Capitolo 3: La necessità di un monitoraggio etico sulle BCI
“L’uomo non dovrà aspettare passivamente milioni di anni prima che l’evoluzione gli fornisca un cervello migliore1.”
4.1 La necessità di un monitoraggio etico sulle BCI
Da un punto di vista etico abbiamo sottolineato l’opportunità e la necessità di una riflessione che fornisca una sorta di monitoraggio sulle finalità preposte all’utilizzo delle tecnologie BCI, e in particolare su di un loro possibile utilizzo al fine di realizzare un ampliamento delle nostre potenzialità cognitive.
L’interesse peculiare per questo tipo di ampliamento nasce dalla constatazione che per la prima volta, secondo le previsioni dei gruppi di ricerca impegnati in questo settore, ci possiamo riferire in modo diretto a queste modifiche come a un’opportunità futuribile ma alla portata della nostra tecnologia.
Le applicazioni legate all’utilizzo di interfacce neurali sembrano poter concretizzare la possibilità di modificare sostanzialmente la nostra natura trascendendo i limiti biologici, di modificare la percezione di noi stessi, “la nostra ontologia”.
Ci offrono, cioè, la possibilità di essere soggetti attivi nel decidere la nostra essenza, intervenendo su quelle strutture cornice come la percezione e la cognizione che attraverso le loro particolari configurazioni e potenzialità definiscono i nostri limiti e le nostre operatività.
Introdurre un’alterazione a livello cognitivo significherebbe quindi andare a modificare quel quadro ontogenetico che sembra caratterizzarci come specie e come individui, significherebbe condizionare la percezione che l’uomo ha di sé e del suo rapporto con la realtà esterna.
La domanda che farà da sfondo alla nostra riflessione sarà dunque:
Esistono i presupposti, da un punto di vista morale, per fondare liceità o sancire un divieto rispetto all’impiego di interfacce neurali uomo-macchina (BCI) al fine di realizzare un possibile ampliamento delle nostre funzioni e prestazioni cognitive?
Tra le possibili applicazioni legate all’utilizzo di BCI, possiamo distinguere quattro tipi di interventi:
i. Interventi di ripristino (recupero), attraverso i quali si interviene per ristabilire delle funzionalità compromesse o perdute.
ii. Interventi di agevolazione, attraverso i quali si alleggeriscono i compiti organici (realizzando ad esempio un dialogo diretto tra il corpo e l’infoambiente in cui normalmente ci muoviamo, come abbiamo visto nel progetto di ricerca di Kevin Warwick.)
iii. Interventi di intensificazione, attraverso i quali si incrementano prestazioni e capacità organiche normalmente possedute, sane e funzionanti.
iv. Interventi di integrazione, attraverso i quali si correda il corpo di capacità e di funzionalità non possedute in origine.
I primi due tipi di interventi, non sembrano destare di per sé particolari problemi e resistenze, perché non sembrano apportate significative e concrete modifiche in quella che potremo definire “natura biologica umana”.
Nel caso di interventi di recupero, si interviene infatti con l’obiettivo terapeutico di ripristinare “la normale dotazione biologica” del corpo; nel caso di interventi di agevolazione, al di là dei possibili effetti collaterali generati dalla biocompatibilità degli impianti, superabili attraverso una sempre più accurata progettazione e un adeguata fase di sperimentazione, si interviene con l’obbiettivo di ottimizzare un dialogo diretto tra il corpo e i dispostivi tecnologici presenti in un determinato ambiente.
Vedremo però nei paragrafi successivi come anche questo tipo di impianti non siano del tutto neutrali rispetto all’alterazione della percezione che il soggetto ha di sé e del mondo esterno.
Le altre tipologie d’intervento, che abbiamo definito di intensificazione e di integrazione, si caratterizzano invece per un impatto oggettivamente e dichiaratamente più invasivo sulla nostra natura biologica, e sono gli interventi all interno dei quali si possono classificare i progetti di ricerca legati all’utilizzo di BCI finalizzati ad un ampliamento delle prestazioni cognitive, fisiche e percettive.
In questo capitolo ci riferiremo all’ipotesi di un individuo adulto, capace di intendere e di volere che privatamente è messo nella condizione di scegliere se sottoporsi all’impianto di un interfaccia neurale progettata per poter realizzare un ampliamento delle sue prestazioni cognitive, al di là quindi di uno scopo strettamente terapeutico.
Nel tentativo di ricercare un criterio etico che giustifichi i possibili impieghi delle interfacce neurali faremo riferimento a due criteri:
- Un criterio proprio dell’etica medica che si rifà alla distinzione tra obiettivi terapeutici e obiettivi non terapeutici.
In questo senso ci chiederemo se alla luce della nuova definizione di salute introdotta dall’OMS (Organizzazione mondiale della salute) e al conseguente ampliamento delle finalità della medicina, si possono ritenere moralmente giustificabili anche interventi che vanno al di là dell’intervento strettamente terapeutico e nella direzione di un possibile ampliamento delle nostre funzionalità e prestazioni cognitive, fisiche e percettive.
- Un criterio che fa riferimento alle direttive contenute nella legge quadro dell’Unione Europea in materia di interfacce neurali incentrato sul grado di invasività prodotto dai vari tipi di impianti a livello di modifica sostanziale apportata alla nostra conformazione biologica e al senso di sé.
Ci chiederemo quindi in che modo l’interazione di una BCI con il sistema nervoso centrale può modificare l’attività mentale, e quali modifiche sono accettabili da un punto di vista etico in relazione ad una possibile alterazione dell’identità e
dell’autonomia della persona, due aspetti peculiari per poter ritenere un soggetto responsabile da un punto di vista morale.
4.2 La natura della modifica: Human Enhancement Technologies
Intorno alla qualificazione terminologica che descriva la tipologia di intervento che le interfacce neurali operano al di là del loro utilizzo allo scopo di ripristino (recupero) e di agevolazione, esistono fraintendimenti di origine linguistica che hanno alimentato un atteggiamento di diffidenza e prudenza rispetto a questo tipo di impianti.
Il termine human enhancement si riferisce, in senso ampio, a tutta quella classe di interventi tecnici, temporanei o definitivi, miranti ad andare oltre le normali limitazioni del corpo e della mente umana per quello che riguarda le loro caratteristiche fisiche, percettive, cognitive, emotive, attraverso l’utilizzo di mezzi naturali o artificiali.
Viene utilizzato diffusamente proprio in riferimento al crescente sviluppo delle biotecnologie e delle sue applicazioni, in riferimento cioè a tutti quegli strumenti tecnologici progettati per alterare o condizionare attitudini umane e altre caratteristiche fenotipiche.
Il termine “human enhancement” è stato generalmente reso attraverso espressioni quali “potenziamento“, “miglioramento “.
Il termine “miglioramento” è forse il più inadatto a qualificare questo tipo di interventi.
- È un termine generico, non neutrale perché esplicitamente sottende una qualificazione in ogni caso positiva, e assolutamente relativa sia perché dipende dal contesto, sia perché dipende dalla personale valutazione di chi si sottopone ad un determinato intervento.
- Fare riferimento al termine “miglioramento” significa avere una percezione chiara e distinta di ciò che rappresenta “il meglio” in senso assoluto, oggettivo e universale;
voler definire un intervento come “migliorativo” significa potersi riferire ad una concezione oggettiva, universale di “meglio“, cosa difficilmente possibile, in particolar modo rispetto a tecnologie che si propongo di ampliare le prestazioni cognitive e percettive verso orizzonti inesplorati poiché fino ad ora biologicamente preclusi.
Il termine “potenziamento” o “biopotenziamento“, è stato ampiamente abusato in riferimento a questo tipo di interventi.
Pur sembrando meno connotato qualitativamente in realtà non è ancora un termine così neutrale da poter essere utilizzato senza implicazioni.
In parole semplici sia il termine “miglioramento” che “potenziamento” risultano inadatti a descrivere un intervento di integrazione o di intensificazione di funzionalità e prestazioni, perché entrambi sottendono una connotazione qualitativa e perciò stesso soggettiva, relativa, opinabile di un determinato intervento.
