che quella del marito; la ricchezza dei vestiti e dei gioielli simboleggiava il benessere e il loro livello sociale.

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LIX Uno dei più famosi ritratti, giunti fino a noi, che rappresenta una donna, è il profilo di Pisanello (Figura 23). Questo mostra una signora con i capelli tirati indietro e legati con un nastro bianco, che scoprono una fronte alta e arrotondata. Non indossa gioielli, ma sulla manica della gamurra c’è ricamato un vaso arricchito con delle perle. L’espediente del vaso che contiene rami di ulivo, alle cui maniglie sono attaccate delle catene, appare anche sul rovescio della medaglia con il profilo di Leonello d’Este, marchese di Ferrara. Questo simbolo araldico ha fatto ipotizzare che la donna ritratta potesse essere la moglie di Leonello, Margherita Gonzaga, che morì nel 1439, quattro anni dopo le nozze. Il ramoscello di ginepro che le decora il corsetto, sembra indicare, piuttosto, che la donna rappresentata qui sia la sorella di Lionello, Ginevra. Ginevra d’Este, nacque nel 1419, sposò Sigismondo Malatesta, signore di Rimini, nel 1434, e morì dieci anni dopo. Il ritratto, dipinto probabilmente nel 1430, segue le convenzioni già descritte, con un essenziale uso dell’ombra per dare volume alla forma della testa, e una particolare attenzione viene data per definire le singolarità del suo profilo, la sagoma è proiettata sullo sfondo ornato con fiori e farfalle. I fiori sono stati identificati come rose e garofani, solitamente associati con l’amore e il matrimonio, e aquilegie, simbolo sia della passione d’amore che di quella di Cristo.

Nel Ritratto di Donna con un Uomo al Davanzale attribuito a Filippo Lippi (Figura 24), i profili del marito e della moglie sono combinati all’interno di uno spazio architettonico. Il dipinto è l’antecedente di quelle medaglie sulle cui facce ci sono i profili, che

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LX più tardi nel secolo, commemoreranno marito e moglie. È eccezionale non solo per rappresentazione della coppia in un ambiente interno, ma anche per la resa del paesaggio visto attraverso la finestra sullo sfondo che ha la dimensione più larga del solito per un ritratto di questo periodo. Il profilo dell’uomo si affaccia sulla finestra, nel lato sinistro dello spazio pittorico, che è dominato da una donna vestita con un abito pregiato. La figura a tre quarti è vestita con una giornea foderata di pelliccia su una cioppa con maniche ricamate. La donna indossa un copricapo straordinariamente elaborato per un ritratto dell’epoca, detto sella alla fiamminga o alla francese, ricamato e orlato di perle, con un cappuccio di damasco. Il copricapo enfatizza la fronte alta, segno di eleganza e di bellezza femminile durante questo periodo. Intorno al collo ha una stringa di perle, e un fermaglio sulle spalle. Le mani decorate con anelli, sono strette sul davanti e si appoggiano sotto la vita. Sul polsino della giornea, ricamato in oro e perle, c’è una singola parola, LEALTÀ, una dichiarazione dei doveri e virtù muliebri. Questo ritratto non è uno studio sulla personalità dei due personaggi rappresentati: è piuttosto la commemorazione di una donna e dell’importanza del lignaggio a cui appartiene, indicato dalla presenza del ricamo sulla manica, che si appoggia sul davanzale, sotto la mano che sta gesticolando dell’uomo. La manica è stata associata alla famiglia Scolari, e la coppia è stata identificata come Lorenzo di Ranieri Scolari e Angiola di Bernardo Sapiti, che si sposarono nel 1436, e fu solo nel 1444 che nacque il loro primo figlio, Ranieri. Non si sa quando e per quale occasione questo ritratto venne

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LXI commissionato; il suo stile ha suggerito una datazione tra metà 1430 e metà 1440.

