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CAPITOLO I LO SVILUPPO RURALE

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CAPITOLO I

LO SVILUPPO RURALE

1. L’importanza di una definizione dello sviluppo rurale.

Il processo di ristrutturazione che è andato delineandosi in Europa nella seconda metà del secolo scorso, ha determinato un radicale cambiamento nella distribuzione spaziale delle attività e della popolazione. La rapida crescita del peso delle aree urbane, primo stadio di questa evoluzione, ha contribuito ad alimentare perplessità sempre più rilevanti, sulle prospettive sociali ed economiche di quelle aree del continente escluse da tale processo (Leon, 1999). Nei territori rurali, infatti, al clima d’incertezza, prodotto dalla crescente complessità del contesto macro-economico, ha corrisposto “la reazione” di “un tessuto economico e sociale via via più diversificato” (INEA, 2000). Tutti questi cambiamenti strutturali1, che hanno in qualche

modo mutato l’assetto spaziale delle attività produttive e sociali, assumono una consistenza maggiore se pensati nell’ottica della coesione socio-economica dell’Unione Europea che non potendo acconsentire al declino di vaste zone del suo territorio2 interessate da questo fenomeno, ha visto

emergere la necessità di configurare nuove relazioni spaziali. Il problema, particolarmente sentito nel nostro continente, dove le vicende storiche hanno determinato almeno fino ai tempi recenti un mondo rurale ricco e densamente popolato, ha assunto, tuttavia, una portata ben più generale, andando ad interessare tutti i paesi più avanzati, impegnati nella risoluzione di quello che è stato altrimenti definito come“… fenomeno di regresso economico…” (Leon, 1999).

1 “ (…) Esempi più significativi di questa categoria di processi sono la globalizzazione dell’economia mondiale e l’evolvere dei modelli di organizzazione della produzione (…) ” (INEA, 2000).

2 Si consideri a questo proposito, la rilevanza dell’ingresso avvenuto il 1 maggio 2004 dei nuovi dieci stati membri: Cipro, repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia e Slovenia. Vedi figura 1.

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Figura 1 L'Europa rurale a 25.

Fonte European Commission (2006), New perspective for EU rural development, Fact Sheet. In questi ultimi decenni, quasi parallelamente al propagarsi d’una simile tematica, è andata, anche, maturando l’idea di sviluppo periferico o locale, che ben si associa con l’elevata presenza di piccola impresa e di modelli di industrializzazione e di sviluppo diversi rispetto a quelli del passato.

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L’attenzione si è, dunque, spostata verso quelle forme organizzative che alle variabili strettamente economiche accompagnano variabili sociali e territoriali, nelle quali il territorio acquisisce un ruolo centrale, divenendo il luogo di produzione di conoscenze specifiche, “conoscenze contestuali”, e di “meccanismi di interazione sociale” (Garofoli, 2004).

In un quadro generale di questo tipo, non deve quindi stupire, se Unione Europea e un numero crescente di ricercatori abbiano intensificato il dibattito sul concetto di “sviluppo rurale”. A tal proposito, il contributo istituzionale a questa “interpretazione”, sostanzialmente di carattere normativo, non si è però solo limitato all’identificazione delle politiche e dei relativi strumenti d’attuazione per favorire lo sviluppo rurale, ma ha anche cercato di rilevare quali caratteristiche un territorio rurale dovesse possedere per creare sviluppo. Oggi, infatti, la politica di sviluppo rurale nonostante abbia inizialmente tardato ad affermarsi quale elemento delle politiche strutturali dell’Unione Europea; definisce un processo di crescita endogena dei sistemi socio-economici locali.

Storicamente, il tema dello sviluppo rurale è stato inserito a pieno titolo nella Politica Agricola Comunitaria solo dal 1988, anno di pubblicazione del documento “Il Futuro del mondo Rurale”3, vero punto di partenza della

strategia di intervento nelle aree rurali europee.Proprio in quel contesto, infatti, si è resa pubblica non solo la rilevanza delle specificità locali e quindi l’importanza dell’elemento territorio4, ma anche, per l’appunto, il

tentativo di delineare una serie di elementi comuni a tutti quei contesti definiti “rurali”. La Conferenza di Cork del 1996 e quella Salisburgo del 2003 rappresentano, poi, metaforicamente dei “passi” ulteriori compiuti nel cammino verso il miglioramento delle politiche di sviluppo rurale. Da questi eventi inizia, però, ad emergere con forza il problema, o meglio, la necessità5, di una sempre più chiara definizione del concetto di “ruralità”;

3 COM (88) 501 def. del 29/07/1988.

4 Il principale elemento innovativo introdotto dalla Commissione era costituito dall’approccio di “sviluppo integrato”, vale a dire l’abbandono di una logica settoriale a favore di una logica di sviluppo fondata sul territorio come oggetto di intervento.

5 “…Infatti, la premessa indispensabile per qualsiasi analisi sulle prospettive di sviluppo locale delle aree rurali e per la definizione di specifiche politiche e degli strumenti con cui attuarle consiste nella

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operazione, quest’ultima, che ha comportato, e comporta tuttora, non poche difficoltà, soprattutto in paesi a “sviluppo avanzato” come il nostro.

