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CAPITOLO III
L’ATTIVITA’ ESTRATTIVA DI CAVE E TORBIERE NELLA LEGGE DI UNIFICAZIONE MINERARIA E LA
«SPECIALITA’» DEI BACINI DI MASSA E CARRARA
3.1 La questione mineraria dopo l’unità d’Italia
Negli anni successivi all’unificazione fino al 1927 non venne approvata alcuna legge rilevante per il regime giuridico del
sottosuolo. In un primo momento il legislatore si preoccupò soltanto
di questioni quali la polizia delle miniere, cave e torbiere, le
espropriazioni e i consorzi industriali. La normativa affrontò soltanto
marginalmente il problema dell’unificazione delle varie legislazioni minerarie esistenti nei diversi stati Italiani prima del 1861.
Negli anni che seguirono l’Unità d’Italia ci furono varie iniziative legislative volte al raggiungimento dell’unificazione mineraria. Non
si riuscì tuttavia a trovare una sintesi fra i vari interessi in gioco
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amplificate dalla poca stabilità dei governi e dagli immani disastri
relativi alla sicurezza sul lavoro1, portarono i vari disegni di legge a naufragare o a mutare il loro contenuto, concentrando l’attenzione sui problemi relativi alla sicurezza dei lavoratori, mentre rimaneva
irrisolta la questione della proprietà dei fondi.
Nel 1893 venne quindi emanata la Legge n. 184, relativa alla
polizia delle miniere, cave e torbiere che favorì, tra l’altro, lo sforzo di ammodernamento e razionalizzazione dell’industria del marmo apuano.
Successivamente si continuò ad affrontare il problema
dell’unificazione delle leggi minerarie in Italia, ma i vari progetti di revisione legislativa non si concretizzarono in una disciplina
effettiva. È necessario sottolineare che tutte queste proposte
riservavano un regime di specialità ai comuni di Massa e Carrara,
dove era costantemente prevista la vigenza delle norme Estensi
(legge 1 febbraio 1751 e notificazione 14 luglio 1846).
Lo scoppio del primo conflitto mondiale mise in evidenza la
carenza in Italia di materie prime e sottolineò la mancanza di una
1 Nel quinquennio 1875-1879 nelle cave apuano versiliesi (dove lavoravano 4000 operai), si ebbe una media annua di 25 morti e 80 feriti gravi, mentre nelle solfare siciliane una media annua di 45 morti e 20 feriti gravi (in questo settore lavoravano 40000 operai). Nel quadriennio 1884-1887 nelle cave apuane vi furono 68 morti e 134 feriti gravi, mentre nel quadriennio 1890-1893 i morti furono 54 e i feriti gravi 197. Cfr. F. Marchetti, Le cave: dal diritto Romano alle leggi regionali, Carrara, 1995, p.54.
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disciplina mineraria, rimasta ferma alle normative preunitarie.
Così il 7 gennaio 1917 il governo emanò un decreto per favorire
la ricerca e facilitare la coltivazione delle miniere di combustibili: in
esso si attribuiva soltanto allo Stato la facoltà di autorizzare le
esplorazioni minerarie, riservando ai proprietari della superficie
interessata da tali ricerche soltanto un risarcimento come indennizzo
degli eventuali danni subiti.
A questo seguirono altri decreti, tutti volti a risolvere il problema
dell’insufficienza delle materie prime necessarie ad affrontare lo sforzo bellico.
Della questione dell’unificazione mineraria si ricominciò a discutere nel primo convegno minerario nazionale (1917) ma fu
soltanto al termine della Grande Guerra, con il secondo congresso
minerario italiano nel 1919, che venne affermata «l’urgenza
inderogabile di addivenire all’unificazione e riforma del nostro vieto e caotico diritto minerario sulla base della legge piemontese del
1859, migliorata e ammodernata [...]»2.
Negli anni che seguirono si continuò a cercare rimedio al
problema dell’unificazione mineraria. Tale questione fu affrontata anche nella «Commissione del dopoguerra», senza però raggiungere
risultati apprezzabili.
