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2. Il personaggio Ergasilo

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Academic year: 2021

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2. Il personaggio Ergasilo

Dopo aver esaminato il ruolo di Ergasilo rispetto all'azione della commedia, proviamo ad analizzare più nel dettaglio i modi della sua presenza scenica. Abbiamo già avuto modo di porre in rilievo una significativa espressione che Plauto mette in bocca allo stesso Ergasilo al v. 472, vale a dire parasiti ... quibù sunt uerba sine penu et pecunia: e che i verba costituiscano il tratto principale della figura del parassita è vero per i Captivi più che per tutte le altre commedie plautine superstiti.

Il parasitus dell'Asinaria – non a caso anonimo – è privo di qualsiasi determinazione individuale, e se è vero che il suo contributo alla commedia è costituito dalla stesura di un contratto (lo scitum sungrapum elogiato da Diabolo al v. 802), è vero anche che questo suo “produrre parole” non è affatto connesso al suo status di parassita: se non avessimo la didascalia, potremmo pensare a un semplice leguleio, o tutt'al più a un cliens, a un liberto o a uno schiavo particolarmente versato in campo di leges e captiones.

Sull'altrettanto anonimo parassita delle Bacchides, semplice messaggero in scena per una ventina di versi, non è nemmeno il caso di soffermarsi.

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più massiccia, con circa 200 versi pronunciati, una ventina dei quali in forma di monologo. Ma il suo personaggio appare in realtà in tutto simile a un normale schiavo: ai vv. 280ss. si comporta esattamente come un qualsiasi servus currens, ai vv. 391ss., nel dialogo con il banchiere Licone, si spaccia per liberto per aiutare il giovane Fedromo ad affrancare l'amata, e in generale per tutta la commedia non presenta alcun tratto tipicamente “parassitico”, fatta salva forse l'insistenza, nell'ultima scena, sulla necessità di organizzare ricchi banchetti per festeggiare la risoluzione della vicenda. E anche le sue battute più verbose non sono che generiche “tirate” contro il malcostume (in particolare contro i Graeci palliati e contro i lenoni) che, ancora una volta, potrebbero essere pronunciate da qualsiasi personaggio.

Penicolo, nei Menaechmi, è in parte più vicino a Ergasilo: pronuncia infatti due monologhi (vv. 77-109 e 446-65), il primo dei quali è dedicato al tema dei legami fondati sull'offerta di cibo da parte di ricchi patroni, mentre il secondo contiene una breve critica alla disorganizzazione delle assemblee popolari. Ma se questi due brani si possono accostare ai primi due monologhi dei Captivi (riflessione sui rapporti privati di dipendenza e riferimento ai luoghi della vita pubblica), nel resto dei Menaechmi il ruolo di Penicolo resta fondato sull'azione, in particolare sul suo fare la spia con la moglie di Menecmo I a proposito del presunto banchetto con Erotium. Di verba parassitici nessuna traccia.

Artotrogo, parassita del Miles gloriosus, fa effettivamente sfoggio di una parlantina piuttosto sciolta e si dimostra pronto a cogliere qualsiasi spunto dentro e fuori la conversazione per adulare il soldato. Tuttavia, egli si presenta più che altro come un

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semplice kolax71, funge da semplice spalla comica al vanaglorioso protagonista, ed è comunque privo del brio e della versatilità che caratterizzano altre figure di parassiti (o comunque non può farne mostra nella sessantina di versi, tutti concentrati all'inizio della commedia, che Plauto gli riserva).

Nel Persa Saturione si presenta con un monologo la cui prima parte è incentrata sull'arte parassitica, nobile mestiere che – come la fame che lo accompagna – si tramanda di padre in figlio. Ma alla scena successiva si configura una situazione particolare: è Tossilo a chiedere qualcosa al parassita72! Dopo una prima richiesta di denaro, si passa alla richiesta “in concessione” della figlia di Saturione, il quale prontamente accetta. In questo modo, il parassita si trova a godere praticamente da subito di un credito (pur se nei confronti di un servus), e l'unica persona su cui avrebbe la possibilità di esercitare la sua ars loquendi sarebbe la figlia. Ma per convincerla a stare al gioco egli sceglie la via dell'autorità73: i suoi logi restano confinati nei libri, ben

71

Per un approfondimento della distinzione tra κ<λαξ e παρBσιτοG rimandiamo sempre al lavoro di Ribbeck.

72

Vale la pena di riportare la risposta di Saturione a una tale richiesta:

Nihili parasitus est cui argentum domi est. Lubido extemplo coeperest conuiuium, tuburcinari de suo, si quid domi est.

Cynicum essere <e>gentem oportet parasitum probe: ampullam, strigilem, scaphium, soccos, pallium, marsuppium habeat, inibi paullum praesidi, qui familiarem suam uitam oblectet modo.

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al sicuro chiusi in un soracum. Che diventino pure la dote della figlia: almeno in questa circostanza, Saturione non ne ha bisogno.

Il personaggio più vicino a Ergasilo è indubbiamente Gelasimo, che fa il suo ingresso nello Stichus con un formidabile monologo di 80 versi (interrotti due volte da a parte di Crocotium) in cui vengono toccati tutti i temi tipici della retorica parassitica: ovviamente la fames, qui personificata ed elevata a madre del parassita stesso; la magrezza di tempi in cui scroccare un invito a cena sembra ormai impossibile; la critica ai modi del vivere pubblico romano; la condizione del parassita ridotto, pur di non ritrovarsi fame emortuus (v. 216), a bandire una vera e propria auctio (v. 215) per provare a vendere se stesso, i propri servigi e i propri logoi. Ma poco più avanti l'asta diventa una vera e propria battaglia per la sopravvivenza, quando il puer Pinacium annuncia l'arrivo dall'oriente di una frotta di agguerritissimi parassiti: ripassato il suo repertorio di battute, Gelasimo prova ad abbordare Epignomo e Panfilippo per ottenere un invito, ma il suo fallimento è totale. Dei tanto decantati logoi non c'e' traccia: solo un trito espediente (per di più ripetuto due volte alla presenza di Epignomo74) facilmente smontato dai due fratelli. E al parassita non resta che impiccarsi, con la dubbia consolazione di salvare almeno l'onore professionale: che almeno non si dica che – parassita fallito – è morto di fame75. Anche nel caso dello

74

Che infatti avverte Gelasimo (v. 589): Aduorsum te fabulare.

