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LA RESPONSABILITÀ NELLA PRESTAZIONE D OPERA PROFESSIONALE

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L L A A R RE E SP S P ON O N SA S AB B IL I LI IT À D DE EL L P P RE R E ST S TA AT TO O RE R E D D O O P P E E R R A A

P P . . D D P P

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Indice

1 LA RESPONSABILITÀ NELLA PRESTAZIONE D’OPERA PROFESSIONALE --- 3 2 IL PRESTATORE D’OPERA NELL’ART. 2236 C.C. --- 8 BIBLIOGRAFIA --- 15

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1 La responsabilità nella prestazione d’opera professionale

Le professioni intellettuali sono attività caratterizzate dalla cultura e dall’intelligenza del soggetto che la svolge ed eseguite nel rispetto della piena autonomia, con ampi poteri discrezionali affidati al professionista stesso. Il contratto d’opera intellettuale è un contratto a prestazioni corrispettive in quanto il professionista si obbliga ad eseguire una prestazione di carattere intellettuale a favore del cliente, in cambio del compenso pattuito o stabilito in base alle tariffe professionali, ipotesi quest’ultima, come detto, residuale. Il fatto che si tratti di un’obbligazione di mezzi e non di risultato, comporta che il compenso spettante al professionista è svincolato dalla realizzazione degli obiettivi fissati dal cliente. A tal proposito si deve ricordare che il carattere intellettuale dell’opera prestata e la conseguente discrezionalità concessa al professionista, gli permette di procedere liberamente nella scelta dei modi di attuazione dell’incarico ricevuto applicando quelli che ritiene più adeguati a raggiungere i risultati desiderati dal cliente. È comunque ammesso che le parti condizionino il diritto all’onorario del professionista, o di una sua parte, al raggiungimento di un risultato positivo per il cliente. L’inadempimento del professionista non deriva dal mancato raggiungimento del risultato posto come obiettivo dal cliente, ma dalla violazione dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale e della diligenza prevista dall’art. 1176, comma 2 c.c. che considera la natura dell’attività esercitata e si riferisce dunque alla diligenza media che il professionista medio deve avere nello svolgimento di un incarico.

Una limitazione della responsabilità del professionista è prevista dall’art. 2236 c.c., il quale prevede che nel caso in cui il professionista sia chiamato a risolvere problemi tecnici di particolare difficoltà, questo risponde solo in caso di dolo o di colpa grave. La conseguenza di queste

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considerazioni è che mentre nel contratto d’opera in generale il rischio ricade sul prestatore d’opera, nel caso di prestazioni effettuate dal professionista intellettuale, questo grava sul cliente.

La libertà di scelta del professionista è un’altra peculiarità della professione intellettuale che si manifesta con la facoltà di assumere o meno un incarico, la possibilità di scegliere le modalità reputate più adatte a realizzare l’oggetto del contratto, l’assenza di vincoli di subordinazione rispetto al cliente.

Altro aspetto che caratterizza questa professione è la discrezionalità con cui opera il professionista nello svolgimento del suo incarico in relazione al comportamento che deve tenere e ai mezzi tecnici che deve adottare, con l’obiettivo di raggiungere i risultati illustrati dal cliente.

La responsabilità contrattuale del professionista intellettuale deriva dall’inadempimento delle obbligazioni previste dal contratto e definite dall’art. 2230 c.c., che indica come oggetto del contratto le prestazioni di opera intellettuale. Considerata la particolare natura dell’obbligazione assunta dal professionista, e cioè il fatto di identificarla come obbligazione di mezzi e non di risultato, l’inadempimento non può essere fatto discendere dal mancato raggiungimento dell’obiettivo posto dal cliente, ma deve essere valutato in base al dovere di diligenza, che prescinde dal criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia e si adegua alla natura dell’attività esercitata. Il contenuto di tale diligenza è variabile e deve essere identificato in relazione alla singola fattispecie, rapportando la condotta tenuta dal debitore alla natura e alla specie dell’incarico professionale e alle circostanze concrete in cui la prestazione deve svolgersi.