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Successivamente venne nominata dall’allora sottosegretario
Cermenati una «Commissione di consulenza», composta da giuristi,
tecnici ed industriali, con il compito di creare una normativa volta
alla risoluzione del problema minerario.
Nel giugno del 1920 la Commissione Cermenati consegnò al
Governo una proposta di legge mineraria, che però non venne mai
presentata in Parlamento.
Il dibattito proseguì e nel 1922 la Camera prese in considerazione
la proposta dell’onorevole Eugenio Chiesa3
che regolamentava le
cave alla stregua delle miniere; novità questa che distingueva tale
proposta da tutte quelle precedentemente formulate, in quanto le
cave erano sempre state trattate marginalmente. Anche questa volta
tuttavia non si arrivò all’emanazione di una legge e la proposta rimase lettera morta.
Furono molti i tentativi di dare una regolamentazione alla materia
che si susseguirono in quegli anni. Nonostante le differenze
ideologiche di cui erano espressione, essi erano caratterizzati da un
punto in comune: tutti proponevano un regime di particolarità in
riferimento alle cave di marmo apuane, per le quali era previsto il
mantenimento per i comuni di Massa e Carrara delle normative
3 Eugenio Chiesa era deputato eletto a Carrara e Massa e la sua proposta cercava di dare una soluzione al problema del superamento della legislazione estense.
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estensi e delle successive notificazioni del 1846.
Pur essendo il dibattito sulla legge di unificazione mineraria
molto acceso, non si ebbe alcuna promulgazione fino al 14 aprile
1927, anno in cui fu varata la Legge numero 571, composta di un
solo articolo, nel quale si autorizzava il governo ad emanare norme
aventi carattere legislativo per disciplinare la ricerca e coltivazione
delle miniere del Regno, integrando, modificando e sopprimendo le
disposizioni preunitarie.
Per la disciplina delle cave in particolare, si dovette attendere il
R.D.L. n. 1443 del 29 luglio 1927. Esso prevedeva l’abrogazione di
tutte le leggi e decreti vigenti in materia mineraria, raggiungendo
quindi l’«unificazione legislativa nazionale, troppo a lungo ritardata in un settore strategico come quello delle miniere»4.
3.2 Le cave nel D.R.L. 29 luglio1927, n. 1443
La legislazione mineraria del 1927 evita di chiarire esplicitamente
quale fosse il sistema, tra quelli preunitari, al quale la nuova
disciplina nazionale aveva inteso uniformarsi; questo ha lasciato
aperti non pochi problemi interpretativi che subito dopo
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l’emanazione del D.R.L. 29 luglio 1927, n. 1443, dettero vita ad un acceso dibattito.
Lo studioso Annibale Gilardoni nel suo Trattato di diritto
minerario5 per primo si domandò se la legge delega n. 571/1927
autorizzasse il legislatore ad emanare una normativa per disciplinare
anche cave e torbiere in quanto la dizione testuale, utilizzata anche
nella relazione al disegno della delega n. 571/1927 e nel decreto
legislativo n. 1443/1927, si riferiva soltanto alla ricerca e
coltivazione delle miniere.
Negli anni seguenti è comunque prevalsa la tesi della perfetta
legittimità della normativa in relazione alla regolamentazione delle
cave, avvalorata anche dalla sentenza della Corte Costituzionale n.
20/1967. In quest’ultima, pur affermandosi la diversità fra le cave e le miniere, si sottolinea che l’art. 2 del R.D.L. 27 luglio 1927 n. 1443 riunisce i due distinti beni sotto la voce «lavorazioni minerarie»,
delle quali le cave costituiscono la seconda classe. Questa
unificazione trova per la Corte fondamento anche nella Legge delega
n. 571/1927, che autorizzava il governo ad emanare norme aventi ad
oggetto la coltivazione e lo sfruttamento delle miniere, volendosi
riferire anche alle cave e creando di fatto una normativa per
regolamentare entrambi i beni.
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Altro punto controverso della disciplina mineraria emanata nel
1927 è da riferirsi al regime di proprietà delle cave, del quale la
Legge n. 1443 si occupa all’art. 45.