75

Vv. 637-40:

Numquam edepol me uiuiom quisquam in crastinum inspiciet diem; nam mihi iam intus potione iuncea onerabo gulam,

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Stichus, dunque, l'abilità nell'eloquio (i famosi verba) compare, sì, ma resta confinata nel contesto monologico, rivelandosi povera e inefficace sul piano pratico.

Contrariamente a tutti gli altri parassiti plautini, Ergasilo non solo fa mostra di un'abilità oratoria non indifferente, ma riesce anche a trarne il massimo vantaggio (sorretto tra l'altro da una perseveranza invidiabile). I verba del parassita dei Captivi, poi, costituiscono un campionario vasto e variegato: si passa dallo stile impetuoso e “naturale” dei monologhi, fatto di accumulazioni verbali e di libere associazioni di immagini, all'eloquio affettato di chi finge partecipazione emotiva, alla parodia teatrale, che abbina parole e mimica per creare effetti di comico xenikon.

La divisione della materia che proponiamo risponde non tanto a un'esigenza pratica di classificazione, quanto a un'effettiva caratteristica della drammaturgia dei Captivi: il parassita, attore per definizione76, porta in scena più personaggi. Da un lato il se stesso più vero, dall'altro una serie di immagini rese socialmente convenienti dalle circostanze.

L'Ergasilo autentico emerge dai monologhi, in cui sostanzialmente il parassita non “recita” ma si lascia andare a un flusso talvolta disordinato di idee, giudizi e progetti: il suo sistema di riferimento è la vita quotidiana, fatta di esigenze concrete e

neque ego hoc committam ut me esse omnes mortuom dicant fame.

Sul finale triste e un pò macabro della storia di Gelasimo cfr. la nota ad loc. di Paratore.

76

Cfr. Leach, per cui ognuno dei personaggi si trova a dover “recitare” una parte che non gli appartiene: Egione fa il mercante di schiavi; i due soldati Filocrate e Tindaro sono ridotti a prigionieri, e inoltre si scambiano le identità etc. etc.. Solo Ergasilo non ha problemi: lui è un parassita, quindi recita sempre!

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di bisogni primari, in cui la “letterarietà”non ha spazio se non nelle forme primordiali dell'aneddoto, del proverbio, della similitudine tra Realien.

Nelle parti dialogiche, invece, il parassita mette in mostra, proprio come un attore, gli atteggiamenti canonici che egli di volta in volta “deve” assumere, ad esempio con il padre sofferente, o può permettersi, ad esempio quando ha in pugno la soluzione della vicenda. La scelta di parole e gesti, in questi casi, rimanda inequivocabilmente a un orizzonte culturalmente più evoluto: comportamenti codificati a livello sociale o letterario sono percepiti come tali, e come tali riutilizzati – consapevolmente – con intento comico e parodico.

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2.1 Ergasilo affabulatore

Come abbiamo accennato, Ergasilo pronuncia quattro monologhi, collocati rispettivamente all'inizio del primo “atto”, all'inizio del terzo e in apertura e chiusura del quarto77.

Il primo (vv. 69-109) comincia con un'elaborata auto-presentazione (vv. 69-76):

Iuuentus nomen indidit ‘Scortò mihi,

eo quia inuocatus soleo esse in conuiuio. 70

scio apsurde dictum hoc derisores dicere, at ego aio recte. nam scortum in conuiuio sibi amator, talos quom iacit, scortum inuocat. estne inuocatum <scortum>78 an non? Planissume;

77

Il riferimento alla suddivisione in atti delle commedie, sicuramente non plautina,

78

Il v. 74 così come è tradito si presenta mancante di un piede. Il Camerarius ha proposto di integrare estne inuocatum an non <est? Est> planissume. Questa soluzione, accolta da Leo e da Ussing (quest’ultimo integra un solo est, ammettendo lo iato in cesura tra inuocatum e an), ha il vantaggio di rispettare una tendenza plautina: nelle interrogative dirette con est ne ... an non il verbo essere è sempre espresso due volte nella domanda e almeno una nella risposta (cfr. Epid. v. 538, Est ne ea an non east quam animus retur meus? [...] Certo east; Mil. vv. 411-2, Haec mulier quae hinc exit modo est ne erilis concubina / Philocomasium an non est ea? - Hercle opinor, ea uidetur; Trin.1070-1, est ne ipsus an non est? is est. Certe is est, is est profecto). L’idea del Camerarius costringe però a presupporre uno scortum implicito

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uerum hercle uero nos parasiti planius, 75 quos numquam quisquam neque uocat neque inuocat.

Ergasilo inizialmente non indica il proprio nome (che sarà pronunciato per la prima volta da Egione solo 69 versi dopo), né alcuna qualifica (il pubblico sa già, grazie al costume79, che è un parassita). Punta invece su una presentazione più immediata e d'impatto, ed esordisce con un sottile pun in cui afferma di essersi meritato il soprannome di scortum, ‘cortigiana, prostituta’80, e ne spiega l'origine. Già

nella domanda, e implica quindi un brusco cambio di soggetto rispetto alla proposizione precedente. In considerazione di ciò, maggior successo ha avuto l’integrazione di Bentley che, seguito da tutti gli altri editori, ha inserito un terzo scortum prima di an. Tale intervento restituisce un testo comunque sintatticamente corretto e stilisticamente appropriato al contesto (con forte enfasi su scortum), e consente di spiegare bene la genesi dell’errore, che sarebbe nato dalla presenza della stessa parola in tre versi successivi oppure da un saut du même au même del tipo inuoca<tum scor>tum.

