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1.1. Origine della citogenetica

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Academic year: 2021

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1.1. Origine della citogenetica

Il periodo che intercorre tra il 1956 e il 1962 è di fondamentale importanza per la citogenetica umana. In questi anni viene stabilito il numero esatto di cromosomi umani (Tjio and Levane, 1956); è formulata l’ipotesi di un solo cromosoma X attivo (Lyon, 1961); è appurata l’importanza del cromosoma Y nella determinazione del sesso (Ford, 1959) e vengono effettuate correlazioni tra aneuploidie e fenotipi sindromici.

In seguito alla scoperta dei cromosomi (Hansemann, 1891) e allo sviluppo della “teoria cromosomica dell’eredità” dove i cromosomi furono identificati come i vettori fisici dell’informazione genetica, sono state fatte varie ipotesi sull’effettivo numero di cromosomi umani. Nel 1912 H.von (de) Winiwarter asseriva che il numero di cromosomi umani fosse di 46 autosomi più un cromosoma X nella femmina e due cromosomi X nel maschio. Negli anni ’20 e ’30 Painter (Painter, 1923), pur confermando tale ipotesi per quanto riguardava il numero degli autosomi, affermò invece che il maschio aveva un cromosoma X e uno Y (Miller, 1995; Swanson et al., 1973; Vogel and Motulsky, 1988).

Furono però Tjio e Levan (1956) (Tjio and Levan, 1956) a stabilire che il numero esatto di cromosomi umani per assetto diploide è 46 (compresi i due cromosomi sessuali). Tale scoperta risultò possibile grazie al perfezionarsi delle tecniche di coltura cellulare, all’utilizzo sia della colchicina (Tjio and Levan, 1956) che di una soluzione ipotonica (Hsu, 1952; Hsu and Pomerat, 1953). La colchicina è un inibitore del fuso mitotico capace di arrestare le

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cellule in metafase, mentre la soluzione ipotonica permette, mediante uno shock osmotico, di disperdere i cromosomi. In tal modo Tjio e Levan riuscirono ad avere, da tessuto di polmone embrionale, metafasi aperte e cromosomi ben distinti. Questi primi risultati, ottenuti in colture di cellule somatiche, e successivamente confermati in cellule germinali (Ford and Hamerton, 1956) hanno segnato l’inizio della genetica moderna.

Gli studi sui cromosomi furono notevolmente facilitati dai continui miglioramenti delle metodiche utilizzate, come l’introduzione della tecnica di asciugare all’aria i preparati metafasici, o come la scoperta (Dutrillaux and Couturier, 1981) della fitoemoagglutinina (PHA) quale agente mitogeno per i linfociti del sangue periferico umano facendolo diventare il materiale di elezione per le indagini citogenetiche.

Un passo decisivo nell’affermazione della citogenetica moderna è stata la dimostrazione della correlazione tra alcune espressioni fenotipiche patologiche ed alterazioni del numero dei cromosomi.

Jerome Lejeune fu il primo ad associare, nel 1958, alla sidrome di Down la presenza in soprannumero di un piccolo cromosoma acrocentrico del gruppo G, che faceva salire a 47 il numero dei cromosomi (Lejeune, 1959). La presenza di malformazioni multiple in individui, portatori di trisomia del cromosoma 21, portò i genetisti a sostenere l’ipotesi che le trisomie coinvolgenti altri cromosomi potessero essere la causa di altre sindromi. Grazie ai notevoli sforzi dei ricercatori sono state individuate aneuploidie cromosomiche sia nel caso dei cromosomi sessuali: sindrome di Klinefelter (47,XXY) (Polani et al., 1958; Jacobs and Strong, 1959) e sindrome di

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Turner (45,XO) (Ford et al., 1959), sia nel caso degli autosomi: sindrome di Patau (trisomia del cromosoma 13) (Patau et al., 1960) e sindrome di Edwards (trisomia del cromosoma 18) (Edwards et al., 1960).