A Firenze durante il quindicesimo secolo i ritratti per commemorare un fidanzamento o un matrimonio erano inusuali, e non c’è nessuna prova che dimostri la loro committenza in occasione della nascita di un bambino.

3.2.4. Immagini di bellezza ideale

Alcuni storici ritengono che fu da metà del 1470 che iniziarono a comparire le prime collezioni private di dipinti, che rappresentavano la bellezza femminile. Questi dipinti erano in parte visti come un riferimento consapevole all’antichità e in parte come un equivalente visivo di ciò che celebrava la poesia: la relazione tra il poeta e una donna ideale che affondava le sue radici nel dolce stil novo, in auge nella seconda metà del quindicesimo secolo.

L’Alberti riportò la famosa storia di Zeusi che scelse la caratteristica più bella da ognuna delle donne più incantevoli dell’isola di Crotone, così che avrebbe potuto rappresentare adeguatamente la bellezza di Elena di Troia. Questa storia, insieme alla tradizione letteraria, basata sui sonetti del Petrarca che delineavano e celebravano il ritratto della amata Laura, offrivano un topos adeguato per i committenti e una sfida per i pittori. Il circolo intorno al Lorenzo il Magnifico costituiva un terreno fertile per lo sviluppo di questi

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LXII filoni, attraverso gli scritti filosofici del neoplatonico Marsilio Ficino, le poesie di Luigi Pulci, di Agnolo Poliziano e di Lorenzo stesso. In questi scritti, la bellezza delle donne era glorificata come la prova fisica della loro perfezione spirituale; da allora il corpo divenne lo specchio dell’anima. I dipinti esibivano invenzioni, rappresentazioni di donne dalla bellezza esemplare che si differenziavano dai ritratti di individui concreti, comunque idealizzati; in questi i dettagli dell’abbigliamento e delle acconciature mostravano elementi che sono semplicemente decorativi e originali. A questo gruppo appartenevano alcuni dipinti, ora attribuiti alla bottega di Botticelli, tra tutti quello, il cui profilo, si credeva una volta appartenesse a Simonetta Cattaneo, la moglie di Marco Vespucci, la quale morì nel 1475 all’età di ventidue anni (Figura 24). La donna era famosa a Firenze e fu utilizzata per rappresentare l’eroina ideale sia da Giuliano dei Medici che dal fratello Lorenzo il Magnifico. L’amore platonico, che Giuliano provava nei suoi confronti, fu celebrato nelle Stanze di Poliziano, attraverso l’amore dei due protagonisti, Iulo e la ninfa Simonetta. La morte della donna fu l’occasione per ideare composizioni poetiche da parte di alcuni poeti e letterati, tra tutti, i più famosi, sono quattro sonetti scritti da Lorenzo il Magnifico. L’identificazione di questo ritratto con Simonetta si basava sulla descrizione di Vasari di un dipinto del Botticelli.

L’altro oggetto utilizzato per l’identificazione è stato il gioiello intorno al collo della donna dipinta, identificato come un antico cammeo che rappresenta Apollo e Marsia e che si trovava

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LXIII nell’inventario dei Medici fatto alla morte di Lorenzo il magnifico nel 1492. Le figure sul pendente sembrano essere infatti quelle di una donna che trionfa su di un satiro legato. Questo quadro, insieme ad altri due profili di Botticelli, uno dei quali di trova a Berlino e un altro alla National Gallery di Londra, sembrano essere tutti variazioni di un tipo di bellezza basata sulle caratteristiche ideali di dee, ninfee e madonne, tipiche di Botticelli. Nel dipinto di Francoforte, i capelli sono acconciati con ricchi ornamenti e a un livello tale di elaborazione che va oltre la classica rappresentazione tipica del tardo quindicesimo secolo dei capelli in ritratti di individui reali: i capelli sono posti indietro e legati raccogliendo alcune treccine, altre ciocche di capelli arricciate incorniciano la faccia: perle, piume e una brocchetta da testa completano l’acconciatura; l’abito è impreziosito da due lunghe trecce ornate con perle che seguono la scollatura e si incontrano al centro; la decorazione del vestito evoca quello di Venere nel Marte e Venere (Figura 25) di Botticelli (London, National Gallery).