In questo articolo è specificato che le cave e le torbiere sono
lasciate alla disponibilità del proprietario del fondo, che mantiene
questo diritto fintanto che esercita il lavoro di estrazione e
sfruttamento del suolo, ciò in quanto queste attività sono considerate
di interesse pubblico. Tale disposizione negli anni ha portato la
dottrina e la giurisprudenza a ritenere che il regime proprietario di
questi beni, introdotto dalla Legge di unificazione mineraria, si
inquadra in quello della proprietà privata delle cave, sebbene in parte
«condizionata» dalla tutela di interessi pubblici. Non sono tuttavia
mancate autorevoli tesi contrarie, come ad esempio quella di
Vincenzo Cerulli Irelli, il quale sostiene che le cave e le torbiere
sono sottoposte allo stesso regime delle miniere e quindi sono da
ritenersi beni pubblici a tutti gli effetti. Secondo lo studioso la
posizione delle cave è assimilabile a quella delle miniere che si
trovavano, in base al diritto previgente, nella disponibilità del
proprietario del fondo e che la Legge del 1927 aveva lasciato a
quest’ultimo in concessione perpetua.
Altri autori, come Berti e Bessone, si occuparono del problema
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sfruttamento dei minerali; essi ritenevano non essenziale la
questione della proprietà in quanto, indipendentemente dal regime
proprietario pubblico o privato dei fondi, lo Stato avrebbe dovuto
creare una normativa atta a controllare e regolamentare le attività di
coltivazione dei giacimenti, in grado cioè di operare più che una
pubblicizzazione dei fondi, una pubblicizzazione dell’impresa mineraria6.
L’avvocato e studioso Riccardo Caccin nella sua monografia Disciplina giuridica delle cave e torbiere approfondisce la questione relativa all’art. 45 della Legge mineraria e sostiene che le cave appartengono al proprietario del suolo, identifica queste ultime come
beni privati il cui sfruttamento è di interesse pubblico, sostenendo
che la loro disciplina deve essere redatta tenendo conto, non solo di
un interesse generico alla produzione di materiali ma anche facendo
riferimento all’interesse della collettività ad un razionale e ordinato processo produttivo, tenuto conto anche dell’impatto che questo ha
sulle norme urbanistiche, sull’ambiente, sul territorio ed il paesaggio7.
Altri studiosi, tra i quali Pietro La Rocca, sostengono invece che
non si possa parlare di proprietà pubblica delle cave che dovrebbero
6 F. Marchetti, Le Cave dal diritto romano alle leggi regionali, Carrara, 1995, p. 78. 7 F. Marchetti, Le Cave dal diritto romano alle leggi regionali, Carrara, 1995, p. 79.
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essere qualificate come beni privati e lasciate nella totale
disponibilità del proprietario che può così goderne pienamente
secondo le norme del diritto privato, inibendo quasi totalmente
l’intervento pubblico, al quale rimarrebbero sostanzialmente solo poteri di polizia. Il diritto di proprietà sarebbe comunque relativo, in
quanto caratterizzato dall’onere della coltivazione per garantire la funzione pubblica che caratterizza in ogni caso l’attività di sfruttamento e di estrazione.
In base all’articolo 826 c.c. si può definitivamente sostenere che le cave e le torbiere siano da considerarsi beni privati in quanto il
legislatore inserisce nel patrimonio pubblico solo quelle
espressamente sottratte al proprietario del fondo, questo articolo ci
porta però anche a considerare le cave come beni
«privati-condizionati» in quanto l’articolo 838 c.c. prevede che «se il proprietario abbandona la conservazione, la coltivazione o
l’esercizio di beni che interessano la produzione nazionale» lo Stato possa intervenire mediante l’istituto della espropriazione per pubblica utilità a fronte di una equa indennità, espropriazione
prevista anche dalla Legge urbanistica. L’articolo 45 comma 4 della
Legge mineraria nazionale sancisce che al proprietario, che ha
abbandonato la attività di escavazione, sia riconosciuto il rimborso
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estratto ma non è previsto indennizzo per la sottrazione del bene al
proprietario che non abbia manifestato la volontà di intraprenderla,
né indennizzo per il materiale non ancora estratto e per il diritto di
escavazione8.