La scoperta di individui con un numero anomalo di cromosomi sessuali fornì la chiave di lettura per la determinazione del sesso nei mammiferi. Il fatto che individui XO fossero femmine e individui XXY maschi indicava che era il cromosoma Y responsabile della determinazione maschile del sesso (Ford et al., 1959).

Ciò che ha avuto in ruolo determinante nella citogenetica umana è stata l’ipotesi, formulata da Mary Lyon nel 1961 (Lyon, 1961) che uno dei due cromosomi X venisse inattivato precocemente durante lo sviluppo embrionale.

In seguito all’aumento delle conoscenze sui cromosomi umani, verso la fine degli anni ’50 si rese necessario creare un sistema di nomenclatura dei cromosomi che fosse universalmente accettato.

La conferenza di Denver del 1960 (Lejeune et al., 1960) stabilì che gli autosomi venissero ordinati numericamente da 1 a 22 in base alla lunghezza decrescente. Ciò fu determinato utilizzando come parametri la lunghezza dell’intero cromosoma, il rapporto braccio lungo/braccio corto e l’indice centromerico (risultante calcolando il rapporto tra braccio corto e intero cromosoma). Nello stesso anno fu inoltre proposto (Patau, 1960) che i cromosomi venissero suddivisi in sette gruppi, ordinandoli secondo le lettere dell’alfabeto da A a G (tabella 1.1.).

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Ulteriori modificazioni al sistema di nomenclatura furono adottate alla London Conference (1963) (London Conference, 1963) e successivamente alla Conference on Standardization in Human Cytogenetics che si tenne a Chicago nel 1966 (Chicago Conference, 1966).

Tabella 1.1. Principali caratteristiche dei cromosomi mitotici umani

GRUPPO CROMOSOMI CARATTERISTICHE

A 1-3 I cromosomi 1 e 3 sono i più grossi metacentrici, il cromosoma 2 è sub metacentrico.

B 4-5 Cromosomi sub metacentrici;difficili

da distinguere.

C 6-12, X Cromosomi sub metacentrici di

dimensioni intermedie, sono tra loro distinguibili con molta difficoltà

D 13-15 Cromosomi acrocentrici. Sono dotati

di satelliti non distinguibili tra di loro

E 16-18 Cromosomi metacentrici o sub

metacentrici: il cromosoma 16 è metacentrico, il 17 e il 18 sono sub metacentrici.

F 19-20 Cromosomi piccoli, metacentrici.

G 21-22, Y Cromosomi acro centrici dotati di satelliti. Il cromosoma Y appartiene a questo gruppo.

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1.2. Tecniche di bandeggio cromosomico

Le tecniche citogenetiche disponibili prima del 1969 permettevano di distinguere solo alcuni cromosomi (1,2,3,16,Y); inoltre i membri di un gruppo cromosomico potevano essere distinti da quelli di un altro gruppo, ma spesso non era possibile per quelli del gruppo stesso (Simpson et al., 1977).

Nella metà degli anni ’60 la principale difficoltà per i citogenetisti era costituita dall’incapacità di identificare ciascun singolo cromosoma, o frammenti di cromosoma; non era quindi possibile individuare la maggior parte delle inversioni e delle traslocazioni, e risultava spesso difficile determinare la localizzazione di segmenti deleti e l’identità di cromosomi in eccesso o mancanti.

La situazione cambiò radicalmente in seguito alla scoperta da parte di Caspersson (Caspersson et al., 1968) del bandeggio cromosomico. L’utilizzo di un fluorocromo, la mostarda di quinacrina, (Caspersson et al., 1970) permise di individuare un livello di organizzazione cromosomica fino a quel momento sconosciuto riuscendo a evidenziare regioni più o meno brillanti che variavano nel numero e nella disposizione tra i vari cromosomi, ma risultavano costanti in uno stesso cromosoma, consentendone l’identificazione (Caspersson et al., 1970; Caspersson et al., 1971). Ogni cromosoma veniva così caratterizzato da uno specifico pattern di bande, ovvero regioni trasversali a diversa intensità di colorazione che si

