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Francesco Cossu - Sistemi di amministrazione. Il modello tradizionale: gli amministratori

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Indice

1. FUNZIONI DELL’ORGANO DI AMMINISTRAZIONE ... 3

2. GLI AMMINISTRATORI ... 8

3. IL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE E GLI AMMINISTRATORI DELEGATI ... 12

4. IL CONFLITTO DI INTERESSI E LA RESPONSABILITÀ ... 14

5. LE NOVITÀ INTRODOTTE DALLA RIFORMA DEL RISPARMIO E IL DANNO DERIVANTE DALLA “MALA GESTIO” ... 20

BIBLIOGRAFIA ... 23

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1. Funzioni dell’organo di amministrazione

La società per azioni si caratterizza per la necessaria previsione di un’organizzazione corporativa basata sulla presenza di una pluralità di organi sociali, investiti per legge delle seguenti funzioni:

• funzione deliberativa o decisionale, affidata, di regola, all’assemblea dei soci e costituisce espressione della volontà dell’ente riguardo alle decisioni più importanti della vita sociale.

L’assemblea dei soci esercita le competenze che le sono attribuite dalla legge (artt. 2364- 2365c.c.) e adotta le proprie decisioni con metodo collegiale ed in virtù il principio maggioritario;

• funzione amministrativa, affidata all’organo amministrativo e consiste nell’attività di gestione e rappresentanza della società.

• funzione di controllo sull’attività di gestione dell’organo amministrativo.

Per quanto riguarda l’amministrazione ed il controllo della società, il codice civile del 1942 prevedeva un unico sistema organizzativo (c.d. tradizionale) basato sulla presenza di due organi di nomina assembleare: l’organo amministrativo (amministratore unico o consiglio di amministrazione) e il collegio sindacale (anche con funzioni di controllo contabile).

Il sistema tradizionale, destinato a trovare applicazione in difetto di una previsione statutaria, è stato affiancato da due modelli organizzativi alternativi introdotti dalla riforma del diritto societario:

• il c.d. sistema dualistico (art. 2409 octies-2409 quinquiesdecies c.c.), di derivazione teutonica, in cui l’attività di gestione e di controllo sono esercitate rispettivamente dal consiglio di sorveglianza (nominato dall’assemblea dei soci) e da un consiglio di gestione (nominato dal consiglio di sorveglianza). Tale modello organizzativo si caratterizza per il conferimento all’organo di controllo (ovvero il consiglio di sorveglianza) di competenze decisionali (ad es. approvazione del bilancio) che nel sistema tradizionale sono attribuite in via esclusiva all’assemblea dei soci.

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• Il c.d. sistema monistico (art. 2409 sexiesdecies – 2409 noviesdecies c.c.) di derivazione anglosassone, in cui l’attività di gestione e di controllo sono affidate rispettivamente al consiglio di amministrazione (nominato dall’assemblea) e a un comitato di controllo sulla gestione costituito da alcuni membri del consiglio di amministrazione stesso, dotati di particolari requisiti di indipendenza e professionale.

In tutti e tre i modelli organizzativi, il controllo contabile, in passato esercitato dal collegio sindacale, è ora affidato ad un organo esterno alla società (revisore o società di revisione).

Le funzioni e cenni storici

La norma dedicata dalla riforma del 2003 al sistema latino è di gran lunga quella preponderante (v. sub art. 2380).

Una rilevante innovazione è costituita dall'esaltazione del momento gestionale, un principio di governance, contenuto nell'art. 2380 bis, 1° co., secondo il quale la gestione della società spetta esclusivamente agli amministratori: ciò significa che all'assemblea compete oltre alla funzione di indirizzo della politica sociale, solo il potere che si concreta nella concessione della fiducia con la nomina e con l'approvazione annuale del bilancio, nonché il potere di revoca ad libitum, o, comunque, nella facoltà della non riconferma nella carica.

In ogni caso, l'assemblea non può in un’ottica totalizzante interferire nell'azione di governo se non nella forma radicale della revoca della fiducia.

Il codice del 1942, per contro, non definiva in via generale le funzioni degli amministratori, ma indicava specifici obblighi in relazione a singole vicende della società e si limitava ad enunciare il principio secondo il quale gli amministratori erano tenuti ad adempiere gli obblighi ad essi imposti dalla legge e dall'atto costitutivo, con la diligenza del mandatario a norma dell'art.

2392, nella sua vecchia formulazione.