A questo proposito un documento comunitario di qualche anno fa, così si esprimeva in merito alla definizione di rurale: “ the success of terms like “rurality” and “rural areas” lies in their apparent clarity. They are immediately understood by everybody, in that they evoke a physical, social and cultural concept which is counterpart of “urban”. But, in reality building an “objective” or unequivocal definition of rurality appears to be an impossible task” (European Commission, 1997).

Gli stessi ricercatori, nel tentativo di contribuire al dibattito sullo sviluppo rurale, hanno incontrato non poche difficoltà nella rappresentazione di questo concetto. Limitatamente al loro contributo, è utile porre l’accento su come le difficoltà di definizione non siano dipese unicamente dal fatto che l’oggetto d’indagine, il rurale, si trasformi nel tempo “…in quanto luogo di interazione di fattori storici sociali, culturali e insediativi …”6; ma abbiano

origine, in parte, anche dalla tipologia di prospettiva teorico-disciplinare di coloro che si apprestano ad analizzare tale “ questione” (geografi, economisti, sociologi etc.). In ogni caso, nonostante la complessità della sua natura la renda oggetto di “compromessi” e di “semplificazioni”; l’opportunità di una definizione operativa del fenomeno rurale è andata, suo malgrado, configurandosi come una necessità. L’origine di un tale bisogno non nasce, tanto, dalla constatazione che la tendenza alla classificazione sia connaturata nei meccanismi conoscitivi umani; ma quanto, quale configurazione di un passaggio obbligato per l’individuazione di quelle aree oggetto d’intervento di politica economica.

Fermo restando tutte queste considerazioni, appare, tuttavia, evidente che nel percorso di classificazione, già presente, peraltro, sia nella letteratura scientifica sia nei documenti ufficiali, si vadano delineando i contorni di una fitta trama di problematiche molte delle quali ancora irrisolte. Un nodo centrale di questo complicato intreccio è certamente individuabile nella definizione, delimitazione e differenziazione della ruralità.” (De Blasi et al. 2005)

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propensione a raggruppare, sfumature a parte, i territori nelle due principali tipologie: urbana e rurale. Risulta, infatti, evidente che è il fenomeno urbano quello che nei fatti si misura, e su cui ci sono meno dubbi; mentre, la ruralità tende ad assumere il ruolo di “ categoria di rimanenza”, “…vi è dunque un vizio concettuale nell’identificazione della ruralità ed è che differenzia lo spazio in modo non neutrale…” (Saraceno, 1996).

Altra importante questione, sempre correlata al processo tassonomico, si sviluppa attorno all’opportunità e alla natura delle soglie da applicare al risultato della misurazione. Un problema questo di non poco conto; e che, se considerato unitariamente alla consapevolezza di come l’utilizzo di soglie differenti, conduca ad esiti del percorso di classificazione altrettanto differenti, ne fa emergere tutta la sua arbitrarietà e contraddizione7.

Nel merito delle questioni legate alla misurazione e classificazione della ruralità, quindi, è certamente più plausibile considerare questo fenomeno “nel continuum”8 di situazioni, e dunque presente in diversa misura in ogni

unità territoriale. Un simile atteggiamento darebbe maggiore risalto al grado di ruralità dei vari territori evitando, così, ogni forma di categorizzazione (Angeli et al.1999). Quest’ultima considerazione, strettamente connessa a quei cambiamenti strutturali, che nel corso degli anni hanno “rivoluzionato” il panorama socio-economico europeo, soprintende poi ad un’altra importante questione, determinata essenzialmente dalla “riqualificata visione” del territorio. Nel corso degli anni, infatti, si sono andate erroneamente consolidando “una ideologia ed una politica” che hanno continuato ad identificare le zone rurali con il settore agricolo, e ciò indipendentemente sia dal contesto storico, che dal tipo di zona9 oggetto di

analisi. Nei paesi ad economia avanzata, tra la rivoluzione industriale, epoca in cui si è affermata la tendenza alla localizzazione dell’industria in 7 “….Secondo la visione prevalente l’incremento di residenti in un territorio inizialmente disabitato non ne altera la sua condizione di “rurale”, finché con l’arrivo di un ulteriore residente (quello che fa oltrepassare la soglia) si perde d’un colpo ogni traccia di ruralità…” (Sotte, 2001).

8 “…nel continuum rurale-urbano il confine tra rurale e urbano è sfuggente e la scarsa correlazione tra ruralità ed indicatori statistici appare un carattere specifico della moderna ruralità” (Iacoponi, 1998). 9 “… sia che si trattasse di zone non ancora sviluppate, di montagna o di pianura, già modernizzate e specializzate, oppure modernizzate con una diversificazione produttiva…” (Saraceno, 1996)

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contesti urbani, e la fine degli anni cinquanta, il territorio rurale ha manifestato una marcata tendenza alla specializzazione agricola e, quindi, il rurale ha finito con l’identificarsi di fatto con la componente agricola. Negli attuali contesti competitivi, tuttavia, questa corrispondenza perde forza. “Rurale, quindi non significa “agricolo”né in alcun modo può essere ricondotto ad una ristretta accezione territoriale” (Sotte, 2000). Nella sostanza, il settore agricolo viene ad assumere un nuovo ruolo, integrando la propria dimensione produttiva in quella globale, dove le politiche di settore ricoprono necessariamente una funzione secondaria rispetto a quelle generali.