Ai termini “miglioramento” e “potenziamento” si ritiene quindi che sia preferibile sostituire un termine più neutrale come quello di “ampliamento”.
Oltre a non essere connotato da nessun giudizio di valore sia esso positivo o negativo, il termine ampliamento si adatta a descrivere correttamente in maniera oggettiva e quantitativa, sia un intervento di intensificazione, sia un intervento di integrazione di capacità e funzionalità.
Jhon Harris2 spiega questa nozione collocandola nel “contesto degli intereventi che
influenzano il funzionamento umano” e determinandola come “ qualunque tipo di intervento che realizza un cambaimento, o una differenza in senso migliorativo”. Astenersi dal connotare una tipologia di un intervento come positiva o negativa significa riservarsi di giudicare in base ai risultati reali apportati, risultati che in particolar modo in riferimento alle BCI è difficile valutare attraverso una previsione, ed è questa la base dell’atteggiamento etico che in questa trattazione abbiamo scelto di sostenere.
Possiamo quindi assumere come dato di partenza che le tecnologie di interfaccia rappresentano uno strumento che può essere utilizzato per intervenire sulla nostra natura biologica per realizzare un ampliamento delle nostre potenzialità e funzionalità biologicamente possedute dal corpo e dalla mente.
4.3 Obiettivi terapeutici e obiettivi non terapeutici
“Lo stesso spirito dipende così strettamente dal temperamento e dalla disposizione di tutti gli organi del corpo che, se è possibile trovare qualche mezzo che renda gli uomini migliori e più saggi di quanto siano stati fino ad oggi, credo che occorra cercarlo nella medicina”3.
Nel tentativo di stabilire un criterio moralmente giustificato in base al quale determinare la liceità di alcuni interventi rispetto ad altri, di stabilire cioè dei limiti di operatività, di fondare un diritto o sancire un divieto rispetto all‘utilizzo di interfacce neurali, ci si è spesso riferiti ad una distinzione, interna all’ambito dell’etica medica, tra obiettivi terapeutici e obiettivi non terapeutici.
Il fatto che ci si riferisca a questa distinzione, largamente impiegata nelle questioni relative alla sviluppo biotecnologico, anche in riferimento alla sviluppo delle applicazioni di interfacce neurali, è motivato dal fatto che questi impianti sono stati inizialmente sviluppati come strumento efficace di utilizzo terapeutico per recuperare funzionalità perdute e per ovviare ai danni derivanti da patologie degenerative, ma il loro utilizzo in alcuni casi si è poi evoluto nella direzione di una diversa destinazione d’uso, che va oltre ciò che è definito come strettamente terapeutico.
3
A questo va affiancata la constatazione di una tendenza, diffusa tra i bioeticisti, nel classificare come “non terapeutici”, e conseguentemente come moralmente illeciti (da un punto di vista medico), tutti quegli interventi definibili come non propriamente curativi.
Per obiettivo terapeutico generalmente si intende:
“Ogni finalità di cura o riabilitazione di organi e funzioni di cui gli esseri umani sono normalmente dotati e che in alcuni individui e per certi periodi si sono più o meno gravemente danneggiati;”
Per obiettivo non terapeutico generalmente si intende :
“Ogni finalità mirante a incrementare prestazioni e capacità regolarmente funzionanti.” Questa distinzione assume per alcuni anche uno specifico valore morale: rappresenterebbe un criterio di demarcazione tra ciò che in medicina è lecito, doveroso e comunque giustificato fare (aderire all’imperativo terapeutico e curare disfunzioni), e ciò che è illecito e ingiustificato fare (andare oltre la terapia e massimizzare funzioni)4.
L’obiezione che può essere avanzata rispetto a questa distinzione riguarda però il fatto che ci si riferisce ad un’idea della medicina, o meglio, delle finalità che l’assistenza sanitaria deve perseguire, esclusivo e unilaterale: curare disfunzioni, in altre parole ristabilire una condizione di salute.
Ristabilire la salute in questo senso significa ripristinare uno stato di “normalità di funzionamento” fisico e psichico5, in quanto tale, la valutazione degli obiettivi da perseguire sarebbe di esclusiva pertinenza dei professionisti della medicina.
Entrambi questi assunti però non sembrano tener conto dei cambiamenti introdotti nei significati di salute e conseguentemente di cura e malattia già con la definizione che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva introdotto nel 1946.
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La categoria di salute e quella speculare di malattia si riferiscono a due situazioni, a prima vista di semplice definizione, ma in effetti la loro precisa delineazione risulta alquanto complessa e non univoca, essendo strettamente dipendenti dai diversi modelli antropologici e culturali di riferimento.
La definizione tradizionale di salute era di natura tipicamente clinica e caratterizzava l’attività medica attraverso tre semplici istanze:
- Il concetto di “naturale” quale normalità di funzionamento. - La malattia come deviazione da una condizione naturale o normale.
- La terapia quale azione volta a ristabilire lo stato di salute e quindi di normalità.
In questo senso la condizione di salute si caratterizzava come uno stato di assenza di malattia e prendeva, quindi, come punto di partenza la malattia intesa come deviazione dalle condizioni ideali di funzionamento e di integrità dell’organismo, o integrità umana naturale (natural human whole..
La distinzione tra obiettivi terapeutici e non terapeutici, se deve essere stabilita in base al concetto di salute deve poter farsi carico di almeno tre istanze:
- istanza medica: intesa come oggettività scientifica.
- istanza pubblica e sociale: intesa come salvaguardia e promozione del benessere dei cittadini.
- istanza privata: intesa come diritto di autonomia sulle scelte che riguardino il proprio corpo.
Nel corso del XX secolo6, si è imposta una visione nuova che cercava di superare quella che viene definita come tendenza alla “medicalizzazione della salute” (Ivan Illich
6 Daniel Callahan, all’interno del suo libro: “La medicina impossibile, le utopie e gli errori
della medicina moderna”, sostiene che la medicina ha vissuto nel corso della sua storia due grandi epoche e che si sta incamminando verso una terza nuova epocaLa prima epoca della medicina può essere definita come prescientifica: in questo stadio la medicina non era in grado di fornire cure ai malati o ai morenti al di una scarsa diagnosi e qualche trattamento palliativo e di conforto. La linea di demarcazione tra la prima e
la seconda epoca è rappresentata secondo Callahan dall’intuizione che l’applicazione del metodo scientifico avrebbe potuto trasformare l’obiettivo stesso della medicina. Tutta la seconda epoca della medicina che giunge fino al XX secolo, è stata caratterizzata da una fede nella scienza e nel progresso medico, da un’accellerazione delle scoperte scientifiche e delle applicazioni cliniche che a tutt’oggi non ha conosciuto incertezze. L’obiettivo della nuova medicina è divenuto quello di preservare e prolungare la vita. Tre temi fondamentali hanno caratterizzato questa seconda epoca:- Aspirazione a dominare e ad asservire la natura (infermità e morte, in questa prospettiva, sono difetti biologici suscettibili di correzione e destinati ad arrendersi ai poteri della scienza)- orizzonti illimitati, infinite possibilità di miglioramento della condizione umana (la medicina deve procedere fin dove può, ogni progresso apre la strada ad altri progressi indefinitamente)- un aggressivo espansionismo sociale che comporta la ridefinizione del posto sociale della medicina. Questi orientamenti hanno determinato: In primo luogo una ridefinizione del concetto di salute che la fa coincidere con l’aspirazione alla felicità e al benessere umano in generale.In secondo luogo si è ampliato l’ambito della medicina fino a comprendere un’ampia gamma di problemi sociale di cui in precedenza nessuno avrebbe fatto una questione di salute: oggi rientrano a far parte tra gli obiettivi della medicina: le gravidanze degli adolescenti, l’abuso di sostanze tossiche, lo stress psicologico della vita quotidiana.