Il fatto che le norme dedicate agli amministratori, risalenti ad oltre un cinquantennio, siano potute sopravvivere sino ad oggi con ritocchi relativamente più contenuti rispetto alle altre parti della disciplina della società per azioni, è probabilmente da attribuirsi al carattere non poco

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innovativo che le disposizioni avevano rispetto alla codificazione commercialistica precedente. La disciplina dettata dal codice del 1942 si contraddistingueva, infatti, per alcune importanti caratteristiche. La prima e più evidente era l'esplicita connotazione degli amministratori come organo sociale, che superava la precedente concezione degli amministratori come semplici mandatari dei soci.

La disciplina in parola si contraddistingueva per il fatto di riconoscere un fondamento legittimo - quindi originario e non derivato dal mandato assembleare - alle funzioni degli amministratori, dal quale principio discendeva il carattere esclusivo delle funzioni stesse e della non avocabilità da parte dell'assemblea (esempio classico è la redazione del progetto di bilancio ed, in generale, la gestione, fatta salva, ovviamente, l'attenuazione disposta dall'art. 2364, n. 4, nonché da ultimo la materia disciplinata dall'art. 104 t.u.f.).

Infine, della disciplina del codice del 1942 deve essere ricordata una certa duttilità, suscettibile di prestarsi ad una buona flessibilità interpretativa.

La circostanza, comunque, che il potere degli amministratori non trovasse un espresso riconoscimento da parte del legislatore del 1942 aveva sollevato un dibattuto e complesso problema interpretativo incentrato soprattutto sulla fonte legale di attribuzione di tale potere, sulla sua estensione e sul grado di autonomia che avrebbe dovuto accompagnare il suo esercizio.

La soluzione consisteva nel delineare un modello amministrativo legale che attuava una netta separazione delle competenze ed investiva gli amministratori, in via esclusiva, di tutti i poteri di gestione dell'impresa sociale che non fossero espressamente riservati all'assemblea.

Al di fuori delle ipotesi previste dall'art. 2364, n. 4, si riteneva che quest'ultima non potesse interferire con deliberazioni vincolanti nelle materie di competenza dell'organo amministrativo e, in particolare, non potesse impartire istruzioni o direttive in merito alla gestione della società, né ordinare agli amministratori il compimento di specifici atti di impresa e tanto meno porre il veto all'esecuzione di atti che essi abbiano deliberato di compiere.

Nell'ipotesi di tali ingerenze, gli amministratori dovevano ritenersi autorizzati a respingerle ed a disattendere le decisioni dei soci. Emergeva, in tal modo, un quadro che assegnava all'organo

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amministrativo un ruolo prevalente nelle scelte decisionali inerenti all'attuazione dell'oggetto sociale, in piena coerenza con quel processo storico di trasformazione dell'organizzazione interna della società per azioni che ha indotto i moderni ordinamenti societari al progressivo abbandono del principio democratico fondato sulla "sovranità assembleare" in favore di una struttura tendenzialmente autoritaria che privilegiasse la funzione imprenditoriale degli amministratori.

Tale orientamento trovava anche il conforto della giurisprudenza, che mostrava di propendere per una concezione ampia dei poteri gestori degli amministratori, affermando che per effetto del potere di rappresentanza, l'amministratore che ne è munito, può compiere ogni atto che sia per il suo contenuto in rapporto funzionale con le finalità sociali, in quanto il rapporto organico per sua natura opera di regola l'identificazione di volontà fra organo e persona per ogni atto relativo alla gestione sociale (T. Milano 17.10.1996).

Sotto questo profilo, inoltre, è stato statuito che in base al rigido sistema di ripartizione di competenze previsto dalla legge per le società di capitali, in correlazione con il regime di responsabilità adottato per l'organo amministrativo, le decisioni aventi ad oggetto atti amministrativi (quale, ad esempio, il trasferimento della sede sociale) non possono essere assunte da organi diversi da quello amministrativo, potendo tutt'al più accadere che quest'ultimo, senza mai spogliarsi del proprio potere decisionale, richieda di volta in volta all'assemblea un parere non vincolante ex art. 2364, n. 4, ovvero che tale parere venga previsto in via generale da apposita clausola statutaria (T. Torino 10.8.1988).

