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PERCORSI DOTTRINA E GIURISPRUDENZA DI DIRITTO PENALE

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Academic year: 2022

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PERCORSI DOTTRINA E GIURISPRUDENZA DI DIRITTO PENALE

III

CORSO ESAME AVVOCATO 2021/2022 a cura dell’avv. Giulio Forleo

www.jurisschool.it

www.ildirittopenale.blogspot.com

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2 INDICE

Premessa………...….Pag. 4 PARTE PRIMA: ANALISI DEGLI ISTITUTI

1.IL PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ...6

1.1OGGETTO DEL REATO... 8

1.2REATI DI DANNO E REATI DI PERICOLO, MONOFFENSIVI E PLURIOFFENSIVI....9

1.3LA PERSONA OFFESA DEL REATO...10

2.LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE DEL REATO... 11

2.1CONSENSO DELLAVENTE DIRITTO....14

2.2 ESERCIZIO DI UN DIRITTO E ADEMPIMENTO DI UN DOVERE...16

2.3LEGITTIMA DIFESA...19

2.4STATO DI NECESSITÀ... 25

2.5USO LEGITTIMO DELLE ARMI... 27

PARTESECONDA:FOCUSGIURISPRUDENZIALE I) PRINCIPIO DI OFFENSIVITA’ E REATI IN MATERIA DI STUPEFACENTI...29

I.1COLTIVAZIONE AD USO PERSONALE DI SOSTANZA STUPEFACENTI E PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ... 30

I.2DETENZIONE DI SOSTANZA STUPEFACENTE ED EFFETTO DROGANTE... 32

II)PRINCIPIODIOFFENSIVITA’ECONSUMAZIONEDELREATO....33

II.1REATO DI PECULATO DUSO E OFFENSIVITÀ... 34

II.2PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ ED ISTIGAZIONE ALLA CORRUZIONE...34

II.3 MANCATA ESECUZIONE DOLOSA DI UN PROVVEDIMENTO DEL GIUDICE E OFFENSIVITÀ...34

II.4VIOLENZA PRIVATA E OFFENSIVITÀ...35

III)REATOIMPOSSIBILE...36

III.1FALSO GROSSOLANO...37

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III.2TENTATO FURTO E REATO IMPOSSIBILE...37

III.3MANCANZA DELLOGGETTO E REATO IMPOSSIBILE...37

IV)REATIDIPERICOLO...39

IV.1REATO DI DISASTRO AVIATORIO...40

IV.2REATO DI DISTRIBUZIONE DI ACQUE CONTAMINATE O AVVELENATE...40

IV.3REATO DI FALSA TESTIMONIANZA...40

IV.4REATO DI MINACCIA...41

V)ILCONSENSODELL’AVENTEDIRITTO...42

V.1CONSENSO DELLAVENTE DIRITTO E REATI SESSUALI...43

V.2APPROPRIAZIONE INDEBITA E CONSENSO DELLAVENTE DIRITTO...43

VI)DIRITTODICRONACAGIORNALISTICAEDIRITTODICRITICA...44

VI.1CONDIZIONI DEL DIRITTO DI CRONACA...45

VI.2DIFFERENZA TRA DIRITTO DI CRONACA E DI CRITICA POLITICA...45

VI.3LIMITE DELLA CONTINENZA NEL DIRITTO DI CRITICA...45

VII)SCRIMINANTEDELLALEGITTIMADIFESA...47

VII.1NOZIONE DI PRIVATA DIMORA NELLA LEGITTIMA DIFESA DOMICILIARE..48

VII.2I REQUISITI DELLA LEGITTIMA DIFESA DOMICILIARE...48

VII.3ACCERTAMENTO DELLA LEGITTIMA DIFESA...48

VII.4VOLONTARIA CAUSAZIONE DELLO STATO DI PERICOLO...49

VIII)STATODINECESSITA’...50

VIII.1OCCUPAZIONE ABUSIVA DI UN IMMOBILE E STATO DI NECESSITÀ...51

VIII.2FURTO PER BISOGNO...51

IX)SCRIMINANTITACITEONONCODIFICATE...52

IX.1SCRIMINANTE DELLESERCIZIO DELLATTIVITÀ SPORTIVA...53

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Premessa Gentili ragazze/i,

con questo terza dispensa “Percorsi di penale” affronteremo le problematiche relative al principio di offensività, al soggetto passivo del reato e alle cause di giustificazione.

Si tratta di una dispensa molto impegnativa, in quanto gli istituti oggetto di analisi sono stati al centro di numerosi dibattiti dottrinali e giurisprudenziali.

Sono, inoltre, argomenti molto importanti ai fini dell’esame d’avvocato, dal momento che coinvolgono aspetti del reato spesso interessati dalle vicende fattuali descritte dalle tracce d’esame.

Buono studio e buon lavoro.

Avv. Prof. Giulio Forleo

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PARTE PRIMA

ANALISI DEGLI ISTITUTI

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1. IL PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ.

Il principio di offensività (nullum crimen sine iniura), alla stregua del quale un fatto può costituire reato solo se si sostanzia anche in un’offesa (da intendersi come lesione o come semplice messa in pericolo) al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, è uno dei principi cardine del sistema penalistico italiano, accanto ai già esaminati principi di legalità e di materialità.

Tramite esso si intende evitare l’irrogazione della sanzione penale nei casi di mera disobbedienza alle norme statuali o di sola pericolosità sociale dell’azione che non si traducano in una lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato con l’incriminazione.

Si tratta di un principio che non trova espressa previsione né nel codice penale né nella Costituzione. La dottrina prevalente, tuttavia, ritiene ormai pacificamente che il principio di offensività abbia un sicuro – seppur implicito – fondamento costituzionale, da rinvenirsi negli artt. 13, 25 comma 2 e 27 comma 3 Cost.

L’art. 13 Cost., infatti, tutela la libertà personale, che non può subire limitazioni o compressioni – quali quelle che discenderebbero dall’applicazione delle principali sanzioni penali – se non quale reazione ad un’offesa arrecata ad un bene giuridico di pari rango.

L’art. 25, comma 2 Cost., invece, subordina l’applicazione della sanzione penale alla commissione di un “fatto”, che deve intendersi comprensivo anche dell’offesa al bene interesse tutelato. Il principio di offensività si collega, quindi, al principio di legalità e, in particolare, a quello di tassatività

Infine, la costituzionalizzazione del principio di offensività può desumersi anche dall’art. 27, comma 3 Cost., che sancisce la finalità rieducativa della pena. Laddove, infatti, l’applicazione di una sanzione penale non dovesse corrispondere ad un’offesa ad un bene meritevole di protezione da parte dell’ordinamento, la stessa sarebbe avvertita come ingiusta e non necessaria sia dal reo che dal resto dei consociati, con conseguente vanificazione della sua funzione (general e special) preventiva e rieducativa.

A favore del rilievo costituzionale del principio di offensività si è ormai schierata, dopo un’iniziale ritrosia, anche la Corte Costituzionale, che ha poi evidenziato come il principio in parola operi su due piani distinti:

− da un lato, come precetto rivolto al legislatore, al quale impone di limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un

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contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di tutela (cosiddetta offensività “in astratto”);

− dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo per il giudice, il quale, nella verifica della riconducibilità del fatto concreto alla fattispecie astratta, è tenuto ad accertare che il fatto di reato posto in essere abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato (cosiddetta offensività “in concreto”) (cfr. Corte Cost., sentenze n. 109 del 2016, n. 265 del 2005, n. 519 del 2000).

