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PERCORSI DOTTRINA E GIURISPRUDENZA DI DIRITTO PENALE

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Academic year: 2022

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PERCORSI DOTTRINA E GIURISPRUDENZA DI DIRITTO PENALE

IV

CORSO INTENSIVO AVVOCATO 2021/2022 a cura dell’avv. Giulio Forleo

www.jurisschool.it

www.ildirittopenale.blogspot.com

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2 INDICE

Premessa………...….Pag. 4 PARTE PRIMA: ANALISI DEGLI ISTITUTI

1. LA COLPEVOLEZZA...6

1.1L’IMPUTABILITÀ...6

1.2.LE CAUSE DI ESCLUSIONE O DIMINUZIONE DELLIMPUTABILITÀ...8

1.2.1. Vizio di mente...9

1.2.2 Assunzione di sostanze alcoliche o stupefacenti...12

1.2.3 Il Sordomutismo...15

1.2.4 L’incapacità preordinata di intendere e di volere (c.d. actio libera in causae)...15

1.2.5 Determinazione in altri dello stato di incapacità allo scopo di far commettere un reato.,,,,,,,,...16

1.2.6. La minore età...17

1.3.COSCIENZA E VOLONTÀ...17

2.IL DOLO...18

2.1L’OGGETTO DEL DOLO...20

2.2 LE FORME DEL DOLO...21

2.3.L’INTENSITÀ DEL DOLO...25

PARTESECONDA:FOCUSGIURISPRUDENZIALE I) IL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA E FONDAMENTO COSTITUZIONALE...27

I.1CONCETTO DI INEVITABILITÀ E IGNORANZA DELLA LEGGE PENALE...28

I.2FURTO DUSO E PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA...28

I.3 MORTE O LESIONI COME CONSEGUENZA DI ALTRO DELITTO E PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA...29

II) CAUSE DI ESCLUSIONE O DIMINUZIONE DELL’IMPUTABILITÀ...30

II.1DISTURBI DELLA PERSONALITÀ E VIZIO DI MENTE...31

II.2UBRIACHEZZA ED INTOSSICAZIONE CRONICA DA STUPEFACENTI...32

II.3UBRIACHEZZA VOLONTARIA O COLPOSA ED ELEMENTO SOGGETTIVO...32

III) CAUSE DI ESCLUSIONE DELLA SUITAS...35

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III.1 IL COLPO DI SONNO...36

III.2IL MALORE IMPROVVISO...36

IV) IL DOLO SPECIFICO...38

IV.1IL DOLO SPECIFICO NEI REATI DI TERRORISMO...39

IV.2IL DOLO SPECIFICO E IL REATO DI RICETTAZIONE...39

V) IL DOLO ALTERNATIVO...40

V.1LANCIO DEI SASSI DAL CAVALCAVIA...41

V.2DOLO DIRETTO ALTERNATIVO...41

V.3TENTATIVO E DOLO ALTERNATIVO...41

VI) DOLO EVENTUALE...43

VI.1 LA SENTENZA THYSSENKRUPP...44

VI.2 DOLO EVENTUALE E RICETTAZIONE...44

VI.3DOLO EVENTUALE E VIZIO PARZIALE DI MENTE...45

VI.4DOLO EVENTUALE E DOLO ALTERNATIVO...45

VI.5 DOLO EVENTUALE E COLPA COSCIENTE: TRASMISSIONE MALATTIE INFETTIVE...46

VI.6DOLO EVENTUALE ED OMISSIONE DI SOCCORSO...46

VII) DOLO COLPITO A MEZZA VIA DALL’ERRORE...48

VII.1CASISTICA GIURISPRUDENZIALE...49

VIII) DOLO D’IMPETO E DI PREMEDITAZIONE...50

VIII.1DOLO DIMPETO...51

VIII.2DOLO DI PREMEDITAZIONE...51

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Premessa Gentili ragazze/i,

con questo quarto modulo di penale affronteremo le problematiche relative all’elemento soggettivo del reato.

Al pari della dispensa di diritto penale 3, gli argomenti che tratteremo hanno costituito elemento di dibattito in dottrina e in giurisprudenza sotto plurimi aspetti. Si tratta, altresì, di tematiche che costituiscono oggetto di valutazione sia agli scritti che all’orale dell’esame di avvocato.

Basta evidenziare che tra i vari focus che approfondiremo ci saranno quelli relativi alle differenze tra dolo eventuale e colpa cosciente, alle cause di esclusione dell’imputabilità e alle varie forme di manifestazione del dolo.

Per ulteriori chiarimenti relativi al corso, resto sempre a vostra disposizione all’indirizzo Jurisschool@gmail.com.

Buono studio e buon lavoro.

Avv. Prof. Giulio Forleo

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PARTE PRIMA

ANALISI DEGLI ISTITUTI

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L’ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO

1. LA COLPEVOLEZZA.

Come già accennato nell’analisi della struttura del reato, affinché un fatto sia penalmente perseguibile deve essere non solo tipico e antigiuridico, ma anche colpevole.

Il giudizio di colpevolezza costituisce, infatti, il momento di accertamento conclusivo dell’illecito penale: ad esso compete l’esclusione della rilevanza penale di un fatto corrispondente, sul piano oggettivo, ad una fattispecie tipica di reato, laddove il medesimo non sia stato dominabile in concreto dal soggetto agente.

Il principio di colpevolezza trova il suo fondamento nell’art. 27, comma 1 Cost., il quale, statuendo che la responsabilità penale è personale e sancendo di fatto il divieto della responsabilità oggettiva, ancora il diritto penale al principio inderogabile della responsabilità per fatto proprio colpevole, secondo cui anche l’evento causato dal soggetto, ma a lui non psicologicamente attribuibile, non può dirsi personale (MANTOVANI).

In altre parole, all’agente si rimprovera un fatto compiuto con un certo grado di partecipazione psichica, non un’attitudine, una qualità personale.

Proprio il riferimento all’art. 27 Cost. è stato utilizzato in recenti sentenze della Corte di Cassazione per escludere la sussistenza nel nostro ordinamento di tracce seppur minime di responsabilità oggettiva. In merito all’evoluzione giurisprudenziale che ha valorizzato tale interpretazione dell’art. 27 Cost. si veda il successivo focus giurisprudenziale.

Secondo quella che viene definita come concezione normativa della colpevolezza, i suoi presupposti e/o requisiti sono rappresentati da:

a) l’imputabilità;

b) il dolo o la colpa;

c) la conoscibilità del precetto penale;

d) l’assenza di cause di esclusione della colpevolezza.

1.1.L’IMPUTABILITÀ.

In virtù dell’art. 85 c.p., rubricato “capacità di intendere e di volere”, è previsto che

“nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”.

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La categoria dell’imputabilità riguarda, dunque, la presenza o l’assenza di determinate condizioni, relative al soggetto agente, determinanti l’applicabilità o meno della pena.

In altre parole, l’imputabilità, in quanto capacità di intendere o di volere, costituisce “la sintesi delle condizioni fisico-psichiche che consentono l’ascrizione di responsabilità all’autore di un fatto corrispondente ad una previsione legale e che rendono, pertanto, tale fatto un reato meritevole di pena. In questa sua funzione, la (piena) capacità di intendere e di volere è assunta in un senso fondamentalmente unitario e segnala la costituzione fisica e spirituale di una persona che, al momento in cui ha commesso il fatto, era maggiore di età, sana (di fisico e) di mente e si trovava in una situazione di normalità” (ROMANO).