Il campo d’azione della medicina si espande non solo verticalmente ma anche orizzontalmente, si ritiene cioè che essa debba non soltanto perseguire il benessere fisico ed emozionale, ma alleviare una gamma di mali sociali in continua espansione. In terzo luogo, si usano i poteri della medicina per incrementare la possibilità di scelta e l’autonomia delle persone, consentendo loro di migliorare anche doti naturali già positive: basti pensare alla chirurgia estetica, al controllo delle gravidanze mediante la contraccezione e l’aborto sicuro, alla diagnosi prenatale per selezionare il sesso del nascituro. Lo sviluppo di queste tendenze porterà presto secondo Callahan
1976) e allarga la comprensione della salute alle strutture sociali, lavorative, ricreative, educative, abitative, alimentari.
A questa comprensione allargata può essere ricondotta la celebre definizione di salute contenuta nel Protocollo di costituzione dell‘OMS, il 22 luglio 1946, secondo cui: “La salute è definibile come uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non solo l’assenza di malattia o di infermità”.
La promozione della salute, in questo senso, è ben più che rimozione delle noxae patogene o il ripristino di un’ideale normalità organica, ma è promozione di comportamenti e condizioni di vita che permettono alla persona il conseguimento di un pieno benessere psichico, fisico e relazionale.
I concetti di “normalità“, “salute” e “benessere” sono concetti dinamici e relativi, non esiste un significato univoco e oggettivo di riferimento, variano a seconda del contesto storico e culturale di riferimento, quello infatti che attualmente secondo la definizione tradizionale può essere identificato come un obbiettivo terapeutico poteva non essere considerato tale solo pochi anni fa.
Questa nuova definizione di salute ha il pregio di proporre una visione multidimensionale od olistica del benessere, di superare cioè i limiti di una concezione organicisitica, e di sottolineare l’aspetto soggettivo della salute come percezione di una esistenza che si esplica con pienezza nelle sue varie articolazioni.
La salute, deve essere pensata come una realtà globale e promossa attraverso una progettualità a tutto campo che abbracci il benessere fisico, psichico e sociale e che non può esser scopo della sola medicina, ma vede la medicina e le politiche sanitarie integrate all’interno di scelte antropologiche culturali e politiche di più ampio respiro.
Facendo proprio questo concetto riveduto di salute la medicina contemporanea ha dilatato i suoi compiti e le sue finalità, non soltanto verso l’obiettivo di ripristinare, sanare, alleviare il dolore, ma anche nella direzione di una medicina più propriamente rigenerativa, che si pone come prospettiva anche la possibilità di
diventare strumento per accrescere le potenzialità, le capacità e di aumentare i piaceri.
A questa nuova visione del concetto di salute come benessere completo si è legato anche lo sviluppo di un etica della qualità della vita, che contempla come doveroso la ricerca e la soddisfazione di questo diritto, al di là della forma specifica in cui per ogni singolo individuo questo si concretizza.
La qualità della vita viene definita dall’OMS come: “L’insieme delle percezioni individuali della propria posizione vitale nel contesto dei sistemi culturali e assiologici in cui ciascuno vive e in rapporto con le proprie mete, attese, standard e interessi”.
In modo più pragmatico ed operativo, la qualità di vita può essere descritta da una serie di aree o dimensioni della esperienza umana che riguardano non solo le condizioni fisiche ed i sintomi, ma anche la capacità di un individuo di funzionare, dal punto di vista fisico, sociale, psicologico e di trarre soddisfazione da quanto fa, in rapporto sia alle proprie aspettative che alla propria capacità di realizzare ciò che desidera.
Nel Glossario elaborato nel 1988 e pubblicato nel 1998, l’OMS definisce la promozione della salute, all’interno di questa ampliata prospettiva, come “il processo che conferisce alle persone la capacità di aumentare e migliorare il controllo sulla propria salute”;
Nella prospettiva di un’etica pluralista minimale, in cui il confine tra interventi terapeutici e non terapeutici si è sensibilmente dissolto, che non si leghi a particolari visioni sostanziali di una vita moralmente buona, è difficile formulare una serie di obiezioni di principio contro la possibilità di intervenire sul corpo e sulla mente per ampliare le sue funzionalità e prestazioni.
Al di là della possibile rilevazione di gravi effetti collaterali - che possono essere eliminati con l’affinarsi delle tecniche e grazie ad adeguate fasi di sperimentazioni - al di là del rischio di arrecare danni a terzi - che può essere monitorato dal punto di vista normativo- non sembra esserci motivo di opporsi a tutto ciò che consente ad un individuo di realizzare le proprie personali aspirazioni.
Alla luce delle considerazioni appena espresse, la decisione stessa di sottoporsi all’impianto di interfacce, in questo caso per ampliare le nostre prestazioni cognitive, non può essere più considerata una scelta demandabile alla valutazione dei professionisti della medicina.
Queste aspirazioni hanno poco a che fare con la medicina e riguardano piuttosto gli ideali complessivi di umano miglioramento e perfezionamento; sono aspirazioni che si legano soprattutto a due concetti chiave che parlano il linguaggio dei diritti personali:
- Il diritto alla libertà morfologica7
- Il diritto alla libertà di costruzione della propria personalità,
Che possono essere esercitati soltanto attraverso l’accesso a una piena libertà di autodeterminazione.
4.4 Intervento farmacologico o intervento tecnologico:
7 Il diritto alla libertà morfologica è una prerogativa derivata dal diritto alla disponibilità del proprio corpo. La dimensione di questo diritto è negativa: ci consente determinate scelte sul proprio corpo ma non implica come necessario che gli altri siano moralmente obbligati a compiere le stesse scelte.
Nello specifico questo diritto sancisce che non è moralmente lecito: Obbligare qualcuno a modificare il proprio corpo senza il suo consenso.
Impedire a qualcuno di modificare il proprio corpo.Per quello che riguarda il problema specifico che stiamo affrontando in questa trattazione, il diritto alla libertà morfologica si esplicita nel diritto di ogni individuo di libero accesso all’utilizzo di tecnologie per l’ampliamento di prestazioni e facoltà fisiche , percettive e cognitive. Si tratta di un estensione, un esplicitazione del diritto all’autonomia e all’autodeteminazione.
Secondo Sandberg, il diritto alla libertà morfologica è il tema comune che sta alla base di molteplici dibattiti bioetici quali il diritto delle donne a gestire il proprio corpo, il doping, i diritti della riproduzione, l’eutanasia e l’opportunità di molte procedure mediche quali, ad esempio, l’accanimento terapeutico. Il diritto alla libertà morfologica rende esplicite e concrete le esigenze di fondo di tutti questi problemi, accomunandoli in un unico obiettivo.
Attualmente realizzare un ampliamento delle nostre prestazioni cognitive è un obiettivo che si lega a varie aree di ricerca ed è perseguibile attraverso alcune tipologie d’intervento che impiegano diversi mezzi nel raggiungimento di queste finalità.
Le ricerche più promettenti e in questo senso sembrano essere quelle che ci prospetta la possibilità di manipolazione del genoma umano.
Tuttavia, la ricerca in questo ambito incontra forti ostacoli di ordine etico per poter rendere leciti questi interventi; il fatto cioè che ad essere sottoposto a questa manipolazione è sempre un terzo che non è nella condizione di poter manifestare la propria volontà di sottoporsi a questi trattamenti, limita fortemente l‘applicabilità di questi progetti di ricerca; un ostacolo che nel caso delle BCI viene aggirato perché siamo di fronte ad interventi da operare su i capaci di intendere e di volere, responsabili di se stessi e delle proprie scelte volontarie.
La convergenza tra farmacologia e scienze cognitive ha però aperto la strada a nuove possibilità di intervento di altra natura sulle nostre prestazioni cognitive.
La ricerca neurofarmacologica, e in particolar modo la convergenza tra farmacologia e scienze cognitive, è riuscita infatti ad individuare alcune categorie di sostanze psicoattive capaci di incidere sulle prestazioni della nostra memoria e sull’apprendimento.
Esistono infatti sostanze capaci di migliorare la velocità e la precisione dell’apprendimento, alcune capaci di migliorare la concentrazione.