Parte della dottrina ha rinvenuto, poi, un fondamento al principio in esame anche all’interno del codice penale e, in particolare, nell’art. 49, comma 2 c.p., che esclude la punibilità quando “per l’inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso” (c.d. reato impossibile).

Se, infatti, secondo un tradizionale orientamento dottrinale (ANTOLISEI) tale norma integrerebbe una mera ripetizione (in negativo) dell’art. 56 c.p., rappresentando in sostanza il reato impossibile nient’altro che un tentativo inidoneo, secondo l’opposto orientamento (GALLO) essa dimostrerebbe l’esistenza nel nostro ordinamento del principio generale della non punibilità del fatto che, pur conforme ad una fattispecie astratta, risulti in concreto inidoneo a ledere o a porre in pericolo il bene interesse tutelato, ossia del principio di offensività.

Alla stregua di questa seconda ricostruzione, quindi, l’art. 49, comma 2 c.p.

codificherebbe la c.d. concezione realistica del reato, che teorizza la netta distinzione tra tipicità ed offesa e, dunque, la non punibilità di condotte tipiche – perché formalmente conformi alla fattispecie astratta – ma di fatto inoffensive del bene giuridico.

Autorevole dottrina (MANTOVANI) ha, tuttavia, evidenziato che in un sistema come il nostro incentrato sul principio di legalità “già l’idea di un fatto «tipico» ma non punibile perché inoffensivo è (…) una contraddizione in termini. O l’offesa rientra nella tipicità (…) e allora il fatto inoffensivo è non punibile ma perché atipico. Oppure non vi rientra, come in certi «reati senza offesa» o di scopo, e allora il fatto pur se inoffensivo è tipico e, perciò, punibile. Il pretendere, poi, che sia reato solo il fatto che, oltre ad essere tipico, sia anche offensivo, è infrangere il principio di legalità, perché porta ad attingere l’offesa, non reperibile nella fattispecie legale, da criteri di valutazione extralegislativi, aprendosi la porta a pericolosi soggettivismi giurisprudenziali.”.

A detta di tale autore, il superamento di tali criticità e la reale attuazione del principio di offensività passa attraverso la riconduzione dello stesso nel superiore principio di legalità “nel senso che l’interesse offeso deve costituire non un dato esterno alla norma, che il giudice attinga di volta in volta da valori culturali e sociali «sottostanti», ma un

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elemento interno, cioè tipico. In un diritto penale ricostruito sui combinati principi di legalità e offensività, reato è il fatto offensivo tipizzato, in quanto l’offesa deve essere prevista come elemento costitutivo, espresso o implicito, della tipicità”

(MANTOVANI).

1.1. OGGETTO DEL REATO.

Come appena detto, la concezione del reato in un ordinamento liberale come il nostro non può non contemplare la necessità di individuare un’offesa ad una entità reale meritevole di protezione da parte dell’ordinamento stesso (bene giuridico). In tutti i reati, dunque, oltre ad esserci un soggetto attivo, vi è anche un oggetto e, più in particolare, un oggetto giuridico.

Se da un lato, il reato si deve formalmente identificare come violazione di una norma giuridica, dall’altro lato, da un punto di vista sostanziale esso dovrà consistere nell’offesa di quel bene che la norma intende proteggere.

Ciò caratterizza l’intero sistema penalistico sin dalla sua genesi e cioè sin dalle scelte di politica criminale che il legislatore compie: il primo passo che viene effettuato è quello della individuazione da parte del legislatore medesimo dei beni giuridici meritevoli di tutela penale.

Il passo immediatamente successivo è poi quello di circoscrivere l’area del penalmente rilevante a quei comportamenti umani che provocano la lesione o la messa in pericolo proprio di quei beni individuati in precedenza.

A tal proposito è bene chiarire che dal concetto di oggetto giuridico deve tenersi distinto quello di oggetto materiale del reato, coincidente con l’entità fisica o non fisica su cui cade la condotta tipica (MANTOVANI).

Per comprendere tale distinzione si consideri, ad esempio, che nel reato di omicidio l’oggetto materiale è il corpo umano, mentre quello giuridico è il bene vita. Oppure si pensi ai reati di falso, nei quali oggetto materiale della condotta è il documento falsificato, mentre l’oggetto giuridico deve ravvisarsi nella fede pubblica.

Il problema della esatta identificazione dei beni giuridici che sono o che possono essere oggetto di tutela penale è ormai pacificamente risolto in un’ottica costituzionalmente orientata.

In particolare, comportando l’incriminazione una compressione di diritti costituzionali inviolabili quali la libertà personale (art. 13 Cost.), i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.), la dignità sociale (art. 3 Cost.) (e dovendosi sempre tenere a mente la funzione

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rieducativa della pena di cui all’art. 27, comma 3 della Costituzione), si ritiene che l’illecito penale possa venire in essere solo a fronte di una significativa lesione (o messa in pericolo) di un bene esplicitamente o implicitamente riconosciuto e tutelato dalla Costituzione medesima.

1.2. REATI DI DANNO E REATI DI PERICOLO, MONOFFENSIVI E PLURIOFFENSIVI. Alla luce dell’analizzato principio di offensività, oltre che in una lesione effettiva al bene giuridico tutelato (c.d. reati di danno), il reato può consistere anche in una semplice messa in pericolo del bene stesso (c.d. reati di pericolo).

I reati di pericolo si distinguono, dunque, dai reati di danno in quanto nei primi il bene giuridico tutelato non è distrutto, danneggiato o perso, ma è soltanto minacciato. In tali casi, allora, per l’integrazione del reato non è necessario che vi sia un’offesa concreta al bene ma è sufficiente che vi sia una lesione soltanto potenziale allo stesso.

Questa categoria di reati si caratterizza quindi per un’anticipazione della soglia di punibilità giustificata dall’intento di anticipare il più possibile la tutela di beni di particolare rilevanza, facendola indietreggiare dal momento di loro lesione effettiva a quella di lesione anche solo potenziale.

All’interno dei reati di pericolo si è soliti distinguere tra:

1) reati di pericolo concreto: quei reati che si caratterizzano per la effettiva presenza del pericolo che il giudice è tenuto ad accertare in concreto (ad es. art. 422 c.p. – reato di strage – secondo cui “Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’art. 285, al fine di uccidere compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità, è punito, se dal fatto deriva la morte di più persone, con l’ergastolo. Se è cagionata la morte di una sola persona si applica l’ergastolo, in ogni altro caso si applica la reclusione non inferiore a quindici anni.”.);

2) reati di pericolo astratto o presunto: quei reati nei quali il pericolo è insito implicitamente nella condotta tipizzata che, sulla base di norme di esperienza, è ritenuta in grado di provocare la verificazione del danno che si intende prevenire.

In tali casi il giudice non è tenuto ad accertare la concreta sussistenza della messa in pericolo del bene tutelato. Si pensi, ad esempio, al reato di incendio di cui all’art. 423, comma 1 c.p., alla cui stregua “Chiunque cagiona un incendio è punito con la reclusione da tre a sette anni”.

Un’ulteriore distinzione che si profila in relazione all’oggetto giuridico del reato è quello tra reati monoffensivi, per la cui configurabilità è necessaria e sufficiente l’offesa di un solo bene giuridico (ad es. omicidio, in cui vi è solo la lesione del bene vita), e reati

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plurioffensivi, che presuppongono l’offesa a più beni giuridici (un esempio tipico è dato dalla rapina, in cui vi è la lesione tanto del patrimonio quanto della libertà personale del soggetto passivo del reato).