79

Il parassita disponeva di tre distinte caratterizzazioni sceniche: il κ<λαξ, il παρBσιτοGe il “siculo”. Dei primi due Polluce (4.148, nella sezione Sull’abbigliamento degli attori, sulle maschere tragiche, satiriche, comiche) scrive: κ<λαξ δ W κα X παρBσιτοG µZλανεG, ο ] µ^ν _ξω παλαaστραG, bπaγρυποι, ε]παθεfG· τ h δ W παρασaτ i µjλλον κατZαγε τ k lτα, κα X mαιδρ<τερ<G bστιν, nσπερ o κ<λαξ pνατZταται κακοηθZστερον τkG rmρsG, “L'adulatore e il parassita sono neri, non estranei alla palestra, dal naso aquilino, goderecci [la traduzione di ε]παθεfG non è scontata: Esichio s.v. ε]παθοsντεG glossa εuρωστοι , vγιαaνοντεG]; il parassita ha le orecchie più deformi ed è più sorridente, l'adulatore ha le sopracciglia maliziosamente più sollevate”. La maschera del “siculo” (il cui nome rimanda probabilmente alla supposta origine del personaggio) non è descritta. La riproduzione della maschera di un parassita teatrale è riportata da Navarre (s.v. Persona, fig. 5597). A proposito dell'abbigliamento, sempre Navarre annota (s.v. Histrio, p. 226, senza indicazione delle fonti) che a Roma les parasites se presentent en scene avec le pallium roulè, mentre in Polluce 4.119 si legge: ο x δ W παρBσιτοι µελαaν y z mαι { , πλ^ν bν Σικυωνa i λευκ } , ~τε µZλλει γαµεfν o παρBσιτοG, “i parassiti vestono di nero o di grigio, tranne che nel Sicionio dove il parassita è vestito di bianco perché deve sposarsi”.

80

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in questi primi versi viene attivato tutto un sistema di riferimenti interni ed esterni alla scena: è evidente il richiamo all'esperienza concreta degli spettatori, con la menzione del gioco dei dadi e della prassi di pronunciare il nome della favorita di turno per ingraziarsi la buona sorte; viene introdotto il tema del cibo e del mangiare a sbafo, ovviamente fondamentale per la definizione del personaggio; viene circoscritto il gruppo sociale in cui Ergasilo si trova ad agire, vale a dire la iuuentus, una cerchia di giovani di buona famiglia tra i quali il parassita si aggira in cerca di generosi “patroni” (e di cui faceva parte Filopolemo). Non manca, infine, una prima dimostrazione del ruolo di contraltare comico della vicenda che sarà proprio di Ergasilo: al suo ingresso in scena, egli si definisce subito “prostituta”, quando il prologo ha appena finito di dire che in questa commedia non ci sarà nessuna meretrix mala81!

Spiegato il witz, Ergasilo si lascia andare a undici versi di digressione in cui costruisce una serie di paragoni tra i parassiti e tre tipologie di animali:

quasi mures semper edimus alienum cibum; ubi res prolatae sunt, quom rus homines eunt, simul prolatae res sunt nostris dentibus.

quasi, quom caletur, cocleae in occulto latent, 80

suo sibi suco uiuont, ros si non cadit, item parasiti rebus prolatis latent in occulto miseri, uictitant suco suo,

81

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dum ruri rurant homines quos ligurriant.

prolatis rebus parasiti uenatici 85

[canes] sumus, quando res redierunt, Molossici odiossicique et multum incommodestici.

Dal punto di vista stilistico, la successione dei tre paragoni non risponde a uno schema ben definito: il primo occupa tre versi, il secondo – più complesso – cinque, il terzo nuovamente tre; nei primi due la ratio dell’accostamento è presentata in maniera esplicita, nel terzo resta sottintesa. Vi sono tuttavia degli elementi comuni, come ad esempio il riferimento alle res prolatae82, espressione che da un lato contribuisce a definire la figura del parassita-tipo (nos parasiti), sottolineandone in modo paradossale la condizione di assoluta dipendenza: il parassita condivide i ritmi della vita pubblica e dell’attività politica e forense, ma l’alternarsi di otium e negotium (altrui) ha senso per lui solo in relazione alla disponibilità di risorse (sempre altrui) da sfruttare. D’altro canto, questa descrizione generalizzante contribuisce alla comprensione del caso specifico di Ergasilo, per cui le res sono sostanzialmente prolatae per via dell’assenza del giovane protettore.

Il parassita in ristrettezze è dunque paragonato a topi, lumache e cani.

82

Ussing parafrasa e annota: ubi res sive causae forenses et iudiciales in aliud tempus reiectae sunt, quod fiebat vel propter ludos et ferias vel propter anni tempus nimio calore molestum, quum romani nobiles urbe relicta rus proficisci solebant. Le ferie dei tribunali erano tradizionalmente imposte dalle necessità agricole della mietitura e della vendemmia, ma non sappiamo con esattezza in che parti dell’anno cadessero al tempo di Plauto (mentre siamo meglio informati riguardo l’età augustea e imperiale). Ai tre esempi ciceroniani riportati da Ussing (Mur. 13,28, già addotto dallo Scaligero; ad Q. f. 3.8.4; ad Att. 7,12,2) si

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L’accostamento tra topi e parassiti83 (che tra l'altro ritorna quasi verbatim in Pers. v. 58, quasi mures semper edere alienum cibum) era senz’altro proverbiale: Diogene Laerzio, raccontando di Diogene il Cinico che trova dei topi sulla sua tavola, gli mette in bocca le parole (6.40) “δο€,” mησa, “καX ∆ιογZνηG παρασaτουG τρZmει”, “ecco, anche Diogene mantiene dei parassiti”. Tra l'altro, potremmo dire, nel caso di Ergasilo il parassita è µsG pστικ<G per definizione, destinato alla fame quando i suoi benefattori abbandonano la città per recarsi in villeggiatura.

Il secondo confronto è piuttosto anomalo, perché la lumaca si trova solitamente evocata come paradigma di lentezza84, in relazione all’atto del nascondersi nel proprio guscio85 oppure a quello di “portarsi dietro la casa”86, e l’idea che le lumache si nutrissero di rugiada si ritroverà solo in Simmaco e Girolamo87.

Il terzo paragone si colloca invece nel solco di una tradizione ben più consolidata: parassiti e κ<λακεG, in virtù del loro atteggiamento e del disprezzo di cui sono fatti

può aggiungere Laus Pisonis 86, turbida prolatis tacuerunt iurgia rebus.

83

Per una intelligente esplorazione delle implicazioni di questo paragone cfr. il saggio di Guastella.

84

Cfr. p. es. Poen. v. 532, podagrosi estis ac uicistis cocleam tarditudine.

85

Cfr. p. es. Rhet. ad Herenn. 4.49, iste, qui tamquam coclea abscondens retentat sese tacitus, cum domo totus ut comedatur aufertur.