Diverse sostanze per incrementare l’attività mentale sono già sul mercato o stanno seguendo l’iter d’approvazione della Food and Drug Administration, sono i cosiddetti farmaci nootropi.
Esiste poi tutta un’altra categoria di sostanze capaci di alterare in modo radicale e condizionare il nostro stato psico emotivo in modo sufficientemente prevedibile. La crescente conoscenza del meccanismo della neurotrasmissione, ha permesso, e in particolar modo permetterà in un futuro prossimo, di realizzare la sintesi di sostanze
psicotrope specifiche, consentendo ad un’individuo di scegliere tra una gamma di sensazioni indotte da stupefacenti finemente varia.
Ciò che rende poco appetibile l’utilizzo di questi tipi di farmaci è la gran quantità di effetti collaterali che si legherebbero ad un loro utilizzo continuativo e abituale.
(i) La farmacologia allo stato attuale non è ancora così avanzata da consentire che sostanze di sintesi trattino esclusivamente il problema in questione
(ii) Non solo, il valore del farmaco come possibile strumento di ampliamento di capacità soffre in generale di una limitazione strutturale perché qualsiasi principio attivo di questo tipo ha un’efficacia episodica e limitata alla sua persistenza nel flusso sanguigno, per prolungare il loro stato di efficienza occorre aumentare il dosaggio o cambiare tipo di farmaco, e questo può essere origine di effetti collaterali indesiderati sempre più accentuati.
(iii) Un ulteriore problema si palesa nel fatto che l’intervento farmacologico non è da un certo punto di vista meno invasivo di altri tipi di interventi per quello che concerne le alterazioni che produce alla fisiologia della nostra mente.
Dal punto di vista delle neuroscienze, ogni sostanza che interferisce con la fisiologia della funzione mnemonica è potenzialmente pericolosa.
Le sostanze psicotrope agiscono sui meccanismi della plasticità sinaptica, il processo grazie al quale la struttura e la funzione delle sinapsi si rimodellano sottilmente sotto l’effetto dell’esperienza, influenzando in questo modo l’efficienza e la specificità dei circuiti neurali talvolta in modo irreversibile.
Quello che ci permetterà invece lo sviluppo di neuroprotesi è non solo di superare le limitazioni legate all’utilizzo di sostanze psicoattive, ma sembrano in grado di offrirci molto di più, ci potrebbero mettere nella condizione di corredare il nostro corpo di nuovi apparati percettivi, e di esplorare orizzonti cognitivi che biologicamente ci erano preclusi, di estroflettere potenzialità che non conosciamo sulla nostra natura. È singolare però che nonostante ci siano effetti collaterali certi e una reale possibilità di incidere su alcune abilità per alterarle o ampliarle, l’intervento chimico sembri
destare meno preoccupazioni e resistenze, sembri un intervento più accettabile da un punto di vista etico, rispetto ad una modifica indotta da un intervento tecnologico. Eppure come sostiene Kevin Warwick in quanto uomini siamo in parte chimica, in parte meccanica e in parte elettronica.
Allora perché l’aspetto chimico deve risultare più naturale rispetto ad altri aspetti?
4.5 Alterazioni biologiche e psicologiche destate dall’utilizzo di BCI
Da un punto di vista etico abbiamo visto come di per sé la distinzione tra obbiettivi terapeutici e obbiettivi non terapeutici decada nel momento in cui si prenda in considerazione un concetto di salute e quindi di benessere da perseguire che non è oggettivabile e universalizzabile né demandabile alle scelte dei professionisti della medicina, e che non può di conseguenza escludere la volontà, il desiderio e l’opportunità individuale di sottoporsi ad interventi miranti ad ampliare le proprie prestazioni cognitive.
Secondo questo criterio gli interventi di ampliamento in generale e in particolare quelli realizzati mediante l’utilizzo di BCI non hanno motivo di essere considerati moralmente illeciti, né esistono i presupposti per fondare un divieto rispetto al loro utilizzo.
Nel precedente capitolo abbiamo fatto riferimento ad una possibile classificazione tecnica delle interfacce neurali in riferimento al loro grado di invasività, intesa come invasività fisica di un impianto, a seconda cioè del diverso posizionamento degli elettrodi.
Secondo questo criterio le interfacce invasive sono costituite da una serie di elettrodi che vengono impiantati direttamente nella corteccia celebrale e che permettono di registrare e trasmettere i segnali provenienti dall’area del cervello in cui si trovano, generalmente nella corteccia motoria.
Le interfacce non invasive, invece, funzionano adattando le tecniche di visualizzazione celebrale, dette di brain imaging che permettono di visualizzare i correlati anatomici e funzionali del cervello, e quindi di registrare i segnali relativi alle intenzioni del soggetto.
Rispetto all’invasività fisica sulla nostra conformazione biologica abbiamo visto però come in realtà le tecniche meno invasive non siano equivalenti da un punto di vista dei risultati che si possono ottenere ad interfacce invasive, e quindi per raggiungere risultati sostanziali si debba necessariamente, allo stato attuale intervenie attraverso tecniche invasive.
La scelta di un’interfaccia invasiva rispetto ad un’interfaccia non invasiva dipende quindi in prima istanza dall’obiettivo specifico che si ha necessità di perseguire. Possiamo tentare però di esaminare il grado d’invasività, secondo un altro parametro, ovvero considerandola dal punto di vista della modificazione sostanziale apportata alla nostra conformazione biologica e al senso di sé dall’impianto e dall’utilizzo di interfacce neurali.
La valutazione del grado di invasività in rapporto al grado di alterazione prodotta, potrebbe infatti rappresentare un criterio etico in base al quale distinguere tra la liceità o illiceità di accesso all’utilizzo di alcuni impianti rispetto ad altri.
Dobbiamo distinguere tra due generi di alterazioni che gli impianti BCI potrebbero provocare nel soggetto sottoposto ad impianto:
i. Alterazione della struttura biologica.
ii. Alterazione della percezione di sé e dell’interazione con l’ambiente circostante.
Consideriamo l’adattamento del soggetto al sistema artificiale, in relazione alle modificazioni più durature di caratteristiche fisiche che questo adattamento provoca nel soggetto.
Il funzionamento a regime di un dispositivo BCI presuppone la realizzazione di un processo d’adattamento dell’attività celebrale del paziente all‘impianto.
Questo processo di adattamento per realizzarsi rende necessarie alcune alterazioni della struttura biologica: indurre una modifica fisica, anche significativa, è infatti funzionale allo scopo di facilitare l’utilizzazione “naturale” di un dispositivo BCI. L’adattamento è reso possibile dalla plasticità della struttura corticale.
La plasticità della struttura corticale, che da un lato è la caratteristica peculiare che rende possibile l’utilizzo di questi impianti, dall’altra si presta però al verificarsi di cambiamenti anche irreversibili nella organizzazione cerebrale come risultato dell’interazione stessa.
L’adattamento in questi casi è da considerarsi come bidirezionale, da un lato infatti è l’impianto ad adattarsi alla struttura corticale, dall’altro è la struttura corticale a plasmarsi in interazione con l’impianto.
La tesi che vogliamo in questo caso sostenere è che la simbiosi tra un sistema biologico e una componente artificiale tende di per sé ad alterare i normali meccanismi biologici destinati alla percezione e al controllo dell’azione, al di là dello specifico utilizzo dell’impianto per finalità di recupero, di agevolazione o di integrazione, intensificazione.
Per sostenere questo assunto possiamo riferirci ai dati documentati che riguardano l’utilizzo di impianti cocleari per il recupero della capacità uditiva8.
Negli impianti cocleari ad esempio, non si richiede che il segnale riproduca esattamente l’attività neurale, poiché il cervello è in grado di rielaborare i segnali non fisiologici generati dall’impianto dopo un opportuno periodo di addestramento.