Nell’ipotesi in cui il professionista dimostri di aver concluso l’incarico affidatogli, spetta al cliente l’onere di provare la colpevole inosservanza, o la violazione da parte del professionista, delle regole tecniche in uso nello svolgimento dell’attività che gli è stata commissionata, in relazione agli elementi dai quali si deduce il vizio o l’insufficienza dell’opera svolta.

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L’inadempimento

La responsabilità contrattuale del professionista nasce a seguito del suo inadempimento agli obblighi connessi all’attività esercitata: in linea generale costituisce inadempimento la mancata, ritardata o inesatta esecuzione della prestazione professionale richiesta. La responsabilità del prestatore d’opera intellettuale ha origini antiche, millenarie addirittura, ma fino ad alcuni decenni fa la casistica riguardante azioni penali o civili per responsabilità professionale era piuttosto rara, in quanto si mirava a difendere il “mito” della supremazia dell’autorità culturale dell’uomo di scienza.

Di tale orientamento sono evidenti esempi sia il codice civile napoleonico che quello italiano del 1865, ove, come si è detto, il rapporto professionale era ricondotto allo schema del mandato, con tutti gli obblighi conseguenti, e la disciplina relativa alla responsabilità del professionista era volta a garantire alle professioni intellettuali la loro tipica origine liberale, indipendente e discrezionale.

Il codice civile italiano del 1942 ha voluto disciplinare la materia con maggior rigore, non solo con la definizione del contratto d’opera intellettuale, ma anche con la precisa regolamentazione della responsabilità del professionista, corredata da disposizioni specifiche, quali, tra tutte, l’art.

2236 c.c. La responsabilità è connessa, sul piano economico, all’eventuale danno subito dal cliente, che si identifica nel pregiudizio causato dall’errato adempimento o dall’inadempimento del professionista.

L’inadempimento del professionista non può esser fatto discendere semplicemente dalla mancata realizzazione del risultato al quale mirava il cliente, anche se è proprio del mancato raggiungimento di un risultato che scaturisce il processo a catena che può sfociare nell’individuazione di un’eventuale responsabilità per inadempimento del professionista.

Per pervenire ad una possibile responsabilità, dunque, bisognerà partire dal mancato raggiungimento di un risultato, che tuttavia, secondo la miglior dottrina, va valutato alla stregua del dovere di diligenza, che prescinde da quella generale del buon padre di famiglia e si adegua

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all’attività esercitata10; tale impostazione ha ricevuto ampio riconoscimento nella giurisprudenza della Suprema Corte che con più sentenze di medesimo tenore ha stabilito che «l’inadempimento del professionista non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile cui mira il cliente, ma soltanto dalla violazione del dovere di diligenza adeguato alla natura dell’attività esercitata, ragion per cui l’affermazione della sua responsabilità implica l’indagine - positivamente svolta sulla scorta degli elementi di prova che il cliente ha l’onere di fornire - circa il sicuro e chiaro fondamento dell’azione che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata e, in definitiva, la certezza morale che gli effetti di una diversa sua attività sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente medesimo».

Si prenda, ad esempio, il caso del dottore commercialista che riceve l’incarico di provvedere anticipatamente alla stesura di un piano pluriennale, che il cliente deve presentare per ottenere un finanziamento presso un istituto di credito; se il finanziamento in questione non viene concesso, il professionista non potrà essere considerato responsabile se il budget è stato correttamente eseguito sulle informazioni ricevute dal cliente. Del resto, con riferimento alle prestazioni professionali più facilmente inquadrabili come obbligazioni di mezzo, il comportamento negligente del dottore commercialista può perfezionare di per sé un presupposto di inadempimento, indipendentemente dalla mancanza di risultato e prima che essa si manifesti.