Il concetto di imputabilità è stato per anni al centro di un dibattito circa la sua collocazione sistematica tra chi ne sosteneva la sua anteriorità rispetto al reato (c.d.

concezione psicologica) e chi la inquadrava come presupposto della colpevolezza (c.d.

concezione normativa).

Tale dibattito è stato risolto in favore della concezione normativa dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 25 gennaio 2005 n. 9163, secondo cui

“nonostante tale collocazione sistematica, la imputabilità non si limita ad essere una

"mera capacità di pena" o un "semplice presupposto o aspetto della capacità giuridica penale", ma il suo "ruolo autentico" deve cogliersi partendo, appunto, dalla teoria generale del reato; ed icasticamente si chiarisce al riguardo che, "se il reato è un fatto tipico, antigiuridico e colpevole e la colpevolezza non è soltanto dolo o colpa ma anche, valutativamente, riprovevolezza, rimproverabilità, l'imputabilità è ben di più che non una semplice condizione soggettiva di riferibilità della conseguenza del reato data dalla pena, divenendo piuttosto la condizione dell'autore che rende possibile la rimproverabilità del fatto" essa, dunque, non è "mera capacità di pena", ma "capacità di reato o meglio capacità di colpevolezza", quindi, nella sua "propedeuticità soggettiva rispetto al reato, presupposto della colpevolezza" non essendovi colpevolezza senza imputabilità.”.

Quanto al contenuto della formula normativa dettata dall'art. 85 c.p.:

a) la capacità di intendere è pacificamente riconosciuta nella idoneità del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie azioni, ad "orientarsi nel mondo esterno secondo una percezione non distorta della realtà", e quindi nella capacità di rendersi conto del significato del proprio comportamento e di valutarne conseguenze e ripercussioni, ovvero di proporsi "una corretta rappresentazione del mondo esterno e della propria condotta" (Cass., Sez. I, n. 13202/1990);

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b) la capacità di volere, invece, consiste nella idoneità del soggetto medesimo "ad autodeterminarsi, in relazione ai normali impulsi che ne motivano l'azione, in modo coerente ai valori di cui è portatore "nel potere di controllare gli impulsi ad agire e di determinarsi secondo il motivo che appare più ragionevole o preferibile in base ad una concezione di valore" nella attitudine a gestire una efficiente regolamentazione della propria, libera autodeterminazione" (Cass, Sez. I, n.

13202/1990, cit.), in sostanza nella capacità di intendere i propri atti (nihil volitum nisi praecognitum).

Il riferimento della norma a entrambi i suindicati concetti, la capacità di intendere e quella di volere, rende poi evidente come, de iure condito, la imputabilità debba essere congiuntamente riferita ad entrambe tali attitudini, difettando essa in mancanza anche di una sola delle stesse.

Il citato art. 85 c.p. ci permette altresì di desumere altri due elementi fondamentali ai fini della sussistenza della imputabilità:

1) il momento della commissione del fatto, dovendo il soggetto possedere la capacità di intendere e di volere nel momento in cui ha compiuto la condotta illecita (si badi bene, non nel momento in cui si verifica l’evento, che potenzialmente potrebbe sopraggiungere quando l’agente ha già riacquistato la suddetta capacità);

2) il singolo fatto concreto, e cioè la necessità che il soggetto sia in grado di percepire il disvalore della sua condotta in riferimento a quel determinato fatto specifico.

È opinione condivisa che sussista una presunzione iuris tantum di imputabilità dei soggetti maggiorenni, i quali saranno tenuti, per escluderla, a provare il proprio vizio di mente o altra causa di esclusione della stessa.

1.2.LE CAUSE DI ESCLUSIONE O DIMINUZIONE DELLIMPUTABILITÀ.

Le cause di esclusione e di diminuzione dell’imputabilità sono disciplinate dagli artt. 88- 96 c.p. e sono rappresentate da:

a) vizio di mente;

b) assunzione di sostanze alcoliche o stupefacenti;

c) minore età;

d) sordità.

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1.2.1. Vizio di mente.

In particolare, l’infermità di mente è prevista dall’art. 88 c.p., secondo cui non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere.

Dalla lettera della norma emerge in maniera evidente come il legislatore abbia accolto una concezione dinamico-psicologica della malattia mentale, la cui rilevanza non potrà essere valutata in maniera astratta, dovendosi in concreto determinare se quella determinata alterazione mentale abbia effettivamente azzerato la capacità di intendere e di volere del soggetto agente.

A tal proposito si dovranno ricomprendere nel novero delle infermità anche quelle fisiche (ad esempio un forte stato febbrile) che abbiano determinato un vizio di mente.

Con particolare riferimento ai disturbi della personalità, a fronte di numerosi dibattiti sorti in merito alla necessità di definire l’origine dell’infermità di mente rilevante penalmente (modello - paradigma medico, piscologico o sociologico), la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato invece l’opportunità di indagare in merito all’intensità del disturbo e alla sussistenza del nesso eziologico tra il disturbo e lo stato di incapacità che ha condotto alla realizzazione del fatto criminoso.

È quanto autorevolmente sostenuto dalla Suprema Corte di Cassazione, che ha evidenziato come “Invero i disturbi della personalità (nevrosi e psicopatie), pure aderendo all'interpretazione espressa nella sentenza delle SS.UU. n. 9163 del 25 gennaio 2005 - 8 marzo 2005 (Presidente N. Marvulli, Relatore F. Marzano), possono sì essere apprezzati alla luce delle norme degli artt. 88 ed 89 c.p., con conseguente pronuncia di totale o parziale infermità di mente dell'imputato, a condizione però che essi siano connotati - con riferimento alla specifica capacità di intendere e di volere del soggetto agente - da puntuali qualità, globalmente in grado di incidere sulla capacità di ragionevole autodeterminazione dell'autore del fatto illecito, eliminandola in modo radicale (art. 88 cod. pen.) o riducendola grandemente (art. 89 cod. pen.). Tali caratteristiche del disturbo di personalità, la cui sussistenza deve trovare adeguato e coerente supporto giustificativo nella decisione ablativa (art. 88 cod. pen.) o riduttiva dell'imputabilità (art. 89 cod. pen.), devono essere però riscontrate e valorizzate con un finale giudizio di sintesi che va, di necessità, sviluppato e condotto unitariamente con riferimento a tre sinergici e coesistenti parametri:

1) consistenza e intensità: intese come entità concreta e forte del disturbo;

2) rilevanza e gravità: considerate come valore importante della patologia;

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3) rapporto motivante con il fatto commesso: spiegato come "correlazione psico- emotiva di corrispondenza" del disagio psichico, rispetto al concreto fatto illecito commesso.” (Cass. pen., Sez. VI, 15 maggio 2008, n. 22440).

Secondo un’interpretazione oramai consolidata, esulano invece dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle cosiddette "abnormità psichiche", come nevrosi d'ansia o reazioni a "corto circuito", che hanno natura transitoria e non sono indicative di uno stato morboso, inteso come ragionevole alterazione della capacità di intendere e di volere, sicché non in grado di incidere sull'imputabilità del soggetto che ne è portatore (In tal senso si vedano le sentenze Cassazione penale sez. VI 12 aprile 2007 n. 21867; Cassazione penale, sez. I, 16/04/2014, n. 2329).

Parimenti esclusi, per espressa previsione normativa da parte dell’art. 90 c.p., dalla categoria dei vizi di mente sono gli “stati emotivi e passionali” che, dunque, non escludono nè diminuiscono l’imputabilità.