In questa stessa prospettiva, la riforma del 2003, migliorando la disciplina del funzionamento degli organi di gestione, con l'art. 2380 bis introduce due precetti importanti:

da una parte, nell'attribuire agli amministratori la competenza esclusiva dell'attività di gestione, contribuisce a chiarire definitivamente ed in modo esplicito i rapporti che esistono tra le deliberazioni assembleari in materia di gestione e l'azione degli amministratori. In conseguenza di ciò, questi ultimi diventano l'unico centro motore dell'attività gestionale e le deliberazioni eventualmente assunte dall'assemblea su scelte gestionali, nei casi in cui lo statuto (v. art. 2364, n.

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5) o la legge (v. art. 2357) lo preveda, hanno, quindi, una funzione meramente autorizzatoria, inidonea a far venire meno la responsabilità degli amministratori.

Dall'altra parte, l'art. 2380 bis, poi, individua il contenuto dell'attività di gestione, chiarendo che essa si sostanzia nel compimento di tutte le operazioni (per ciò dovendosi intendere atti, fatti o combinazioni degli uni e degli altri) necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale. Tra queste rientrano le scelte strategiche che condurranno, auspicabilmente, la società al raggiungimento del suo scopo e, dall'altro, l'adempimento di tutti gli obblighi che la legge impone alla società.

L'esercizio di questa funzione implica naturalmente anche l'esercizio del potere di rappresentanza, inteso come potere di manifestare nei confronti dei terzi le decisioni adottate e di impegnare la società attraverso contratti e negozi giuridici.

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2. Gli amministratori

Come si è detto, nel sistema tradizionale, in base all’art. 2380 bis c.c., la gestione dell’impresa è affidata in via esclusiva agli amministratori, soci o non soci, e consiste in linea generale nel compimento delle operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale.

L’articolo in commento, introdotto dalla riforma del diritto societario, definisce con maggiore chiarezza, rispetto al passato, il rapporto tra la funzione degli amministratori e i poteri dell’assemblea individuati dall’articolo 2364 c.c..

La ratio della norma è quella di affermare la competenza speciale dell’assemblea rispetto a quella generale degli amministratori, con il definitivo superamento della tesi secondo la quale l’assemblea è sovrana.

A) Competenze

Gli amministratori, invero, hanno una competenza generale nel governo della società e deliberano su tutti gli argomenti che la legge non riserva espressamente all’assemblea, le cui competenze sono definite tassativamente dal legislatore.

Nello specifico, le funzioni amministrative consistono nella:

• Gestione della società nell’ambito dell’oggetto sociale;

• Esecuzione delle delibere assembleari;

• Attività propositiva nei confronti dell’assemblea;

• Attività sostitutiva dell’assemblea;

• Rappresentanza generale, sia sostanziale sia processuale della società;

• Tenuta di libri e scritture contabili;

• Attuazione degli adempimenti pubblicitari.

Tale funzioni sono esercitate in posizione di autonomia rispetto all’assemblea.

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B) Nomina

Per quanto concerne la nomina degli amministratori essa, ai sensi dell’art. 2383c.c. spetta all’assemblea ordinarie, fatta eccezione per i primi amministratori, che sono nominati nell’atto costitutivo.

Non è escluso, però, che un soggetto senza nomina o con nomina invalida partecipi, con il consenso degli amministratori formalmente in carica alla gestione della società rivestendo in tal modo la qualifica di amministratore di fatto.

Non può essere nominato amministratore l’interdetto, l’inabilitato, il fallito o chi è stato condannato a una pena che importa l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l’incapacità a esercitare uffici direttivi.

Entro tenta giorni dalla notizia della loro nomina gli amministratori devono chiedere l’iscrizione nel registro delle imprese indicando le generalità per ciascuno, nonché a quali tra essi è attribuita la rappresentanza della società, precisando se disgiuntamente o congiuntamente.

Quanto alla durata dell’incarico gli amministratori non possono essere nominati per un periodo superiore a tre esercizi e scadono alla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo all’ultimo esercizio della loro carica. Gli amministratori, anche se nominati a tempo determinato sono rieleggibili, salva diversa disposizione statutaria.

Le cause di nullità o annullabilità della nomina degli amministratori che ha la rappresentanza della società non sono opponibili ai terzi dopo l’adempimento della pubblicità salvo che la società non provi che i terzi ne erano a conoscenza.