D’altro canto, non è detto che la negligenza sfoci necessariamente in un danno, come ad esempio nel caso del dottore commercialista che predispone un ricorso contro un avviso d’accertamento, e vince il ricorso disertando l’udienza dinnanzi alla Commissione tributaria: in questa ipotesi il comportamento negligente del professionista non origina alcuna responsabilità, non essendosi verificato alcun danno per il cliente.

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Solo con il ricorso a standard generali, quali la diligenza, si riuscirà ad individuare la linea di condotta del professionista e a determinare i presupposti in presenza dei quali si può configurare l’adempimento dell’obbligazione intellettuale.

Al fine di valutare correttamente l’adempimento del professionista, si deve altresì considerare che egli è tenuto ad informare il cliente sui rischi derivanti dall’attività che andrà a svolgere. Si considerano come fornite anche tutte le informazioni fornite nella fase precontrattuale e quelle contenute nella corrispondenza scambiata prima dell’ottenimento dell’incarico.

Si deve inoltre ricordare che, ai fini della determinazione della responsabilità contrattuale del professionista, non basta provare l’esistenza di un evento dannoso, ma si deve provare anche che questo è la conseguenza dell’inadempimento del contratto d’opera e che tale danno non si sarebbe realizzato se il professionista avesse eseguito in modo corretto l’obbligazione assunta.

L’onere di dimostrare l’inadeguatezza della prestazione professionale e l’esistenza del rapporto di causalità tra il danno e l’inadempimento del prestatore d’opera intellettuale è a carico del cliente che agisce per il risarcimento mentre al professionista spetta dimostrare che era impossibile eseguire correttamente la prestazione commissionata per cause a lui non imputabili. In relazione al fatto che la prestazione d’opera intellettuale è una prestazione di mezzi e non di risultato, al fine di dimostrare la responsabilità del professionista, non basta l’indicazione del mancato raggiungimento dello scopo desiderato dal cliente e quindi l’esistenza di un danno, ma il committente deve anche provare che il danno subito è la conseguenza diretta e immediata dell’inadempimento del professionista. La valutazione da compiere ai fini dell’accertamento del danno sofferto deve considerare il pregiudizio causato al cliente in relazione al comportamento posto in essere dal professionista. Ai fini di una corretta stima deve essere opportunamente apprezzata anche la perdita di opportunità subita dal cliente in relazione all’opera prestata dal professionista.

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2 Il prestatore d’opera nell’art. 2236 c.c.

L’art. 2236 c.c. prescrive che se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave. La limitazione della responsabilità, ad esempio, si ha anche quando la prestazione richiesta al professionista non è ancora stata adeguatamente studiata dalla scienza o dibattuta nei convegni organizzati dalla sua categoria di professionisti oppure le tecniche disponibili comportano la sopportazione di rischi equiparabili in capo al cliente.

È molto difficile tentare di indicare, anche solo nei punti essenziali, i principali problemi giuridici connessi con l’esercizio delle professioni intellettuali al fine di delimitare gli odierni confini della responsabilità professionale. La materia è di per sé complessa, in continua evoluzione, e con essa il cammino della giurisprudenza, sicché i criteri fissati in anni passati oggi non sono più validi. D’altra parte, da un lato i cambiamenti della nostra società verso forme di attività sempre più sofisticate impongono ai professionisti un continuo aggiornamento. Dall’altro, il cliente per così dire “medio” che si rivolge ad un professionista è oggi ben più avveduto di quanto fosse trenta o cinquant’anni fa, più esigente e maggiormente in grado di controllare l’operato del tecnico del quale chiede le prestazioni.

Lo svolgimento di una professione intellettuale si caratterizza, nel sistema, per numerose peculiarità, è comunque una professione particolare, protetta, nella quale l’aspetto privatistico contrattuale non è l’unico, proprio perché tale attività trascende l’interesse del singolo e riguarda l’intera collettività. Essa, pur rientrando nella generale categoria delle obbligazioni c.d. “di fare”, è regolata autonomamente nel capo II del titolo III del libro V del codice civile. Si tratta certamente di lavoro autonomo (cui è intitolato, appunto, il citato titolo III), ma di un lavoro autonomo che è

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una certa dose di autonomia, maggiore o minore, è un dato essenziale che si riflette nella disciplina positivamente prevista.