Lo sviluppo rurale, dunque, non è più sinonimo di economia agricola, ma strumento per consentire il perseguimento di obiettivi di più ampio respiro, attraverso l’attuazione di processi di sviluppo, la cui natura è sia multisettoriale che multidimensionale. Alla realizzazione di questi nuovi traguardi prende parte anche il territorio, quale variabile esplicativa indispensabile dello sviluppo che in questi luoghi prende forma (Saraceno, 1994).

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2. L’evoluzione del concetto di sviluppo.

Alle rilevanti trasformazioni che, a partire dal secondo dopoguerra, hanno qualificato i bisogni della collettività nei “paesi sviluppati”, analogamente, ha corrisposto l’evoluzione del concetto di sviluppo. Se prima, infatti, obiettivo principale dello sviluppo era la realizzazione dell’accrescimento del reddito, senza ponderare quell’insieme complesso di elementi che oggi contribuiscono a definire la qualità della vita, le epoche successive sono state caratterizzate da un “ripensamento” ed una ridefinizione di quelle che erano le preferenze, e le esigenze della collettività. Una volta soddisfatti i “bisogni fondamentali di sussistenza, di protezione e di sicurezza, la società ha manifestato con sempre maggior forza nuovi bisogni, come quelli di natura relazionale e di senso, (…) di riconoscimento, di comunicazione, di autorealizzazione…” 10 ed una serie di altri bisogni

correlati alla tutela e conservazione delle risorse ambientali, da cui, in ogni caso, non si poteva prescindere. Si è, quindi, pervenuti ad un concetto di sviluppo sempre più complesso, che non può, in sostanza, essere spiegato dalle sole variabili economiche e ha bisogno di approcci multidisciplinari sia per la sua misurazione che per la definizione di quelle politiche volte ad una sua incentivazione.

Molti ricercatori, concordi nel riconoscere le molteplici peculiarità dello sviluppo, e, com’è ragionevole pensare, le difficoltà di una sua chiara definizione; hanno rilevato, tuttavia, alcuni elementi che dovrebbero in qualche modo caratterizzarlo:

- Globalità: quale invito ad acquisire le componenti della vita comunitaria nel suo complesso, considerando non solo la sfera economico-produttiva, ma anche i bisogni sociali, culturali, relazionali e politici.

10 Gubert R (1995): Problemi e politiche dello sviluppo rurale. In XXXI° Convegno SIDEA: Lo sviluppo del mondo rurale: problemi e politiche, istituzioni e strumenti, Bologna, il Mulino.

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- Finalizzazione: ovvero la necessità di non trascurare, nel progredire dello sviluppo, la sfera etica, attraverso l’indicazione di obiettivi che garantiscano il miglioramento delle condizioni socio-economiche dell’intera collettività.

- Democrazia o autogestione: ossia il coinvolgimento della società tutta, nella gestione del proprio sviluppo; fornendo tutti quegli strumenti che le permettano, di valutare le trasformazioni in corso, modificare il proprio progetto di sviluppo e di definire i bisogni collettivi da soddisfare.

- Equità intergenerazionale ed intragenerazionale: sottintendendo, in questo modo, al concetto di “sviluppo sostenibile”, ovvero ponendo l’accento sul fatto che tale processo possa continuare nel tempo11.

Oggi, si può, dunque, avallare l’ipotesi che il sentiero tracciato nell’evoluzione del concetto di sviluppo conduca verso un’idea più “avanzata” dello stesso, arrivando a considerare globalità, finalizzazione, democrazia ed equità come delle caratteristiche ormai assimilate nella sua stessa definizione. (INEA, 2001)

In merito, poi, agli avvenimenti che hanno, in qualche modo, influito sull’evoluzione di questo concetto, il dibattito innescatosi dalla seconda metà degli anni settanta, soprattutto in Italia, riguardo ai sistemi produttivi locali, riveste indubbiamente un ruolo importante. In quel periodo, infatti, l’interesse di molti studiosi è stato richiamato verso particolari forme di industrializzazione diffusa in aree territorialmente limitate, che evidenziavano caratteristiche ben diverse rispetto al modello del “periodo fordista”. “Era, dunque, necessario spiegare la possibile combinazione di piccola impresa e capacità innovativa; si doveva, in altri termini dimostrare in quali condizioni anche la piccola dimensione di impresa riuscisse a svincolarsi dai problemi di soglia dimensionale nell’accesso a risorse strategiche per il raggiungimento dell’efficienza economica e della 11 “ In altri termini, un tema centrale dello sviluppo sostenibile è il perseguimento dell’equità sia tra le generazioni presenti (intragenerazionale) sia tra le presenti e le future (itergenerazionale). (Scapigliati, 1995).