C) Cause di cessazione

Sono cause di cessazione dall’ufficio prima della scadenza del termine:

• La rinuncia da parte degli amministratori. Ai sensi dell’art. 2385 c.c. “L'amministratore che rinunzia all'ufficio deve darne comunicazione scritta al consiglio d'amministrazione e al presidente del collegio sindacale. La rinunzia ha effetto immediato, se rimane in carica la maggioranza del consiglio di amministrazione, o, in caso contrario, dal momento in cui la

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maggioranza del consiglio si è ricostituita in seguito all'accettazione dei nuovi amministratori.”;

• La decadenza dall’incarico nel caso in cui sopraggiunga una causa d’ineleggibilità;

• La morte;

• La revoca da parte dell’assemblea che può essere deliberata in ogni tempo, salvo il diritto al risarcimento dei danni se non sussiste una giusta causa.

“La cessazione degli amministratori dall'ufficio per qualsiasi causa deve essere iscritta entro trenta giorni nel registro delle imprese a cura del collegio sindacale.”.

L’art. 2386 c.c. prevede delle disposizioni di dettaglio per la sostituzione degli amministratori che siano cessati dall’ufficio con effetto immediato (ad esempio per morte o decadenza) al fine di garantire la completezza e il regolare funzionamento dell’organo amministrativo.

In particolare la norma predetta dispone che “Se nel corso dell'esercizio vengono a mancare uno o più amministratori, gli altri provvedono a sostituirli con deliberazione approvata dal collegio sindacale, purché la maggioranza sia sempre costituita da amministratori nominati dall'assemblea. Gli amministratori così nominati restano in carica fino alla successiva assemblea.

Se viene meno la maggioranza degli amministratori nominati dall'assemblea, quelli rimasti in carica devono convocare l'assemblea perché provveda alla sostituzione dei mancanti.

Salvo diversa disposizione dello statuto o dell'assemblea, gli amministratori nominati come sopra scadono insieme con quelli in carica all'atto della loro nomina.

Se particolari disposizioni dello statuto prevedono che a seguito della cessazione di taluni amministratori cessi l'intero consiglio, l'assemblea per la nomina del nuovo consiglio è convocata d'urgenza dagli amministratori rimasti in carica; lo statuto può tuttavia prevedere l'applicazione in tal caso di quanto disposto nel successivo comma.

Se vengono a cessare l'amministratore unico o tutti gli amministratori, l'assemblea per la nomina dell'amministratore o dell'intero consiglio deve essere convocata d'urgenza dal collegio sindacale, il quale può compiere nel frattempo gli atti di ordinaria amministrazione.”.

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D) Compenso

Gli amministratori hanno diritto a un compenso per la loro attività.

In particolare l’art. 2389c.c. prevede che: “I compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti all'atto della nomina o dall'assemblea.

Essi possono essere costituiti in tutto o in parte da partecipazioni agli utili o dall'attribuzione del diritto di sottoscrivere a prezzo predeterminato azioni di futura emissione.

La remunerazione degli amministratori investiti di particolari cariche in conformità dello statuto è stabilita dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale. Se lo statuto lo prevede, l'assemblea può determinare un importo complessivo per la remunerazione di tutti gli amministratori, inclusi quelli investiti di particolari cariche”.

E) Divieto di concorrenza

Infine a carico degli amministratori è posto un divieto di concorrenza ai sensi dell’art. 2390 c.c. in base al quale, “Gli amministratori non possono assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, né esercitare un'attività concorrente per conto proprio o di terzi, né essere amministratori o direttori generali in società concorrenti, salvo autorizzazione dell'assemblea.

Per l'inosservanza di tale divieto l'amministratore può essere revocato dall'ufficio e risponde dei danni.”

F) Rappresentanza

La rappresentanza può essere attribuita a tutti o solo a uno degli amministratori. Le limitazioni ai poteri risulta dallo statuto o da una decisione degli organi competenti e non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società.

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3. Il Consiglio di amministrazione e gli amministratori delegati

L’amministrazione può essere affidata a un amministratore unico ovvero a una pluralità di persone che costituiscono il consiglio di amministrazione.

A) Il consiglio di amministrazione è un organo collegiale che delibera secondo il principio maggioritario, cura la gestione dell’attività sociale finalizzata al raggiungimento dello scopo sociale ed elegge al suo interno un presidente se questo non è stato già nominato dall’assemblea.

Il presidente, salva diversa previsione statutaria, convoca il consiglio di amministrazione, ne fissa l’ordine del giorno, ne coordina i lavori e provvede affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri. Per la validità delle deliberazioni del Consiglio di amministrazione è necessaria la presenza della maggioranza degli amministratori in carica (quorum costitutivo) e il voto favorevole della maggioranza assoluta dei presenti (quorum deliberativo). Lo statuto può prevedere che la presenza alle riunioni del consiglio avvenga anche mediante mezzi di telecomunicazione e quorum costitutivi e deliberativi differenti. Non è ammesso il voto per rappresentanza.