Il nome di Simonetta Vespucci appare invece in una iscrizione sul quadro dipinto da Piero di Cosimo nel 1485-90 circa (Figura 26), permettendo così d’identificare la figura femminile ritratta. È stato però dimostrato che questa iscrizione fu aggiunta successivamente. La mezza figura è rappresentata di profilo, sullo sfondo di un cielo burrascoso e la cui luce contrasta con lo scuro delle nuvole. Il busto è leggermente rivolto verso il piano pittorico, così che il petto nudo e incorniciato da una stola a strisce, avvolta intorno alle spalle, sia offerto allo sguardo dello spettatore. I capelli sono intrecciati e

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LXIV decorati con perle e la donna porta al collo un serpente arrotolato intorno alla collana d’oro, che indossa. L’alto carico erotico dell’immagine è affidato all’esplorazione della sensualità nel contrasto della carne della scollatura con il tessuto della stola e dell’uso dei gioielli nei capelli, che va ben oltre i limiti della descrizione della beltà presente nelle poesie contemporanee e che si rifaceva al modello petrarchesco. La presenza del serpente allerta lo spettatore che la bellezza rappresentata è un esempio di bieca lussuria: questa potrebbe essere infatti la bellissima testa di Cleopatra con un aspide intorno al collo, che Vasari vide nella casa di Francesco da Sangallo. Cleopatra era vista come un esempio di lussuria; l’efficacia di immagini come queste, dipendeva dalla loro attrazione seduttiva e avevano la funzione di avvertimento morale.

I dipinti come il busto nudo di Piero di Cosimo e la testa idealizzata di Botticelli mostrano come la tipologia del ritratto di profilo poteva essere adattata per includere immagini di donne che avevano diverse funzioni. Questo sta a dimostrazione del fatto che le funzioni dei dipinti conservati in ambienti domestici, stavano diventando più variegate, e che la distinzione tra i diversi generi può essere tutt’altro che netta. I dipinti che seguivano le convenzioni della ritrattistica erano spesso usati come equivalenti visivi della poesia, dando l’occasione alla cultura e al gusto del committente di incontrarsi. La contemplazione della bellezza era l’espediente dietro il quale si celava l’avvertimento morale. Questi dipinti mostravano che

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LXV il significato della bellezza femminile e la sua presa sullo spettatore, si separava dalla commemorazione di un individuo e dalla sua virtù.

3.2.5. La fine di una tradizione

Verso la fine del quindicesimo secolo si è assistito alla crescita della tradizione del ritratto di profilo. Nei ritratti maschili, la posa a tre quarti permise al pittore di creare l’illusione di uno scambio di sguardi tra il soggetto dipinto e lo spettatore, esplorando la possibilità di trasmettere uno stato d’animo e una personalità. Questo ovviamente non era possibile utilizzando la posa di profilo classica.

Questi canoni, che furono utilizzati a lungo nella ritrattistica femminile, erano più adatti a trasmettere costumi, modelli di comportamento, condotte virtuose che erano attribuiti a queste donne idealizzate; caratteristiche fisiche associate al modello di bellezza ideale, piuttosto che all’anima e all’esistenza di una personalità6.