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susseguono lungo il suo asse longitudinale; ciò rese possibile ottenere una accurata identificazione di un numero elevato di aberrazioni cromosomiche. Nella conferenza di Parigi del 1971 (Paris Conference, 1971; Paris Conference Supplement, 1975; Strachan and Read, 1996; Simpson et al., 1977) si modificò ulteriormente la nomenclatura dei cromosomi; il braccio corto del cromosoma venne definito p (petit) e il braccio lungo q (queue); il centromero venne indicato con “cen”, il telomero con “ter” e ciascun braccio cromosomico fu suddiviso in bande e sottobande, a seconda del livello di risoluzione microscopica, che furono numerate in base alla loro posizione rispetto al centromero. Fu inoltre stabilita l’esatta terminologia per identificare i differenti tipi di aberrazioni cromosomiche (tabella 1.2.).

Tabella 1.2. Alcuni dei simboli stabiliti alla conferenza di Parigi (1971) SIMBOLI Centromero cen Telomero ter Braccio corto p Braccio lungo q Isocromosoma i Delezione del Traslocazione t Traslocazione reciproca rcp Mosaicismo mos Chimerismo chi Ring r Dicentrico dic Duplicazione dup Inversione inv

Rottura senza riunione (es:delezione terminale) :

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La colorazione con mostarda di quinacrina, definita bandeggio Q, determina una maggiore fluorescenza nelle regioni di DNA ricche in AT, è semplice e facilmente riproducibile, ma presenta un evidente limite nel rapido decadimento delle sostanze fluorescenti.

Al bandeggio Q sono state affiancate altre tecniche di colorazione che non prevedono l’utilizzo di un fluorocromo, ma presuppongono un pretrattamento con un agente chimico, la tripsina, o fisico, il calore (Seabright, 1972; Summer, 1982). Le bande G (Schnedl, 1973), ottenute sottoponendo il preparato cromosomico ad una digestione controllata con tripsina e successivamente a colorazione con Giemsa, mostrano un pattern di bandeggio simile a quello ottenuto con il bandeggio Q eccetto che per le regioni pericentromeriche dei cromosomi 1,9 e 16 e per la parte distale del cromosoma Y. Nel bandeggio R (reverse) i cromosomi vengono invece denaturati al calore in soluzione salina prima di essere colorati con Giemsa; si tratta di un bandeggio complementare rispetto ai precedenti, con cui è possibile evidenziare le regioni G e Q negative (Summer, 1982; Sessions., 1996) (tabella 1.3.).

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Tabella 1.3. Principali tecniche di bandeggio cromosomico

Tecniche di bandeggio Trattamento Sistema di analisi Bandeggio Q Vengono utilizzati

coloranti fluorescenti (quinacrina)

Microscopio a fluorescenza Bandeggio G Pretrattamento con

enzima proteolitico (tripsina). Colorazione con Giesma. Microscopio in campo chiaro

Bandeggio R Pretrattamento con alta temperatura e pH controllato. Colorazione con Giesma Microscopio in campo chiaro

Le basi strutturali del bandeggio differenziale sono state chiarite successivamente. Inizialmente si riteneva (Kato and Moriwaki, 1972; Comings et al., 1973) che la comparsa delle bande fosse dovuta all’insieme di interazioni complesse tra DNA e proteine non istoniche. Gli studi condotti sull’organizzazione primaria della cromatina e dei cromosomi metafasici permisero a Saitoh e Laemmli di dimostrare che il bandeggio cromosomico era determinato dall’ultrastruttura dei cromosomi stessi, secondo il modello loop-scaffold (Saitoh and Laemmli, 1994). Secondo questo modello, le SAR (Scaffold Attachment Regions), molto ricche in AT (Mirkovitch et al., 1984), sono ripiegate in modo differenziale lungo l’asse longitudinale dei cromatidi: le regioni di stretto impaccamento delle SAR sono associate con le bande G (o Q), le regioni meno ripiegate sono associate con le bande R.