Sul punto la Corte di Cassazione ha affermato che “In tema di imputabilità, la capacità di controllo delle proprie azioni va distinta dalla capacità di intendere e di volere, in quanto capacità del soggetto di modulare e calibrare la sua condotta in funzione di elementi condizionanti di ordine etico, religioso ed educativo che, afferendo e integrandosi nel nucleo della personalità del soggetto, lo dotano sia del senso critico che di quello autocritico, e che agiscono comemodulatori dell'istintualità e dell'impulsività. Ne consegue che l'indebolimento dei freni inibitori non incide sulla capacità di intendere e di volere e quindi sull'imputabilità, laddove esso non dipenda da un vero e proprio stato patologico ovvero da "disturbi della personalità" che, pur non propriamente inquadrabili nel novero delle malattie mentali, integrino comunque una situazione di “infermità”, perché idonei, per consistenza, intensità e gravità, di incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere (sezioni Unite, 25 gennaio 2005, Raso). Ciò perché gli stati emotivi o passionali, per loro stessa natura, sono tali da incidere, in modo più o meno massiccio, sulla lucidità mentale del soggetto agente senza che ciò, tuttavia, per espressa disposizione di legge, possa escludere o diminuire l'imputabilità, occorrendo a tal fine un “quid pluris” che, associato allo stato emotivo o passionale, si traduca in un fattore determinante un vero e proprio stato patologico, sia pure di natura transeunte e non inquadrabile nell'ambito di una precisa classificazione nosografica. (Da queste premesse, è stato rigettato il ricorso avverso la sentenza di condanna per il reato di resistenza e lesioni aggravate in danno di pubblico ufficiale con cui si sosteneva che l'intensa situazione di "stress emotivo, agitazione e paura" in cui si sarebbe trovato l'imputato avrebbe fatto venire meno la consapevolezza della condotta aggressiva)” (Cassazione penale, sez. VI, 26/06/2013, n. 34089).

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Un’importante distinzione viene compiuta dal Codice penale tra il vizio totale di mente di cui all’esaminato art. 88 c.p. ed il vizio parziale di mente di cui al successivo art.

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Secondo tale ultima disposizione “Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita.”

Sia in dottrina che in giurisprudenza si affida la distinzione tra vizio totale e parziale di mente ad un criterio meramente quantitativo e non qualitativo, prendendo la legge in considerazione il “grado” dell’alterazione mentale e non la sua estensione.

In altre parole si parla di vizio parziale quando l’anomalia interessa la mente in misura meno grave e non quando riguarda un solo settore della mente stessa.

Nell’ipotesi di vizio parziale, rimanendo il soggetto agente comunque imputabile (pur beneficiando di una diminuzione della pena), si sono rese necessarie tutta una serie di valutazioni di compatibilità con gli altri elementi del reato, ed in particolare con le circostanze attenuanti ed aggravanti.

In proposito si segnalano le seguenti precisazioni della giurisprudenza in merito a:

1. dolo specifico – “Se non vi è in linea di principio alcuna incompatibilità fra il vizio parziale di mente e la sussistenza del dolo generico o del dolo eventuale, maggiormente problematica, o quantomeno necessariamente oggetto di una più approfondita verifica, è invece la compatibilità fra la seminfermità mentale ed il dolo specifico (fattispecie relativa alla contestazione del reato di corruzione di minorenne nei confronti di un soggetto affetto da vizio parziale di mente)” (Cassazione penale, sez. III, 25 ottobre 2017, n. 13996);

2. recidiva – “Non sussiste incompatibilità tra la recidiva ed il vizio parziale di mente, in quanto quest'ultimo non impedisce di rinvenire nella condotta dell'agente l'elemento soggettivo del dolo” (Cassazione penale, sez. VI, 19/04/2017, n. 27086);

3. dolo eventuale – “La capacità di intendere e volere del soggetto autore di reato, sebbene costituisca un presupposto della colpevolezza, si pone su di un piano diverso rispetto all’elemento psicologico in senso stretto, ovvero il dolo o la colpa. La reciproca autonomia concettuale che caratterizza il rapporto tra il vizio di mente, che esclude o attenua la capacità di intendere e volere, e l’elemento psicologico del reato e, segnatamente, il dolo, fa si che il vizio parziale di mente risulti compatibile con il dolo eventuale” (Cassazione penale, sez. V, 19/09/2014, n. 14548);

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4. premeditazione – “La premeditazione può risultare incompatibile con il vizio di mente (nella specie, parziale) nella sola ipotesi in cui consista in una manifestazione dell'infermità psichica da cui è affetto l'imputato, nel senso che il proposito criminoso coincida con un'idea fissa ossessiva facente parte del quadro sintomatologico di quella determinata infermità” (Cassazione penale, sez. I, 04/02/2009, n. 9015);

5. onere della prova “Il giudice di merito ha il dovere di dichiarare d'ufficio la mancanza di condizioni di imputabilità soltanto quando sia evidente la prova della totale infermità di mente, mentre l'eventuale vizio parziale di mente costituisce una semplice circostanza attenuante che deve essere allegata dall'imputato” (Cassazione penale, sez. IV, 18 settembre 2013, n. 41095);

6. aggravante motivi abietti o futili “Non sussiste, sul piano astratto, alcuna incompatibilità tra il vizio parziale di mente e la circostanza aggravante di cui all'art.

61, comma 1, n. 1 c.p. in quanto i motivi abietti o futili non costituiscono in sé una costante e diretta estrinsecazione della infermità per la quale la capacità di intendere e di volere può risultare grandemente scemata. Il giudizio di compatibilità deve essere svolto tramite un apprezzamento della situazione sottoposta in concreto al giudice di merito” (Cassazione penale, sez. V, 06/12/2016, n. 13515);

7. aggravante sevizie e crudeltà “Il vizio parziale di mente esclude la configurabilità della circostanza aggravante prevista dal n. 4 dell'art. 61 c.p. quando la condotta inumana e crudele sia l'effetto della riscontrata malattia. (Nella specie, la Corte ha escluso l'aggravante in quanto il numero elevato di colpi di arma bianca, con cui l'omicida aveva colpito la vittima, era conseguente all'esplosione di rabbia tipica del vizio mentale da cui era afflitto)” (Cassazione penale, sez. I, 04/11/2011, n. 20995);

8. giudizio di comparazione “Il vizio parziale di mente, attenendo alla sfera dell'imputabilità, è una circostanza inerente alla persona del colpevole ed è pertanto soggetto al giudizio di comparazione, che ha carattere unitario” (Cassazione penale, sez. I, 27/10/2010, n. 40812).

1.2.2 Assunzione di sostanze alcoliche o stupefacenti.

L’ipotesi certamente più frequente di causa di esclusione dell’imputabilità è quella data dall’intossicazione da sostanze alcoliche o stupefacenti.

Il codice regola diversamente il trattamento sanzionatorio a seconda che l’intossicazione sia accidentale, volontaria o colposa, preordinata a commettere un reato, abituale o cronico.

L’unica ipotesi in cui l’ubriachezza (o l’effetto degli stupefacenti) esclude totalmente la

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punibilità è quella c.d. accidentale “derivata da caso fortuito o forza maggiore” e disciplinata dall’art. 91 c.p..

Al secondo comma della norma è invece prevista una diminuzione della pena “se l’ubriachezza non era piena, ma era tale tuttavia da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere”.

L’ubriachezza volontaria o colposa è invece regolamentata dall’art. 92 c.p. secondo cui “L’ubriachezza non derivata da caso fortuito o da forza maggiore non esclude nè diminuisce la imputabilità”.