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competitività” (Garofoli, 2004). Fu il recupero della dimensione territoriale nelle analisi di questi fenomeni, non limitata, peraltro, alle sole caratteristiche geo-morfologiche, ma estesa alla osservazione di valori storici, culturali e sociali, essenziali per la struttura di quello che oggi viene definito “milieu locale”12; a dare il contributo, forse, più rilevante a questa

discussione. Il modello organizzativo della produzione che si configurò in questo contesto: il distretto industriale13, rappresenta il risultato di quei

processi di sviluppo di tipo endogeno, basati proprio sulla valorizzazione delle risorse locali, di cui furono protagonisti soprattutto i sistemi di piccola impresa.

Parallelamente al moltiplicarsi di studi che vanno ad arricchire il dibattito sullo sviluppo locale, ed alla luce di quelle riflessioni che ritengono, ormai, inopportuno considerare il termine sviluppo quale sinonimo di crescita economica14; anche il contesto rurale viene contagiato da tutti questi radicali

cambiamenti. Nello specifico, il concetto di sviluppo rurale è rimasto, almeno fino alla fine degli anni settanta, un’idea alquanto astratta, se non addirittura inesistente; condizione questa imputabile soprattutto alla pratica d’identificare con rurale tutto ciò che avesse una qualche pertinenza con l’agricoltura. La minore capacità di quest’ultima, rispetto ad industria e servizi, di produrre reddito e creare occupazione, suggeriva, infatti, un’immagine di rurale quale sinonimo di arretratezza; configurando, quindi, nell’utilizzo dell’espressione sviluppo rurale una palese contraddizione tra termini. Una prova inconfutabile di questa tendenza si ricava anche dalle politiche attuate fino agli anni ottanta a favore dell’agricoltura che, invece di rimuovere le cause del mancato sviluppo delle aree più deboli, puntavano 12 “Fa riferimento, quindi, (…) a quell’insieme di condizioni fisiche e socio-culturali che si sono sedimentate in quel territorio come risultato di processi di lunga durata…” (Dematteis, 2001)

13 “(…)un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territorialmente circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di imprese industriali(…)” (Becattini, 1989).

14 “Nonostante siano spesso usati come sinonimi, è opportuno distinguere tra il concetto di crescita (growth) e quello di sviluppo (development): il primo termine fa riferimento alle sole variabili di natura economica (produzione, consumi, occupazione, redditi ecc.) ed è riferito ad un aumento dell’entità delle stesse, mentre il secondo ha un significato più ampio e tiene conto anche di variabili connesse alle condizioni sociali, culturali, politiche del paese in esame, evidenziando in misura maggiore gli effetti della crescita sul benessere dei singoli cittadini” (Marescotti, 1995).

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a sostenere questo settore. L’elevato livello di subordinazione che l’agricoltura ha avuto, soprattutto in passato, nei confronti d’industria e terziario, ha impedito non solo un suo sviluppo autonomo, ma anche una sua attiva partecipazione allo sviluppo del sistema socio-economico. Se si concentra, poi, l’attenzione sulle due funzioni che l’Unione Europea, in quegli anni, aveva attribuito alla politica di sviluppo dell’agricoltura, e vale a dire: assicurare l’autosufficienza alimentare e contenere l’esodo dalle campagne, merita far notare come, nonostante il primo obiettivo sia stato raggiunto, anche grazie, soprattutto, all’espansione del processo di globalizzazione, non si possano, invece, trarre le stesse conclusioni per il secondo. Proprio il mancato contenimento dell’esodo dalle zone rurali, imputabile, in buona parte, ad un’errata redistribuzione del reddito tra agricoltori; è stato, infatti, uno dei maggiori indiziati della formazione di alcuni gravi problemi di ordine ambientale, dovuti alla riduzione della funzione di presidio e salvaguardia del territorio. In periodi più recenti, come se non bastasse, i cambiamenti nei modelli di consumo hanno contribuito in maniera definitiva a mettere in crisi il modello di sviluppo, sostenuto tramite le politiche agricole. L’incremento della domanda di prodotti differenziati e di qualità, imputabile, sostanzialmente, alle migliorate condizioni di vita, ed un maggiore interesse verso la protezione dell’ambiente e la tutela della salute; hanno innescato un processo di segmentazione di domanda e, conseguentemente, di consumi, cui ha corrisposto la scelta strategica, peraltro obbligata, di un processo di differenziazione della produzione15.