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Per l’analisi citogenetica sono state messe a punto altre particolari tecniche di colorazione che permettono di evidenziare specifiche regioni del cromosoma. Tra esse troviamo il bandeggio C, per colorare l’eterocromatina costitutiva, quindi principalmente la regione centromerica; il bandeggio T per osservare invece un gruppo di bande concentrate a livello dei telomeri; infine la colorazione NOR (effettuata con Nitrato d’Argento) evidenzia le regioni cromosomiche dell’organizzatore nucleolare (Summer, 1982; Sessions., 1996).

1.3 Bandeggio ad alta risoluzione

Negli anni successivi si sono susseguiti numerosi tentativi per aumentare la risoluzione di bandeggio con lo scopo di identificare con sempre maggior precisione i punti di rottura e le piccole aberrazioni cromosomiche. Esiste infatti una relazione tra il grado di condensazione cromosomica e numero di bande.

Yunis nel 1976 ottenne un bandeggio G ad alta risoluzione (Yunis, 1976; Yunis, Sawyer and Ball, 1978; Yunis, Ball and Sawyer, 1979; Yunis, 1980) trattando le colture cellulari con ametopterina, per sincronizzare parzialmente i cicli cellulari, e diminuendo il tempo di esposizione al colcemid, al fine di aumentare il grado di despiralizzazione; tale trattamento permise di avere un numero relativamente elevato di cellule in profase,

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prometafase e metafase. Le 1256 bande per set aploide che si osservarono nei cromosomi in tarda profase rappresentavano quattro volte il numero di bande trovato precedentemente in metafase. In tal modo i patterns di bandeggio G dei cromosomi umani visualizzati a vari stadi della mitosi dimostravano che la maggior parte delle bande in metafase risultava da una progressiva unione delle numerose piccole bande della tarda profase. Il numero di bande osservate per genoma aploide salì a 2000 (Yunis, 1981) quando fu applicato a cromosomi in media profase un trattamento combinato di actinomicina D e bromodeossiuridina. L’actinomicina D produceva un marcato effetto sull’ allungamento cromosomico e un pattern di bandeggio molto fine grazie al suo legame preferenziale, durante il periodo G2 del ciclo cellulare, a residui di guanina che preveniva l’attacco di proteine necessarie alla condensazione cromosomica. La bromodeossiuridina veniva invece utilizzata in quanto, essendo un analogo della timidina, interferiva con la struttura terziaria del DNA inibendo moderatamente la condensazione cromosomica (Viegas-Pequignot and Dutrillaux, 1978).

I cromosomi in media profase raggiungono una lunghezza e mostrano una ricchezza in dettagli non precedentemente ottenuta in cromosomi mitotici umani.

Nonostante il bandeggio ad alta risoluzione sia utile per una identificazione più precisa dei punti di rottura e delle piccole aberrazioni, l’introduzione di questa tecnica nella diagnosi di routine presenta numerosi problemi legati al tempo necessario alla sua realizzazione.

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Le analisi citogenetiche di routine vengono attualmente condotte su cromosomi metafasici ad una risoluzione di 450-500 bande per assetto aploide ottenuti con le tradizionali tecniche di coltura che permettono di avere risultati diagnostici in tempi brevi. In questo modo è possibile individuare anomalie cromosomiche numeriche e strutturali, ma resta comunque difficile in molti casi arrivare ad una interpretazione certa del risultato.

1.4. Ibridazione in Situ a fluorescenza (FISH)

L’ibridazione in situ (ISH: In Situ Hybridization) è una tecnica che permette la visualizzazione di specifiche sequenze di DNA in preparati citologici fissati su vetrino, siano essi cromosomi, nuclei o cellule, tramite l’utilizzo di sonde, ossia frammenti di DNA (o RNA) marcati in modo che si possa poi evidenziare l’avvenuta ibridazione. Affinchè la reazione di ibridazione avvenga, tutte le molecole di acido nucleico (probe e target) devono trovarsi a singolo filamento così da riassociarsi in base alla complementarietà della loro sequenza nucleotidica (Sessions, 1996; Strachan and Read, 1996). Agli inizi degli anni ’70, quando la tecnica dell’ibridazione in situ è stata introdotta (Hsu and Arrighi, 1973), la marcatura della sonda veniva effettuata con isotopi radioattivi (3H o 32P), le cui emissioni erano poi rilevate con emulsioni fotografiche poste in intimo contatto con il preparato.