Facendo semplicemente riferimento alla mancanza del caso fortuito o della forza maggiore (ad esempio là dove l’agente abbia assunto una bevanda alcolica nell’assoluta convinzione che sia analcolica), la disposizione trova applicazione sia nel caso in cui l’agente abbia voluto ubriacarsi, sia nell’ipotesi in cui egli si sia ubriacato per imprudenza e negligenza.

In questo caso, la ratio della norma è evidentemente quella di non concedere scusanti a chi ha deliberatamente limitato la propria capacità di intendere volere, assumendosi il rischio di porre in essere un comportamento penalmente rilevante.

Tale impostazione normativa è stata fortemente criticata da parte della dottrina sul rilievo che, comunque, l’ubriaco volontario, al momento della condotta criminosa, è sprovvisto di capacità di intendere e di volere, pertanto sarebbe difficile stabilire se egli debba rispondere a titolo di dolo o colpa.

Sul punto, la dottrina più risalente, richiamando l’istituto dell’actio libera in causa di cui all’art. 87 c.p., sostiene che al fine di accertare l’elemento psicologico del reato commesso dall’ubriaco si deve avere riguardo al momento in cui egli si pone nello stato di alterazione: se si ubriaca per negligenza, egli risponderà del reato commesso sempre a titolo colposo.

La dottrina più recente, invece, ritiene che la suddetta soluzione determinerebbe una illegittima confusione tra l’accertamento dello stato psicologico che accompagna la condizione di ubriachezza e quello che presiede la commissione del successivo reato.

Secondo tale ultimo filone ermeneutico, anche alle ipotesi di ubriachezza volontaria o colposa si dovrebbe applicare il generale principio di contemporaneità tra capacità di intendere e di volere e commissione del fatto: l’agente risponderà a titolo di dolo se, nel momento in cui ha commesso il reato, ha voluto il fatto; egli dovrà essere chiamato a rispondere a titolo di colpa se nella sua condotta potranno ravvisarsi gli estremi dell’imprudenza o della negligenza.

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In tal senso si è pronunciata altresì la Suprema Corte di Cassazione, la quale ha affermato che “La regola secondo cui l'imputabilità non è esclusa né diminuita dall'ubriachezza o dall'assunzione di sostanze stupefacenti, a meno che esse non siano conseguenza di caso fortuito o forza maggiore, non esime dal dovere di accertamento della colpevolezza attraverso l'indagine sull'atteggiamento psicologico tenuto dall'agente al momento della commissione del fatto ascrittogli” (Cassazione penale, sez. I, 11/03/2015, n.

18220).

Anche tale soluzione non si può ritenere del tutto scevra da critiche, dal momento che la “finzione di imputabilità” comunque posta dall’art. 92, comma 1, c.p. finisce col tradursi in una “finzione” dell’elemento psicologico che, solo fittiziamente (in quanto riferito ad un soggetto dallo stato psichico alterato), può inquadrarsi nelle consuete forme del dolo e della colpa.

Altra forma di ubriachezza è quella c.d. preordinata, prevista dall’art. 92, comma 2, c.p. che, riproponendo lo schema dell’actio libera in causa di cui all’art 87 c.p., stabilisce che “Se l’ubriachezza era preordinata al fine di commettere il reato, o di prepararsi una scusa, la pena è aumentata”.

A differenza che nel primo comma, in questo caso il reato è già programmato e voluto al momento in cui si determina lo stato di ubriachezza.

L’ubriachezza abituale, ai sensi dell’art. 94 c.p., non solo non esclude o diminuisce l’imputabilità, ma comporta un aumento di pena e la possibilità di applicare la misura di sicurezza della casa di cura o della libertà vigilata.

Requisiti per configurare tale forma di alterazione sono:

a) la dedizione all’uso di bevande alcoliche;

c) lo stato frequente di ubriachezza.

Il terzo comma dell’art. 94 prevede il medesimo aggravamento di pena anche per chi abitualmente è dedito all’uso di sostanze stupefacenti.

Infine, l’ubriachezza o l’intossicazione cronica da sostanza stupefacenti si ha quando l’intossicazione comporta alterazioni patologiche permanenti, destinate a non scomparire neppure con la cessazione dell’uso delle sostanze dannose.

In tali ipotesi, equiparabili ai casi di malattia psichica, sebbene non facilmente distinguibili da quelle di ubriachezza abituale, l’art. 95 c.p. stabilisce che “si applicano le disposizioni contenute negli articoli 88 e 89”.

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Secondo l’interpretazione giurisprudenziale ormai consolidata, nel caso di assunzione di sostanze stupefacenti, si configura l’ipotesi dell’art. 95 c.p. quando il tossicodipendente si trovi in quella che viene definita come “crisi di astinenza” (fase in cui la capacità di intendere e di volere è gravemente compromessa).

1.2.3 Il Sordomutismo.

Ai sensi dell’art. 96 c.p. “Non è imputabile il sordo che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva, per causa della sua infermità, la capacità di intendere e di volere.

Se la capacità di intendere e di volere era grandemente scemata, ma non esclusa, la pena è diminuita”.

La disposizione in questione non ravvisa nel sordomutismo uno stato necessariamente psicopatologico, ma richiede soltanto che nel sordomuto tanto la capacità quanto l’incapacità formi oggetto di specifico accertamento caso per caso.

Parte della dottrina ritiene che la norma in realtà si superflua, dal momento che il sordomutismo potrebbe benissimo essere ricompreso nelle fattispecie di cui agli artt. 88 e 89 c.p..

1.2.4 L’incapacità preordinata di intendere e di volere (c.d. actio libera in causae).

All’art. 87 il codice penale disciplina la c.d. incapacità preordinata (definita anche actio libera in causae) costituita dallo stato preordinato di incapacità di intendere o di volere procurato dal soggetto agente al fine di commettere una fattispecie di reato.

In particolare, tale norma prevede che “la disposizione della prima parte dell’art. 85 non si applica a chi si è messo in stato di incapacità di intendere o di volere al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa”.

La ratio della norma è, dunque, quella di non garantire scusanti a chi si è volontariamente reso incapace proprio al fine di commettere un reato. L’azione compiuta in stato di incapacità viene ricondotta al momento anteriore in cui il soggetto, pienamente capace, si è reso incapace.

Discussa in dottrina è la possibilità di far rientrare nell’ipotesi di incapacità preordinata anche quella determinata in maniera colposa:

- a favore della tesi negativa, ANTOLISEI ha sottolineato il dato letterale della disposizione, che si riferisce all’ipotesi di volontaria messa in stato di incapacità;

- in senso favorevole, invece, si ritiene che il principio dell’art. 87 varrà anche nell’ipotesi di incapacità colposa allorquando, al momento in cui il soggetto si è reso

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incapace, fu prevista, pur se non accettata (o comunque era prevedibile ed evitabile) l’azione criminosa successivamente commessa (MANTOVANI).