Ciò premesso in ordine alla fase che propriamente si distingue da quella contrattuale vera e propria, va detto che la responsabilità del professionista intellettuale è considerata dal nostro ordinamento come tipicamente contrattuale.

Il professionista è tenuto nei confronti del proprio cliente all’esatto adempimento dell’obbligazione contrattualmente assunta, come enuncia l’art. 2230 c.c. Si tratta di un’obbligazione particolare per la quale l’art. 1176 c.c. pone la regola della diligenza qualificata.

Mentre nel primo comma, infatti, si afferma genericamente che nell’adempimento delle obbligazioni il debitore «deve usare la diligenza del buon padre di famiglia», nel secondo comma si dice che nelle obbligazioni «inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata». Al professionista è richiesta la diligentia diligentissimi. Può convenirsi con chi ha sostenuto che il secondo comma dell’art. 1176 c.c. è un’esplicitazione del primo, nel senso che il dovere di attenzione si rapporta sempre con quello

“medio” della categoria di appartenenza, dovendosi intendere tale diligenza come buona, sebbene non eccezionale, ossia come diligenza qualificata. In tal modo, peraltro, si determina un sostanziale aggravamento di tale onere nei confronti del professionista rispetto al debitore ordinario, poiché al primo si richiede il possesso di nozioni tecniche e di doti di accuratezza, prudenza e precisione che sono peculiari di una determinata professione intellettuale.

Nella pratica la giurisprudenza ammette senza problemi che l’obbligo di diligenza venga valutato diversamente a seconda delle varie professioni e, in ciascun ambito, in relazione alla complessità del caso concreto. Ciò che non è pensabile è, da un lato, che al professionista intellettuale si richieda un grado diligenza minore di quello del debitore generico e, dall’altro, che

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egli risponda a titolo di responsabilità oggettiva, perché ciò andrebbe a collidere con quel margine irrinunciabile di autonomia che è connaturato col carattere della professione intellettuale.

La fattispecie di responsabilità civile di cui ci occupiamo è quella connessa all’esercizio di una professione intellettuale (art. 2236 del c.c.). Appare quindi opportuna una preventiva ricognizione della nozione di professione intellettuale, la cui difficile elaborazione richiede l’analisi della natura, della fonte e del contenuto dell’attività del prestatore d’opera intellettuale in genere ed è resa ancor più complessa dalla vastità ed eterogeneità della tipologia di prestazioni che costituiscono il possibile oggetto di un contratto d’opera.

Le professioni intellettuali sono disciplinate in maniera omogenea dal codice civile, ma nella pratica reale sono molto diverse: basti raffrontare ad esempio le varie specializzazioni in campo sanitario, le professioni di avvocato, notaio, commercialista, nonché quelle del settore delle costruzioni, come gli ingegneri ed i geometri. Come appare evidente vi sono professioni che possono avere caratteristiche più vicine al contratto d’opera e professioni che se ne discostano in maniera decisa. Il Codice Civile dedica un Capo (il II del Libro V, Titolo III) alla disciplina delle

“professioni intellettuali” e del “contratto di prestazione d’opera intellettuale”

Partendo dalla disposizione generale di cui all’art. 2222 c.c. è possibile enucleare gli aspetti essenziali che qualificano il contratto d’opera intellettuale come quel contratto in forza del quale, un soggetto: il professionista intellettuale, assume l’obbligo, nei confronti di un altro soggetto: il cliente, di eseguire, contro onorario o compenso pattuito, o in mancanza stabilito dalle tariffe professionali, una prestazione intellettuale, la quale consiste in un risultato obiettivo, in un comportamento tecnico o in un servizio. È stato rilevato come siano assolutamente incerti i confini delle fattispecie concretamente riconducibili alle c.d. prestazioni d’opera intellettuale, cui si applica la disciplina di cui all’art. 2230 c.c., dal momento che il legislatore del nostro codice civile utilizza