3.3 La peculiarità dei bacini estrattivi di Massa e Carrara
Il D.R.L. del 29 luglio 1927 è fondato su una differenziazione dei
beni presenti nel sottosuolo italiano: le miniere sono comprese nei
beni, tassativamente elencati9, di proprietà statale e per esse viene previsto un apposito procedimento concessorio per i privati
escavatori; per le cave, invece, il concessionario viene individuato ex
lege nel proprietario del fondo, in quanto queste ultime sono considerate beni privati la cui escavazione, per la rilevanza
pubblicistica dei materiali estratti, è sottoposta ad autorizzazione10.
8 M. Vaccarella, La disciplina delle attività estrattive nell’amministrazione del
territorio, Torino, 2010, pp. 55-56.
9 Il legislatore del 1927 distingue il regime giuridico delle cave da quello delle miniere a seconda dei materiali, il marmo non viene ancora inserito in una delle due categorie pur restando assoggettato, per quanto riguarda quello apuano in particolare, ad un regime concessorio transitorio in attesa dell’adozione dei regolamenti da parte dei comuni di Massa e di Carrara. Cfr Maria Vaccarella, op. cit., Torino, 2010.
10 F. Francario, Le miniere, le cave e le torbiere in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, Milano, 2003 p. 1792.
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A Massa e Carrara il problema nacque quando il legislatore, sulle
basi della dicotomia su cui si fondava la Legge del 1927, dovette
includere i marmi in una di queste due classi. Essi infatti, non
sembravano appartenere a nessuna delle due categorie su cui si
basava il sistema estrattivo creato dalla normativa del 1927.
La situazione che il legislatore trovò in questi territori era in
effetti complicata, in quanto alcune cave erano di proprietà privata11, mentre altre risultavano di proprietà dei comuni di Carrara e di
Massa che le davano in concessione attraverso il sistema livellare,
caratterizzato da forti connotati pubblicistici12. Di fronte a tale situazione lo Stato preferì rimandare la disciplina dei marmi di
Massa e Carrara ad un regolamento che gli stessi comuni avrebbero
dovuto redigere nel termine di un anno dall’entrata in vigore della
Legge mineraria e sottoporre al vaglio del ministero competente.
In questo modo il legislatore creò di fatto, una situazione del tutto
peculiare, con la strana conseguenza che l’attività estrattiva dello stesso marmo, presente anche sull’altro versante delle montagne apuane (nella provincia di Lucca), venne invece regolamentato
secondo la normativa statale del 1927.
11 Si tratta dei beni estimati posseduti ab immemorabile, riconosciuti già dalla normativa estense del 1751.
12 F. Merusi, La disciplina degli agri marmiferi fra diritto e storia, in La disciplina
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L’art. 64 del R.D.L. n. 1443/1927, pertanto, escludeva espressamente dalla regolamentazione mineraria unitaria le cave dei
comuni di Massa e Carrara, disponendo che l’attività estrattiva di
questo territorio dovesse essere disciplinata da un regolamento ad
hoc che i due Comuni, entro un anno dall’entrata in vigore della legge mineraria stessa, avrebbero dovuto emanare.
La normativa unificatrice però non si limitava solo a questa
previsione: oltre ad escludere gli agri di queste zone dalla disciplina
nazionale e a stabilire per gli stessi un carattere normativo speciale,
sanciva, non specificando altrimenti, che le leggi preunitarie,
abrogate in tutto il resto del territorio nazionale, rimanessero vigenti
nei comuni di Massa e di Carrara anche nel periodo transitorio (di un
anno), durante il quale i regolamenti speciali avrebbero dovuto
essere redatti13.