Quanto al titolo della responsabilità, la dottrina si è divisa in tre diversi filoni interpretativi:

a) il primo – e più risalente – è quello che tende a valorizzare l’elemento psicologico tenuto dal soggetto agente nel momento in cui si è posto in stato di incapacità (egli risponderà a titolo di dolo o colpa a seconda che si sia procurato l’incapacità in maniera dolosa o colposa);

b) altro indirizzo ritiene che l’atteggiamento psicologico vada indagato al momento in cui è stato commesso il fatto di reato;

c) un terzo orientamento, considerato intermedio, ritiene invece che debba svolgersi un giudizio bifasico, in cui constatare la corrispondenza fra preordinazione e fatto realizzato, in linea con il principio di colpevolezza. Secondo tale ultima tesi, che si ritiene preferibile, qualora il reato commesso sia diverso da quello per la cui realizzazione il soggetto si era reso incapace, quest’ultimo ne risponderà a titolo di dolo eventuale se ne ha accettato il rischio o a titolo di colpa se il fatto commesso era conseguenza prevedibile della procurata incapacità

1.2.5 Determinazione in altri dello stato di incapacità allo scopo di far commettere un reato.

Dall’analizzata fattispecie di cui all’art. 87 c.p. si deve distinguere quella prevista dal precedente art. 86 c.p., secondo cui “Se taluno metta altri nello stato di incapacità di intendere o di volere, al fine di fargli commettere un reato, del reato commesso risponde chi ha cagionato lo stato di incapacità”.

Tale ipotesi, c.d. di reità mediata, trova una sua specificazione nell’art. 613 c.p., alla cui stregua “1. Chiunque, mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcooliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei, in stato d'incapacità d'intendere o di volere, è punito con la reclusione fino a un anno. 2. Il consenso dato dalle persone indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo 579 non esclude la punibilità. 3. La pena è della reclusione fino a cinque anni: 1) se il colpevole ha agito col fine di far commettere un reato; 2) se la persona resa incapace commette, in tale stato, un fatto preveduto dalla legge come delitto.”.

Al fine della configurazione della fattispecie prevista dall’art. 86 c.p. è necessario che lo stato di incapacità procurato in altri sia totale e che il determinato commetta esattamente la fattispecie di reato voluta dal soggetto che lo ha reso incapace.

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Discusso invece è il titolo di ascrivibilità del fatto commesso al determinatore nel caso in cui il soggetto determinato realizzi un reato diverso da quello voluto dal determinatore stesso.

Secondo un primo filone interpretativo, dovrà estendersi la responsabilità al determinatore ai sensi dell’art. 116 c.p..

Secondo altra tesi ermeneutica, invece, si dovrà ricorrere alle fattispecie di aberratio ictus e aberratio delicti di cui agli artt. 82 e 83 c.p..

1.2.6. La minore età.

Ultima causa di esclusione dell’imputabilità è quella rappresentata dalla minore età.

Essa è disciplinata:

a) dall’art. 97 c.p., che prevede la non imputabilità del soggetto agente minore degli anni 14;

b) dall’art. 98 c.p., che, con riferimento ai soggetti aventi un’età tra i 14 e i 18 anni, non prevede una presunzione di non punibilità ma delega al giudice la valutazione caso per caso della sussistenza o meno della capacità di intendere e di volere, che, laddove accertata, potrà essere valutata in termini di diminuzione della pena. In proposito, la Corte di Cassazione ha precisato che “per dimostrare l’eventuale immaturità del minore infradiciottenne rispetto allo specifico tipo di condotta posta in essere, l’indagine deve essere volta all’accertamento della maturità psichica raggiunta dal minore. Qualora lo sviluppo morale e intellettuale del giovane sia tale da fargli comprendere la portata e le conseguenze del proprio comportamento, allora il minore può essere ritenuto imputabile, anche se con la diminuente della pena ex art. 98 c.p.” (Cass. pen., Sez. V., 19 ottobre 2010, n. 1498).

1.3. COSCIENZA E VOLONTÀ.

L’art. 42, comma 1 c.p. stabilisce che “nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà”.

Riconoscimento del principio cogitationis poenam nemo patitur, il requisito della coscienza e volontà, unitariamente definito come suitas, delinea il confine tra ciò che è reato e ciò che non lo è.

In un sistema dominato dal principio personalistico della responsabilità penale, di cui

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all’art. 27 Cost., infatti, risulta necessario, prima ancora di definire se il soggetto abbia agito con dolo o colpa e se egli sia o meno imputabile, se il fatto rientri nella sfera di dominabilità dell’agente.

Sennonché se abbiamo visto che l’imputabilità è un modo di essere del soggetto nel momento in cui mette in atto una condotta, diversamente la suitas indica l’appartenenza della azione od omissione all’agente (GAROFOLI).

Quanto al contenuto della formula legislativa “coscienza e volontà” si sono succedute nel tempo due differenti impostazioni:

a) secondo una prima tesi tale formula andrebbe intesa nel senso di significato psicologico reale: è richiesto un reale impulso cosciente della volontà diretto alla produzione del movimento muscolare (azione) o a conservare lo stato di inerzia (omissione);

b) al fine di superare le evidenti difficoltà applicative di tale concetto nei reati omissivi determinati da dimenticanza e nei reati che si connotano per colpa incosciente (caratterizzati da atti automatici), si è ritenuto di estendere il significato di coscienza e volontà anche a quelle condotte potenzialmente dominabili dal soggetto agente. In tal modo, dovranno essere ricollegate all’agente non solo le condotte scaturenti da un effettivo impulso del volere ma anche quelle che pur non essendolo sono dallo stesso dominabili con uno sforzo della volontà. Tale impostazione consente, dunque, nelle suddette ipotesi di colpa incosciente o di reati dovuti a dimenticanza di identificare la coscienza e volontà a seguito di un giudizio ipotetico di dominabilità della condotta da parte del soggetto agente.

Si è soliti considerare quali cause di esclusione della suitas la forza maggiore, il costringimento fisico e l’incoscienza indipendente dalla volontà.

Con specifico riferimento a quest’ultima causa di esclusione della suitas, sarà considerata incosciente l’azione od omissione che non sia voluta dall’agente e che non derivi da una sua imprudenza o negligenza. Rientrano in tale situazione le casistiche relative al malore improvviso e al colpo di sonno imprevedibili, per l’approfondimento delle quali si rinvia al successivo focus giurisprudenziale.

2. IL DOLO.

Il dolo è la forma fondamentale, generale ed originaria di colpevolezza (MANTOVANI).

Essendo il reato violazione di un comando di legge, la disobbedienza, la ribellione è

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piena e completa solo quando il soggetto ha voluto il fatto vietato (ANTOLISEI).

Risulta naturale perciò la regola espressa dall’art. 42, comma 2 c.p., per cui “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge”.

Costituendo, pertanto, la responsabilità dolosa la regola per i delitti, in essi non sarà necessario un espresso richiamo a tale criterio di imputazione soggettiva, che invece dovrà essere esplicitato nel caso in cui si voglia punire un determinato fatto a titolo di colpa o di preterintenzione (es. artt. 584 e 589 c.p.).

Il codice penale fornisce un’espressa definizione di dolo all’art. 43, che al primo comma stabilisce che “il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”.

Sebbene tale disposizione esprima il nucleo del dolo, teso ad abbracciare tutti gli elementi del fatto, per ottenere una visione completa di tale forma dell’elemento soggettivo bisognerà tenere in considerazione tutta una serie di altre norme (artt. 5, 44, 47, 59 c.p.) che permetteranno di comprendere la sua applicabilità nelle varie tipologie di reato (commissivo, omissivo, consumato, tentato, istantaneo, permanente, ecc.).

Partendo dalla formulazione dell’art. 43 c.p., si desume anzitutto come il dolo sia costituito dal concorso di due componenti:

1) la rappresentazione, ossia la visione anticipata del fatto che costituisce il reato (momento conoscitivo o intellettivo);

2) la volontà, e cioè la risoluzione del soggetto agente alla realizzazione del fatto rappresentato (momento volitivo).