Per quanto concerne l'invalidità delle deliberazioni, il comma terzo dell'art. 2388c.c.

prevede una disciplina dell'annullabilità analoga a quella esaminata per le delibere assembleari.

Sono annullabili in particolare le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto. Legittimati attivi sono:

• il collegio sindacale e gli amministratori assenti o dissenzienti entro 90 giorni dalla data della deliberazione. Per quanto concerne il procedimento di impugnazione si applica in quanto compatibile l'art. 2378 c.c.;

• i soci se le deliberazioni ledono i loro diritti. Si applicano in tal caso in quanto compatibili gli artt. 2377 e 2378 c.c.

In ogni caso sono salvi i diritti acquisiti in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione delle deliberazioni.

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Non sono previste invece ipotesi di nullità delle delibere dell'organo amministrativo.

Nonostante l'assenza di una norma espressa in materia, parte della giurisprudenza affermava in passato l'applicabilità in via analogica dell'art. 2379c.c. alle delibere consiliari, sull'assunto secondo cui la disciplina delle cause di invalidità delle delibere assembleari contenuta negli artt. 2377 e seguenti avesse carattere generale.

Il legislatore della riforma, invece, ha soltanto ampliato le protesi di annullabilità prendendo chiaramente posizione a favore di chi già nel sistema previgente escludeva la possibilità di applicare in via analogica l’art. 2379 c.c. anche alle delibere consiliari.

B) Il consiglio di amministrazione può delegare una o più delle sue funzioni a un Comitato esecutivo o ad uno o più amministratori delegati (art. 2381 comma 2 c.c.) determinando il contenuto, i limiti e le eventuali modalità di esercizio della delega, eventualmente impartendo loro direttive; valutando l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, esaminando i piani strategici, industriali e finanziari della società.

Gli organi delegati verificano che l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa; riferiscono sia al consiglio di amministrazione, sia al collegio sindacale, almeno ogni sei mesi, sull’andamento della gestione e sulla probabile evoluzione, nonché sulle operazioni di maggior rilievo. Gli amministratori sono tenuti in ogni caso ad agire in modo informato: ciascun amministratore ha il diritto di informazione, da parte degli organi delegati, sulla gestione della società.

La delega non può tuttavia avere ad oggetto le seguenti funzioni inderogabilmente attribuite dalla legge al consiglio di amministrazione nella sua totalità:

- la facoltà di emettere obbligazioni convertibili;

- la facoltà di aumentare il capitale sociale;

- la redazione del bilancio;

- la riduzione obbligatoria del capitale sociale;

- la redazione del progetto di fusione o di scissione.

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4. Il conflitto di interessi e la responsabilità

A) il conflitto d’interessi

Il legislatore pone dei limiti all’agire degli amministratori, nell’interesse dei soci della società e per la certezza dei rapporti giuridici irrigidendo la disciplina del conflitto di interessi: agli amministratori è fatto assoluto divieto di esercitare un’attività concorrente per conto proprio o di terzi, essere amministratori o direttori generali in società concorrenti, salvo che l’assemblea espressamente l’autorizzi. Se l’amministratore non osserva tale divieto, è prevista la revoca dall’ufficio ed eventualmente il risarcimento dei danni (art. 2390 c.c.).

La nuova disciplina si applica anche nelle ipotesi in cui l'amministratore sia portatore di un interesse personale, ma non in conflitto con quello della società.

Ai sensi dell'art. 2391 c.c. primo comma “l'amministratore deve dare notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia interesse in una determinata operazione della società precisando la natura e i termini, l'origine e la portata; se si tratta di amministratore delegato, deve altresì astenersi dal compiere l'operazione, investendo della stessa l'organo collegiale; se si tratta di amministratore unico, deve darne notizia anche alla prima assemblea utile”. È stato dunque eliminato dalla disposizione il riferimento all'obbligo di astensione dal voto a carico dei membri del consiglio (permane invece l’obbligo per l'amministratore delegato).

Qualora le deliberazioni del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo, possano recare danno alla società, possono essere impugnate dagli amministratori e dal collegio sindacale entro novanta giorni dalla loro approvazione.

L’impugnazione della delibera, inoltre, può essere proposta da chi ha consentito con il proprio voto alla deliberazione, qualora non siano stati adempiuti gli obblighi di informazione previsti.