86

Cfr. p. es., nella commedia greca, Anaxil. 34, pπιστ<τεροG εƒ τ„ν κοχλι„ν πολλh πBνυ, / ο‡ περιmZρουσ’ vπ’ pπιστaαG τkG οκaαG.

87

Simmaco Epist. 1.33, aiunt cocleas cum sitiunt aeris <uitio> ... suco proprio uictitare; Girolamo, Epist. 107.10.3, saecularis homo in quadragesima uentris ingluuiem decoquit et in coclearum morem suo uictitans suco futuris dapibus ac saginae aqualiculum parat. Sembra d'altronde probabile che entrambi i passi derivino da quello plautino.

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oggetto, sono paragonati ai cani già dallo pseudo-Aristotele dei Phisiognomonica88. I cani del discorso di Ergasilo, poi, sono ancor meglio definiti: in assenza dei loro benefattori abituali, da cui possono ragionevolmente aspettarsi regolari inviti a cena, i parassiti sono preda della fame e della conseguente necessità di procacciarsi da mangiare. Diventano dunque venatici, da un lato per la magrezza89, dall’altro perché si riducono a tendere veri e propri agguati verbali ai potenziali patroni, cercando di condurli a un punto in cui non possano più sottrarsi dall’invitarli a pranzo90. Ma quando le cose vanno bene eccoli trasformarsi in molossi, cani – per dirla con Ussing – pingui et obesi, ottima descrizione per il parassita che riesce a procacciarsi frequenti inviti ai banchetti più ricchi. D’altro canto i molossi erano eminentemente cani da guardia, e non stona affatto l’immagine del parassita che si stabilisce (o per lo meno ci prova) in pianta stabile presso una famiglia, sulla soglia di una casa, per riceverne nutrimento, risultando così indubbiamente odiossicus e incommodesticus91.

A questo punto il filo del ragionamento di Ergasilo si fa meno lineare, e il monologo assume un andamento ancora più colloquiale e irregolare, procedendo per

88

[Aristot.] Phisiogn. 811b-812a: οx δ’pτενWG _χοντεG κ<λακεG· pναmZρεται bπX τˆ γιγν<µενον πBθοG. ‰δοι δ’ Šν τιG bπX τ„ν κυν„ν, ~τι οx κ€νεG bπειδkν θωπε€ωσι, γαληνWG τˆ µZτωπον _χουσιν. bπειδ^ ο‹ν Œτε συννεm^G ξιG α]θBδειαν bµmαaνει Œτε γαλην ^ κολακεaαν, Ž µZση ν το€των ξιG ε]αρµ<στωG _χοι.

L’immagine ritornerà in Alciphr. 3.8.2; 3.15.3; 3.26.2.

89

Cfr. il parassita che dice di sé (v. 135) ossa atque pellis sum.

90

Cfr. il caso di Ergasilo, che ci riesce, ai vv. 172-91, e i vani tentativi di Gelasimo, Stich. vv. 454-504 e 579-640.

91

Entrambe le parole sono hapax, creati probabilmente sul modello di uenatici per ottenere un effetto di rimando fonetico. Per Ussing Plauto comico more gentilicia nomina format.

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associazione di idee, come a riprodurre senza filtro i pensieri del personaggio solo in scena. Interrotto l'elenco degli animali92, con un brusco salto segnalato dal nesso et hic quidem hercle93, Ergasilo sembra voler passare dalle considerazioni generali all'analisi della situazione attuale, e invece aggiunge un'ulteriore nota di caratterizzazione della sua categoria:

et hic quidem hercle, nisi qui colaphos perpeti potest parasitus frangique aulas in caput,

uel ire extra portam Trigeminam ad saccum licet. 90

La dura vita del parassita comporta umiliazioni che arrivano fino alle percosse94, ma qualsiasi cosa è preferibile al dover lavorare per vivere! Se l'alternativa è andare a fare il facchino a uno scalo merci95, tanto vale lasciarsi prendere a ceffoni e pentolate in testa come dei semplici schiavi96.

A questo punto Ergasilo introduce un nuovo salto dal generale al particolare, segnalato dal pronome di prima persona singolare mihi:

92

Che sarebbe potuto andare ancora avanti: abbiamo esempi di parassiti e adulatori paragonati a polpi (Plut. De ad. et am. 52f), camaleonti (ibid., 53d), mosche (Antifane fr. 193 K.-A. v. 7), gabbiani (Matro Conv. Att. vv. 9s. Brandt). Più avanti nei Captivi si parlerà di lupus esuriens (v. 912, cfr. Stich. 577, Enn. Sat. vv. 14ss V) e volturius (v. 844).

93

Non è ben chiaro a che cosa si opponga l'hic, mentre il passaggio alla menzione delle botte che il parassita deve subire è probabilmente inteso come spiegazione e riprova di odiossici e incommodestici.

94

Cfr. infra, § 3.5.

95

Sappiamo da Liv. 35.10.12 che presso la porta Trigemina, nella zona tra l'Aventino e il Tevere chiamata salinae, si trovava un emporium in cui confluivano le merci trasportate sul fiume.

96

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quod mihi ne eueniat non nullum periculum est.

Evidentemente il periculum è quello di dover andare a lavorare, ma la motivazione non è speculare a quella enunciata un attimo prima: è la cattura del giovane Filopolemo che ha lasciato il parassita dipostissimo a prendersi botte in testa ma privo di qualcuno che gliene dia. Ma quando sembra che una buona volta Ergasilo sia arrivato al dunque, cioè alla descrizione della propria situazione, si interrompe nel bel mezzo della frase (con un postquam lasciato irrimediabilmente in sospeso97) e torna col pensiero agli antefatti, in gran parte già noti al pubblico98:

nam postquam meù rex est potitus hostium - ita nunc belligerant Aetoli cum | Aleis; nam Aetolia haec est, illi est captus [in] Alide99

banchiere Licone fa delle “cicatrici da pentola” un possibile segno distintivo degli schiavi.