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Quest’ultima fase determinava una forte dispersione del segnale attorno al punto di emissione; occorreva inoltre aspettare alcune settimane per avere dei segnali autoradiografici apprezzabili. Una ulteriore limitazione insita in questa tecnica era costituita dall’impossibilità di utilizzare più di una sonda alla volta, in quanto non sarebbe stato poi possibile distinguere i due diversi segnali ottenuti. Per ovviare a questi inconvenienti da alcuni anni sono state introdotte marcature “non radioattive” delle sonde, rivelate poi con sistemi colorimetrici o con sostanze fluorescenti. L’efficienza di queste ultime metodiche è attualmente molto elevata.

I principali vantaggi della FISH, “ Fluorescent In Situ Hybridization”, sono l’elevata risoluzione topologica, il segnale, cioè, può essere localizzato con notevole precisione; la rapidità con cui si ottengono i risultati sperimentali (1-2 giorni), la possibilità di marcature multiple (Ried et al, 1992), e di amplificazione del segnale mediante l’uso di anticorpi appropriati; di fondamentale importanza è, infine, il rilevamento delle immagini attraverso sistemi elettronici (tipo “charge copuled device” o CCD camera e microscopio confocale) che hanno sensibilità superiori all’occhio umano; le immagini registrate sul computer possono inoltre essere elaborate con appositi programmi che migliorano il rapporto segnale/disturbo.

Un’applicazione speciale della FISH consiste nell’uso di sonde in cui il DNA di partenza è composto da un’ampia collezione di frammenti differenti, derivanti da un unico cromosoma (Trask, 1991). Tali sonde possono essere preparate riunendo tutti gli inserti di DNA umano presenti in una libreia di DNA cromosoma-specifica. Il segnale di ibridazione che ne risulta

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rappresenta i contributi di molti loci sparsi lungo un cromosoma e fa sì che l’intero cromosoma risulti fluorescente (chromosome painting). Questa tecnica sta trovando sempre maggiori applicazioni nella definizione di traslocazioni complesse. Utilizzando librerie specifiche dei cromosomi interessati al riarrangiamento è possibile infatti definire con esattezza il coinvolgimento dei cromosomi nel riarrangiamento stesso (Rocchi et al., 1992; Strachan and Read, 1996).

Nel complesso l’ibridazione in situ a fluorescenza con chromosome painting e sonde specifiche per un singolo locus risulta essere un potente mezzo per l’identificazione di alterazioni strutturali, la caratterizzazione di riarrangiamenti cromosomici complessi e la fine localizzazione dei punti di rottura nelle traslocazioni, inversioni e delezioni.

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1.5. Ibridazione Genomica Comparativa (CGH)

La messa a punto di una nuova tecnica, definita "Ibridazione Genomica Comparativa" o CGH (Comparative Genomic Hybridization) ha risolto la necessità di avere un mezzo di analisi in grado di valutare la presenza di sbilanciamenti (delezioni o duplicazioni) a livello dell’intero genoma, senza sapere in anticipo cosa cercare.

La CGH e’ una tecnica che inizialmente e’ stata applicata allo studio di cellule tumorali, ma che si è poi rivelata di utile impiego nella diagnosi di aberrazioni cromosomiche costituzionali, sia in epoca postnatale che prenatale (Lapierre J.M. et al., 1998 ; Kallioniemi A. et al., 1992). La metodica si basa su una ibridazione in situ modificata, che sfrutta la competizione tra due campioni di DNA genomico: un campione è quello da analizzare (DNA test), l’altro rappresenta il campione di riferimento normale (DNA reference). I DNA, marcati con due fluorocromi diversi, sono coibridati simultaneamente su preparati metafasici normali. In questo modo, "mappando" il risultato direttamente sulle metafasi, la CGH permette di identificare velocemente variazioni del contenuto di DNA osservando la differente colorazione dei fluorocromi.