In ogni caso, sono salvi i diritti acquisiti in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione.

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La società può pretendere il risarcimento dei danni dall’amministratore per le sue azioni ovvero per le sue omissioni oppure per l’utilizzazione a vantaggio proprio o di terzi di dati, notizie o nell’esercizio del suo incarico (art. 2391 c.c.).

B) La responsabilità

Gli amministratori sono responsabili civilmente del loro operato verso la società, i creditori sociali, i singoli soci o i terzi. L’art. 2392 c.c. disciplina il comportamento che gli amministratori devono tenere in adempimento dei doveri loro imposti dalla legge e dallo statuto, comportandosi con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Con la novella del 2003 è stato eliminato il riferimento alla diligenza del mandatario.

Il grado di diligenza richiesto dipende solo dalle dimensioni della società, dal tipo di attività esercitata e dalle qualità personali e professionali del singolo amministratore.

La responsabilità degli amministratori è solidale e ciascuno può essere obbligato dalla società a risarcire l’intero danno subito.

Essi rispondono, per l’inadempimento dei loro doveri ovvero per la commissione di atti illeciti, nei confronti della società, a titolo di responsabilità contrattuale per inadempimento e nei confronti dei singoli soci e dei terzi, a titolo di responsabilità extracontrattuale, in relazione ai fatti illeciti commessi e, infine, dei creditori, per gli atti lesivi dell’integrità del patrimonio sociale.

Gli amministratori rispondono in via solidale verso la società per i danni eventualmente arrecati alla società stessa (art. 2392, co. 2 c.c.), a meno che si tratti di funzioni e competenze proprie del comitato esecutivo o dell’amministratore delegato e salvo che essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli non hanno fatto quanto potevano per impedire che fosse posto in essere l’atto, o per eliminare ovvero attenuarne le conseguenze dannose.

La responsabilità per atti od omissioni degli amministratori non si estende a quello tra essi che, essendo immune da colpa, abbia fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia per iscritto al presidente del collegio sindacale.

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L’azione di responsabilità è promossa con deliberazione dell’assemblea, anche se la società è in liquidazione. Tale deliberazione, nonostante non sia stata inserita nell’ordine del giorno, può sempre essere assunta in occasione della discussione relativa all’approvazione del bilancio, purché si tratti di fatti di competenza dell’esercizio cui si riferisce il bilancio. L’assemblea può iniziare l’azione di responsabilità verso gli amministratori non oltre cinque anni dalla cessazione dall’ufficio nelle forme, termini e modalità previste dall’art. 2393 c.c.

All’approvazione dell’azione di responsabilità consegue la revoca dall’ufficio degli amministratori contro cui è proposta purché la delibera sia presa con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale sociale. In tale ultimo caso, l’assemblea stessa deve provvedere alla nomina di nuovi amministratori in sostituzione.

La società può rinunziare all’esercizio dell’azione di responsabilità e può valutare la possibilità di transigere con gli amministratori, purché la rinunzia o la transazione siano approvate con espressa deliberazione dell’assemblea e purché non vi sia il voto contrario di una minoranza di soci che rappresenti almeno il quinto del capitale sociale o, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio almeno un ventesimo del capitale sociale, ovvero la misura prevista nello statuto per l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità da parte dei soci ai sensi dell’art.

2393 bis c.c..

L’azione sociale di responsabilità può essere esercitata anche dai soci che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale o la diversa misura prevista nello statuto, comunque non superiore al terzo (art. 2393-bis c.c.) e nelle società quotate, da tanti soci che rappresentino un quarantesimo del capitale sociale ovvero la minore misura prevista dallo statuto.

Di tal guisa vengono tutelati i singoli soci di fronte al pericolo che l’assemblea rimanga inerte e non deliberi l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori.

La società è chiamata in giudizio, in quanto litisconsorte necessario, e in caso di accoglimento della domanda è tenuto al rimborso, nei confronti dei soci attori, delle spese dei giudizi e di quelle sopportate nell’accertamento dei fatti che il giudice non abbia posto a carico dei soccombenti o che non sia possibile recuperare a seguito della loro escussione.

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Tale azione ha natura surrogatoria ed e comunque diretta a tutelare il patrimonio della società.

I creditori della società possono promuovere l’azione di responsabilità verso gli amministratori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti per non avere gli amministratori osservato i loro obblighi in ordine alla conservazione del patrimonio (art. 2394 c.c.).