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anche che il legislatore di norma adopera il termine professioni sganciato dall’attributo di intellettuale per designare indipendentemente le attività manuali, quelle intellettuali o, ancora, quelle imprenditoriali. La dottrina più tradizionale considera il contratto d’opera intellettuale come una species del tipo generale “lavoro autonomo”, che importa una professionalità intesa come sistematicità-continuità dell’esercizio della professione; tale impostazione trova conferma nell’analisi degli elementi strutturali del contratto, come pure nella precisa sistemazione del codice.

In letteratura molti Autori, partono dalla classica impostazione che distingue, nell’ambito della disciplina dettata dal codice civile in materia di lavoro autonomo, il contratto d’opera e l’esercizio delle professioni intellettuali.

Tuttavia alle professioni intellettuali sono state costantemente riconosciute caratteristiche peculiari con connotazioni così specifiche da farne una specie che, pur incardinandosi nell’unico contesto del lavoro autonomo, ha una valenza del tutto indipendente.

In particolare, alla professione intellettuale, quale disciplinata dal citato Capo II, possono ricondursi quelle attività di carattere intellettuale il cui elemento qualificante consiste nell’apporto offerto dall’intelligenza e dalla cultura del professionista medesimo, e che al contempo presentano alcuni ulteriori elementi distintivi: a) autonomia di azione nella prestazione dell’opera professionale e discrezionalità in ordine alle modalità di estrinsecazione dell’attività stessa; b) carattere personale della prestazione, con riferimento al rapporto fiduciario che si instaura tra il professionista e il suo cliente, avendo quest’ultimo diritto che il professionista presti personalmente la propria opera; c) inibizione dell’esercizio della professione a quanti non possiedano determinati requisiti di competenza, attestati dall’iscrizione in appositi albi o elenchi; d) correlativa soggezione del professionista alla potestà disciplinare del proprio ordine professionale; e) particolari modalità di definizione del compenso per l’attività professionale, sottratto alla determinazione secondo criteri

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puramente mercantili (dovendo risultare tale per cui la sua misura sia «in ogni caso (…) adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione»).

Negli ultimi anni il campo delle libere professioni ha subito un particolare sviluppo, dovuto anche alla terziarizzazione del mercato: sono comparse «un elevato numero di forme professionali incorporanti abilità specifiche di nuovo tipo» e c’è stata un’evoluzione delle vecchie professioni, così che «il mondo dei liberi professionisti ha visto, nell’evolversi delle vicende storiche che lo hanno riguardato, oscillanti momenti nel farsi della professionalizzazione. Le libere professioni sono sempre più ormai occupazioni orientate al servizio, nelle quali si applica un corpo sistematico di conoscenze a problemi strettamente connessi con valori centrali per la sopravvivenza e l’equilibrio della società nel suo insieme.

Le professioni intellettuali non sono soltanto quelle cosiddette protette, ossia quelle per il cui esercizio è richiesta l’iscrizione ad un determinato albo; vi sono anche attività che non avendo questa obbligatorietà costituiscono una categoria del settore più ampio delle professioni intellettuali.

Le c.d. professioni protette, infatti, sono soltanto una parte, anche se probabilmente la più importante, delle professioni intellettuali. Tale assunto trova conferma nel tenore letterale dell’art.