Tuttavia la principale limitazione di questa tecnica consiste nel basso potere di risoluzione: le delezioni sono rilevabili solo quando il tratto deleto copre una distanza compresa tra le cinque e le dieci megabasi, per le amplificazioni la risoluzione è di circa due megabasi (Mantripragada K. K. et al., 2004)

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1.6. Microarray-based comparative genomic hybridization (CGH Array)

L’avvento della CGH-array descritta per la prima volta nel 1997 (matrix-CGH), ha aperto la strada alla possibilità di una più alta e più ampia risoluzione nella rilevazione delle anomalie cromosomiche strutturali. La CGH-array è basata sugli stessi principi della CGH classica ma, a differenza di quest’ultima che prevede l’utilizzo di sonde marcate che ibridano a livello di metafasi fissate su vetrino, la CGH-array utilizza i vetrini come supporto utile per la stampa di sequenze di DNA complementari a loci specifici di cromosomi umani .

L’approccio metodologico corrente per la costruzione degli array prevede l’utilizzo di vettori batterici (BAC , PAC e cosmidi) per il clonaggio dei frammenti di DNA di interesse. L’utilizzo di questi vettori può presentare alcune problematiche: il fatto che si tratti di vettori a singola copia può influire sulla bassa resa di estrazione; inoltre le soluzioni di DNA ad alto peso molecolare hanno spesso una consistenza viscosa che può rendere difficoltosa la fase di stampa (Mantripragada K. K. et al., 2004).

Per ridurre il peso molecolare del DNA estratto dalle colture batteriche i metodi più utilizzati sono la DOP-PCR e la sonicazione. La DOP-PCR (degenerate Oligonucleotide-primed Polymerase Chain Reaction) è un metodo universale che utilizza primer degenerati per ottenere un’amplificazione uniforme e aspecifica del DNA umano (Fiegler H. et al.,

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2003). La sonicazione invece è un processo che permette la rottura di lunghi frammenti di DNA, presenti all’interno di una miscela liquida, mediante l’utilizzo di ultrasuoni.

I frammenti così ottenuti, vengono precipitati e diluiti in modo tale da ottenere la concentrazione necessaria a permettere la fase di stampa dei vetrini. Le stazioni robotizzate per la costruzione degli array, disponibili commercialmente, depositano nanolitri del campione del DNA in posizioni fisse su ciascun vetrino, creando spot di diametro variabile.

Sull’array così costruito, vengono eseguiti esperimenti di coibridazione di due campioni di DNA genomico: un DNA test e un DNA controllo (reference) marcati in maniera differenziale con molecole fluorescenti.

Le sequenze complementari a quelle presenti sul vetrino rimangono legate all’array, quelle non complementari vengono allontanate da una serie di opportuni lavaggi.

La rilevazione dei segnali di fluorescenza di ogni singolo spot è resa possibile mediante l’utilizzo di uno scanner: la presenza di riarrangiamenti cromosomici nel DNA test è valutata mediante la quantificazione delle differenze esistenti nell’emissione di fluorescenza tra il campione da analizzare e il campione di riferimento. L’analisi dei dati e’ condotta utilizzando software dedicati.

Dai dati riportati in letteratura, la CGH-array si presenta come il metodo più utile per rilevare e localizzare simultaneamente perdita o guadagno di materiale genetico, per tale motivo la sua applicazione è in rapido

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incremento anche nello studio di malattie genetiche, congenite ed acquisite (Pinkel D. et al., 1998).

La potenzialità di questa metodica e la sua automazione permetteranno alla CGH-array di divenire una delle metodologie dominanti nella diagnosi degli squilibri cromosomici (delezioni, amplificazioni, traslocazioni non bilanciate) anche se l’incapacità di rilevare anomalie cromosomiche nei casi in cui non si abbia né perdita né guadagno di materiale genetico rappresenta una delle grosse limitazioni della tecnica.