Il termine di prescrizione dell’azione è di cinque anni (art. 2949 comma 2 c.c.) e, secondo prevalente dottrina e giurisprudenza, l’azione di responsabilità ha natura autonoma e non surrogatoria.

Inoltre, possono proseguire nell’esercizio dell’azione di responsabilità anche dopo che sia avvenuta la rinunzia da parte della società, mentre la transazione, può essere oggetto di impugnazione da parte dei creditori sociali solo se ricorrono le condizioni per esercitare un’azione revocatoria.

Quanto poi alla responsabilità degli amministratori verso il socio e il terzo, l’art. 2395 c.c.

stabilisce che l’esercizio delle azioni di responsabilità della società e dei creditori non pregiudicano il diritto al risarcimento del danno in capo al singolo socio ovvero al terzo direttamente danneggiati dal compimento di atti colposi o dolosi da parte degli amministratori.

Anche in questo caso l’azione può essere esercitata entro cinque anni dal compimento dell’atto che ha pregiudicato il socio o il terzo.

Il tratto peculiare dell’azione individuale di responsabilità nei confronti degli amministratori viene identificato nel carattere diretto del danno lamentato. L'azione non spetta, infatti, per il pregiudizio che derivi al patrimonio sociale, essendo piuttosto necessario che il danno consegua immediatamente al comportamento degli amministratori.

Gli elementi costitutivi della fattispecie, pertanto, sono:

- la condotta degli amministratori in violazione dei loro doveri, sia quelli specifici inerenti alla carica ovvero quelli generali stabiliti dall'ordinamento a tutela dei diritti dei terzi;

- il pregiudizio patrimoniale sofferto dal socio o dal terzo;

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- il nesso di causalità materiale fra condotta e danno lamentato dall'attore.

Secondo l'opinione largamente prevalente in dottrina e giurisprudenza, la responsabilità nei confronti del socio e del terzo ha natura aquiliana.

C) La responsabilità dell'amministratore di fatto

Si discute se la responsabilità investa, oltre gli amministratori nominati dall'assemblea, anche i cosiddetti amministratori di fatto: coloro cioè che senza titolo, o senza valido titolo, gestiscono o concorrono nella gestione della società, con un potere di fatto corrispondente a quello che la legge riconosce agli amministratori di diritto.

Il problema ha trovato dapprima soluzione affermativa indiscussa nella giurisprudenza penale (nonostante il principio della tipicità dell'illecito penale) riguardo ai reati previsti dagli artt.

2621 ss. a carico degli amministratori poi esplicitamente affermata dalla nuova formulazione dell'art. 2639 che ha trovato, invece, una risposta articolata nella giurisprudenza civile.

L'azione contrattuale ex artt. 2392-2393 è stata giudicata come esperibile nei confronti degli amministratori irregolarmente nominati, ossia nominati con deliberazione invalida; chi abbia, invece, usurpato i poteri di gestione o li abbia ricevuti da un terzo è sottoposto alla ordinaria azione per danni ex art. 2043.

Si è, poi, ritenuto che l'azione contrattuale di responsabilità può essere esercitata anche nei confronti di coloro che abbiano amministrato in forza di una nomina quanto meno tacita dell'assemblea.

Secondo altra parte della dottrina, dall'esame delle novità introdotte nella disciplina delle società di capitali per effetto della riforma del 2003, risulta palese che, mentre attraverso una nuova formulazione dell'art. 2369, 1° co., viene esplicitamente equiparata sul piano penale la responsabilità dell'amministratore di fatto a quella dell'amministratore di diritto, non esiste una regola analoga sul piano civilistico.

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Sebbene, tuttavia, il legislatore non abbia ritenuto di introdurre una norma espressa in materia di responsabilità dell'amministratore di fatto anche sul piano civilistico, non può dirsi che il legislatore delegato abbia del tutto ignorato i problemi legati all'eterogestione.

Nella consapevolezza che una disciplina efficiente delle società di capitali doveva necessariamente essere dettata in maniera da garantire che la mancata assunzione della veste formale di amministratore non divenisse un facile strumento per eludere la responsabilità, che deve incombere su chi effettivamente gestisce l'attività, sono state introdotte nuove significative norme tese a disciplinare le ipotesi di gestione da parte di soggetti diversi da coloro investiti formalmente della carica di amministratore.

La norma in discorso è l'art. 2497 dettata in materia di disciplina dell'attività di direzione e coordinamento, applicabile per la natura trasversale del capo in cui è contenuta, sia alle s.r.l. sia alle s.p.a..