I dati sperimentali evidenziano una iniziale difficoltà del paziente a gestire il segnale artificiale generato dall’apparecchio interfacciato al nervo uditivo, difficoltà superate solo dopo un periodo necessario all’adattamento della corteccia uditiva all’impianto, adattamento irreversibile ma che permette una piena funzionalità del dispositivo. Gli impianti cocleari sono un indice molto realistico della funzionalità di impianti di questo tipo, secondo i dati resi disponibili dal National Institute of Health infatti l’apparecchio è già stato impiantato in circa 110.000 persone non udenti.
Da un punto di vista etico è inoltre opportuno sottolineare che non vi è la possibilità biologica di una plasticità incondizionata della struttura corticale.
Esiste quindi un limite naturale al grado di alterazione della struttura biologica che non permette altri gradi di alterazione a discrezione del bioingegnerie nel progettare il dispositivo, oltre al fatto che la plasticità corticale è una caratteristica individuale e quindi non determinabile attraverso parametri oggettivi.
Non c’è quindi da un certo punto di vista necessità etica e normativa di intervenire per valutare o monitorare il grado di invasività fisica di un impianto9.
4.7 Alterazione della percezione di sé e dell’interazione con l’ambiente circostante.
L’alterazione della percezione di sé e dell’interazione con l’ambiente circostante si possono manifestare a due livelli:
i. A livello dell’alterazione delle attività percettive.
ii. A livello di alterazione psicologica.
I dispositivi neurali progettati per il recupero sensoriale, che come abbiamo sottolineato precedentemente sono i progetti attualmente in una fase più avanzata di sperimentazione, influiscono inevitabilmente sulle modalità di interazione tra il
9 Per un approfondimento di natura tecnica su questo argomento si veda: F.Lucivero, G. Tamburrini, Ethical Monitoring of Brain Machine Interface, in “AI and Society”, 22, 2007.
soggetto e il mondo esterno e sulla capacità del soggetto di sentire come proprie le azioni che compie mediante l‘utilizzo di un impianto, con conseguenze adattive dal punto di vista psicologico.
Nel caso del ripristino della facoltà visiva ad esempio i pazienti sottoposti all’impianto di dispositivi BCI, non acquisiscono un esperienza visiva che può essere definita “normale” e il loro comportamento differisce sia da quello dei vedenti, sia da quello dei non vedenti, con possibile insorgenza di stati depressivi, di rifiuto del senso acquisito e di compromissione della percezione di continuità psicologica. La persona cieca è infatti in questo caso dotata di input extrasensoriali, di qualcosa come un sonar, simile ai sensi dei pipistrelli che non ripara la cecità ma invece permette di far uso di canali alternativi per la rilevazione di dati che risultano però interpretabili dal cervello.
L’integrazione di un apparato sensoriale che biologicamente non ci appartiene genera nel soggetto disagi adattivi e alterazioni psicologiche indotte dalla difficoltà di sentire come proprie percezioni che normalmente ci sarebbero precluse.
Questi dati non sembrano essere rilevanti ad un primo approccio da un punto di vista etico, ma lo diventano nel momento in cui si rileva che dispostivi BCI provocano alterazioni tali da compromettere la continuità psicologica e la percezione delle azioni volontarie.
4.8 Alterazione dell’identità personale e manipolazione delle funzioni mentali.
In un documento del 2005, il Gruppo Europeo sull’Etica nella Scienza e nella Tecnologia (EGE) si è espresso circa la possibilità di provocare alterazioni psicologiche propria degli impianti BCI.
Nel documento si sostiene che al fine di garantire l’attribuzione di responsabilità morale, e nel rispetto del diritto inalienabile della dignità della persona, gli impianti non
devono essere impiegati allo scopo di alterare l’identità personale o di manipolare le funzioni mentali.
“Personal identity is crucial for the attribuiton of moral resposibility according to many ethical teorie.
ICT devices should teherefore not be used to manipulate mental functions or change personal identity. The right to respect of human dignity, including the right to the respect of physical and mental integrity, is the basis of this .10”
Il punto di vista dell’EGE è riferibile ai sistemi bionici in generale e ai BCI in particolare.
Secondo quanto espresso nella direttiva le alterazioni prodotte dai dispositivi BCI risultano di interesse etico nella misura in cui l’attribuzione di responsabilità morale, anche da un punto di vista normativo, è legata al possesso di un identità integra, e al pieno possesso delle proprie funzioni mentali .
L’interrogativo che dovremmo porci diventa quindi:
Quali aspetti dell’identità personale sono rilevanti al punto che una loro modificazione determinerebbe una perdita di identità, quindi di integrità e quindi di responsabilità morale? Secondo quanto detto nei paragrafi precedenti, sia per quello che riguarda impianti di ripristino e agevolazione, sia per quelli di intensificazione e integrazione siamo di fronte a dati che confermano, in via teorica e in via pratica, la possibilità di un’ alterazione della struttura biologica, della percezione di sé e della percezione della realtà esterna.
In alcuni casi queste alterazioni possono essere classificate come inconvenienti a cui supplire con ulteriori sperimentazioni e perfezionamenti degli impianti, in altri casi sembrano essere alterazioni implicate di per sé necessariamente per il semplice fatto di voler ottenere un dialogo, una sinergia tra un sistema biologico e uno artificiale.
10
EGE, Ethical aspects of ICT implants in the human body, 2005, p.32, disponibile in rete: ec.europa.eu/eurpean_group_ethics/docs/avis20_en.pdf.
La simbiosi tra un sistema biologico e un dispositivo artificiale tende quindi di per sé ad indurre un’alterazione dei normali meccanismi biologici destinati alla percezione e al controllo dell’azione.
Da un punto di vista molto generale, le interfacce si trovano in particolari punti dei canali di comunicazione, là dove avviene una trasmissione/propagazione di segnali tra due domini.
La caratteristica propria delle interfacce è quella di trovarsi sul confine topologico dei sistemi, costituiscono le porte attraverso le quali i segnali, opportunamente codificati, entrano ed escono dal sistema portando comandi, ordini e informazioni.
Oltre ad essere punti di codifica, tutte le interfacce sono però anche filtri, esaltano alcune parti di un messaggio e ne attenuano o addirittura ne eliminano altre, provocando una condizionamento dell’informazione.
Esistono interfacce naturali e interfaccie artificiali.
Le interfacce naturali, biologiche sono gli organi di senso.
Se pensiamo a come agiscono gli organi di senso come interfacce percettive, si può capire perché anche un’interfaccia artificiale rappresenti un forte filtro interpretativo delle informazioni.
Siamo tutti concordi nel riconoscere quanto la natura di esseri umani sia condizionata, per non dire costituita, nella sua essenza a tutti i livelli dalle caratteristiche e dalle limitazioni del suo apparato percettivo.
Non desta particolare preoccupazione riconoscere il contributo delle nostre interfacce percettive nel formare le categorie cognitive e attive dell’uomo e a condizionarne lo sviluppo e riconoscere il fatto che instaurino determinate limitazioni.
Nel caso delle interfacce artificiali, questo filtraggio è dovuto al frutto di una programmazione deliberata oppure di insufficienze tecnologiche; in ogni caso l’interfaccia risulta semppre e comunque di per sa uno strumento costrittivo e restrittivo.
Secondo inevece la direttiva dell’EGE, in linea generale, le interfacce BCI, al di là delle finalità per cui vengono sviluppate, progettate e impiegate, allo stato attuale della tecnologia non potrebbero essere utilizzati lecitamente.
4.9 Identità personale e BCI:
Il dibattito sull’identità personale si è caratterizzato negli anni come un dibattito peculiarmente filosofico, incentrato sulla necessità di stabilire dei criteri definitori, un problema ascrivibile al dominio della metafisica descrittiva.
Si tratta di un tipo di ricerca tradizionale per la filosofia di area analitica, che attinge molte delle sue intuizioni dalla filosofia del linguaggio e della percezione.
Il dibattito contemporaneo sembra sempre più orientarsi verso l’opportunità e la necessità di integrare il dibattito filosofico con gli apporti di riflessioni provenienti da ambiti di ricerca che stanno avendo un notevole sviluppo, quali quelle della psicologia scientifica, delle scienze cognitive e delle neuroscienze.