3.3. Bellezza e potere: i nuovi canoni del ritratto

Alla fine del quindicesimo secolo, i ritratti continuarono a essere considerati il mezzo attraverso il quale i vivi commemoravano le

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LXVI persone scomparse. All’arte era affidato il difficile compito di andare oltre la natura e il tempo, nell’immortalare il protagonista raffigurato. Sebbene i ritratti furono utilizzati ancora per onorare la memoria del defunto, vennero commissionati sempre più di frequente per rappresentare la condizione delle donne in vita, per celebrare eventi di rilievo nella loro vita, o addirittura la loro bellezza. A queste evoluzioni simboliche del ritratto conseguirono importanti cambiamenti che riguardavano la posa del soggetto raffigurato, la posizione della figura in relazione al piano pittorico e i mezzi utilizzati per rappresentarlo. Il profilo classico fu abbandonato in favore della posa a tre quarti, che conferiva una maggiore importanza alla direzione dello sguardo; per quanto riguarda l’introduzione del mezzo a olio, questo offrì agli artisti l’opportunità di esplorare gli effetti della luce e la differenza di composizione della pelle, dei capelli e dei tessuti.

3.3.1. La ritrattistica cambia le sue funzioni

Durante il sedicesimo secolo si è assistito ad un cambiamento delle funzioni dei ritratti che diventavano più variegati. Potevano per esempio essere utilizzati come importanti doni: nel 1514 Isabella d’Este, Marchesa di Mantova, regalò all’ambasciatore inglese un suo ritratto dipinto dal Costa; nel 1549, il Bronzino dipinse un paio di ritratti del Duca e la Duchessa di Firenze come dono per il vescovo di

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LXVII Arras. Su esplicita richiesta dei committenti l’artista non dipinse l’abito della Duchessa come se fosse broccato – decorazione che gli avrebbe richiesto molto tempo – ma simulò un altro tipo di ornamento che risultasse ugualmente bello, per terminarlo il più velocemente possibile.

Un numero consistente di prove documentarie dimostrano come, in molti casi, i ritratti servissero a ricordare amici lontani e come fossero utilizzati per esprimere amore e affetto nei loro confronti. Celebre fu il caso di Isabella d’Este che scrisse a Cecilia Gallerani nel 1498 chiedendole di vedere il suo ritratto dipinto da Leonardo, per paragonarlo con quello dipinto da Giovanni Bellini. Cecilia rispose che glielo avrebbe mandato, avvisandola che, a causa degli anni passati, il ritratto non le somigliava molto.

Un’amica di Isabella d’Este, che viveva a Ferrera, le scrisse nel 1495 raccontandole che, all’ora dei pasti, metteva il ritratto di Isabella di fronte a lei, in modo da avere l’impressione di essere in sua compagnia.

3.3.2. Il canone di bellezza nei ritratti

Come abbiamo visto i ritratti femminili erano dipinti secondo criteri specifici che seguivano l’idea di femminilità del Rinascimento. In questo contesto l’innegabile influenza di Petrarca, che non potrà mai essere evidenziata abbastanza, permeò non solo nella poesia e

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LXVIII nella cultura letteraria italiana del Rinascimento, ma ispirò quasi tutte le aree della vita culturale, come la questione dell’idealizzazione delle donne, l’espressione di amore, la descrizione di bellezza. Questi ideali si possono riscontrare nei poemi lirici e in quelli epici, nei trattati amorosi e nelle disquisizioni sulla bellezza femminile, nei trattati sull’arte e in scritti sul comportamento. Seguendo i modelli forniti da Petrarca e Boccaccio, il canone di bellezza femminile si è codificato attraverso le innumerevoli descrizioni di Poliziano, Pietro Bembo, Ariosto, Boiardo e molti altri ancora. Le variazioni si giocavano attorno a quella serie di modelli costantemente ripetuti: gli scrittori elogiavano il fascino dei capelli ondulati scintillanti come l’oro, la carnagione bianca come la neve, il marmo, l’alabastro o il latte; celebravano le guance simili alle rose, e gli occhi che brillavano come il sole o le stelle. Le labbra erano paragonate ai rubini, i denti alle perle, e il seno alle mele.