1.3. LA PERSONA OFFESA DEL REATO.

Il bene giuridico costituisce, infine, il parametro in virtù del quale individuare il soggetto passivo o la persona offesa del reato.

Sebbene nel codice penale venga dedicato alla persona offesa il Capo IV del Titolo IV del Libro I, non è possibile rinvenirvi una vera e propria definizione legale. In dottrina e giurisprudenza, però, la persona offesa è unanimemente identificata con il titolare del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice e leso o messo in pericolo dalla violazione della norma medesima. L’importanza di definire con esattezza quale sia il soggetto passivo o la persona offesa del reato discende dai poteri conferiti dalla legge a tale figura soggettiva.

In particolare, all’art. 120 il codice penale prevede che “ogni persona offesa da un reato per cui non debba procedersi d’ufficio o dietro richiesta o istanza ha diritto di querela.”1, determinando in tal modo la procedibilità di un certo reato ed incidendo dunque sulla punibilità del soggetto attivo.

La natura dell’interesse tutelato determina, inoltre, la tipologia di persona offesa dal reato per cui, ad esempio:

a. nei reati societari soggetto passivo sarà evidentemente una persona giuridica;

b. nel reato di omicidio, in cui il bene giuridico tutelato è la vita, il soggetto passivo sarà necessariamente una persona fisica;

c. nei reati contro l’incolumità pubblica soggetto passivo sarà una collettività non personificata;

d. nei reati contro la personalità dello Stato o contro l’amministrazione della giustizia o contro la Pubblica Amministrazione sarà lo Stato.

Le caratteristiche della persona offesa incidono, inoltre, a vario titolo, sulla configurabilità di un reato, a seconda che le stesse rilevino quali:

1La querela, ai sensi dell’art. 336 c.p.p., è la dichiarazione con la quale la persona offesa manifesta la volontà che si proceda in ordine a un fatto previsto dalla legge come reato. Essa deve essere presentata personalmente dall’offeso o dal suo legale rappresentante entro tre mesi dalla notizia del reato. non è esercitabile, inoltre, quando vi è stata rinuncia espressa o tacita. La remissione della stessa, a seguito della previa presentazione, configura una causa di estinzione del reato. Il diritto di querela si estingue con la morte della persona offesa.

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− elementi costitutivi del reato (si veda l’ipotesi di cui all’art. 609 quater c.p., in relazione ad età e consenso della vittima);

− circostanze aggravanti (ad es. si veda l’art. 61 n. 10 c.p., che aggrava il reato nell’ipotesi in cui sia stato commesso nei confronti di “un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio, o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio”; oppure l’art. 61, n. 11 c.p., che considera circostanza aggravante “l’avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni d’ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, o di ospitalità”);

− circostanze attenuanti (si veda, ad esempio, l’art. 62, n. 5 c.p. ai sensi del quale si considera circostanza attenuante “l’essere concorso a determinare l’evento, insieme con l’azione o l’omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa”);

− cause di giustificazione (si veda, ad esempio, l’art. 52 c.p., operante laddove la condotta della potenziale persona offesa dal reato sia configurabile in termini di antigiuridicità, rendendo la condotta dell’agente non punibile per legittima difesa);

− cause di non punibilità (si pensi all’art. 649 c.p., che esclude la punibilità per fatti commessi a danno di congiunti).

Da ultimo, bisogna evidenziare la distinzione tra danneggiato dal reato e soggetto passivo, là dove il primo deve essere individuato in colui il quale subisce, a causa del fatto di reato, un danno patrimoniale o non patrimoniale, che lo legittima a costituirsi parte civile.

Per quanto il più delle volte le due figure coincidano, in altri casi danneggiato dal reato è un soggetto diverso dalla persona offesa dallo stesso: è quanto accade nell’omicidio, in cui persona offesa è la vittima, mentre danneggiati sono i suoi congiunti, titolari dell’eventuale pretesa risarcitoria.

2. LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE DEL REATO.

Così come rilevato nell’analisi della struttura del reato, l’antigiuridicità che di regola si accompagna alla realizzazione della condotta tipica viene esclusa in presenza di norme permissive (diverse da quelle incriminatrici) che, in presenza di determinate circostanze del caso concreto, impongono o autorizzano una determinata condotta per legge, ordine dell’autorità o a fronte di una condizione necessitante.

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Queste norme si definiscono cause di giustificazione (ovvero esimenti o scriminanti) e sono riconducibili a “quelle speciali situazioni nelle quali un fatto, che di regola è vietato dalla legge penale, non costituisce reato per l’esistenza di una norma che lo autorizza o lo impone” (ANTOLISEI).

La ragione sostanziale per cui queste cause eliminano l’antigiuridicità è da individuarsi nel c.d. principio di non contraddizione dell’ordinamento che, a seguito di un bilanciamento tra il bene protetto dalla norma incriminatrice e la finalità cui mira la causa esimente, conduce a non ravvisare in tali fattispecie un danno sociale.

Alla luce di ciò, ogniqualvolta si debba indagare sulla punibilità di una determinata azione criminosa non ci si dovrà limitare a valutare in senso positivo la riconducibilità del fatto alla fattispecie tipica, ma si dovrà altresì escludere, secondo una valutazione negativa, la presenza di scriminanti, ovverosia di circostanze alle quali l’ordinamento attribuisce efficacia giustificante.

Da un punto di vista generale, le singole scriminanti sono caratterizzate da profili di disciplina comune quali il carattere oggettivo del giudizio di liceità a cui sono sottoposte, la rilevanza del putativo e dell’errore e l’eccesso colposo.

Con riferimento al carattere oggettivo del giudizio di liceità, esso trova fondamento nell’art. 59, comma 1 c.p., ai sensi del quale “le circostanze … che escludono la pena sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute, o per errore ritenute inesistenti”. Ne discende che le scriminanti operano per il solo fatto di esistere, anche se l’agente ha agito ignorandone l’esistenza e nella convinzione di commette un fatto di reato.

Con riferimento, invece, al differente caso in cui l’agente agisca ritenendo erroneamente (ed incolpevolmente) di essere “giustificato” dall’esistenza di una norma scriminante, l’ordinamento dà rilevanza alla figura della c..d. scriminante putativa. In virtù dell’art.

59, comma 4 c.p., infatti, “se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.”.

Come indicato dalla norma, dunque, al fine di equiparare la situazione di chi agisce in presenza di una causa di giustificazione a quella di chi confida nella sua esistenza, l’errore del soggetto agente deve:

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a) riguardare i presupposti di fatto che integrano la causa di giustificazione (ad esempio, nel caso in cui l’agente crede, a causa di un errore di percezione, di subire un’aggressione);

b) cadere su una norma extrapenale integratrice della scriminante;

c) non configurarsi quale errore di diritto, determinante l’erronea convinzione che la situazione in cui si trovi l’agente rientri tra quelle a cui l’ordinamento conferisce efficacia scriminante, ipotesi questa che sarebbe in contrasto con il principio generale di cui all’art. 5 c.p., secondo cui ignorantia legis non excusat.

La scriminante putativa esclude poi che il soggetto agente abbia agito con dolo, dal momento che il presupposto della stessa è proprio quello della erronea convinzione di ritenere lecito un comportamento in realtà integrante una fattispecie di reato.

Nell’ipotesi in cui, invece, il suo errore sia dipeso da colpa, la scriminante putativa non escluderà la punibilità dell’agente per il fatto commesso, laddove lo stesso sia previsto come delitto colposo.