Grazie a tale norma, quindi, è possibile arrivare a sanzionare con la responsabilità anche il comportamento di amministratori di fatto, sia che esso si manifesti in sede di s.r.l., sia che si realizzi all'interno di una s.p.a.

(21)

5. Le novità introdotte dalla riforma del risparmio e il danno derivante dalla “mala gestio”

A) Le novità

L'art. 3, L. 28.12.2005, n. 262 ha attribuito al collegio sindacale il potere di esercitare l'azione di responsabilità, purché la stessa sia stata assunta con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti; in realtà si estende ai sindaci una competenza che l'art. 2409 terdecies attribuiva, nel sistema dualistico, al consiglio di sorveglianza.

La presente norma, quindi, va a inquadrarsi nel sistema di governance societaria introdotto con la riforma del diritto societario, che ha accentuato la funzione di controllo del collegio sindacale sull'amministrazione.

Il legislatore, oltre al rimedio previsto dall'art. 2409, ha voluto fornire un ulteriore strumento finalizzato a separare la posizione dell'organo amministrativo rispetto all'organo di controllo dotando quest'ultimo di un'azione che gli consentirà di esercitare in una posizione di maggior forza i propri obblighi di vigilanza.

Inoltre, la delibera con la quale viene autorizzata l'azione di responsabilità comporta la revoca dall'ufficio di quegli amministratori contro i quali l'azione è proposta, purché la deliberazione sia stata assunta con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale sociale. In questa ultima ipotesi l'assemblea deve provvedere alla loro sostituzione.

La disposizione, introdotta dalla legge sul risparmio, legittima il collegio sindacale a promuovere l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori (art. 2393, 3° co.).

Inoltre pare potersi ritenere che il consiglio di sorveglianza sia legittimato a promuovere l'azione di responsabilità nei confronti di propri componenti che abbiano violato "doveri gestori" - qui l'obbligo di disclosure in merito agli interessi - nell'esercizio, appunto, di funzioni "gestorie" e non di mero controllo di legalità e correttezza.

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B) La quantificazione del danno derivante dalla “mala amministrazione”

Per quanto concerne la quantificazione del danno, si è registrato nel corso del tempo una significativa evoluzione giurisprudenziale che ha segnato il passaggio da una responsabilità oggettiva ad una responsabilità per danni.

Al più risalente orientamento giurisprudenziale secondo il quale il danno imputabile agli amministratori per condotte illecite poteva essere commisurato alla differenza fra attivo realizzato ed il passivo accertato in sede fallimentare, oggetto di numerose critiche ad opera della dottrina, si è andato affermando un orientamento giurisprudenziale - ormai pacificamente consolidato in base al quale viene riconosciuto come risarcibile il solo danno che sia conseguenza immediata e diretta delle condotte antigiuridiche poste in essere dagli amministratori e di cui è necessario fornire idonea dimostrazione.

Tra i vari criteri elaborati dalla giurisprudenza per la quantificazione del danno si deve richiamare anche il criterio dei netti patrimoniali che viene utilizzato allorché sia possibile individuare il momento in cui il capitale sociale è andato perso di talché il successivo aggravamento della situazione di crisi della società deve ascriversi all'ingiustificata ed illegittima inerzia degli amministratori.

Il danno può essere quindi quantificato nella differenza che risulta dalla comparazione tra la situazione patrimoniale della società riferita alla data in cui si è verificato la causa di scioglimento o l'insolvenza, e la situazione patrimoniale riferita alla data della dichiarazione di fallimento.

Il criterio del deficit fallimentare, seppur non più utilizzato in maniera primaria, ha mantenuto una funzione di criterio suppletivo quale parametro di riferimento utilizzato nell'ambito delle valutazioni equitative ex art. 1226, in tutte quelle situazioni - quali, ad esempio, la mancata tenuta delle scritture contabili o la loro totale inattendibilità - nelle quali risultava impossibile fornire una quantificazione dei danni imputabili agli amministratori per le condotte illecite dai medesimi tenute e dimostrate.

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Proprio con riferimento quest'ultimo aspetto di utilizzabilità del criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare, si è da ultimo espressa la Suprema Corte a Sezioni Unite (C.

9100/2015) la quale ha voluto chiarire che: «Nell'azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell'amministratore della stessa l'individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev'essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell'amministratore, che l'attore ha l'onere di allegare, onde possa essere verificata l'esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento. Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto».

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