Lo sviluppo della tecnologia array nell’era postgenomica ed il crescere delle evidenze che ne indicano l’applicabilità sia a fini di ricerca, per una migliore comprensione delle basi fisiopatologiche delle malattie, che a fini diagnostici e prognostici, rende necessarie la standardizzazione e la valutazione dell’attendibilità sia dei protocolli che delle metodiche di analisi dei dati.

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1.7. I microsatelliti del DNA

L’applicazione delle tecniche di genetica molecolare allo studio delle malattie ereditarie ha permesso negli ultimi anni di compiere enormi progressi in campo diagnostico e preventivo. Lo studio dei mucrosatelliti si è rivelato un potente strumento per le analisi genetiche.

I microsatelliti, in cui la sequenza ripetuta risulta essere di 1-4bp, sono stati descritti come i markers ipervariabili più abbondanti del genoma umano (Weber et al., 1989). L’elevata variabilità nel numero di ripetizioni rende infatti tali microsatelliti estremamente polimorfici. Il contenuto di informazione di un polimorfismo (PIC) è dato da:

n n n PIC = 1– ∑ p2– ∑ ∑ 2p2 p2 i=1 i i=1 j=i+1 i j

Dove con A1,A2,A3… si indicano i differenti alleli, che nel caso dei microsatelliti sono dati dal differente numero di ripetizioni della regione ripetuta, e con p1, p2, p3…le rispettive frequenze alleliche (tabella 1.4.) (Strachan and Read, 1996).

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Il continuo miglioramento delle tecniche di genetica molecolare è stato essenziale per una facile e rapida analisi dei microsatelliti. L’introduzione della PCR (Polymerase Chain Reaction), tecnica con la quale è possibile effettuare una caratterizzazione degli alleli da una piccola quantità di DNA, ha permesso di risolvere problemi associati con i metodi usati precedentemente, come l’analisi dei polimorfismi di lunghezza dei frammenti di restrizione (RFLP).

La PCR è un sistema che consente di replicare in vitro, in maniera specifica, una particolare regione di una molecola di DNA. Essa richiede l’uso di due primers che fiancheggiano la regione da amplificare e cicli ripetuti di denaturazione, annealing dei primers alle loro sequenze complementari ed infine estensione dei primers annilati, tramite una DNA polimerasi termoresistente, isolata dal Thermophilus acquaticus. Nel caso dei microsatelliti i primers sono complementari alla sequenza unica posta alle due estremità della regione ripetuta e sono orientati in modo che la sintesi del DNA da parte della polimerasi proceda attraverso la regione compresa tra essi (Strachan and Read, 1996; Watson et al., 1994).

E’ interessante notare tuttavia che le ripetizioni dinucleotidiche (TG/CA)n, le

più frequenti tra le ripetizioni semplici trovate nel genoma umano (Brahmacharl et al., 1995), sono paricolarmente soggette a slittamento (slippage) durante l’amplificazione per cui ciascun allele presente nel gel dà una piccola scala di bande (stutter bands); ciò può rendere il gel difficile da interpretare.

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I notevoli progressi nella tipizzazione del DNA hanno avuto un impatto immediato nel mappaggio di geni umani mediante studi di linkage, nelle indagini forensi, nelle analisi di disomie, nell’individuazione di relazioni biologiche tra individui e nella possibilità di prevedere eventuali relazioni a livello evolutivo tra popolazioni (Deka et al., 1995).

L’uso dei microsatelliti è stato inoltre applicato alla caratterizzazione molecolare di riarrangiamenti cromosomici sbilanciati; per ciascun marcatore viene cioè verificata l’effettiva segregazione allelica da genitore a figlio.

1.8. Multiplex ligation-dependent probe amplification (MLPA)

Recentemente, molto interesse è stato suscitato dalla applicazione della metodica definita methylation-specific MLPA (multiple ligation-dependent probe amplification).

MLPA è una tecnica, introdotta nel 2002 da MRC-Holland, per individuare aberrazioni del numero di copie di sequenze di DNA genomico che si basa sull'ibridazione di più sonde specifiche amplificate contemporaneamente in un'unica PCR.