Quanto infine alla disciplina dell’eccesso colposo, essa è contemplata dall’art. 55 c.p., secondo cui “quando nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 51, 52, 53 e 54 si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.

L’eccesso di cui all’art. 55 c.p. si ha, dunque, quando sussistono tutti i presupposti di una causa di giustificazione ma ne sono superati i limiti in maniera colposa. A differenza della già vista situazione della scriminante putativa, nel caso dell’eccesso colposo esistono nella realtà tutti i presupposti del comportamento esimente ma l’agente supera colposamente i limiti dello stesso. Ovviamente si è fuori dall’ambito dell’eccesso colposo in tutti quei casi in cui il superamento dei predetti limiti sia cosciente e volontario (c.d. eccesso doloso).

In dottrina si è soliti distinguere due forme di eccesso colposo:

1) eccesso per errore-motivo, che si ha quando un determinato risultato viene prodotto volutamente, a causa di una erronea valutazione da parte dell’agente della situazione di fatto;

2) eccesso per errore-inabilità, configurabile allorquando la situazione di fatto viene percepita e valutata esattamente, ma per un errore esecutivo si cagiona un evento più grave di quello necessario.

L’art. 55 c.p. stabilisce, inoltre, che nel caso in cui l’errore che ha determinato l’eccesso

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sia riconducibile a colpa dell’agente, questi dovrà rispondere della relativa fattispecie di reato colposa integrata, sempreché il fatto commesso sia previsto dalla legge come delitto colposo.

2.1. CONSENSO DELLAVENTE DIRITTO.

L’art. 50 c.p. prevede che “non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne.”.

Il fondamento della scriminante del consenso dell’avente diritto va individuato nella carenza di interesse da parte dell’ordinamento a salvaguardare l’integrità di un diritto, che lo stesso titolare non ha interesse a preservare.

Nel definire l’ambito di operatività dell’art. 50 c.p. si devono da esso escludere tutte quelle fattispecie nelle quali la presenza o assenza di consenso rappresenta un requisito costitutivo dell’ipotesi incriminatrice. In proposito, si considerino ad esempio le fattispecie di cui agli artt. 519, 579, 614 e 629 c.p..

Con particolare riferimento alla fattispecie di cui all’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente), la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha di recente chiarito che “In tema di omicidio del consenziente, il consenso è elemento costitutivo del reato, sicchè ove il reo incorra in errore circa la sussistenza del consenso trova applicazione la previsione dell'art.47 cod. pen., in base al quale l'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso, nel caso di specie individuabile nel delitto di omicidio volontario. (In motivazione, la Corte ha precisato che il consenso previsto quale scriminante dall'art.50 cod. pen. non corrisponde al consenso richiesto dall'art.579 cod. pen., atteso che, in questa seconda ipotesi, il consenso incide sulla tipicità del fatto e non quale mera causa di giustificazione).”

(Cass. pen., Sez. I, 12 maggio 2015 (dep. 31 marzo 2016), n. 12928).

Incidendo tale causa di giustificazione su una fattispecie di reato completa in tutti i suoi elementi costitutivi, essa viene definita in termini di causa di liceità, interessando non un profilo di tipicità del reato quanto piuttosto la liceità del comportamento. In tal modo, la formula di proscioglimento cui il giudice dovrà ricorrere sarà quella “perché il fatto non costituisce reato”, non potendosi al contrario dichiarare l’insussistenza del fatto.

Ai fini della sua validità scriminante, il consenso deve essere:

− libero ovvero spontaneo, cioè immune da violenza, errore o dolo;

− effettivo, ossia non prestato per scherzo, simulazione o in presenza di riserva mentale;

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− attuale, cioè esistente al momento del fatto;

− in alcuni casi (ad es. in materia di trattamenti sanitari) informato, ossia prestato da soggetto notiziato di ogni particolare utile per riflettere sull’opportunità del rilascio del permesso.

Stante la natura non negoziale del consenso, per la sua validità non si richiede invece né una particolare forma né che lo stesso sia portato a conoscenza del destinatario. A tal proposito, è pacifico che il consenso possa essere prestato anche in maniera tacita e cioè mediante un comportamento oggettivamente univoco dell’avente diritto.

Quanto al contenuto, esso dovrà coinvolgere tutti i requisiti essenziali della fattispecie criminosa. Nei reati a forma libera, inoltre, il consenso potrà essere limitato soltanto a determinate condotte.

Il consenso incontra dei limiti, soggettivi ed oggettivi.

Sul piano soggettivo, il consenso può essere prestato soltanto dal titolare del bene protetto dalla norma penale e cioè da colui che assumerebbe il ruolo di soggetto passivo del reato. Costui deve, inoltre, avere la capacità di prestare il consenso. Sebbene si sia a lungo dibattuto, sulla scorta della incerta natura negoziale o non del consenso, se tale capacità debba essere letta quale capacità naturale, capacità giuridica o capacità di agire, la giurisprudenza ha ormai optato per un criterio interpretativo di tipo pratico, in applicazione del quale il giudice dovrà, a seconda del caso concreto, verificare se il soggetto possedesse o meno una maturità sufficiente a comprendere l’entità e il senso del consenso prestato.

Indubbiamente esclusi dal novero dei soggetti legittimati a prestare un consenso valido sono gli infermi di mente e i totalmente incapaci per altre infermità o per intossicazione da alcool o stupefacenti.

Sul piano oggettivo, il consenso può riguardare soltanto diritti disponibili, ossia quelli per i quali lo Stato non conserva un proprio interesse diretto alla salvaguardia del bene.

Comunemente si ritengono disponibili i diritti patrimoniali, salvo i casi in cui la legge ne limita la disponibilità. Discussa è, invece, la disponibilità dei cc.dd. diritti personalissimi (all’integrità fisica, all’onore, alla vita, ecc.). Per questi occorre necessariamente distinguere tra:

a) beni interamente disponibili, quale il diritto dell’inviolabilità del domicilio;

b) beni parzialmente disponibili, come l’integrità fisica, della quale si può disporre nei limiti dell’art. 5 c.c., e cioè purché la sua diminuzione non sia permanente e contraria all’ordine pubblico e al buon costume. Altri esempi di diritti

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parzialmente disponibili si rinvengono nella libertà personale, libertà sessuale e nell’onore;

c) beni assolutamente indisponibili, quali sono i beni appartenenti allo Stato o a enti pubblici, i beni della collettività non personificata, i beni della famiglia e il diritto alla vita. In particolare, l’indisponibilità di quest’ultimo è desumibile dall’incriminazione tanto dell’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) quanto dell’istigazione al suicidio (art. 580 c.p.). Tali fattispecie confermano, infatti, che la presenza del consenso del titolare del bene vita non rende lecito il fatto penalmente rilevante, lesivo del bene stesso, posto in essere, che resta dunque reato.

La giurisprudenza è solita negare rilevanza al consenso presunto, ritenuto invece scriminante dalla dottrina maggioritaria, secondo cui esso equivarrebbe al consenso effettivo. Tale figura ricorre quando non vi è un consenso effettivo da parte del titolare al momento del compimento dell’azione, ma è ragionevole presumere che se l’avente diritto avesse potuto decidere lo avrebbe prestato. È il caso del soggetto che si introduce nell’appartamento del vicino per interrompere una copiosa perdita d’acqua: in un’ipotesi di questo tipo si può dedurre che se il vicino avesse potuto avrebbe acconsentito all’intervento.