2229, comma 1 c.c. , il quale nel prevedere che «la legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi» conferma che vi possono essere professioni intellettuali che non sono “controllate”; allo stesso modo, l’art. 2231, comma 1 c.c., nel disporre che «quando l’esercizio di un’attività professionale è condizionato all’iscrizione in un albo o elenco, la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il pagamento della retribuzione» è ancor più chiaro nel confermare che esistono professioni intellettuali senza albi, né elenchi, a cui, tuttavia, si applicano le norme sul contratto d’opera intellettuale16. Negli ultimi anni si va sempre più accentuando l’inclinazione ad introdurre il sistema dell’obbligatoria

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protette, nel tentativo di tutelare la posizione di coloro che si avvalgono dell’opera del professionista.

L’iscrizione ad un albo, infatti, costituisce una ponderata garanzia per chi si rivolga al professionista, poiché presuppone l’accertamento anteriore del possesso dei specifici requisiti tecnico-professionali per l’esercizio della professione. In direzione opposta si muove invece la disciplina comunitaria che, mediante il processo di liberalizzazione delle professioni, insieme ad un sistema generale di riconoscimento dei titoli professionali, inevitabilmente si scontra con alcune delle limitazioni che l’ordinamento interno pone alla libera prestazione dell’attività professionale.

Le professioni che richiedono l’inquadramento in ordini o comunque l’iscrizione in un registro hanno prestazioni tipizzate, ma non tutte le attività riferibili a detti soggetti ricadono nelle mansioni per le quali si richiede detta iscrizione, in quanto essi possono effettuare operazioni anche complementari, che possono essere compiute anche da chi non ha la citata iscrizione.

In altre parole, nell’ambito delle professioni protette, è possibile distinguere fra prestazioni esclusive o tipiche, riservate agli iscritti all’apposito albo, e prestazioni non esclusive o atipiche, che sono normalmente eseguite da iscritti all’albo, ma che possono essere fornite da chiunque, anche se non iscritto nell’albo professionale. Pertanto, l’iscrizione ad un albo non è neppure condizione sufficiente ad inquadrare le attività assoggettabili alla disciplina delle professioni intellettuali, in quanto l’iscrizione ad albi, registri o ruoli è un fatto assai diffuso che riguarda attività diverse tra loro, difficilmente raggruppabili in unica categoria. Ad esempio, nell’esercizio della professione di avvocato, l’appartenenza all’Ordine specifico è richiesta soltanto per l’attività propriamente giudiziale, mentre per quella stragiudiziale detta condizione non sussiste.

Il caso della professione di dottore commercialista, tuttavia, è senza dubbio ancor più significativo; infatti, tale professione, sebbene protetta, non pare annoverare alcuna prestazione esclusiva. Si esclude, infatti, che costituiscano attività riservata sia la tenuta di registri contabili e la

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predisposizione della denuncia dei redditi, sia la prestazione di consulenza contabile e fiscale. Allo stesso modo, con riferimento alla redazione di bilanci societari, si esclude che tale attività rientri

«nel novero delle attività protette attribuite in via esclusiva o riservata alle figure professionali dei dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali, come è dato evincere, tra l’altro, dal chiaro dettato degli artt. 2380 e 2423 c.c.». Con riguardo all’attività di intermediazione bancaria, si afferma che anche se questa prestazione può essere espletata da ragionieri e dottori commercialisti, essa non è riservata in via esclusiva ad una particolare categoria di professionisti, soggetti all’iscrizione in albo, potendo essere espletata da qualsiasi persona. Tali principi sono affermati anche per l’attività di consulenza concernente l’organizzazione aziendale, i bilanci di previsione, i rapporti sindacali, con la conseguenza che siffatte prestazioni possono essere svolte anche da soggetti non iscritti all’albo professionale25; proprio nel settore della consulenza alle imprese, si verifica una forte interferenza tra l’attività di professionisti tradizionali, quali i dottori commercialisti, e l’attività di singoli consulenti (quali ex dirigenti d’impresa, docenti, esperti di un settore o di un’area funzionale), considerati a tutti gli effetti professionisti intellettuali, anche se non appartenenti ad alcuna delle c.d. professioni protette.

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Bibliografia

 DOMENICO POSCA, “Diritto e Management del commercialista”, Ad Maiora, 2017.

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