Quanto all’elemento intellettivo, si richiede che il soggetto si rappresenti o conosca tutti gli elementi del fatto tipico, nonché gli eventi futuri che si prospettano come risultato della propria condotta criminosa (ad es. la morte del soggetto colpito con un colpo di pistola alla testa) ed il nesso causale tra l’azione e l’evento. Come vedremo più avanti, tale momento conoscitivo si ritiene parimenti configurato nell’ipotesi in cui l’agente si trovi in uno stato di dubbio in ordine ad uno o più elementi della fattispecie.

L’ordinamento, infatti, considera diversamente il soggetto che agisce senza rappresentarsi minimamente la possibilità di commettere un reato da colui che, invece, oltre a rappresentarsela, accetta il rischio che si verifichi. Ovviamente lo stato di dubbio

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non rileverà, ai fini della configurabilità del dolo, in quelle fattispecie in cui è lo stesso legislatore a richiedere una piena conoscenza di tutti gli elementi del reato (si veda, ad esempio, il reato di calunnia di cui all’art. 368 c.p.).

Con riferimento, invece, all’elemento volitivo, è necessario accertare che l’agente, dopo essersi rappresentato tutti gli elementi del fatto tipico, abbia voluto realizzarlo. In linea con quanto detto sopra, l’elemento volitivo si riterrà configurato anche nell’ipotesi in cui il soggetto che agisce nel dubbio si limiti ad accettare il rischio del verificarsi dell’evento.

In ossequio al principio cogitationis poenam nemo patitur, affinché si possa imputare una determinata fattispecie a titolo di dolo è necessario che la volontà si traduca in realizzazione almeno nello stadio del tentativo punibile (art. 56 c.p.) (FIANDACA- MUSCO).

Non rileva, dunque, né il dolo antecedente né quello susseguente, richiedendosi che esso sia presente al momento del fatto e rimanga in essere per tutto il tempo in cui la condotta rientra nel potere di signoria dell’agente. Da ciò consegue che a nulla rileva il venir meno di tale volontà una volta che il soggetto non abbia più il potere di incidere sul susseguirsi degli eventi.

2.1 L’OGGETTO DEL DOLO.

Oggetto del dolo è il fatto tipico del reato nell’insieme dei suoi elementi.

Contrariamente alla infelice formulazione dell’art. 43 c.p., che sembra riferirsi al solo evento, è fuori di dubbio che nel dolo non possa mancare la puntuale, chiara conoscenza di tutti gli elementi del fatto storico propri del modello legale descritto da una norma incriminatrice.

Di conseguenza, nella raffigurazione della condotta sarà necessario distinguere tra i reati:

− a condotta vincolata, in cui il dolo dovrà abbracciare tutte le specifiche modalità di realizzazione del fatto;

− a forma libera, in cui sarà sufficiente che il dolo assista l’ultimo atto necessario ad attivare il decorso causale (MEZZETTI).

Come già accennato, devono rientrare nel fuoco del dolo del soggetto agente anche il nesso causale e gli elementi negativi del fatto (o esimenti).

Al contrario, non rientrano nell’oggetto della rappresentazione e volizione, essendone

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esclusa la rilevanza, gli elementi indicati all’art. 5 c.p. (errore sul precetto), 44 c.p.

(condizioni obiettive di punibilità) e 59, comma 1 c.p., limitatamente alle circostanze attenuanti.

Con particolare riferimento ai reati omissivi, la connotazione del dolo è differente a seconda che ci si trovi ad analizzare la tipologia dei reati omissivi impropri ovvero quella dei reati omissivi propri:

a) nei reati omissivi propri il dolo è costituito sia dalla rappresentazione del presupposto del dovere di agire, sia dalla volontà di non compiere l’azione doverosa;

b) nei reati omissivi impropri dovrà esserci la rappresentazione dell’obbligo giuridico extrapenale di garanzia e dei suoi presupposti, nonché la volontà di non porre in essere l’ultima azione impeditiva dell’evento.

Si è discusso, poi, sulla necessità che sia oggetto di rappresentazione anche la qualifica soggettiva richiesta per l’integrazione dei cc.dd. reati propri. La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie sono ormai concordi nel sostenere la soluzione affermativa.

2.2 LE FORME DEL DOLO.

A conferma della estrema complessità del dolo, sono sorte tanto in dottrina quanto in giurisprudenza differenti classificazione con conseguenti ricadute da un punto di vista applicativo.

Quanto al differente atteggiamento del dolo con riferimento alla struttura materiale della fattispecie criminosa, si è soliti distinguere tra:

a) dolo di danno, consistente nella volontà di realizzare un fatto che comporta la completa lesione dell’interesse giuridico protetto dall’ordinamento;

b) dolo di pericolo, che si ravvisa nel caso in cui l’intento del soggetto agente sia semplicemente quello di mettere in pericolo il bene giuridico tutelato.

In proposito, è doveroso segnalare che esistono fattispecie di reati di pericolo in cui è richiesto un dolo di danno (tipico esempio è il tentativo). Viceversa, potranno esserci reati di danno che richiedono il semplicemente dolo di pericolo, come nelle fattispecie preterintenzionali.

Con riferimento, invece, allo scopo perseguito dal reo, si distingue tra:

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a) dolo generico, riscontrabile nelle ipotesi in cui il soggetto si limita a rappresentarsi e volere gli elementi oggettivi del fatto di reato senza perseguire un ulteriore scopo preciso ed ultroneo rispetto alla struttura materiale della fattispecie;

b) dolo specifico, consistente in uno scopo o in una finalità particolare cui l’agente deve tendere, pur non essendo necessario che detta finalità si realizzi effettivamente. Tipico esempio di fattispecie a dolo specifico è quella del furto, di cui all’art. 624 c.p., in cui il reo, oltre a volere l’impossessamento di un bene di proprietà altrui, persegue l’ulteriore finalità di trarre un profitto.

Tale distinzione assume un’importanza centrale, dipendendo dalla stessa la qualificazione in termini di liceità o meno di un determinato fatto oppure la modifica del titolo di reato contestabile.

A tal proposito, nelle ipotesi in cui il dolo specifico determina in maniera decisiva a qualificare in termini di illiceità un fatto di per sé lecito, ci si è posti il problema della compatibilità di tale fattispecie con il principio di offensività, dandosi di fatto rilevanza ad un mero atteggiamento interiore. Per risolvere la problematica, la Corte di Cassazione, con specifico riferimento ai delitti contro la personalità dello Stato, ha indicato la necessità di oggettivizzare il dolo specifico.

In particolare, nella celebre sentenza n. 29670 del 25 luglio 2011 la Suprema Corte ha precisato che “la consumazione anticipata nei reati a dolo specifico presuppone, perchè il fatto non si esaurisca entro una fattispecie in cui assume un rilievo esorbitante l’elemento volontà di scopo, che sussistano atti che oggettivamente rendano detta volontà idonea a realizzare lo scopo”. Per ulteriori approfondimenti si rinvia al successivo focus giurisprudenziale.

Ulteriore categoria di dolo è quella, di creazione prettamente giurisprudenziale, del dolo alternativo, ravvisabile in tutte quelle ipotesi in cui il soggetto agente prevede come conseguenza certa o possibile della propria azione il verificarsi di due eventi alternativi senza sapere quale si verificherà in concreto. Tipico esempio è quello dei ragazzi che lanciano i sassi dal cavalcavia rappresentandosi alternativamente o il semplice danneggiamento delle auto che percorrono la strada oppure le lesioni o la morte dei passeggeri.