2.2. ESERCIZIO DI UN DIRITTO E ADEMPIMENTO DI UN DOVERE.

L’art. 51 c.p., alla cui stregua “l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità. Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell'Autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l'ordine. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo. Non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine.”, prevede le scriminanti dell’esercizio del diritto e dell’adempimento del dovere.

Anche tale norma costituisce espressione del principio di non contraddizione, essendo tesa ad evitare contrasti tra una norma penale incriminatrice e un’altra norma dell’ordinamento giuridico che sia fonte di diritto e di doveri: un comportamento non può, infatti, essere contemporaneamente autorizzato o dovuto ed incriminato.

Manifestazione del tradizionale principio del qui iure suo utitur neminem laedit, la scriminante dell’esercizio del diritto presuppone, secondo la dottrina maggioritaria, un concetto di diritto molto ampio, comprensivo di ogni potere giuridico di agire, qualunque sia la denominazione data dalla legge o dalle prassi applicative (diritto

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soggettivo, diritto potestativo, potestà, …). Al contrario, la giurisprudenza adotta una interpretazione fortemente restrittiva del termine, intendendolo quale diritto soggettivo privato, tutelato da una norma in modo diretto e individuale, del quale sia titolare il cittadino uti singulus.

La fonte di tale diritto può essere molto varia: Costituzione, legge, regolamento, atto amministrativo, provvedimento, contratto, …. Al riguardo, negli ultimi anni si è sviluppato un acceso dibattito con riferimento ai cc.dd. reati culturalmente orientati, ossia a quei reati commessi da uno straniero e integrati da comportamenti penalmente rilevanti nel nostro ordinamento ma autorizzati o addirittura imposti nell’ordinamento di appartenenza del soggetto agente. Sul punto, la giurisprudenza, pur riconoscendo in astratto anche alla legge straniera la natura di fonte di un diritto il cui esercizio può scriminare ai sensi dell’art. 51 c.p., ne limita l’ambito applicativo a quei diritti compatibili con il nostro ordinamento.

In tal senso, la Corte di Cassazione ha di recente chiaramente rilevato che “In tema di cause di giustificazione, lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia (nella specie: maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, violazione degli obblighi di assistenza familiare) non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell'esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall'ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell'ordinamento italiano, in cui l'agente ha scelto di vivere, attesa l'esigenza di valorizzare - in linea con l'art. 3 Cost. - la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l'instaurazione di una società civile multietnica.” (Cass.pen., Sez. III, 29 gennaio 2015, n. 14960).

L’ambito di operatività della scriminante dell’esercizio del diritto è circoscritto dal rispetto di taluni limiti:

− interni, cioè quelli desumibili dalla natura e dal fondamento del diritto esercitato;

− esterni, che si ricavano invece dal complesso delle norme di cui fa parte la norma attributiva del diritto. Nell’ipotesi in cui il diritto sia sancito a livello di legge ordinaria, i suoi limiti potranno essere desunti dall’intero ordinamento e, in alcuni casi, anche dalla legge penale. Nel caso, invece, di diritti attribuiti dalla Costituzione, questi non potranno essere limitati da norme di rango inferiore e, quindi, neppure dalla norma penale.

Per la casistica relativa ai limiti esterni all’esercizio del diritto si rinvia al successivo focus giurisprudenziale.

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Da ultimo, si deve rilevare come la giurisprudenza prevalente – come desumibile dalla citata sentenza n. 14960/2015 – escluda la rilevanza dell’esercizio putativo di un diritto, in virtù del fatto che l’errore di valutazione si traduce in un errore di diritto inescusabile.

In senso opposto, tuttavia, si esprime con riferimento specifico al diritto di cronaca, rispetto al quale ha affermato che “La scriminante putativa dell'esercizio del diritto di cronaca è configurabile solo quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto all'onere di esaminare, controllare e verificare l'oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la responsabilità per il delitto di diffamazione aggravata nei confronti di un giornalista per avere falsamente affermato che nei confronti di un assessore regionale era stato richiesto il rinvio a giudizio mentre nulla era stato notificato l'avviso di conclusione delle indagini preliminari).” (Cass.pen., Sez. V, 17 ottobre 2017, n. 51619).

L’art. 51 c.p. disciplina anche l’esimente dell’adempimento del dovere, distinguendo a seconda che fonte dello stesso sia una norma giuridica o un ordine dell’autorità.

Nel caso di dovere discendente da una norma giuridica, il dovere potrà derivare da una legge statale, regionale o da un regolamento esecutivo. Non rilevano, invece, i doveri di carattere religioso o morale. Esempio tipico di adempimento di dovere scaturente da una norma giuridica è quello del testimone che, deponendo in giudizio, enuncia fatti lesivi dell’onore di terzi, non violando gli artt. 594 e 595 c.p..

Quanto, invece, al dovere imposto da un ordine della pubblica autorità, per ordine si deve intendere quella manifestazione di volontà di un superiore a un inferiore perché tenga una certa condotta. Presupposto cardine di tale causa di giustificazione è l’esistenza di un rapporto di supremazia – subordinazione tra chi dà e chi riceve l’ordine, che trovi la sua fonte nel diritto pubblico. Il comma 2 dell’art. 51 c.p. indica chiaramente, infatti, che tale ordine deve provenire da un’Autorità pubblica, dovendo dell’eventuale reato rispondere il pubblico ufficiale. Sulla scorta di una interpretazione a contrario, si deve invece escludere l’efficacia scriminante agli ordini privati, derivanti cioè da un rapporto di natura privatistica (es. lavoratore che risponde all’ordine impartito dal datore di lavoro).

Requisito indefettibile richiesto dal comma 1 dell’art. 51 c.p. è quello della legittimità dell’ordine. Tale legittimità dovrà intendersi sia in senso formale (ordine emanato nella forma prescritta, competenza del superiore ad emanarlo, competenza del sottoposto ad eseguirlo) sia in senso sostanziale (esistenza dei presupposti stabiliti dalla legge per l’emanazione dell’ordine).

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Nell’ipotesi in cui ci si trovi di fronte ad un ordine illegittimo, il reato dovrà considerarsi sussistente e di esso ne risponderà sempre il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine e l’esecutore dello stesso. Quest’ultimo, però, non sarà tenuto a risponderne:

a) laddove egli abbia reputato di obbedire ad un ordine legittimo per errore di fatto – art. 51, comma 3 c.p.;

b) quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine.

L’efficacia scriminante della insindacabilità dell’ordine per il sottoposto è limitata però in presenza di quello che viene definito come “ordine manifestamente criminoso”, disciplinato dall’art. 4, ultimo comma l. n.

382/1978, secondo cui “il militare al quale viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce comunque manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine e di informare al più presto i suoi superiori.”.

Come si è visto per l’esercizio del diritto, anche per la scriminante dell’adempimento del dovere si esclude l’operatività putativa. Così si è espressa anche la Corte di Cassazione, secondo cui “Non sussistono i presupposti per l'applicabilità a titolo putativo della causa di giustificazione dell'adempimento di un dovere (art. 51 cod. pen.), qualora i genitori di un minore indirizzino alle Autorità scolastiche - nella specie al dirigente della scuola elementare ed al provveditore agli studi - due lettere con cui affermino falsamente che il proprio figlio è umiliato e ripetutamente percosso ad opera di un insegnante, omettendo la verifica in ordine alla veridicità dei fatti riferiti dal minore, considerato che l'operatività della predetta esimente putativa presuppone un errore incolpevole sulla verità dei fatti, non configurabile in assenza di un preventivo vaglio del racconto riferito dal minore. Inoltre, nessuna giustificazione, in quanto esulante dai compiti di salvaguardia del minore, può avere la pubblicazione, su interessamento degli stessi genitori, di detta notizia su un quotidiano di rilevante diffusione.” (Cass. pen., Sez. 5, 6 ottobre 2011, n. 5935).