I poemi lirici che elogiavano i ritratti femminili divennero un genere popolare a partire dalle ultime due decadi del quindicesimo secolo. Questi poemi possono aiutare lo spettatore moderno a capire alcune delle funzioni del ritratto, e possono anche suggerire i modi in cui i ritratti femminili rinascimentali venivano percepiti dagli spettatori dell’epoca. Essi affondavano le loro origini nei due sonetti del Petrarca sul ritratto dell’amata che eseguì Simone Martini.

Ad Avignone Simone conobbe il poeta Francesco Petrarca. La leggenda vuole che proprio il Martini abbia ritratto Laura, come celebrano i versi dei sonetti LXXVII e LXXVIII del Petrarca stesso.

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LXIX L'opera è oggi perduta. I versi relativi al dipinto risultano quanto mai suggestivi, fin dall’incipit che recita:

Per mirar Policleto a prova fiso

con gli altri ch’ebber fama di quell’arte mill’anni, non vedrian la minor parte de la beltà che m'ave il cor conquiso. Ma certo il mio Simon fu in Paradiso onde questa gentil donna si parte ivi la vide, et la ritrasse in carte per far fede qua giù del suo bel viso7.

Una lode grandissima ad un ritratto in cui Martini, meglio ancora di altri artisti famosi per la loro abilità, riuscì a cogliere la bellezza del volto (“per far fede qua giù del suo bel viso”) come molti pittori non avrebbero saputo fare nemmeno se si fossero impegnati per mille anni. Nel secondo sonetto il poeta lamenta il fatto che l’immagine dipinta, anche se sembra che ascolti le sue parole, non risponderà. Petrarca invidiava Pigmalione: secondo il racconto di Ovidio, (Metamorfosi, X, 243), il re di Cipro era anche uno scultore e avrebbe modellato una statua femminile, nuda e d’avorio, che egli stesso aveva chiamato Galatea, della quale si sarebbe innamorato considerandola, come tutti gli innamorati, il proprio ideale femminile, superiore a qualunque donna in carne e ossa, tanto da dormire accanto ad essa,

7 F. Petrarca, Canzoniere, edizione commentata a cura di M. Santagata, Mondadori, Milano, 1996, pp. 400-6.

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LXX sperando che un giorno prendesse vita. Nel periodo dei riti in onore di Afrodite, Pigmalione si recò al tempio della dea, pregandola di concedergli in sposa la statua creata con le sue mani. Egli stesso vide la statua animarsi lentamente, respirare e aprire gli occhi.

Lorenzo il Magnifico, seguendo il modello petrarchesco, usa la stessa immagine in un poema sul ritratto della sua amata, Lucrezia Donati: l’artista non riuscì a rappresentare la sua virtù, per quanto la somiglianza fosse perfetta. In questi poemi scritti dagli inizi del sedicesimo secolo in poi, l’immagine dipinta è descritta come se si stesse guardando lo spettatore e si reagisse alle sue emozioni. Questo cambiamento di prospettiva indusse all’introduzione della posa a tre quarti, con la possibilità di uno scambio di sguardi tra il soggetto dipinto e il l’osservatore.

3.3.3. Ritratti famosi

Nel Ritratto di Ginevra de’ Benci (Figura 27), dipinto a Firenze probabilmente intorno al 1480, la posa a tre quarti della testa permette allo spettatore di incontrare lo sguardo della protagonista ritratta. Il pannello è stato tagliato e originariamente includeva le mani. La descrizione del ritratto di Leonardo di Ginevra de’ Benci, fatta da Anonimo Gaddiano, ci presenta il topos del pittore del Quattrocento come imitatore della natura: la rappresentazione di Ginevra, non sembra tanto un ritratto, quanto piuttosto una persona reale. Esso