Quanto alla componente volontaristica del dolo, si è soliti individuare tre livelli decrescenti di intensità del dolo:

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a) dolo intenzionale, qualora il soggetto abbia di mira proprio la realizzazione della condotta criminosa ovvero la causazione dell’evento. In questa forma di dolo la volontà assume un ruolo dominante, raggiungendo la sua intensità massima;

b) dolo diretto, configurabile allorquando la realizzazione del reato non è l’obiettivo che dà causa alla condotta ma rappresenta solamente un mezzo necessario affinché l’agente raggiunga lo scopo perseguito. In altre parole, pur non essendo l’evento direttamente preso di mira dal soggetto agente, esso è previsto come conseguenza certa o altamente probabile della sua condotta;

c) dolo eventuale, caratterizzato da una minore intensità dolosa rispetto alle prime due fattispecie, ricorre laddove l’evento ulteriore (come nel dolo diretto, non perseguito direttamente) è dall’agente previsto come conseguenza eventuale, possibile o probabile della propria condotta. Per la sua configurazione è altresì necessario accertare che il soggetto agente, pur di perseguire i propri scopi, abbia in qualche modo accettato il rischio della verificazione dell’evento delittuoso.

Tale distinzione tra le varie fattispecie di dolo è stata da ultimo sintetizzata nella sentenza ThyssenKrupp (Cassazione penale, Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343), nella quale si legge “Solitamente il dolo viene ritenuto intenzionale allorchè la rappresentazione del verificarsi del fatto di reato rientra nella serie di scopi in vista dei quali il soggetto si determina alla condotta e l'agente persegue, appunto, intenzionalmente quale scopo finalistico della propria azione od omissione un risultato certo, probabile o solo possibile; quando cioè ha di mira proprio la realizzazione della condotta criminosa (reati di azione) ovvero la causazione dell'evento (reati di evento).

Tale forma di dolo è caratterizzata dal ruolo dominante della volontà che raggiunge l'intensità massima. L'intenzione è compatibile con la previsione dell'evento in termini non di certezza ma di possibilità. (...) Si ha dolo diretto quando la volontà non si dirige verso l'evento tipico e tuttavia l'agente si rappresenta come conseguenza certa o altamente probabile della propria condotta un risultato che però non persegue intenzionalmente. Esso si configura tutte le volte in cui l'agente si rappresenta con certezza gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice e si rende conto che la sua condotta sicuramente la integrerà. Rientra in questa forma di dolo anche il caso in cui l'evento lesivo rappresenta una conseguenza accessoria necessariamente o assai probabilmente connessa alla realizzazione volontaria del fatto principale. Questa figura di dolo è caratterizzata dal ruolo dominante della rappresentazione. In altri termini, il dolo diretto si configura quando l'agente ha compiuto volontariamente una certa azione, rappresentandosene con certezza o con alta probabilità lo sbocco in un fatto di reato, ma la rappresentazione non esercita efficacia determinante sulla volizione della condotta. (...) Il dolo eventuale designa l'area dell'imputazione soggettiva dagli incerti confini in cui l'evento non costituisce l'esito finalistico della condotta, nè è previsto

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come conseguenza certa o altamente probabile: l'agente si rappresenta un possibile risultato della sua condotta e ciononostante s'induce ad agire accettando la prospettiva che l'accadimento abbia luogo.”.

Il dolo eventuale, in particolare, è stato al centro di un annoso dibattito in relazione alla sua collocazione al confine con la figura della colpa cosciente o con previsione, configurabile laddove il soggetto si rappresenti la possibilità dell’evento lesivo ma confidi nella sua concreta non verificazione. In particolare, è stata da ultimo recepita, in maniera espressa, la c.d. Formula di Frank (dal nome del giurista tedesco che la propose), secondo cui può ritenersi sussistere il dolo eventuale quando il soggetto agente, consapevole del rischio connesso alla sua condotta, non era certo del verificarsi dell’evento, ma non vi è alcun elemento il quale deponga nel senso che dinnanzi al verificarsi certo dell’evento medesimo egli avrebbe rinunciato a tenere la sua condotta.

In altre parole, si parlerà di dolo eventuale e non di colpa cosciente qualora vi siano gli elementi per ritenere, oltre ogni ragionevole dubbio, che il reo avrebbe continuato ad agire anche nel caso in cui fosse stato certo di produrre l’evento offensivo.

Oltre al giudizio controfattuale, che la formula di Frank comporta, nei casi in cui esso sia non facilmente esperibile, la giurisprudenza richiede per la configurabilità del dolo eventuale il riscontro di ulteriori indizi. In particolare, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella già citata sentenza ThyssenKrupp, “per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l'agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa e a tal fine l'indagine giudiziaria, volta a ricostruire l'"iter" e l'esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell'agente; c) la durata e la ripetizione dell'azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell'evento; g) le conseguenze negative anche per l'autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento (cosiddetta prima formula di Frank).”.

Per l’analisi dei passaggi più significativi in materia di dolo e di rapporti tra il dolo eventuale e la colpa cosciente presenti nella sentenza ThyssenKrupp e per le principali pronunce successive della stessa Corte di Cassazione su tali questioni si veda il relativo focus giurisprudenziale.

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2.3.L’INTENSITÀ DEL DOLO.

Ai fini della graduazione sanzionatoria di cui all’art. 133 c.p., si sono elaborate in giurisprudenza differenti categorie di dolo sulla base della intensità assunta nel caso concreto.

In particolare, se dal punto di vista volitivo abbiamo già analizzato la distinzione tra dolo intenzionale, diretto ed eventuale, dal punto di vista rappresentativo dobbiamo soffermarci sulle figure del dolo d’impeto, dolo di proposito e dolo di premeditazione.

La categoria certamente più complessa è quella del dolo di premeditazione, il quale, in assenza di parametri normativi di sorta, è stato differentemente inquadrato e definito nel corso del tempo dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

Secondo la concezione più risalente nel tempo, venivano ricondotte nell’ambito premeditativo quelle condotte messe in atto frigido pacatoque animo; in seguito, si è conferita importanza all’esistenza di un lasso temporale ampio tra l’ideazione del reato e la sua esecuzione.

L’insufficienza delle suddette tesi ha portato la giurisprudenza (tra le altre, Cass. pen., Sez. Un., 18 dicembre 2008 dep. 9 gennaio 2009, n. 337) ad adottare un criterio complesso, che prevede quali elementi costitutivi della premeditazione:

a) un intervallo temporale ampio tra l’insorgere del proposito criminoso e la sua concreta esecuzione (c.d. elemento cronologico), tale da consentire una ponderata riflessione circa l’opportunità del recesso;

b) la perseveranza del reo nel suo proposito criminoso (c.d. elemento ideologico), che deve perdurare senza soluzioni di continuità fino alla commissione del crimine.

Categoria generale in cui si inserisce il dolo di premeditazione e quella del dolo di proposito, in cui è valorizzata solamente la sussistenza di un certo lasso di tempo tra l’insorgenza della decisione e la sua esecuzione, sintomo di una volontà criminosa consolidata.

All’estremo opposto si colloca, invece, il dolo d’impeto, che si caratterizza per la repentina esecuzione di una decisione criminosa sorta improvvisamente. Spesso determinato da stati emotivi e passionali che attenuano l’intensità del dolo ma che, allo stesso tempo, possono rappresentare indici di una particolare capacità a delinquere.

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PARTE SECONDA

FOCUS GIURISPRUDENZIALE

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I) IL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA E FONDAMENTO

COSTITUZIONALE.

Come illustrato nella parte di approfondimento dottrinale, è ormai pacifico ricondurre il principio di colpevolezza e la sua necessità ai fini della configurabilità di un reato all’art.