“A fronte della necessità di rivitalizzare le zone rurali più marginali, di ridurre la pressione crescente esercitata sull’ambiente, a causa di tecniche di produzione troppo intensive…e di rispondere da esigenze della

15 “ (…) si possono mettere in evidenza alcune posizioni contrastanti rispetto all’interpretazione dei cambiamenti in atto…un processo di frammentazione o nidificazione dei mercati…orientato alla crescita dei beni complessivamente prodotti. La frammentazione dei mercati e il successo di nicchie di mercato per prodotti specifico tipici… sarebbe una risposta all’espansione numerica, sempre nei paesi occidentali della nuova classe media (piccola e media borghesia) senza che gli elementi caratteristici della produzione e consumo di massa siano significativamente cambiati (…) ” (Miele, 1995)

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domanda, sempre più orientata verso le produzioni di qualità…si è pervenuti ad una rivalutazione dell’attività agricola …” (INEA, 2001). In altri termini, l’introduzione in agricoltura del tema della multifunzionalità ha consentito, quindi, attraverso l’attivazione di un processo di valorizzazione delle risorse locali, di maturare un’idea di sviluppo, in cui questa attività non rivesta più il ruolo di settore “indotto”, ma quello di strumento da consolidare in quanto gestore di attività produttive che vanno assumendo un ruolo sempre più strategico nello sviluppo rurale.

In conclusione, la dimensione locale ha oggi acquisito un posto di primo piano nel dibattito politico, economico, e sociale rappresentando un importante elemento attraverso il quale rafforzare gli attuali modelli di crescita economica.“Quello di cui c’è bisogno, però, è un profondo cambiamento dell’uso che si vuole fare di tale dimensione: da semplice supporto o terreno per l’avvio di processi di crescita eterodiretti, esogeni ed omologanti a strumento essenziale per una politica di sviluppo che favorisca la nascita di reti non gerarchiche, in grado di modificare le caratteristiche attuali della globalizzazione economica” (IRPET, ????). Dall’analisi del concetto di sviluppo, anche in funzione di questo epilogo, ben si comprende, l’importanza che, ai giorni nostri, ha assunto il paradigma globale/locale16, quale espressione di un confronto che non è più

solo limitato alle singole imprese ma allargato ai sistemi territoriali. In un simile contesto appaiono, altresì, più risolutivi gli sforzi, tuttora in atto, di attirare gli investimenti delle multinazionali mediante la valorizzazione delle proprie risorse naturali e storiche con lo specifico proposito, poi, di accrescere la produzione di conoscenza “così da competere nel migliore dei modi in settori ad alta tecnologia e mercati a crescente competitività” (Sotte et al., 1999). Nel rendersi “riconoscibili”, pertanto, le società locali sembrano aver intuito che l’apertura delle relazioni a livello globale, 16 “ (…)possiamo considerare la globalizzazione contemporanea nel suo senso più generale come una forma di istituzionalizzazione del duplice processo che comporta l’universalizzazione del particolarismo e la particolarizzazione dell’universalismo (…)”

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costituisce un’opportunità di rafforzamento della dimensione locale e non necessariamente una perdita della propria identità culturale.

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3. La ruralità.

L’intenso dibattito sullo sviluppo rurale, sviluppatosi nel corso di questi ultimi decenni, non è ancora riuscito ad offrire una definizione di “rurale” che possa considerarsi sufficientemente esaustiva; e ciò, principalmente, quale diretta conseguenza dell’estrema variabilità e complessità d’interpretazione delle sue caratteristiche peculiari.

Se nel passato, infatti, le scienze sociali hanno in parte contribuito ad affermare questo concetto quale sinonimo di agricolo e, per questa ragione, lo hanno collocato in netta contrapposizione con l’urbano, i periodi successivi alla rivoluzione industriale sono stati, invece, contrassegnati dal lento declino di questo suo significato. L’utilizzo, che è stato fatto della “categoria analitica” urbano-rurale, quale strumento d’interpretazione di spostamenti di risorse, non è stato, tuttavia, arbitrario, ma in larga parte correlato alla capacità di questo binomio di spiegare in modo esauriente i processi in corso in un particolare momento storico.“Pur non escludendosi a vicenda la rilevanza di un criterio rispetto ad un altro dipende dalla sua capacità di cogliere i processi nel corso del tempo e dello spazio” (Saraceno, 1996). Alla luce di questa considerazione, è comprensibile come, nel corso degli anni, il problema di trovare una definizione di ruralità teoricamente adeguata ed, al contempo, tale da prestarsi ad una possibile misurazione in senso statistico, abbia dato vita a molteplici tentativi di soluzione, che sulla base di alcuni studi dell’INSOR (Istituto Nazionale Sociologia Rurale), possono essere così riepilogati:

- Rurale come micro-collettività; secondo questo criterio la discriminante dell’ampiezza demografica è qui utilizzata per definire la contrapposizione urbano-rurale dei centri abitati. Al rurale è stato così attribuito un valore negativo, in contrapposizione all’urbano concepito, invece, come processo di concentrazione della popolazione e, pertanto, caratterizzato da alta densità d’insediamento.

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Il principale suo difetto è determinato dal fatto che, così facendo, i centri rurali sono identificati con quei nuclei abitati che non eccedono una determinata ampiezza demografica, ma ciò va a scontrarsi palesemente con la realtà dei fatti, dove esistono dei casi di centri agricoli che associano caratteristiche rurali a forme accentrate di insediamento.