L’MLPA può essere suddivisa in 5 fasi principali:

 denaturazione del DNA ed ibridazione delle sonde MLPA  reazione di ligazione

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 reazione di PCR (Polimerase Chain Reaction)

 separazione dei prodotti amplificati mediante elettroforesi capillare  analisi dei dati

Le sonde MLPA sono costituite da due oligonucleotidi separati, ciascuno dei quali oltre a contenere la sequenza di uno dei due primers utilizzati nella successiva reazione di PCR, è formato da una sequenza che è complementare alla regione bersaglio da analizzare; in ciascuna coppia di oligonucleotidi tali sequenze corrispondono a regioni che sul DNA genomico sono adiacenti l’una all’altra. Solo uno dei due oligonucleotidi , presenta poi una regione di lunghezza variabile “Stuffer sequence” che permetterà di discriminare gli amplificati nella successiva elettroforesi capillare

Durante il primo step le coppie di oligonucleotidi, che costituiscono le sonde MLPA si ibridano al DNA genomico. Nello step successivo, avviene la ligazione solo nel caso in cui entrambi gli oligonucleotidi siano ibridati alle rispettive sequenze bersaglio; in presenza di una delezione o di un’alterazione della sequenza genomica, per cui uno dei due oligo non si ibrida, i due oligo non risulteranno adiacenti e non potranno quindi essere ligati. Durante il terzo step, ovvero la reazione di PCR, vengono amplificate esponenzialmente solo le sonde ligate, poiché solo in esse sono presenti entrambi i primers; l’entità di amplificazione è correlata al numero di sonde ligate e ciò permette di evidenziare la presenza di eventuali duplicazioni o delezioni della sequenza genomica bersaglio. I prodotti di amplificazione sono poi separati usando una elettroforesi capillare.

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1) si calcola il rapporto tra il segnale relativo di ciascuna sonda rispetto a quella delle altre sonde (normalizzazione intra-campione),

2) si calcola il rapporto tra i segnali relativi del campione rispetto a quello dei campioni di riferimento (normalizzazione inter-campione). Dopo la normalizzazione, è possibile stabilire se si sono verificati eventuali delezioni o duplicazioni del DNA bersaglio.

1.9. Methylation-specific MLPA (MS-MLPA)

La MS-MLPA è una variante della tecnica MLPA in cui la rivelazione del numero delle copie è combinata con l’utilizzo degli enzimi di restrizione sensibili alla metilazione. Tale tecnica permette di evidenziare variazioni dello stato di metilazione ed è quindi molto usata per la rivelazione di alterazioni epigenetiche. Una delle sue maggiori applicazioni è il rilevamento di metilazione in “malattie imprinting” come la sindrome di Prader Willi / Angelman e la sindrome di Beckwith Wiedemann . Nella MS-MLPA si utilizzano sonde con una struttura del tutto analoga a quelle della MLPA, ma la loro sequenza target contiene un sito di restrizione per un enzima sensibile alla metilazione. Dopo che il DNA è stato denaturato ed ibridato alle sonde, viene suddiviso in due reazioni.

L’una segue la procedura standard dell’MPLA e servirà per la rivelazione dell’eventuale variazione nel numero di copie delle regioni analizzate; l’altra è incubata con l’enzima sensibile alla metilazione permetterà effettuare l’analisi dello stato di metilazione

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Le sonde ibridate ed il campione di DNA non metilato sono digeriti dall’enzima HhaI. Le sonde digerite non possono essere amplificate esponenzialmente durante la reazione di PCR e non possono produrre un segnale durante l’elettroforesi capillare.

Al contrario, se il campione di DNA è metilato, le sonde ibridate sono “protette” dalla digestione dell’enzima HhaI e le sonde legate genereranno un picco.

Figura

Tabella 1.1. Principali caratteristiche dei cromosomi mitotici umani
Tabella 1.3. Principali tecniche di bandeggio cromosomico

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