27 commi 1 e 3 della Costituzione.

Tale processo interpretativo ha avuto origine con la sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 1988, che, nel dichiarare la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p.

per contrasto con l’art. 27, comma 1 Cost., ha affermato che l’ignoranza della legge esclude la responsabilità solamente nel caso in cui tale ignoranza sia incolpevole, ossia inevitabile.

Successivamente, la Corte Costituzionale ha nuovamente precisato il legame tra la colpevolezza e l’art. 27 comma 2 Cost. nella sentenza n. 1085 del 1988, che ha definitivamente chiarito il superamento della responsabilità oggettiva nell’ordinamento penale.

Sulla scorta di tali pronunce, anche la Corte di Cassazione ha aderito all’interpretazione costituzionalmente orientata del principio di colpevolezza, ritenendo necessario, con specifico riferimento all’evento non voluto conseguenza di altro delitto, l’accertamento quantomeno della sua prevedibilità in concreto. (Cassazione penale, Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676; Cassazione penale, Sez. IV, 23 settembre 2016, n. 8058).

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28 Le sentenze

I.1CONCETTO DI INEVITABILITÀ E IGNORANZA DELLA LEGGE PENALE.

A) Corte Costituzionale, 23 marzo 1988, n. 364

Massima

Il comma primo dell'art. 27 Cost. ("La responsabilità penale è personale") - interpretato in relazione al comma terzo dello stesso articolo ed agli artt. 2, 3, commi primo e secondo, 73, comma terzo, e 25, comma secondo, Cost. - non soltanto richiede la

"colpevolezza" dell'agente rispetto agli elementi più significativi della fattispecie tipica (e, cioè, una relazione psichica tra il soggetto e il fatto), ma anche l'"effettiva possibilità di conoscere la legge penale" (e, cioè, un rapporto tra soggetto e legge), "possibilità"

che rappresenta ulteriore necessario presupposto della "rimproverabilità" dell'agente e, dunque, della responsabilità penale. Consegue che l'art. 5 cod.pen., disconoscendo - secondo diritto vivente - ogni collegamento tra l'obbligo penalmente sanzionato e la sua

"riconoscibilità" ed equiparando all'ignoranza evitabile della legge penale l'ignoranza non colpevole, e, pertanto, inevitabile, viola lo spirito dell'intera Costituzione ed i suoi essenziali principi ispiratori, che pongono la persona umana al vertice della scala dei valori. Pertanto, il suddetto art. 5 è costituzionalmente illegittimo - per contrasto con i parametri citati - nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile. - (La sentenza n. 364/1988 precisa, nella parte motiva, che "il nuovo testo dell'art. 5 c.p. derivante dalla parziale incostituzionalità dello stesso articolo..., risulta così formulato: 'L'ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti d'ignoranza inevitabile'.").

I.2FURTO DUSO E PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA.

A) Corte Costituzionale, 30 novembre 1988, n. 1085

Massima

L'art. 626 n. 1 c.p., non consentendo l'applicazione della disciplina ivi prevista quando la mancata restituzione della cosa sottratta sia dipesa da caso fortuito o forza maggiore, si pone in contrasto con l'art. 27 comma 1 Cost. il quale richiede non solo che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all'agente e siano quindi investiti del dolo o della colpa,

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29

ma anche che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso rimproverabili.

Pertanto è costituzionalmente illegittimo l'art. 626 n. 1 c.p. nella parte in cui non estende la disciplina ivi prevista alla mancata restituzione della cosa sottratta dovuta a caso fortuito o forza maggiore.

I.3 MORTE O LESIONI COME CONSEGUENZA DI ALTRO DELITTO E PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA.

A) Cassazione penale, Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676.

Massima.

In tema di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, la morte dell'assuntore di sostanza stupefacente è imputabile alla responsabilità del cedente sempre che, oltre al nesso di causalità materiale, sussista la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma che incrimina la condotta di cessione) e con prevedibilità ed evitabilità dell'evento, da valutarsi alla stregua dell'agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall'agente reale.

B) Cassazione penale, Sez. IV, 23 settembre 2016, n. 8058.

Massima.

In tema di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, il decesso dell'assuntore di sostanza stupefacente è imputabile alla responsabilità del cedente sempre che, oltre al nesso di causalità materiale, sussista la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma che incrimina la condotta di cessione) con prevedibilità ed evitabilità dell'evento, da valutarsi alla stregua dell'agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall'agente reale. (Fattispecie nella quale la S.C. ha ritenuto esente da censure la sentenza di condanna secondo la quale la ripetuta vendita di cocaina, a breve distanza di tempo e destinata all'assuzione dello stesso soggetto, integra la violazione di una regola cautelare idonea a configurare la colpa in capo allo spacciatore e, quindi, ad imputare psicologicamente allo stesso l'evento morte dell'acquirente, verificatosi a distanza di poche ore).

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II) CAUSE DI ESCLUSIONE O DIMINUZIONE DELL’IMPUTABILITÀ.

Numerosa e variegata è la casistica relativa alle cause di esclusione o diminuzione dell’imputabilità.

L’assenza di definizioni precostituite da parte del Legislatore e l’effetto “totalizzante”

della loro configurazione, in termini di esclusione o diminuzione dell’imputabilità di un reato perfezionato in tutti gli altri elementi, hanno costretto la giurisprudenza ad elaborare “paletti e limiti” in fase applicativa.

Particolarmente interessante è stata l’elaborazione giurisprudenziale dei criteri in base ai quali far rientrare nel vizio di mente la varia e ampia categoria dei disturbi della personalità.

Altrettando indicativa delle difficoltà interpretative sull’argomento è la giurisprudenza in materia di ubriachezza o intossicazione cronica da stupefacenti.

Da ultimo si segnala la tematica sulla individuazione dell’elemento soggettivo nelle ipotesi di ubriachezza volontaria o colposa.

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II.1DISTURBI DELLA PERSONALITÀ E VIZIO DI MENTE.

A) Cassazione penale, Sezioni Unite, 8 marzo 2005, n. 9163

Massima

Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di "infermità", purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell'imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di infermità. (Nella specie, la Corte ha annullato la sentenza impugnata, che aveva erroneamente escluso il vizio parziale di mente, sul rilievo che il disturbo paranoideo, dal quale, secondo le indicazioni della perizia psichiatrica, risultava affetto l'autore dell'omicidio, non rientrava tra le alterazioni patologiche clinicamente accertabili, corrispondenti al quadro di una determinata malattia psichica, per cui, in quanto semplice "disturbo della personalità", non integrava quella nozione di

"infermità" presa in considerazione dal codice penale).

B) Cassazione penale, sez. II, 27 marzo 2013, n. 17086

Massima

Il vizio di mente deriva da uno stato morboso, a sua volta dipendente da un'alterazione patologica tale da rendere certo che l'imputato, nel momento della commissione del reato, è per infermità in uno stato mentale da scemare grandemente o da escludere la capacita di intendere e volere. Ne consegue che solo in presenza di un simile stato soggettivo il giudice di merito deve essere sussistente il vizio di mente nonché il ricorso di gravi e fondanti indizi per dar luogo alla perizia psichiatrica. Nel caso di specie, il giudice dì merito, con valutazione non manifestamente illogica [...] ha ritenuto che il disturbo psichico del prevenuto - un ritardo mentale lieve - che aveva in passato condizionato frequenti episodi di furti di piccole somme di denaro, non fosse di consistenza tale da definire una incapacità o semi-incapacità di intendere e volere da

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