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LXXI rappresenta infatti uno studio di come appare la realtà ai nostri occhi, è l’interpretazione personale dell’apparenza fisica del mondo naturale. Leonardo fece in modo che lo spettatore fosse trasportato dalle sensazioni che derivavano dall’osservazione del dipinto. Il pittore ha raggiunto questo traguardo attraverso lo studio accurato della diversa composizione delle superfici che riflettono la luce, capelli, pelle e acqua, e dal senso di distanza del paesaggio sullo sfondo. La mancanza di elementi decorativi convenzionali e dei dettagli utilizzati nei ritratti per stabilire lo status, come gioielli o tessuti preziosi, mostrava la capacità di selezione dell’artista e il suo controllo sui mezzi attraverso cui guidava, e ancora guida, la percezione dello spettatore. Proprio per tale motivo l’immagine dipinta di Ginevra è avvertita dallo spettatore come reale.

Esso, diversamente dalla maggior parte dei profili fiorentini dipinti durante il quindicesimo secolo, non aveva né una funzione commemorativa, e neppure celebrativa: l’intento sembrava essere infatti molto lontano dal desiderio di celebrare eventi collegati alla storia della famiglia. Ginevra di Amerigo de’ Benci sposata a Luigi Niccolini nel 1474, quando aveva diciassette anni, morì senza figli nel 1521 all’età di sessantadue anni. La donna era nota a Firenze e a Roma tanto per la sua conoscenza della poesia e della musica, quanto per la sua bellezza e virtù; Lorenzo il Magnifico scrisse due sonetti in suo onore. L’immagine di Ginevra, comunque, nonostante apparisse reale a uno spettatore del Quattrocento, sottostava ancora ai canoni di bellezza femminile dell’epoca. Al posto della posa a tre quarti,

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LXXII l’immagine è rimasta statica e gli occhi non sono impegnati in un dialogo con lo spettatore.

Ma è solo con il ritratto di Dama con l’ermellino (Figura 28), un’opera più tarda, concepita ed eseguita da Leonardo nell’ambiente della corte degli Sforza a Milano, intorno al 1490, che sono state affrontate questioni artistiche riguardanti il legame psicologico tra l’immagine dipinta, lo spettatore e la rappresentazione di movimenti evocati. La modella è stata identificata con Cecilia Gallerani, una giovane donna di una famiglia rispettabile Milanese, che nel 1489 divenne amante di Ludovico il Moro e che giocava un ruolo importante nella vita culturale della corte degli Sforza. Nel ritratto di Leonardo si vede emergere la donna da uno sfondo ombreggiato mentre tiene tra le braccia una donnola o un ermellino, emblema di Ludovico e simbolo di purezza; c’è l’allusione al cognome della donna, dal termine donnola in greco, galee. Con le spalle si colloca diagonalmente al piano pittorico e sembra che giri la testa per guardare verso la fonte di luce alla sua sinistra. Agli storici dell’arte è sembrato lecito ipotizzare che mentre la modella sta accarezzando il corpo dell’ermellino con la mano allungata ed elegante, i suoi occhi sembrano essere concentrati sulla presenza che è al di fuori dello spazio pittorico. Questa impressione è trasmessa dagli occhi: lo sfumato di Leonardo, con il quale rifinisce gli angoli degli occhi e delle labbra, implica l’abolizione di un contorno preciso e pertanto enfatizza la fugace sensazione di cambiamento.

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LXXIII Lo sviluppo di questi esperimenti è la Monna Lisa (Figura 29). Non sappiamo chi fosse la donna ritratta, né tanto meno se fosse il ritratto di una persona in particolare, o una rappresentazione ideale. Non è certo se questo era il quadro al quale si riferiva il Vasari come lo stesso posseduto dal re di Francia, Francesco I, a Fontainbleau; esso si disse che fu commissionato da un mercante fiorentino, detto Francesco del Giocondo, per ritrarre la moglie, Madonna Lisa Gherardini. Vasari aggiunse che Leonardo, dopo aver lavorato a questo dipinto per quattro anni, alla fine non lo terminò. L’opera sarebbe stata eseguita tra 1513 e il 1516, quando Leonardo si trovava in Vaticano a Roma, sotto il patronato di Leone X, fratello di Giuliano dei Medici.