- Rurale come sinonimo di agricolo; sono le caratteristiche socio-professionali che in questa circostanza vengono utilizzate quale criterio discriminante. Tale compito nel caso del rurale viene, infatti, solitamente affidato al tasso d’attività in agricoltura, giudicato, da molti, sicuro indicatore della ruralità. Negli attuali contesti competitivi, tuttavia, l’attendibilità di un simile criterio viene sempre più invalidata dall’avvicendarsi di fenomeni quali: i processi di contrazione della quota di attivi in agricoltura, gli usi innovativi del territorio rurale ed anche il progressivo differenziarsi della struttura socio-professionale nelle campagne.

- Rurale come sinonimo di ritardo; la teoria di riferimento è, ora, quella del continuum rurale-urbano, per ciò si abbandona la rigida dicotomia che vedeva questi due termini tra loro contrapposti, per approdare ad un approccio dove le varie realtà territoriali si dispongono lungo una linea ideale che procede, per vari gradi, dall’urbano al rurale. Un tale orientamento nel realizzare la classificazione utilizza il grado di ruralità che viene però valutato sulla base di una pluralità di indicatori (demografici, economici e sociali). La maggior compiutezza di questo approccio si mostra, tuttavia, inefficace di fronte alla obiezione secondo cui tale definizione non sia, in realtà, in grado di fornire una analisi adeguata della complessa situazione delle aree rurali contemporanee.

- Rurale come spazio interstiziale in quest’ultima tipologia d’analisi la metodologia utilizzata ha come finalità principale non più, quella di individuare gli spazi rurali, ma le aree d’interazione tra lavoro e

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residenza. Lo spazio rurale, in sostanza, non è più elemento d’indagine del territorio ma un’area residuale aggregata al ben più rilevante spazio urbano. Proprio un tale atteggiamento, che in alcuni casi induce a considerare il rurale quale spazio di discontinuità, è l’argomento centrale della critica mossa a tutti quegli studi sulla zonizzazione territoriale che sembrano aver adottato questo particolare approccio.

“In definitiva, poiché il concetto di rurale cambia nel tempo, per comprenderne l’evoluzione è necessario considerare i mutamenti del più ampio contesto macro-economico in cui le società rurali si collocano” (INEA, 2001). A tal riguardo, l’affermazione secondo cui “ (…) il concetto di ruralità evolva nel corso del tempo, adattandosi ai mutamenti economici e sociali (…)” trova ulteriore riscontro in un approccio di tipo evoluzionistico, che sulla base di questo presupposto arriva a qualificare tre differenti modelli di ruralità: agraria, industriale e post-industriale (Sotte, 2003). Quale necessaria premessa a questo tipo d’analisi è interessante notare come, in realtà, qualora il campo d’analisi venga ristretto alla sola Europa o all’Italia, le tre differenti tipologie di ruralità, che rappresentano questi modelli, si siano nel corso del tempo “succedute e sovrapposte”. A questo punto ben si comprende, pertanto, anche l’argomentazione secondo cui il passaggio da un modello ad un altro non sia, in realtà, sempre possibile; e che all’interno del medesimo Paese o regione, possano, invece, essere contemporaneamente presenti aree contraddistinte da diverse tipologie di ruralità. La caratteristica principale di società prevalentemente agrarie, oggetto del primo modello di questo studio, è senza dubbio costituita dal notevole peso che il settore primario detiene sull’economia; un primato, questo, che porta a considerare come naturale la valutazione del grado di ruralità in funzione di parametri che abbiano una qualche attinenza con l’agricoltura. Di un simile compito, in questo modello, è stato investito il tasso di occupazione agricolo grazie proprio alla sua capacità di riassumere aspetti, sia economici che sociali, di un particolare contesto

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territoriale. Il corso naturale degli eventi ha, poi, indiscutibilmente contribuito ad influenzare il concetto di “ruralità agricola”; infatti, se questo si era andato affermando durante gli anni cinquanta, dalla rivoluzione industriale, anche grazie al contributo degli economisti spaziali, tale immagine è andata assumendo gradualmente connotati ben diversi. Da questo punto in avanti, infatti, lo spazio rurale si modifica, assumendo un’immagine subordinata rispetto al contesto urbano, cui, poi, è assegnato il compito di produrre quelle condizioni dello sviluppo economico e sociale mediante la crescita del settore industriale. La netta sudditanza delle zone rurali rispetto a quelle urbane non trova, invece, rispondenza nel secondo modello di questo approccio, dove lo sviluppo industriale di aree che in epoche precedenti erano state dominate dal settore agricolo, assume, qui, una notevole rilevanza. Un tale fenomeno di sviluppo, inizialmente originato dal decentramento produttivo della grande industria, e per questo lungamente considerato “esogenamente determinato, eterodiretto”, si è, invece, dimostrato capace di rigenerarsi, in quanto fondato su risorse endogene. A questo proposito, le caratteristiche peculiari di questo modello che hanno maggiormente contribuito a questo tipo di sviluppo possono essere sintetizzate in tre distinti fattori:

- Il polimorfismo economico, ovvero la capacità di distribuire in modo equilibrato le risorse tra distinte attività produttive; abilità, questa, che trae origine proprio dall’attività produttiva delle aziende agrarie, per loro natura caratterizzate da ordinamenti colturali complessi;