97

Gli editori hanno risolto in modi diversi il problema del v. 92. Nonostante il tentativo di Havet, che stravolge l'ordine dei versi inserendo i vv. 104-5 dopo il v. 92, e quello di Brix che espunge in blocco i vv. 93-7, il testo va considerato sicuramente sano, e riproduce una movenza tipicamente colloquiale. Havet segnala il fenomeno mettendo tra parentesi i vv. 93-7, ma la soluzione non è valida, non solo perché risultato è un inciso troppo complesso e pesante (structura durissima minimeque Plautina, scrive Ussing) , ma anche perché al v. 98 il discorso riparte non da dove si sarebbe fermato al v. 92, bensì dal senis (cfr. v. 98 hic) del v. 96. Sarà dunque da preferire la scelta degli altri editori, che si limitano a segnalare il brusco anacoluto (?aposiopesi?cosa?) con un dash.

98

Cfr. vv. 24-5.

99

Il verso così come è tradito è ametrico. Il testo di Lindsay risulta dall'espunzione di in (Brix) e dalla correzione di illic in illi (Bothe). Cfr. il comm. di Lindsay al v. 261: The particle -ce (like γε in γωγε) was

often attached to pronouns in Latin. In the earlier language it might be attached or not attached at pleasure, illi and illice or illic; illim and illimce or illinc; illud and illudce or illuc: but in course of time the usage came to be stereotyped that certain forms should have the particle and certain should not. Thus illi was ultimately limited to the dative, illic to

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Philopolemus, huius Hegionis filius 95 senis qui hic habitat, quae aedes lamentariae

mihi sunt, quas quotiensquomque conspicio fleo.

Si tratta di un resoconto estremamente conciso: rispetto alla serie di similitudini dei vv. 77-87 lo stile è molto più stringato, e in una manciata di versi viene trasmesso un gran numero di informazioni; abbondano i deittici e le frasi, brevi, sono collegate “a cascata” mediante insistenti pronomi dimostrativi e relativi100. Si tratta di una specie di promemoria per il pubblico, affinché si colga bene il nesso tra la vicenda di Ergasilo e la storia di Egione, di suo figlio e dei due captivi. La prospettiva che domina, anche in questo breve riassunto degli antefatti, è comunque sempre quella egocentrica: l'unico doppione contenuto in questi versi è infatti costituito dal dicolon abundans relativo alle aedes lamentariae, cioè al punto di vista del parassita che come al solito dà voce con toni altisonanti101 ai suoi “intimi” tormenti (come dirà più avanti a Egione, toccandosi la pancia: Huic illud dolet, “Mi fa male qui...”, v. 152).

La stessa struttura (sintetico riferimento alla vicenda / prospettiva individuale) si presenta nei versi successivi:

nunc hic occepit quaestum hunc fili gratia inhonestum et maxime alienum ingenio suo;

homines captiuos commercatur, si queat 100

the adverb (i.e. locative); haec to the nom. sing. fem., hae to the nom. plur. fem., etc., etc.

100

I pronomi, peraltro, sono utilizzati con una scioltezza decisamente colloquiale: si noti quae aedes riferito a hic.

101

Si veda l'uso di aedes in luogo di domus, il neologismo lamentarius, sicuramente di conio plautino, l'iterazione fonica in quas quotiensquomque conspicio.

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aliquem inuenire, suum qui mutet filium.

quod quidem ego nimis quam † cupio ut impetret †102; nam ni illum recipit, nihil est quo me recipiam.

Ancora una volta in stile colloquiale, con un hic che sembra seguire più che altro il filo dei pensieri di Ergasilo e un hunc che rimanda direttamente al suo punto di vista interno all'azione, viene riproposto un ulteriore tassello della situazione103, prontamente commentato con un gioco di parole imperniato sui due sensi di recipio, “recuperare” e “trovare ristoro”, e sull'opposizione forte illum / me.

A questo punto, il ghiottone Ergasilo si atteggia per un attimo a censore e difensore del mos maiorum, e dal suo discutibile pulpito attacca i “giovani d'oggi” ed elogia il suo probo patrono:

† nulla est spes iuuentutis †, sese omnes amant;

ill' demum antiquis est adulescens moribus, 105

ma scopriamo ben presto, al verso successivo, a quali mores il nostro improbabile Catone si riferisca:

102

Il testo tradito è ametrico, e nessuna delle numerose proposte di correzione (cfr., a parte i vari apparati, l'appendix di Schoell ad loc.). Impetret è correzione della seconda mano di V, mentre tutti gli altri testimoni hanno imperet, sicuramente inaccettabile a livello di senso.

103

Anch'esso già illustrato dal prologo, tra l'altro con parole molto simili. Cfr. vv. 27-9: coepit captiuos commercari hic Aleos,

si quem reperire posset qui mutet suom, illum captiuom.

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quoius numquam uoltus tranquillaui gratiis104.

Ritornano immediatamente all'orecchio le parole di Gelasimo ai vv. 183ss. dello Stichus:

Oratio una interiit hominum pessume,

atque optuma, hercle, meo animo et scitissuma, qua ante utebantur: ueni illo ad cenam . . .

Il sogno di chi – per definizione – non è mai sazio, è sempre quello di un pasto gratis, e di questo sogno Filopolemo rappresentava per Ergasilo la piena realizzazione. Venuto a mancare il suo rex, dopo un attimo di sconforto il parassita si rimette subito in moto (un modulo di comportamento che ritroveremo più avanti), e si incammina immediatamente per una nuova strada:

condigne pater est moratus moribus. nunc ad eum pergam. sed aperitur ostium, und' saturitate saepe ego exii ebrius.

Si apre la porta della casa di Egione, il senex sta per arrivare in scena: a Ergasilo, identificata la preda (nunc ad eum pergam), non resta che aspettare, pregustando la ben nota ricompensa, e prepararsi a recitare la sua parte affilando le armi (con un assaggio dei suoi uerba105).

104

Su questa sezione e su gratiis come parola-chiave del mondo del parassita, cfr. infra, § 3.3.

105

(18)

Il secondo monologo (vv. 461-97) si apre con un accorato lamento:

Miser homo est qui ipse sibi quod edit quaerit et id aegre inuenit, sed ille miserior qui et aegre quaerit et nihil inuenit;

ille miserrumust, qui quom esse cupit, <tum> quod edit non habet.