Nel dipinto lo sguardo della modella impegna quello dello spettatore, dando l’impressione di essere in attesa di una sua risposta emotiva. Questa elusiva connessione con chi osserva, induce lo spettatore moderno ad attendersi la rappresentazione di un individuo caratterizzato in tutti i suoi aspetti, ma l’immagine risulta ancora filtrata attraverso il canone di bellezza dell’epoca, che impedisce all’artista di soffermarsi sulle peculiarità specifiche dell’aspetto del soggetto ritratto.

È, quasi certamente, attraverso la lezione di Leonardo e lo studio della Monna Lisa, che Raffaello acquisì nei ritratti fiorentini un forte senso di spazialità, evidente nella collocazione sicura delle figure nello spazio. I tre grandi esempi del ritratto di Raffaello dipinti a Firenze nella prima decade del Cinquecento: La Gravida (Firenze,

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LXXIV Galleria Palatina) (Figura 30), La Muta (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche) (Figura 31) e il Ritratto di Maddalena Doni (Firenze, Galleria Palatina) (Figura 32), sono tutte variazioni sullo schema compositivo mutuato da Leonardo. Le figure, con le spalle e il busto posto diagonalmente rispetto al piano pittorico, comunicano un senso di spazio fisico intorno a loro, persino quando, come nel caso del La Gravida e La Muta, sono collocate su uno sfondo scuro e piatto. Andando oltre le evidenti somiglianze, risultano altrettanto chiare le differenze significative tra la Monna Lisa di Leonardo e i tre ritratti fiorentini di Raffaello. All’interno del forte schema compositivo, Raffaello riesce comunque a prestare una cura particolare nella rappresentazione dei dettagli, come per i gioielli e per gli abiti indossati. L’attenzione data ai particolari si discosta dallo studio delle superfici e della luce eseguito da Leonardo nella sua Ginevra de’ Benci, dove l’attenzione del pittore è focalizzata piuttosto su un’esplorazione quasi scientifica del mondo naturale. Lo stile dei ritratti dei due artisti si differenzia soprattutto perché in Raffaello, ai soggetti veniva conferito un maggior spessore psicologico e l'individuo era sempre inserito all’interno della società, contrariamente, in Leonardo questo non avveniva. Si denota un connubio tra l’interesse per le caratteristiche specifiche riguardanti la fisionomia di colei che posa e l’idealizzazione dell’ovale del viso, l’occhio grande e scuro a mandorla, e le spalle inclinate e carnose. Raffaello è riuscito a fondere il senso di individualità e il posto che

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LXXV questa occupava nella società, con l’idealizzata costruzione della loro femminilità.

3.3.4. Il caso veneziano

A questo punto può essere utile una digressione riguardo la situazione a Venezia nel Cinquecento, per descrivere il contesto all’interno del quale si inserisce la ritrattistica. La Serenissima, pur avendo dietro di sé secoli di grandezza politica e di potenza economica, fu proprio nel Cinquecento che conobbe il suo periodo di massimo splendore. La grandezza spirituale e culturale del Rinascimento veneziano si affermò innestando il suo passato glorioso con gli ideali del secolo. Il connubio tra vita raffinata e colta nella quale l’arte ebbe un ruolo predominante, le particolari premesse storiche, politiche, economiche, ma soprattutto la sua innata e antica civiltà, determinarono questo periodo d’oro.

A Venezia si ritrovarono i più grandi artisti, musicisti, poeti e letterati dell’epoca. Emblematico fu il caso di Aldo Manuzio, figura attorno alla quale si raccolsero letterati, poeti, eruditi. Editore e umanista che si stabilì a Venezia alla fine del Quattrocento, rendendo la tipografia una forma d’arte, utilizzata come mezzo di espressione culturale e strumento attraverso il quale il libero pensiero ebbe l’opportunità di circolare.

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