- La struttura della famiglia, che favorisce il radicamento di un forte senso d’identità e di appartenenza, e che, se considerato unitamente al precedente fattore, agevola la formazione di economie di scopo17; - La mobilità e fluidità sociale, caratteristiche, queste, la cui presenza

permette l’integrazione di categorie sociali altrimenti escluse e

17Per economie di scopo dall’inglese scope economies, si intende la capacità di generare nuovo valore

appropriabile a basso costo, attraverso una migliore utilizzazione delle risorse disponibili, senza sostenere costi di definizione o rinegoziazione di contratti esterni, utilizzando essenzialmente le "competenze distintive" dell'impresa. Diversificazione basata sulle conoscenze.Si parla anche di economie che derivano dalla diversificazione dell'attività aziendale ovvero dall'ampliamento del raggio di azione dell'impresa.

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l’opportunità di sfruttare maggiori occasioni d’impiego, andando così ad incidere sui costi di transazione.

Nel procedere in questo tipo d’analisi non si deve, tuttavia, prescindere dalla considerazione che la semplice presenza di questi fattori è condizione necessaria, ma non sufficiente, affinché si attui lo sviluppo industriale; come, peraltro, dimostrano quelle aree nelle quali questo tipo di modello non si è mai radicato, ma in cui prevale tuttora una tipologia di ruralità agricola. In questo scenario, il ruolo che il settore primario assume, condizionato al sostegno dello sviluppo regionale attraverso il trasferimento graduale di manodopera e risorse (terra) per le aree industriali ed i servizi connessi all’urbanizzazione; rende, in ultima analisi, meglio comprensibile la scelta di adottare la densità demografica quale unità di misura della ruralità.

Al fenomeno della fuga dalle campagne, che il precedente criterio cercava di sottolineare, si sta progressivamente sostituendo una nuova cultura del territorio, sviluppatasi nel corso degli ultimi anni. Questo elemento innovativo, fondato sulla riscoperta dei nuovi valori della ruralità, costituisce il nodo centrale attorno a cui è costruito il terzo modello di questo approccio a questo tema. La causa principale di questo processo innovativo, è certamente attribuibile al fenomeno della globalizzazione che, con l’apertura dei mercati e la rapida evoluzione tecnologica, se da un lato, ha imposto ai sistemi locali a muoversi verso modelli di specializzazione, dall’altro, richiede sforzi di differenziazione e diversificazione per cogliere le opportunità di uno scenario così competitivo.

Nel modello di “ruralità post-industriale” è il terziario il settore che assume il ruolo dominante, e ciò, tuttavia, non è solo limitato ad occupare le risorse prima impiegate nell’industria, ma la sua funzione si estende anche a fornire una serie di nuovi servizi sul territorio, sia di supporto alle aziende che in esso operano, sia legate all’individuo in quanto tale. Una posizione per niente irrilevante, in questo abito, riveste anche l’agricoltura, cui spetta il duplice compito,da un lato, di soddisfare la domanda di nuovi beni e

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servizi legati al contesto rurale; e dall’altro di fornire beni e servizi d’interesse collettivo18. In una tale prospettiva, una modifica è richiesta

anche per quello che riguarda il criterio di misurazione della ruralità; se prima, infatti, la densità demografica poteva, con le dovute cautele del caso, rappresentare un buon indicatore del grado di ruralità, ora in un ambiente di questo tipo, tale caratteristica sembra essere meglio espressa dal polimorfismo economico, sociale e territoriale che, meglio di altri, riesce a riassumere l’intenso rapporto che si sta stabilendo tra servizi, agricoltura ed industria.

A conclusione di questo quadro analitico sembra, dunque, essere ormai inequivocabile l’affermazione secondo cui la ruralità è un fenomeno complesso e per certi aspetti sfumato, e quindi, proprio a causa della sua stessa natura, i tentativi di una sua definizione pragmatica risultino pressoché inutili.

18 “Agli agricoltori si richiede la tutela del territorio, la cura del paesaggio, la valorizzazione dell’ambiente, il mantenimento della biodiversità, il presidio degli equilibri idrogeologici ecc.” (Sotte 2003).

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4. L’opportunità di unità territoriali ottimali.

Lo sviluppo rurale, qui inteso nella sua accezione più strettamente

economica, e quindi come“ (…) un complessivo incremento del benessere dei residenti delle aree rurali e, più in generale, nel contributo che le risorse rurali danno al benessere dell’intera popolazione (…) ”, pone l’accento sull’interesse che, per le aree rurali avvertono, da un lato le popolazioni locali preoccupate per le prospettive di crescita locale, e dall’altro, l’intera collettività, i cui timori sono invece attribuibili allo sviluppo regionale. A questo duplice interesse per le aree rurali, l’Unione Europea, e così come lei, anche altri paesi sviluppati hanno cercato di dare univoca interpretazione utilizzando l’obiettivo più generale della coesione socioeconomica quale finalità prioritaria delle politiche strutturali di sviluppo regionale, (Leon, 1999); e per il cui raggiungimento si è reso, tra l’altro, indispensabile risolvere l’importante questione in merito

all’identificazione ed alla classificazione delle diverse tipologie di spazio. Non a caso, infatti, è ragionevole pensare che la formulazione di politiche territoriali che possano, in un certo modo, definirsi adeguate ha bisogno, per l’appunto, di una determinazione chiara del concetto di spazio ed una

mappatura delle diverse categorie di zone destinatarie delle singole misure d’intervento. A questo riguardo l’OCSE (Organizzazione per la