2.3. LEGITTIMA DIFESA.

La causa di giustificazione della legittima difesa è prevista dall’art. 52 c.p., il quale al primo comma stabilisce che “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa.”.

Espressione del principio vim vi repellere licet, questa scriminante trova la sua ratio

“nella prevalenza accordata dallo Stato all’interesse di chi sia stato ingiustamente aggredito” (ANTOLISEI).

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La struttura della legittima difesa si caratterizza per la presenza di due opposte condotte di aggressione ingiusta e di reazione legittima, aventi entrambe ad oggetto un diritto proprio o altrui del soggetto aggredito. Quanto alla nozione di diritto, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel fornirne una interpretazione estensiva, facendovi rientrare qualsiasi situazione giuridica attiva.

Per quanto riguarda i requisiti della situazione aggressiva si deve subito evidenziare come sia presupposto imprescindibile che la minaccia provenga da una condotta umana.

Potrà provenire, infatti, anche da animali o cose solo laddove sia individuabile un soggetto giuridicamente tenuto ad esercitare una vigilanza su di essi. In tali casi parte della dottrina (GROSSO) sottolinea come l’esimente in questione si potrà applicare sia a favore di chi abbia una reazione nei confronti dell’animale o della cosa, sia a favore di colui che reagisce contro la persona gravata dall’obbligo di custodia.

La condotta umana che determina l’offesa ingiusta può consistere tanto in una azione quanto in una omissione. Ciò è possibile in quanto il codice parla genericamente di offesa e non di violenza come avveniva nel codice previgente. Detta condotta, essendo espressione di una antigiuridicità di tipo oggettivo, potrà provenire anche da soggetti immuni o non imputabili.

Il citato art. 52, comma 1 c.p. prevede espressamente che l’aggressione deve concretizzarsi in un’offesa ingiusta. Sul concetto di ingiustizia dell’offesa la dottrina si è divisa tra:

a) un orientamento tradizionale, per il quale è ingiusta solo l’offesa arrecata contra ius, cioè quella antigiuridica, in contrasto con i precetti dell’ordinamento (ANTOLISEI);

b) un orientamento più recente (e ormai prevalente), secondo cui sarebbe ingiusta qualunque offesa non giustificata, cioè quella non iure, non imposta né autorizzata dall’ordinamento (MANTOVANI).

Ulteriore elemento indefettibile per la configurazione di un’aggressione rilevante ai fini dell’art. 52 c.p. è che l’offesa si concretizzi in un pericolo attuale per il bene giuridico tutelato. La giurisprudenza ritiene che si debba parlare di pericolo attuale laddove vi sia il rischio incombente al momento del fatto, non potendo l’azione difensiva riguardare né un pericolo passato (rappresentando altrimenti una semplice vendetta non giustificabile), né un pericolo futuro (potendo l’aggredito porre rimedio a questo facendo ricorso alla protezione dello Stato).

Nel concetto di attualità del pericolo rientra altresì il c.d. pericolo perdurante, ossia quello nel quale l’offesa è in corso o non si è ancora consolidata, come si riscontra nei

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reati permanenti.

Sebbene la norma non lo prevede espressamente, parte della dottrina e la giurisprudenza ritengono che, oltre ad essere attuale, il pericolo deve anche essere involontario. La causazione volontaria del pericolo da parte del soggetto che successivamente reagisce farebbe venire meno, infatti, sia il requisito dell’ingiusta dell’offesa sia quello della necessità della difesa. Sulla scorta di tale presupposto, in giurisprudenza si è esclusa l’applicabilità della scriminante tanto al soggetto c.d. provocatore quanto a colui che accolga una sfida o partecipi attivamente ad una rissa. Potrà invocare la causa di giustificazione, invece, chi intervenga nella rissa per difendere sé o altri da un’offesa ingiusta senza però oltrepassare il limite della partecipazione iniziale. È quanto ribadito anche di recente dalla Corte di Cassazione, che ha chiaramente affermato che “È inapplicabile al reato di rissa la causa di giustificazione della legittima difesa, considerato che i corrissanti sono ordinariamente animati dall'intento reciproco di offendersi ed accettano la situazione di pericolo nella quale volontariamente si pongono, con la conseguenza che la loro difesa non può dirsi necessitata; essa può, tuttavia, essere eccezionalmente riconosciuta quando, sussistendo tutti gli altri requisiti voluti dalla legge, vi sia stata un'azione assolutamente imprevedibile e sproporzionata, ossia un'offesa che, per essere diversa a più grave di quella accettata, si presenti del tutto nuova, autonoma ed in tal senso ingiusta.” (Cass. pen., Sez. V, 19 febbraio 2015, n. 32381).

Quanto alla reazione difensiva della vittima dell’aggressione, essa dovrà essere caratterizzata da tre requisiti:

1) la necessità della difesa – si ha quando il soggetto non può sfuggire all’aggressione se non reagendo. Deve dunque essere esclusa quando egli ha un’ulteriore alternativa che possegga le caratteristiche dell’essere meno dannosa ed ugualmente efficace. È quanto desumibile da una recente pronuncia della Corte di Cassazione, nella quale la Corte ha affermato che l’esimente della legittima difesa è configurabile “solo qualora l'autore del fatto versi in una situazione di pericolo attuale per la propria incolumità fisica, tale da rendere necessitata e priva di alternative la sua reazione all'offesa mediante aggressione.

(Nella fattispecie, la Corte ha escluso la sussistenza dell'esimente in relazione alla condotta dell'imputato che aveva reagito infliggendo alla vittima una coltellata in direzione di una regione vitale del corpo, sebbene potesse allontanarsi dai luoghi ed evitare il confronto).” (Cass. pen., Sez. I, 13 giugno 2017, n. 51262).

Con particolare riferimento alle ipotesi in cui la vittima dell’aggressione può evitare l’offesa con la fuga, deve precisarsi che questa potrà considerarsi valida

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alternativa alla reazione solo nelle ipotesi in cui le diverse reazioni che poterebbero mettersi in atto si presentino totalmente sproporzionate rispetto all’offesa ricevuta.

Tutte le anzidette valutazioni dovranno essere effettuate in relazione alle circostanze concrete in cui si svolge l’aggressione.

2) la proporzione tra difesa e offesa – che può ritenersi sussistente, secondo la dottrina e la giurisprudenza dominanti, quando vi sia congruità dei mezzi difensivi rispetto a quelli offensivi e quando vi sia proporzione tra il valore dei beni e degli interessi in conflitto. La Corte di Cassazione, in particolare, ha rilevato che “In tema di legittima difesa, il requisito della proporzione tra offesa e difesa viene meno nel caso di conflitto fra beni eterogenei, allorché la consistenza dell'interesse leso (la vita della persona) sia molto più rilevante, sul piano della gerarchia dei valori costituzionali, di quello difeso (l'integrità fisica), ed il danno inflitto con l'azione difensiva (la morte dell'offensore) abbia un'intensità e un'incidenza di gran lunga superiore a quella del danno minacciato (lesioni personali, neppure gravi al momento dell'inizio dell'azione omicida). (Fattispecie nella quale si era verificata una colluttazione a mani nude di breve durata, seguita poi dall'uso del coltello da parte dell'aggredito, il quale aveva colpito l'aggressore ripetutamente mentre costui indietreggiava).” (Cass.

pen., Sez. I, 26 novembre 2009, n. 47117).