L'intento parodico di questi versi è evidente: l'attacco, topico106, richiama l'atmosfera di grandi monologhi “seri”, e ugualmente la struttura in climax imperniata sul poliptoto miser ... miserior ... miserrumus sembra voler comunicare l'idea di una sventura di proporzioni cosmiche107. Ma ovviamente, trattandosi di Ergasilo, la sventura non può essere che individuale, e chiaramente di ordine alimentare. I tre versi, dal tono volutamente gnomico108 e quindi generalizzante, in realtà non fanno che presentare ancora una volta la situazione del parassita: ritrovatosi senza benefattore e quindi bisognoso di sostentamento (qui ipse sibi quod edit quaerit), egli si è rivolto ad Egione ed è riuscito in qualche modo a strappargli un magro invito a cena

106

Metti esempi. Se sono tanti e belli, metti a testo.

107

L'idea e parte delle soluzioni stilistiche sono le stesse di Persa 777-80:

qui sunt, qui erunt, quique fuerunt, quique futuri sunt posthac, solus ego omnibus antideo, facile miserrumus hominum ut uiuam. Perii, interii! pessumus hic mihi dies hodie inluxit corruptor.

Per una serie di passi che si possono utilmente confrontare con le parole di Ergasilo cfr. il capitolo Inizi di discorsi a tipo comparativo in Fraenkel, pp. 7-20, in cui però l'analisi è condotta sui casi di parallelismo tra personaggi plautini e figure mitologiche o storiche, e si fonda su spie lessicali come la presenza di antecedo, supero, numquam aeque e simili.

108

Si noti il congiuntivo presente edit, forma arcaica sul modello di sim e uelim, testimoniata anche altrove in Plauto (cfr. p. es. Men. 90, nel primo monologo di Gelasimo).

(19)

(et id aegre inuenit, cfr. vv. 172-91); insoddisfatto di questa soluzione, come egli stesso racconterà tra poco, si è nuovamente recato a caccia di patroni, ma il terreno scelto si è rivelato poco favorevole (qui ... aegre quaerit) e la ricerca si è conclusa senza risultati (et nihil inuenit). Mentre pronuncia il monologo, dunque, Ergasilo si trova nella condizione più infelice che possa immaginare (ille miserrumust): muore di fame – come sempre – ma non ha nulla da mangiare (qui quom esse cupit, <tum> quod edit non habet). Questo pensiero lo manda su tutte le furie, e lo porta a oscillare tra stizza e autocommiserazione, che esprime con il solito egocentrico trasporto.

Il primo istinto, umanissimo, è quello di prendersela con il mondo intero:

nam hercle ego huic die, si liceat, oculos ecfodiam lubens,

ita malignitate onerauit omnis mortalis mihi; 465

Tutta la rabbia del parassita affamato trova un'immaginaria vittima nel dies stesso, personificato per l'occasione. Si tratta di un espediente caro a Plauto, che lo utilizza svariate volte: sempre nei Captivi, al vv. 774 (ita hic me amoenitate amoena amoenus onerauit dies, anche con lo stesso verbo), nel Persa, vv. 712 e 780 (Ne hic tibi dies inluxit lucrificabilis . . . pessimus hic mihi dies hodie inluxit corruptor, cfr. supra), nei Menaechmi, v. 899 (edepol ne hic dies peruorsus atque aduorsus mi optigit) e nel Trinummus, v. 843, dove al giorno viene addirittura dato un nome (huic ego die nomen Trinummo faciam)109. Il risultato

109

Fraenkel (pp. 101ss.), forse calcando un pò troppo la mano, ritiene di poter scorgere in questi passi le tracce di una “concezione” tipicamente romana del dies come dotato di una propria individualità, e la prova “che da queste concezioni, di cui s'era forse perduta completamente la coscienza, Plauto abbia ricevuto lo stimolo a rivestire di quella forma speciale le esclamazioni con cui i suoi personaggi esprimono rammarico o gioia per

(20)

espressivo è di grande efficacia e soprattutto di grande concretezza: con impeccabile realismo psicologico, lo scatto di violenza dovuto al fatto che “tutti ce l'hanno con lui” porta Ergasilo a riflettere sulla propria condizione, cadendo così nell'autocommiserazione.

neque ieiuniosiorem neque magis ecfertum fame uidi nec quoi minù procedat quidquid facere occeperit, ita[que] uenter gutturque resident essurialis ferias.

Anche nello sconforto, il parassita non rinuncia al gioco di parole e all'invenzione verbale: se nessuno l'ha invitato a cena, allora sarà ieiuniosus, “digiunoso” (cfr. Poen. 180, inopiosas), e se l'edendi exercitus del v. 153 è in congedo110 per via delle res prolatae, vorrà dire che anche uenter gutturque dovranno sospendere il lavoro e andare in ferie, rassegnandosi a una forzata e sconsolata inattività. Il problema è che, anche se Ergasilo si dà da fare, non gliene va una giusta (nec quoi minù procedat quidquid facere occeperit), e di chi sarà la colpa? Ovviamente, delle circostanze:

ilicet parasiticae artis maxumam malam crucem,

ita iuuentus iam ridiculos inopesque ab se segregat, 470 nil morantur iam Lacones unisubselli uiros,

plagipatidas, quibù sunt uerba sine penu et pecunia.

Il detentore dell'antica e nobile ars parasitica111 arriva a mandare al diavolo (per

qualche avvenimento che li riguarda” (pp. 103-4).

110

Cfr. infra.

111

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colpa della iuuentus) il suo stesso mestiere112, e nel farlo descrive la dura vita dello scroccone nel suo stile abituale, sapido e concreto: il suo essere sempre disposto a rinunciare a ogni comodità pur di stringere qualcosa tra i denti è sintetizzato nell'epiteto popolare Laco, “spartano”113; la sua pubblica rinuncia alla preminenza sociale in nome del cibo gratis è espressa quasi metonimicamente dall'immagine quotidiana dell'unisubsellium (probabile conio plautino per indicare il monokoition dei banchetti, destinato ai servi, su cui il parassita si adatta a mangiare114); la sua capacità di sopportare tutto, fino alle percosse, pur di saziarsi, è nobilitata da un patronimico ibrido greco-latino, plagipatidae, “pigliabusse”115; la sua proverbiale indigenza, infine, emerge dalla coppia allitterante sine penu et pecunia.

Veterem atque antiquom quaestum maio<rum meum> seruo atque optineo et magna cum cura colo.

nam numquam quisquam meorum maiorum fuit quin parasitando pauerint uentris suos.