In questo modo Massa e Carrara si caratterizzarono per la loro
13 Il comune di Carrara emanò il proprio regolamento nel 1995 con più di 50 anni di ritardo rispetto al termine indicato dalla legge. Fu proprio in questo contesto che assunse rilievo la valutazione della natura del termine previsto nella legge mineraria analizzata fino a quel momento soltanto da un punto di vista teorico. La questione riguardava se considerare il termine di un anno acceleratorio o perentorio. Non solo l’evoluzione dei fatti porta a considerare necessariamente acceleratorio il termine annuale ma anche il profilo giuridico giustifica tale interpretazione in quanto il legislatore non aveva espressamente disposto alcuna sanzione né decadenza per il mancato esercizio del potere regolamentare riconosciuto ai due comuni. Cfr. V. Giomi, Considerazioni e profili critici
sulla specialità del regime giuridico degli agri marmiferi di Carrara e Massa, in La disciplina degliAgri Marmiferi fra diritto e storia, Torino, 2007, p. 164).
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esclusione dall’applicazione del regime minerario nazionale, esclusione di fatto senza alcun limite temporale, in quanto nelle
more dell’emanazione dei regolamenti, sarebbero rimaste vigenti le norme preunitarie.
Quest’ultima particolarità si può dedurre dal contesto normativo stesso. Infatti, se il legislatore avesse voluto applicare la nuova
normativa anche nei due comuni apuani durante il periodo di
formazione dei regolamenti, avrebbe dovuto espressamente
prevederlo14. Ad avvalorare questa interpretazione oltre alla sentenza della Corte di Cassazione n. 1679 del 24 maggio 1954 nella quale si
ritiene che la Legge del 1927 «intese mantenere in vigore il sistema
estense fino a che non si fosse provveduto al coordinamento di esso
con quello nuovo e generale»15 tramite i regolamenti previsti, concorrono anche i progetti di legge che hanno preceduto la
normativa del 1927, nei quali è sempre stato affermato, in maniera
più o meno esplicita, il perdurare delle norme estensi16.
Pertanto le Leggi estensi furono l’unica disciplina preunitaria a
rimanere applicata dopo l’entrata in vigore del Regio Decreto, in
14 V. Giomi, Op. cit., in La disciplina degli agri marmiferi fra diritto e storia, Torino, 2007, p. 152.
15 C. Piccioli, in Carrara Marmi, n.31 , quarto trimestre 1987.
16 F. Marchetti, Le cave: dal diritto romano alle leggi regionali, Carrara, 1995, pp. 48 e seg.
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evidente contrasto con il fine dello stesso, che era quello di creare
un’unica disciplina giuridica per l’attività mineraria su tutto il territorio nazionale.
La ratio della norma infatti era quella di comporre le differenze
delle legislazioni vigenti in materia negli stati preunitari,
accentrando in ambito statale (poi divenuto regionale), la disciplina
mineraria del nostro Paese, rafforzando così l’autorità dello Stato e l’ingerenza del potere politico nel fenomeno dell’industria del commercio minerario17.
I regolamenti previsti dalla normativa nazionale mineraria per i
comuni di Massa e Carrara per lungo tempo però non vennero alla
luce. Ciò non tanto perché i due Comuni, sopratutto Carrara, dove
l’industria del marmo era già sicuramente più sviluppata ed importante, non volessero emanarli, ma perché di fatto non si riuscì a
trovare mai un accordo tra Comuni e Ministero competente18.
Il ministero ed il comune «avevano idee diverse sulla normativa
che, ancorché speciale, doveva in qualche modo inserirsi nella logica
della Legge mineraria»19.
17 V. Giomi, op. cit., in La disciplina degli agri marmiferi fra diritto e storia, Torino, 2007, p.153-154.
18 F. Merusi, op. cit., in La disciplina degli agri marmiferi fra diritto e storia, Torino, 2007, p. 195.
19 F. Merusi, op. cit., in La disciplina degli agri marmiferi fra diritto e storia, Torino, 2007, p. 196.
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La questione riguardava la necessità di conciliare la normativa
estense con la legge mineraria che differenziava il regime delle cave,
(ritenute beni privati di interesse pubblico e soggette a
autorizzazione) da quello delle miniere di proprietà statale (i cui
giacimenti, tassativamente elencati dal Regio Decreto, potevano
essere sfruttati dai privati a seguito di provvedimento concessorio).