Le neuroscienze e le scienze cognitive in particolare ci stanno fornendo sempre più elementi in grado di spiegare determinate attività mentali, ci forniscono cioè modelli di architettura mentale dell’uomo e delle sue basi neurobiologiche in grado di mettere in discussione l’immagine tradizionale del soggetto di esperienza, inteso come un’entità unitaria e continua.
Il dibattito bioetico contemporaneo propone poi alla riflessione filosofica la necessità di criteri, di modelli esplicativi e descrittivi che siano spendibili in situazioni di ordine pratico che devono potersi modellare a scenari di sviluppo scientifico che vanno in una direzione diversa da quella della semplicità.
La teoria della persona che adottiamo non è indifferente infatti rispetto alla giustificazione dei nostri comportamenti etico-pratici e delle nostre preoccupazioni nei confronto del nostro e dell’altrui futuro.
Ricostruire l’analisi e la genealogia del concetto di identità personale richiederebbe un ampio spazio espositivo e rischierebbe di farci perdere di vista la dimensione specifica della nostra trattazione, alcuni riferimenti generali si rendono però necessari:
Se ci si domanda in che modo si sia discusso e fatto uso del concetto di identità personale, si incontrano tre tradizioni:
- La tradizione Analitica - La tradizione Costruzionista - La tradizione Genealogica
Alla base dei diversi approcci allo studio dell’identità di queste tre tradizioni stanno due domande di diversa natura :
(i) In che cosa consiste l’identità personale?
(ii) In quali circostanze viene riconosciuta l’identità personale?
La prima domanda rivolta all’indagine della natura dell’identità è tipica del dibattito analitico contemporaneo.
La seconda domanda invece che si concentra sulla rilevanza della nozione di identità in riferimento a diversi contesti della vita umana, caratterizza e in qualche modo accomuna la prospettiva costruzionista e quella genealogica, ed è una domanda volta a cogliere non il fatto dell’identità, bensì le diverse pratiche di riconoscimento e attribuzione dell’identità stessa.
Nei prossimi paragrafi cercheremo di delineare questi tre differenti approcci allo studio dell’identità, cercando di indirizzare l’attenzione oltre il piano di una caratterizzazione esclusivamente descrittiva, valutando cioè la dimensione della contestualizzazione e della genealogia di questa nozione per poterne valutare l’effettivo rilevo etico.
Cercheremo quindi di rispondere alla domanda: quali caratteristiche si ritengono essenziali perché si possa parlare di un’identità integra al di là delle alterazione che l’impianto di BCI potrebbero causare?
4.10 La tradizione analitica:
Nell’arco di un trentennio, che va dall’articolo di Bernard Williams, “Personal Identity and Individuation“, pubblicato nel 1956, a “Reasons and Persons” di Derek Parfit, pubblicato nel 1984, si sono delineate quelle famiglie di posizioni teoriche che hanno caratterizzato il dibattito analitico contemporaneo sui criteri d’identità personale. La tradizione analitica ha volto il suo interesse verso l’obbiettivo di determinare i criteri esatti, le condizioni necessarie e sufficienti, per la definizione dell’identità, ovvero quei criteri che affrontano il problema dell’identità su un piano prettamente logico.
Chiedersi in che cosa l’identità personale consista, significa tentare di determinare un criterio di individuazione che ci permetta di distinguere un individuo dagli altri individui.
Due sono gli interrogativi che caratterizzano questo approccio:
(i) Qual è il principio d’ individuazione che distingue un individuo dagli altri?
Ovvero quali tipi di proprietà o caratteristiche ci identificano come individui particolari tali per cui, qualora fossero cambiate o dovessero cambiare renderebbero l’individuo un’alta persona?
(ii) Che cosa fa di una persona in due diversi momenti un‘unica e medesima persona?
Ovvero in quali caratteristiche o proprietà possiamo riconoscere un elemento di continuità che ci permette di reiterare questa identificazione nel tempo?
Il problema di fondo è dunque quello di trovare il “che cosa” di questa continuità: Che cosa deve continuare perché si dia identità fra un presente Y e un passato X?:
Nel tentare di rispondere a questo interrogativo si sono delineate due posizioni teoriche generali a cui possono essere riferite le varie opzioni del dibattito analitico contemporaeneo: la posizione riduzionista, la posizione antiriduzionista.
Ciò che qualifica una posizione non-riduzionistica è il rimando ad un soggetto profondo al quale, di volta in volta, vengono ascritti i fatti concernenti la vita mentale di una persona.
Al cuore della persona, pertanto, troviamo un’entità separata e indipendente dal corpo del tipo di un “io cartesiano”, dalla quale dipende, ad un tempo, la continuità della persona e l’unità corrente della coscienza.
Il riduzionismo, al contrario, facendo leva sull’implausibilità del rimando ad un Io cartesiano, nega sia che l’identità personale nel tempo consista nella continuità di una tale entità, sia che l’unità della coscienza non possa essere spiegata altrimenti che mediante il rimando ad un “profondo fatto ulteriore” al quale le esperienze passate possono essere ascritte.
Venendo a mancare il punto d’appoggio costituito dalla spiegazione profonda della persona e dell’identità, si tratta in primo luogo di capire come una spiegazione sia ancora possibile e, in secondo luogo, quali alternative restano aperte.
David Hume (Trattato sulla natura umana 1739- 1740) e Locke, costituiscono i referenti storici dell’impostazione riduzionista, sostenuta nel dibattito contemporaneo da nomi quali Bernard Williams, David Wiggins.
Possiamo individuare almeno due alternative ad una concezione riduzionista dell’identità personale espresse nei termini di Criterio Fisico e di Criterio Psicologico:
(i) Criterio Fisico: situa l’identità nell’associazione fra le esperienze di un individuo e il suo corpo, o nella loro dipendenza causale da un unico e medesimo cervello, ossia negli elementi empirici sottostanti al vissuto psichico.
Gli individui, avendo caratteristiche corporee, occupano un posto materiale nella struttura spazio-temporale, occupano ciò una determinata porzione di spazio per un determinato periodo di tempo.
Da questa constatazione, i sostenitori del criterio fisico, inferiscono che è proprio il possesso di un corpo materiale il necessario punto di applicazione per il criterio di identità.
Possiamo per chiarire questo punto fare riferimento ad un celebre esempio esplicativo:
Immaginiamo che sia possibile effettuare un trapianto di cervello; immaginiamo poi che per un errore medico il cervello del Signor Brown venga trapianto nel corpo del Signor Robinson.
L’individuo risultato dell’operazione può essere identificato integralmente con il Signor Robinson, per quanto riguarda il corpo fisico, ma per quanto riguarda la dimensione cognitiva corrisponde invece al Signor Brown.
A questo punto sorge l’interrogativo: Chi è questa persona? Ovvero, a chi corrisponde?
Per rispondere ci si può chiedere ad esempio quale comportamento farà proprio nella sua vita sociale.
Poiché la risposta più ragionevole sembra essere quello del Signor Brown, si può dedurre che il criterio corporale dell’identità non coincide necessariamente con quello dell’identità personale, e pertanto deve essere ridimensionato nelle sue premesse e nella sua portata.
A questo esperimento mentale si può affiancare poi la constatazione del fatto che lo studio dinamico dei costituenti corporei ha dimostrato come nel corso della vita di un individuo ha luogo un ricambio pressoché completo delle sostanze materiali che costituiscono il corpo, non esisterebbe quindi nessuna sostanza corporea “immanente”.
Sostenere un criterio di continuità fisica non significa però sostenere necessariamente che dell’individuo debbano persistere permanentemente tutte le componenti fisiche, sarà sufficiente che almeno alcune parti (quelle individuate come causalmente rilevanti) persistano, garantiscano cioè una certa continuità spazio - temporale.
Alla luce di queste osservazioni critiche l’impostazione riduzionista ha ricollocato il referente d’identità, individuandolo non più nel corpo materiale, ma in quella parte del corpo che è causalmente responsabile delle capacità cognitive fondamentali, vale a dire nel cervello.