Ovviamente il giudizio di proporzionalità tra i beni interessati non potrà avvenire semplicemente in astratto, ma dovrà essere sviluppato in maniera dinamica e concreta, valutando il grado di messa in pericolo a cui sono sottoposti i beni confliggenti.

La disciplina della legittima difesa è stata innovata dapprima con la legge 13 febbraio 2006, n. 59 e da ultimo con la legge 26 aprile 2019, n. 36.

L’intervento normativo del 2006 ha inserito nel corpo dell’art. 52 c.p. due ulteriori commi, che stabilivano che “2. Nei casi previsti dall'articolo 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o la altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione. 3. La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale.” (c.d. legittima difesa domiciliare).

Il fulcro della nuova norma è evidentemente rappresentato dalla presunzione del requisito della proporzione tra azione aggressiva (caratterizzata dall’abusiva introduzione dell’aggressore nel domicilio privato della vittima) e reazione difensiva

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(posta in essere con l’utilizzo di un’arma legittimamente detenuta o con altro mezzo idoneo al fine di difendere la propria o altrui incolumità o i beni propri o altrui dal pericolo di un’aggressione, purché però l’aggressore non desista).

Quanto alla struttura della nuova fattispecie della legittima difesa domiciliare, rispetto ai tradizionali requisiti previsti per la legittima difesa, la norma ne introduce di ulteriori al fine di giustificare e circoscrive la suddetta presunzione di proporzionalità.

In particolare, viene richiesto che:

− vi sia una violazione di domicilio, intendendosi come tale anche l’introduzione negli altri luoghi dove viene esercitata l’attività commerciale, professionale o imprenditoriale;

− il soggetto che si difende si trovi legittimamente sui luoghi di cui all’art. 614 c.p.

o in quelli ad essi assimilati;

− nel caso in cui il soggetto aggredito utilizzi un’arma al fine di autotutela è necessario che l’arma sia legittimamente detenuta.

Con riferimento ai beni oggetto di tutela, è necessario che la condotta descritta dal comma 2 dell’art. 52 c.p. sia diretta:

a) alla difesa della propria o altrui incolumità, ritenendosi che con il termine incolumità si faccia riferimento ai beni della vita e della integrità fisica;

b) alla difesa dei beni propri o altrui.

In tali ipotesi è necessario che non vi sia desistenza e che vi sia un pericolo di aggressione. Si ritiene che tale pericolo di aggressione si riferisca alla vita e all’incolumità fisica delle persone presenti nel domicilio.

Ultima questione che è stata sollevata dall’introduzione della legittima difesa domiciliare riguarda la natura della presunzione legale di proporzione.

Secondo un orientamento, infatti, si tratterebbe di una presunzione iuris et de iure, che priverebbe il giudice di ogni potere discrezionale, vincolandolo al riconoscimento della scriminante in presenza di tutte le suddette condizioni (che, si precisa, devono sussistere cumulativamente).

Secondo il prevalente indirizzo dottrinale e giurisprudenziale, invece, si tratterebbe di una presunzione dal carattere relativo, essendo circoscritta al solo requisito della proporzione, dovendosi invece accertare la sussistenza di tutti gli altri requisiti di cui al comma 1 dell’art. 52 c.p., benché non richiamati espressamente dal comma 2 dello stesso articolo. È quanto altresì sostenuto dalla Corte di Cassazione: “In tema di legittima difesa, le modifiche apportate dalla legge 13 febbraio 2006, n. 59 all'art. 52 cod. pen. hanno riguardato solo il concetto di proporzionalità, al dichiarato scopo di

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rafforzare il diritto di autotutela in un privato domicilio o in un luogo ad esso equiparato, fermi restando i presupposti dell'attualità dell'offesa e della inevitabilità dell'uso dell'arma come mezzo di difesa della propria o dell'altrui incolumità.” (Cass.

pen., Sez. I, 27 maggio 2010, n. 23221).

Proprio per superare i ristretti limiti tracciati dalla giurisprudenza di legittimità all'uso della violenza per difendere sé stesso e i propri beni, è intervenuto il legislatore del 2019.

In particolare, l'art. 1 della L. 36 del 2019 modifica il secondo comma dell'art. 52 c.p., specificando che si considera «sempre» sussistente il rapporto di proporzionalità tra la difesa e l'offesa.

Si tratta, in realtà, di un intervento inutile perché l'avverbio non è in grado di modificare in alcun modo l'interpretazione che della disposizione ha dato la costante giurisprudenza di legittimità.

Il nodo centrale dell'intervento di rafforzamento della «legittima difesa domiciliare» si trova, invece, al quarto comma dell'art. 52 c.p. il quale introduce la presunzione di

«legittima difesa» per «colui che compie un atto per respingere l'intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone».

È evidente l'intento del legislatore di introdurre una presunzione assoluta di legittima difesa domestica, non più ancorata al concetto di proporzione tra difesa e offesa, sicché chi entra con violenza in una privata dimora (o in luoghi equiparati) «imputet sibi» le conseguenze della propria azione, mentre chi difende sè stesso, i propri cari o i propri beni, non dovrà «rispondere della propria condotta, neppure a titolo di eccesso colposo in legittima difesa».

L’obiettivo è dunque quello di andare oltre la necessità della difesa e l'attualità del pericolo. Sembra cioè che, quando l'intrusione è avvenuta con violenza alle persone o alle cose ovvero con minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, sia presunta non solo la proporzione tra difesa e offesa, ma la necessità stessa della difesa, nel senso che il giudice non dovrebbe verificare se il pericolo poteva essere fronteggiato in altro modo (ad esempio fuggendo) o con modalità meno lesive (la forza muscolare; l'uso di un'arma non letale), prendendo anche in considerazione la tipologia di aggressione (assenza di armi; aggressore gracile).

In altre parole, in caso di non meglio precisate ipotesi di “intrusione” da respingere, la presunzione iuris et de iure abbraccia tutti i presupposti della legittima difesa di cui al primo comma e opera a fronte di violenza commessa con armi o altri – non meglio

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precisati – mezzi di coazione fisica” o anche solo di minaccia in tal senso, ove posta in essere anche da una sola persona.

L’intervento sull’art. 52 c.p. è completato nel disegno del legislatore, dal nuovo secondo comma dell’art. 55 c.p., in materia di eccesso colposo, ai sensi del quale, nei suddetti casi di legittima difesa domiciliare “la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’art. 61 primo comma n. 5, ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”.

Fermo restando che tale disposizione non è destinata ad incidere sui casi di eccesso doloso (quando cioè appaia una volontà diretta a ledere o uccidere da parte del reo, che sfrutta come mera occasione la situazione di aggressione), nelle ipotesi di eccesso colposo il legislatore introduce una causa di non punibilità ancorata allo stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto ovvero alle condizioni di minorata difesa, di cui al n. 5 dell’art. 61 c.p., legate al tempo, al luogo o alla persona che si difende, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa.

Tale modifica anche dell’art. 55 c.p. funge da “blindatura” della c.d. legittima difesa domiciliare “allargata”, introducendo una causa di non punibilità che di fatto opera in tutti i casi in cui il soggetto che si difende sia incorso in un eccesso colposo.

2.4. STATO DI NECESSITÀ.

La causa di giustificazione dello stato di necessità è prevista dall’art. 54 c.p. che al comma 1 statuisce “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.”.