Pertanto la prima cosa da fare era inquadrare gli agri marmiferi
apuani in una delle due categorie indicate dalla Legge mineraria
nazionale, «adattare agli agri marmiferi, sia pure in maniera
speciale, la disciplina delle miniere o delle cave dipendeva, con ogni evidenza, dalla disciplina proprietaria degli agri marmiferi
appartenenti ai due comuni, proprietà loro riconosciuta dalla
normativa estense vigente»20.
L’interpretazione proprietaria delle cave, secondo Merusi, determinava l’applicazione di una disciplina normativa anziché
dell’altra. Egli individua tre possibili interpretazioni del regime proprietario degli agri marmiferi apuani: la prima considera la
proprietà delle cave di tipo ordinario, dello stesso tipo di quella
riconosciuta ai privati dalla legge del 1751; la seconda
interpretazione riconosce ai due comuni una proprietà di tipo
20 F. Merusi, op. cit, in La disciplina degli agri marmiferi fra diritto e storia, Torino, 2007, p. 196.
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collettivo cioè esercitata non come enti pubblici, ma come soggetti
rappresentanti le comunità insistenti nei due territori; infine, la terza,
comunemente accolta, stabilisce che la proprietà dei due comuni sia
di tipo demaniale e quindi rientra nei beni patrimoniali indisponibili
delle amministrazioni locali.
Dall’analisi di tali interpretazioni, il Merusi, rileva che la prima sembra essere in contrasto con le leggi estensi che, soprattutto con le
notificazioni del 1846, dettero un’impronta pubblicistica alla disciplina, incompatibile con un ipotetico regime di proprietà privata
dei due Comuni.
Anche la seconda interpretazione desta le perplessità dello
studioso in quanto un regime di proprietà condivisa si potrebbe
ipotizzare solo per il Comune di Carrara21 che ereditò le competenze delle antiche Vicinanze, definitivamente soppresse nel 1812, nelle
quali si esercitavano diritti in maniera collettiva fra gli abitanti anche
riguardo all’escavazione del marmo. Le proprietà collettive e il loro esercizio però non sono mai state codificate e si costituiscono come
una sorta di diritto comune residuale che emerge talvolta in
giurisprudenza.
Come è noto il diritto comune è infatti residuale ed integrativo del
diritto positivo. Questo comporta che, per stabilire se applicare agli
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agri marmiferi di Massa e Carrara la disciplina delle miniere o quella
delle cave, l’unica fonte normativa decisiva sia lo stesso diritto positivo, dal momento che quello comune ha una valenza solo
residuale.
La terza interpretazione, asseverata dalla dottrina maggioritaria,
dalla giurisprudenza della Cassazione e dalla Corte Costituzionale,
secondo la quale gli agri marmiferi appartengono al demanio
indisponibile dei comuni apuani, è quella più convincente; ne deriva,
secondo Merusi, che il regime proprietario di questi beni risulta
necessariamente quello delle miniere e non quello delle cave.
Pertanto, trattandosi di beni indisponibili, sottoposti agli stessi
provvedimenti di concessione amministrativa delle miniere, sono
soggetti alla stessa regolamentazione di queste ultime. La
conseguenza di quanto sopra descritto e cioè che le cave di Massa e
di Carrara sono da classificare nella categoria delle miniere
comporta conseguenze di non poco conto: la prima è che gli agri
marmiferi non sarebbero rientrati, almeno fino alla riforma del titolo
V della costituzione del 2001, né nella competenza legislativa, né in
quella amministrativa della Regione Toscana con l’importante
conseguenza che la Legge Regionale n. 104 del 5 dicembre 1995,
che regolamenta gli agri marmiferi di Massa e Carrara e l’articolo 62 del D. P. R. n. 616 del 1977, con il quale si attribuiva alla Regione
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Toscana il compito di approvare il regolamento dei Comuni di
Massa e di Carrara sarebbero costituzionalmente illegittimi.
Con la riforma dell’articolo 117 della Costituzione è stata di fatto sanata la presunta illegittimità costituzionale delle norme citate in
quanto anche le miniere sono rientrate nella competenza legislativa
esclusiva delle regioni22.
22 F. Merusi, op. cit, in La disciplina degli agri marmiferi fra diritto e storia, Torino, 2007, p.196 ss.