112

Questa invettiva di un parassita contro il proprio mestiere rappresenta un unicum, se si esclude il ben più limitato accenno di Stich. vv. 634-5 (Viden benignitates hominum ut periere et prothumiae? / uiden ridiculos nili fieri, atque ipsos parasitarier?). I parassiti della commedia greca cercano spessissimo di nobilitare, quando non addirittura di esaltare, la propria posizione: cfr. Eupoli, fr. 172 K.-A. v. 2, Timocle, fr. 8 K.-A., Antifane, fr. 80 K.-A. e soprattutto Diodoro di Sinope, fr. 2 K.-A.

113

Questo luogo comune rimandava probabilmente, per i romani, anche a nozioni piuttosto concrete: Lindsay cita Cic. Mur. 35.74, Lacedaemonii . . . cotidianis epulis in robore accumbunt (questo riferimento potrebbe essere attivato da unisubselli); Ussing scrive: parasitos dicit, quia, ut pueri Lacedaemonii, sic et parasiti plagas et verbera ferre consueverant [...]; cf. Petron. Sat. 105: “tres plagas Spartana nobilitate concoxi”.

114

E' testimoniata (ma solo dai quattrocenteschi F e Z, ) anche la lezione imi subselli, con riferimento alla disposizione gerarchica degli invitati a cena. Ma cfr. Stich. 489, scis tu me<d> esse unisubselli uirum, e il comm. di Petersmann ad loc. Ricca e interessante anche la nota di Ussing ad loc.

115

(22)

Ma in questi versi gli accenti dell'esasperazione si mescolano a quelli dell'orgoglio individuale e di categoria: il parassita ha comunque qualcosa da offrire, qualcosa che merita (e ha sempre meritato) una mora, vale a dire risum e uerba. Sono i giovani ad essere in difetto, ed Ergasilo si lancia in un'improbabile tirata contro i costumi del tempo (cfr. supra, a proposito del v. 105):

eos requirunt qui lubenter, quom ederint, reddant domi; ipsi opsonant, quae parasitorum ante erat prouincia,

ipsi de foro tam aperto capite ad lenones eunt 475

quam in tribu sontes aperto capite condemnant reos; neque ridiculos iam terrunci faciunt, sese omnes amant.

Questo curioso elenco, ancora una volta non molto bilanciato dal punto di vista della struttura, mette a fuoco l'oggetto delle rimostranze di Ergasilo. Il v. 473 e il v. 477, che incorniciano la sezione, sviluppano in sostanza lo stesso tema: i giovani sono disposti a elargire un invito solo dietro garanzia di essere ripagati con la stessa moneta. In questo modo, con un atto che Ergasilo taccia apertamente di egoismo (sese omnes amant), i parassiti sono privati della possibilità stessa di venire invitati, perché ognuno di loro potrebbe dire, con Gelasimo (Stich., vv. 256-8): Nega esse quod dem nec mihi nec mutuum,/ neque aliud quicquam nisi hoc quod habeo pallium: / linguam quoque etiam uendidi datariam. La loro merce di scambio era sempre stata di altro genere: a tavola risate e divertimento, fuori casa piccoli “servizi” in cui il tempo libero di chi non ha niente da fare e la faccia tosta di chi non ha un'immagine da difendere potevano

(23)

tornare utili116. Ora, invece, la iuuentus fa da sé, e non è da escludere una certa acrimonia da parte di Ergasilo nel far notare che i giovani che in tribu sontes aperto capite condemnant reos117 non solo sono gli stessi che frequentano aperto capite lenoni e prostitute, ma si rendono anche rei di affamare i parassiti di cui una volta si facevano carico.

Finora il pubblico ha assistito a questo lungo sfogo senza comprenderne le motivazioni, ma adesso Ergasilo, per la seconda volta nella commedia, espone gli antefatti del suo discorso, stavolta nella forma di un breve aneddoto in prima persona, diviso in più sezioni.

La prima è introdotta dal v. 478, che fa da raccordo con la conclusione del precedente dialogo con Egione e fornisce l'ambientazione della scenetta:

nam uti dudum hinc abii, accessi ad adulescentes in foro.

Con uno stacco netto (ben segnalato da Lindsay, che colloca un punto fermo alla fine del verso), si passa al racconto vero e proprio, che parte subito con un andamento serrato, che unisce l'effetto di spontaneità del discorso diretto ai parallelismi strutturali (ancora una volta non perfetti, ma scanditi da un'efficace serie di omoteleuti):

116

Che tra i compiti dei parassiti figurasse quello di opsonare per il patrono risulta solo da questo passo. Si tratta di un'attività solitamente tipica di servi e clientes. Un parassita che copre la scappatella del suo benefattore (salvo poi tradirlo non appena si crede gabbato) è Penicolo nei Menaechmi.

117

Notare ancora un'immagine concreta, tratta dall'esperienza dei comitia tributa. Chiaramente questo è uno dei passi di cui la critica analitica si è servita per dimostrare la paternità plautina di Ergasilo (a partire da Fraenkel, p. 237).

(24)

'saluete', inquam. 'quo imus una?' inquam: [ad prandium] atque illi tacent. 'quis ait “hoc” aut quis profitetur?' inquam. quasi muti silent, 480 neque me rident. 'ubi cenamus?' inquam. atque illi abnuont.

L'inciso neque me rident dà il la al passaggio successivo: lo scopo del parassita è suscitare l'ilarità dei presenti, per far desiderare la propria compagnia a tavola, e così Ergasilo sfodera le sue armi migliori:

dico unum ridiculum dictum de dictis melioribus, quibù solebam menstrualis epulas ante adipiscier: nemo ridet; sciui extemplo rem de compecto geri;

ne canem quidem irritatam uoluit quisquam imitarier, 485 saltem, si non adriderent, dentes ut restringerent.

In questa sezione l'andamento si fa più disteso (salvo condensarsi significativamente in nemo ridet), viene utilizzata una semplice subordinazione e i nuclei concettuali tendono a svilupparsi oltre la misura del singolo verso. Lo stile si mantiene comunque semplice e colloquiale (ad esempio con l'uso di unus in funzione di indeterminativo), e troviamo l'ennesima similitudine tratta dall'esperienza quotidiana (la cagna rabbiosa). Il verbo ridere con i suoi derivati continua a dominare come parola chiave, riferito al dictum (cfr. Stich. 401, ibo intro ad libros et discam de dictis melioribus) e, in negativo, ai giovani che ostentano indifferenza ai ripetuti assalti del parassita, il quale abbandona il primo crocchio per tentare la fortuna altrove. Ovviamente invano:

abeo ab illis, postquam uideo me sic ludificarier; pergo ad alios, uenio ad alios, deinde ad alios: una res! omnes <de> compecto rem agunt, quasi in Velabro olearii.