Sebbene la fattispecie in questione abbia molte affinità con la legittima difesa, essendo entrambe dirette ad evitare un danno grave alla persona, se ne differenzia in quanto l’azione difensiva non ricade su un soggetto aggressore ma su un terzo estraneo, che cioè non ha provocato la situazione di pericolo. La causa della situazione di pericolo, infatti, è totalmente indifferente, potendo essa derivare anche da animali o dalle forze della natura. Esempio classico è quello del naufrago che, al fine di salvare se stesso, respinge il compagno aggrappatosi alla sua stessa tavola capace di sostenere una sola persona.

Per la sussistenza della scriminante in esame occorre il concorso di vari requisiti, ossia

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la situazione di pericolo e l’azione lesiva necessitata.

Quanto alla situazione di pericolo, essa deve essere:

- attuale, in quanto il danno che si cerca di evitare deve essere imminente o quantomeno probabile. Secondo parte della dottrina tale criterio temporale dell’imminenza cronologica del danno non sempre risulta necessario dal momento che in determinate situazioni è opportuno agire anticipatamente per evitare l’aggravamento delle potenzialità lesive insite nella situazione pericolosa (FIANDACA-MUSCO);

- non volontariamente causata dall’agente. La nozione di involontarietà è fortemente controversa. Secondo parte della dottrina, la scriminante non opererebbe in tutte le ipotesi in cui il soggetto agente abbia dato volontariamente causa al pericolo, non importa se dolosamente o colposamente. Altra parte della dottrina, invece, ritiene che non possano considerarsi volontariamente causate le situazioni di pericolo riconducibili a mera colpa dell’agente. Tale ultima tesi non può però essere condivisa dal momento che il requisito della involontarietà trova fondamento proprio nell’intenzione del legislatore di tutelare il soggetto terzo innocente che subisce il danno derivante da una condotta necessitata;

- non altrimenti evitabile. Tale requisito sta ad indicare la necessità di una valutazione rigorosa della mancanza di alternative per il soggetto agente. Rispetto alla scriminante della legittima difesa, ad esempio, si ritiene pacificamente che la fuga sarebbe sempre da preferire all’offesa cagionata al terzo innocente. L’unico limite in tal caso sarebbe quello dell’eventuale esposizione dell’agente a rischi maggiori rispetto a quelli del soggetto passivo dell’azione necessitata (FIANDACA-MUSCO).

- grave, ossia tale da giustificare il pregiudizio di un soggetto innocente. La valutazione della gravità potrà esprimersi sia in termini qualitativi, con riferimento cioè alla rilevanza del bene minacciato, sia in termini quantitativi, ossia avendo riguardo alla tipologia di lesione minacciata.

Passando all’analisi della azione lesiva necessitata, tale requisito esprime l’esigenza che il fatto commesso dall’agente deve essere assolutamente necessario per salvarsi.

Come già detto, non deve trattarsi di una semplice necessità ma di una necessità cogente qualificabile in termini di vera e propria inevitabilità. Essa deve inoltre essere proporzionata al pericolo. Anche tale giudizio sulla proporzione dovrà essere svolto in maniera più rigorosa rispetto a quello della legittima difesa, dal momento che ad essere offeso non sarà un soggetto aggressore ma un terzo incolpevole. Il consueto bilanciamento tra i beni in conflitto, proprio di tutte le cause di giustificazione, dovrà in questo caso tenere in considerazione il rango degli stessi, dipendendo la configurabilità

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della scriminante in esame dal sacrificio di un bene di rilevanza pari o inferiore rispetto a quello salvaguardato.

Ai sensi dell’art. 54, comma 2 c.p. lo stato di necessità “non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo”: ciò comporta che i soggetti incaricati dall’ordinamento di proteggere beni primari della collettività o dei singoli non possono dare prevalenza alla propria incolumità personale piuttosto che ai doveri d’intervento discendenti dal loro incarico. La ratio di tale disposizione si rinviene nella presupposizione da parte dell’ordinamento di essere di fronte a soggetti capaci di gestire le situazioni di pericolo, trovando il proprio limite, invece, in quelle situazioni atipiche per le quali il soggetto non possiede specifiche capacità di gestione.

L’art. 54, comma 3 c.p., infine, prevede che la scriminante in questione si applica anche se “lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia; ma in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo.”.

Tale ipotesi, identificata come “costringimento psichico”, ricorre quando un soggetto viene costretto da altro soggetto, mediante minaccia, a commettere un reato. A tal fine, la minaccia deve essere tale da ingenerare nell’agente un vero e proprio stato di necessità (GALLI).

2.5USO LEGITTIMO DELLE ARMI

Ai sensi dell’art. 53 c.p.: “Ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti, non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona”.

Si tratta di una causa di giustificazione di natura sussidiaria (in virtù della clausola di riserva posta all’inizio dell’art. 53 c.p.).

Soggetti che possono invocare tale scriminante sono solo i “pubblici ufficiali”, peraltro nell’adempimento di un dovere del proprio ufficio. Si tratta, quindi, di una causa di giustificazione propria. Molto dibattuta in dottrina è stata la nozione di pubblico ufficiale rilevante ai fini dell’individuazione dei soggetti che possono beneficiare della causa di giustificazione in esame.

L’orientamento prevalente ritiene preferibile un’interpretazione restrittiva, che circoscrive l’operatività dell’uso legittimo delle armi ai soli appartenenti alla forza

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pubblica.

Presupposti:

1. Adempimento di un dovere del proprio ufficio.

2. Necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità.

3. Proporzione tra mezzi impiegati e mezzi a disposizione (presupposto non risultante dalla norma ma elaborato dalla giurisprudenza e dottrina prevalenti).

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PARTE SECONDA

FOCUS GIURISPRUDENZIALE

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I) PRINCIPIO DI OFFENSIVITA’ E REATI IN MATERIA DI STUPEFACENTI.

Numerose questioni sono state sollevate, in dottrina e giurisprudenza, dall’analisi dei rapporti tra i reati in materia di stupefacenti ed il principio di offensività.

Con specifico riferimento alle condotte di “coltivazione” di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti, la giurisprudenza si è innanzitutto interrogata sulla compatibilità della fattispecie delineata dall’art. 75 del D.p.r. 309/90 con il principio costituzionale della offensività in astratto, là dove la coltivazione fosse ad uso personale con la conseguenza che non verrebbero lesi i beni della salute pubblica, dell’ordine pubblico, della sicurezza e del

“normale sviluppo delle giovani generazioni”.

Di recente la Corte Costituzionale con la sentenza n. 190/2016 ha ribadito l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale basata sulle suddette argomentazioni.

Così superata la questione di legittimità costituzionale, la giurisprudenza di legittimità si è continuata ad interrogare sulla ricerca di indicatori dimostrativi della concreta offensività della condotta di coltivazione ad uso personale (Cassazione penale, sez. VI, 28 aprile 2017, n.

35654; Cassazione penale, sez. III, 22 febbraio 2017, n. 36037; Cassazione penale, sez. VI, 1 febbraio 2017, n. 10931).

Con riferimento, invece, alle condotte di cessione di sostanze stupefacenti, si è posta la problematica dell’offensività o meno di quelle aventi ad oggetto una quantità di stupefacente inferiore alla soglia drogante. (in senso contrastante si vedano Cassazione sez. IV, 27 ottobre 2015, n. 4324; Cassazione penale, sez. V, 26 ottobre 2010, n. 3354)

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29   Cfr.  CAPRIGLIONE   –   SEMERARO,  op.  cit.,  p.  60;  SCARONI,  op.  cit.,  p.  823; 

 come: “il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione (urbanistica, sociale e culturale)