Alcuni casi sperimentali hanno però dimostrato come in alcune situazioni in cui una parte consistente dell’emisfero cerebrale è stata colpita da ictus o danneggiata e rimossa attraverso un intervento chirurgico, la parte di emisfero non colpita ha assunto oltre alle proprie anche le funzioni dell’emisfero asportato.
Poiché chi sopravvive a tali operazioni è genericamente identico a se stesso, pur continuando ad avere una sola parte del cervello originario, l’integrità celebrale sembra caratterizzarsi come un requisito necessario ma non sufficiente per determinare la continuità cognitiva, il criterio deve quindi essere riformulato perfezionando la clausola relativa alla continuità del cervello con una clausola relativa alla percentuale critica, ovvero alla quantità sufficiente, di cervello necessaria a farne la matrice causale delle cognizioni che presiedono all’identità personale.
“(1) A essere necessaria non è l’esistenza continuativa di tutto quanto il corpo, ma l’esistenza continuativa di una quantità di cervello che basti a farne il cervello di una persona vivente.
X oggi, rispetto a Y in un momento passato, è un’unica persona e la medesima se e solo se (2) una quantità sufficiente del cervello di Y ha continuato a esistere ed è ora il cervello di X, e (3) non esiste un’altra persona che abbia anch’essa una quantità sufficiente di cervello di Y. (4) L’identità personale nel tempo consiste proprio nel ricorrere di fatti come (2) e (3)”11.
I sostenitori del Criterio Psicologico rintracciano il fulcro dell’identità nella continuità psicologica, ossia, perché si dia identità tra due soggetti in tempi diversi, occorre che tra di essi intercorra un rapporto di continuità psicologica.
Se la continuità in cui consiste l’identità personale deve essere ricercata a livello psicologico, più che a quello fisico, ad essere rilevanti saranno il perdurare della coscienza, della memoria, delle intenzioni o di altre caratteristiche psicologiche che si conservano nel tempo.
Jhon Locke (Saggio sull’intelletto umano) è generalmente considerato il referente storico della concezione dell’identità come continuità psicologica.
Locke per un verso indica nella descrizione dei criteri psichici l’ottica corretta dalla quale è possibile giungere ad una definizione della persona e della sua identità nel tempo; per un altro verso, compie un passo importante nella direzione dell’antisostanzialismo.
Tanto nella definizione di persona, quanto nella formulazione del suo criterio di identità nel tempo, il centro focale è dato dalla coscienza: l’identità personale intesa sia come specificità dell’io sia come permanenza nel tempo, viene ricondotta non alla persistenza materiale del corpo, bensì alla capacità di cogliere al proprio interno l’unità di un vissuto psichico o di una continued life.
È la catena di ricordi interconnessi fra loro a garantire l’identità della persona nel tempo.
Più che di memoria, Locke parla però di coscienza delle azioni passate ( la somma delle azioni verso le quali non posso essere indifferente in quanto ascritte a me medesimo).
“(1) c’è continuità psicologica se e solo se ci sono catene intercollegate di connessioni forti.
X oggi è la medesima persona che Y era in un momento passato se e solo se (2) X è in continuità psicologica con Y, (3) tale continuità ha il giusto tipo di causa, e (4) non esiste un’altra persona che sia anch’essa in continuità
psicologica con Y. (5) L’identità personale nel tempo consiste proprio nel ricorrere di fatti come (2), (3) e (4)12.”
Così formulato il criterio di identità psicologica si presta però ad alcune obiezioni che rimarcano la necessità di una revisione dei suoi presupposti:
Questa soluzione consente di formulare una teoria dell’identità personale indipendente da ogni riferimento a un “io cartesiano“, l’individuazione nella coscienza e nella sua persistenza (memoria) di ciò che conta ai fini dell’identità personale nel tempo rende il problema della sostanza non vitale ai fini della teoria. Quale sia la sostanza che sta alla base della continuità della coscienza è propriamente, secondo questa prospettiva, indifferente.
“è la continuità della coscienza che crea l’identità personale - non ne è solo un sintomo, ma ne è la causa: non è la continuità di una sostanza sottostante che permette di parlare del medesimo soggetto al variare del tempo, ma la connessione (nel ricordo) delle sue esperienze coscienti.”13
Il problema di questo criterio è rappresentato dalla volontà di fondare l’identità sulla presenza di collegamenti mnemonici diretti.
Ci sono infatti alcuni casi, come quelli dei disturbi di memoria, che sembrano evidenziare le difficoltà insite nella concezione lockiana, casi che sottolineano una discontinuità sincronica nel processo di identificazione.
Locke affermò che una persona non può aver commesso un delitto se ora non ricorda di averlo commesso.
Noi possiamo comprendere che si possa essere riluttanti a punire una persona per crimini che essa non ricorda, ma la tesi di Locke, se considerata come concezione di che cosa implichi l’esistenza continuativa di una persona, è chiaramente falsa.
Perché sia vera, occorrerebbe che per una persona fosse impossibile dimenticare una qualsiasi delle cose fatte in passato o una qualsiasi delle esperienze che ha avuto. Ma ciò è impossibile.
Un ulteriore indizio, volto a mostrare la discontinuità sincronica della coscienza delle esperienze passate, è stato recentemente teorizzato dai cosiddetti fautori dell’io multiplo, che hanno tentato di mettere in discussione il presupposto dell’unitarietà dell’individuo e della sua coscienza.
I progressi compiuti sulla conoscenza della struttura cerebrale ad opera dalle ricerche neurobiologiche e psicologiche contemporanee, così come dai modelli computazionali della cognizione, hanno svelato la natura plastica, parallela e distribuita del funzionamento celebrale e una struttura modulare, articolata in una molteplicità di agenzie cognitive subpersonali che sembrano ridimensionare l’immagine di noi stessi incentrata sul ruolo dei processi coscienti e sulla descrizione di alto livello delle nostre capacità psichiche.
Il risultato è una concezione del soggetto come emergente da una miriade di processi e calcoli inconsci e subpersonali, di mille sé autonomi che si sostituiscono all’Io unitario, mettendo a capo una visione che pone una sfida cruciale alla comprensione di noi stessi e alla visione nella quale la natura centrale irriducibile delle persone appare come un dato essenziale.
Su questa scia di considerazioni Donal Davidson14 ha suggerito di rivedere il criterio
della continuità psicologica adattandolo a questa nuova immagine che le scienze cognitive ci hanno dato della mente e dei suoi principi di funzionamento.
Secondo Davidson si può parlare dell’esistenza di un sistema dominante, rappresentato da tutto quell’insieme di credenze e desideri che interagendo razionalmente tra loro tra loro danno vita ad un io coerente, e di una serie di sottoinsiemi identificabili con quegli eventi cognitivi che agiscono irrazionalmente sul sistema dominante, manipolando e condizionandolo.
In questa direzione, alcuni autori, tra cui Derk Parfit, hanno suggerito di sostituire il concetto di continuità con quello di connettibilità.
Non più quindi l’idea di una catena ininterrotta di ricordi coscienti, ma l’idea di un legame tra catene di io successivi.
Parfit prende le mosse dal modello di continuità psicologica, ponendo però alcune precisazioni.
Se l’identità deve essere definita in modo assoluto e universale, la continuità psicologica ammette invece dei gradi.
Quello che Parfit cerca di sottolineare, è la necessità di allontanarsi dall’idea di continuità lineare.
Con il passare del tempo le idee cambiano, si subiscono delle trasformazioni fisiche, alcuni ricordi scompaiono, i progetti e le intenzioni cambiano.
Nel rivedere il concetto di continuità lineare Parfit si ispira a David Hume (Trattato sulla natura umana) e alla sue considerazioni critiche sull’unità e la continuità della memoria
“Quando mi immergo all’interno di ciò che chiamo me stesso […] non riesco a cogliere null’altro che percezioni15”
L’identità è intermittente, interrotta ha vuoti ed oblii, l’immagine di un Io unitario in questo senso si avvicina molto più ad una metafora che non a cogliere la verità della natura dell’Io.