(25)

nunc redeo inde, quoniam me ibi uideo ludificarier. 490

Il racconto va avanti mantenendo la struttura agile, la cadenza delle anafore (ad alios ... ad alios ... ad alios), il lessico ripetitivo (ludificarier, vv. 487 e 490; de compecto, vv. 484 e 489), il registro colloquiale (postquam con l'indicativo presente118, “una res”119) e ancora una volta il dato dell'esperienza comune (in questo caso gli olearii del Velabro120). E la storia si conclude con un'ultima pennellata, stilisticamente eccellente:

item alii parasiti frustra obambulabant in foro.

L'agile aneddoto, narrato tutto al presente e con una nettissima focalizzazione interna, si conclude all'imperfetto indicativo e in terza persona plurale. Si torna all'ambientazione iniziale (in foro, v. 478 = v. 491) e, grazie all'uso dell'imperfetto (tra l'altro della “parola lunga” obambulare, semanticamente arricchita dal frustra), il ritmo narrativo rallenta fin quasi a fermarsi, cogliendo come con un ultimo sguardo la desolazione che si estende ben oltre la persona del singolo Ergasilo.

Ed è probabilmente la considerazione della dimensione sociale del suo problema a spingere Ergasilo a pronunciare i versi successivi:

nunc barbarica lege certumst ius meum omne persequi: qui consilium iniere, quo nos uictu et uita prohibeant,

118

Cfr. v. 24, postquam belligerant, e n. di Lindsay ad loc.

119

Cfr. p. es. Stich. 473, certa res.

120

Ussing ad loc.: Velabrum, locus Romae infra Palatinum montem inter vicum Tuscum et forum boarium, ubi vendebantur quaecumque ad victum pertinebant [...]. Olearii huius loci consentire inter se dicuntur de pretio olei, ne quis minoris, quam ceteri, vendat.

(26)

is diem dicam, inrogabo multam, ut mihi cenas decem

meo arbitratu dent, quom cara annona sit. sic egero. 495

Dopo aver recitato la parte del censore ai vv. 473-7, il parassita assume ora i panni del magistrato giudicante. Ipotizzando addirittura un complotto contro i parassiti (consilium iniere), torna a prendersela con il mondo intero, e appellandosi alla legge romana121 (indicata con l'aggettivo barbarica secondo le convenzioni della palliata, di ambientazione greca122), minaccia i suoi nemici proponendo quello che per lui è il massimo della pena: la condanna a offrirgli dieci cene alla sua maniera (meo arbitratu), proprio quando il costo della vita è più alto. Il tono è ridicolmente solenne, e fa il verso al lessico e allo stile giuridici: dalle allitterazioni come uictu et uita e diem dicam (che rimandano ovviamente al registro sacrale delle Dodici Tavole) alla terminologia specifica (ius ... persequi, inrogabo multam, meo arbitratu), quello di Ergasilo è un vero e proprio editto, prova generale di quelli, ben più grandiosi, che pronuncerà (stavolta nei panni di un basileus, di un imperator e di un edile) ai vv. 803-22123.

Idealmente conclusosi il sommario processo, pronunciato l'irrevocablie giudizio

121

Non è sicuro che Plauto faccia qui riferimento a una legge precisa. Solitamente si fa riferimento a una delle leggi delle dodici tavole che, sull'esempio della legislazione soloniana, autorizzava le associazioni (collegia) a dotarsi di un proprio statuto, a condizione che lo stesso non fosse in contrasto con le leggi dello stato (cfr. Gaio nel Digestum, 4.22.4). Ussing ricorda la lex Iulia de annona (Digest. 48.12.2), adversus eum qui contra annonam fecisset societatemve coisset, quo annona carior fieret, ma il confronto (sicuramente originato dal riferimento all'annona) non sembra particolarmente cogente.

122

Cfr. v. 884 Per barbaricas urbis iuras? Cfr. anche Mil. 212, poetae ... barbaro (cioè Nevio), e il celeberrimo uortit barbare di Asin. 11 e Trin. 19.

123

(27)

di condanna (sic egero), il parassita ritorna a occuparsi del mondo reale, richiamato dall'eterna aspirazione al cibo:

nunc ibo ad portum hinc: est illic mi una spes cenatica; si ea decollabit, redibo huc ad senem ad cenam asperam.

Come già alla fine del primo monologo, Ergasilo reagisce allo sconforto mettendosi subito in moto per cercare nuove soluzioni: venuta meno la possibilità di rimediare in città un invito più ricco di quello di Egione, egli rincorre la sua ultima124 spes cenatica recandosi là dove più fervono i commerci degli uomini, dove il lavoro (che Ergasilo aborre) porta ricchezza e cibo (che Ergasilo brama). Comunque vada, d'altronde, cadrà sempre in piedi, perché gli resta la cena aspera promessa dal senex.

La decisione di recarsi al porto è introdotta in modo sbrigativo ma non forzato: dopo le fantasticherie dei vv. 492-5, suggellate dal sic egero, “sì, sì, farò così”, il parassita rimette i piedi per terra e torna a concentrarsi sul nunc. Si tratta di un modulo che abbiamo già incontrato al v. 108 (nunc ad eum pergam), e che si ripresenterà al v. 776 (nunc ad senem cursum capessam) e al v. 907 (nunc ibo), vale a dire alla conclusione di tutti i monologhi di Ergasilo, figura dalla comicità sempre al confine tra la chiacchiera e l'azione. Così, come abbiamo già avuto modo di mostrare125, il divertissement di un colorito monologo, oltre a caratterizzare fortemente il personaggio che lo pronuncia, acquisisce anche un'importante funzione drammatica, motivando e introducendo

124

Credo che in questo caso una abbia il valore standard di “sola, unica rimasta”. Dei traduttori, il solo Scàndola preferisce il valore di indefinito, rendendolo con “Là ho speranza d'una cena”.

125

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