Noi siamo semplicemente un’aggregazione contemporanea, casuale e costruita ad hoc, di percezioni e esperienze vissute.
Come sottolinea Davide Sparti, i neolockiani hanno quindi ripensato su questa scia lo status stesso dell’idea di memoria.
La memoria deve rivestire un ruolo epistemico non metafisico.
La memoria non coincide con l’identità personale, (quest’ultima consisterebbe infatti nella nostra umana capacità di coscienza), ma è soltanto il criterio di identità, un criterio di identità che non si applica direttamente all’individuo, bensì alla relazione unificante che intercorre tra le diverse sezioni temporali di una persona, cucite insieme dalla memoria, diacronica e onnipresente, in uno e un solo individuo identico a se stesso.
In quanto criterio, la memoria è così una fonte di evidenza, anzi la fonte di evidenza principale per attestare la nostra continuità nel tempo.
Se accettiamo questa distinzione, la limitatezza, la fattibilità e l’incompletezza della memoria incidono tutt’al più sulla nostra conoscenza dell’identità personale, non sull’identità personale in quanto tale (in quanto requisito metafisico).
Lo costanza dell’identità non sarebbe dunque scalfita dall’intermittenza della memoria.
Ma vi è un ulteriore fondamentale problema nell’interpretazione dell’identità come permanenza della coscienza
Come considerare dal punto di vista dell’individuo preso isolatamente, se egli crede di essere Napoleone o lo è effettivamente?
Se accettiamo l’idea che a determinare l’identità dell’individuo è la privata consapevolezza di sé che possiede siamo di fronte alla formulazione di un criterio privato, rispetto al quale non possiamo entrare in contraddizione.
Un criterio privato difficilmente può essere assunto come un criterio oggettivo e neutrale.
4.11 La tradizione costruzionista
“La problematizzazione dell’impostazione analitica si compie nel modo più radicale intraprendendo con Wittgenstein il passaggio dall’interrogativo sulle condizioni di identità (quale fatto deve darsi affinché l’identità sia stabilita) al nuovo interrogativo sulle circostanze dell’identificazione ovvero: in quali occasioni l’identità viene riconosciuta e imputata?”16
Il dibattito costruzionista, di ispirazione pragmatista e comprensiva di alcuni indirizzi della sociologia cognitiva, non si è basato tanto sulla perplessità o il dissenso sopra questo o quell’aspetto dell’identità personale, ha cercato invece di mostrare come l’impostazione analitica fosse caratterizzata da un’astinenza da ogni rilievo sul contesto in cui l’identità è riconosciuta, equivocando così il luogo stesso di formazione dell’identità, circoscritta in questa prospettiva all’autocomprensione dell’individuo o a un fatto naturale a esso immanente.
Alla luce della tradizione costruzionista i criteri d’identità ammessi dalla tradizione analitica appaiono insufficienti perché privi di un contesto interpersonale.
Il criterio analitico dell’identità appare come un criterio astratto, formulato sempre in terza persona, un criterio privato.
In questo senso l’impostazione analitica mostra dei limiti evidenti nell’escludere totalmente la dimensione dell’identità radicata nelle pratiche sociali di reciproco riconoscimento.
La domanda che fa da sfondo alla riflessione costruzionista non concerne più ciò in cui l’identità consiste, ma deve essere così riformulata:
Chi o che cosa stabilisce l’identità?
La tradizione analitica risponderebbe a questa domanda in due modi: - Noi stessi in quanto individui autoidentificanti (criterio privato);
- Un fatto fisico relativo al nostro cervello o al nostro corpo (criterio oggettivo).
I limiti di quanti si rifanno a questi criteri emergono in relazione alla definizione di criterio come metro o come misura.
Secondo il criterio privato è l’individuo stesso ad autoidentificarsi ponendosi a criterio di sé medesimo.
L’assunzione di questo criterio risulta ad un’analisi attenta un po’ arbitraria, nel senso che non vi sarebbero criteri rispetto ai quali sancire la validità o la correttezza della misurazione.
Così come il nostro concetto di dimensione fisica dipende dal confronto con altri oggetti fisici, allo stesso modo la nostra identità personale dipende in qualche misura dalla possibilità di confronto con altre individualità.
L’idea invece secondo cui sarebbe una causa naturale (fisico-ontologica) a determinare l’identità, per effetto di un potere che le sarebbe immanente, si fonda su una convinzione ingannevole: che vi sia un dato di fatto in cui l’identità debba o possa consistere, o quanto meno che vi sia un dato di fatto che rappresenti un metro esterno oggettivamente applicabile all’individuo in momenti distinti.
Ma come sostiene Davide Sparti, l’accertamento di una causa interna non è un fatto neutrale ma carico di teoria :
“Noi ritagliamo da una totalità di eventi la classe di eventi rilevanti per causare un’altra classe di stati (l’identità personale), e nel farlo dobbiamo selezionare e classificare eventi e stati come quegli eventi che determinano quella identità
Non collochiamo degli eventi sotto la stessa classe perché intrinsecamente in grado di autoproporsi come eventi candidati a cause (d’identità).
Al contrario, li consideriamo simili o causalmente rilevanti perché li osserviamo attraverso un linguaggio già in uso17.”
Dal momento che il criterio privato e il criterio oggettivo suscitavano non poche perplessità nelle loro pretese di candidarsi a criteri necessari e sufficienti per l’identità personale, la svolta costruzionista ha operato una ricollocazione della fonte di identità: l’identità non può spiegare le nostre identificazioni; è vero invece il contrario e cioè che le pratiche di identificazione forniscono i canoni di identità, rendendo peraltro indispensabile il passaggio a una nuova prospettiva teorica.
“Benchè funzioni di riferimento durevole, l’identità non è un dato primario fondato sulla sostanza o la qualità di un individuo, ma implica il rinvio a una pratica che lo stabilisce sulla base di una distinzione reiterata nel tempo18.”
L’identità quindi va pensata non più in modo intellettualisitico e astorico, come legata ad una natura intrna da decodificare, ma come una continuità della funzione identificante del riconoscimento.
Sopravvivere in questo senso significa continuare ad esistere come individui identificabili, ossia non come gli stessi individui che siamo qui ed ora, e neppure come gli individui affini agli altri, bensì come individui il cui senso di differenza dagli altri sia stato stabilito e ristabilito nel tempo. Chi assicura valore e costanza alla nostra identità?
17 D.Sparti, 1996, p. 67.
Quello che quindi ci occorre in un’ottica costruzionista è una pragmatica dell’identificazione.
Nell’ottica costruzionista, l’identità, di per sè, non può spiegare le nostre identificazioni: è vero invece il contrario, e cioè che le pratiche di identificazione forniscono i canoni di identità.
È da questo accordo reciproco reiterato nel tempo che riceviamo i criteri per attribuire un‘identità.
Il piano sociologico del rapporto tra identità personale e riconoscimento sociale. Fa parte della nozione d’identità il fatto che altri ci riconoscono, e questo ritorno di riconoscimento presuppone, a sua volta, una distinzione tra identità diverse, differenziate.
Scopriamo la necessità dell’altro come condizione senza la quale come individui, non potremmo definire la nostra specificità, la differenza che ci identifica.
In assenza di quella rete di rapporti sociali nei quali veniamo riconosciuti, delimitati, collocati e definiti, noi diveniamo incerti, disorientati, privi d‘identità stabile.
È proprio questo aspetto che sembra essere implicato nei casi di impianto di BCI, il timore cioè di una perdita di identità che non ci permette di sopravvivere come individui riconoscibili dagli altri individui.
E un timore di natura etica, la difficoltà di reiterare questa identificazione diventa anche una preoccupazione morale nel momento in cui si ritiene che l’integrità dell’identità rappresenti un parametro di riferimento per l’attribuzione di responsabilità morale, per essere quindi riconosciuti come soggetti morali attivi.
Se l’identità personale assume una configurazione radicalmente individualizzata, ossia priva di caratteristiche riconoscibili dagli altri come comuni e continue nel tempo allora essa non potrà essere proiettata in situazioni ulteriori.