Cooperazione e lo Sviluppo Economico), a partire dai primi anni novanta, aveva dato vita ad un programma il cui obiettivo primo era quello di fornire ai Paesi Membri degli elementi conoscitivi da utilizzare nella ricerca di dispositivi istituzionali più efficaci, per la formulazione, la messa in atto e la valutazione delle politiche e dei programmi di sviluppo rurale.Una delle finalità più rilevanti del programma di lavoro dell’OCSE è stata, quindi, quella di rendere possibile, una comparazione internazionale delle

informazioni relative alla condizione effettiva delle zone rurali e alla loro possibile evoluzione sia a livello qualitativo che quantitativo; e per fare questo, si è reso a quel punto indispensabile ricercare una serie di indicatori

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comuni che potessero costituire una base di dati sufficiente da utilizzare, poi, nelle diverse analisi. Attraverso un siffatto insieme di indicatori, che hanno toccato diversi aspetti quali popolazione e migrazione, struttura e performance dell’economia, benessere sociale, ambiente e vivibilità;

l’OCSE ha, così, attribuito alla natura dinamica e complessa del concetto di sviluppo rurale, sostanzialmente tre dimensioni principali:

- Spazialità (territorio), in quanto le differenze territoriali, presenti nelle diverse realtà possono influire positivamente, quale fattore di

diversificazione, o, negativamente, quale elemento di disparità; sia nelle tendenze di sviluppo che, più semplicemente, nelle scelte e nelle

possibilità.. La distribuzione spaziale, inoltre, influenza la performance e la sopravvivenza dei sistemi economico, sociale e ambientale, nonché

l’efficienza e l’efficacia delle politiche che vi si praticano;

- Plurisettorialità, giacché gli aspetti demografici, sociali, economici e ambientali interessati sono valutati contemporaneamente;

- Dinamismo, dal momento che il mondo rurale migliora nel tempo le proprie capacità tecnologiche, le attitudini sociali ed anche le strutture economiche.

Con l’aiuto di queste e tre dimensioni, è stato pertanto possibile determinare un sistema di aree geografiche, costituenti delle vere e proprie mappe territoriali, che sono state tenute in debito conto nelle fasi di raccolta, aggregazione e presentazione dei dati statistici; per la cui illustrazione, è stato poi utilizzato un sistema di ripartizione geografica su due livelli: locale e regionale (INEA, 2000). Per quanto riguarda poi, più nel dettaglio, la delimitazione vera e propria del “ rurale” l’OCSE è giunto perfino a dare una definizione, in base alla quale “ la ruralità di una provincia è espressa dalla quota dei residenti in comuni con bassa densità di popolazione ”19. Tale definizione, dispone nella fase operativa la

determinazione di una soglia discriminatoria di 150 abitanti per kmq, al fine di stabilire se un comune sia rurale o meno20.Sulla base sempre dello stesso criterio

19Estratto da “ Ruralità e occupazione nelle province italiane. Un’analisi tipologica “ ( Angeli et al.2001).

20 La valutazione della popolazione che vive in comunità (comuni nel caso italiano) rurali, cioè con bassa densità di popolazione, si basa sull’asserzione che una densità di popolazione inferiore a 150 abitanti/kmq

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indicato dall’OCSE (sintetizzato nella tabella-1), è stata inoltre prevista una seconda classificazione a livello regionale stando alla quale: se una regione presenta oltre il 50% della popolazione residente in comunità rurali, questa è considerata prevalentemente rurale; se tale quota è compresa tra il 15% e il 50% la regione è considerata significativamente rurale; infine, se la quota è inferiore al 15%, si ha una regione prevalentemente urbana. In terza istanza, poi, una regione che, stando a quanto indicato dalla seconda classificazione, fosse prevalentemente rurale diviene significativamente rurale nel caso in cui avesse un centro urbano con più di 200.000 abitanti; mentre una regione delineatasi in precedenza come significativamente rurale viene, invece, considerata prevalentemente urbana se detentrice di un centro urbano con oltre 500.000 abitanti.

Tabella 1- La ruralità in base al criterio dell'OCSE.

Popolazione in comuni <150 ab./km² Presenza di un centro >200.000 ab. Presenza di un centro >500.000 ab. Descrizione dell’area >50% NO NO Prevalentemente rurale >15% SI/NO NO Significativamente rurale <15% SI/NO SI/NO >15% SI SI Prevalentemente urbana Fonte: ns. elaborazioni.

Si può quindi rilevare che, l’OCSE utilizzando il solo criterio della concentrazione di popolazione, che in alcun modo fa ricorso al ruolo del settore primario sia in termini di reddito sia di occupazione, ha, in una certa misura, dato testimonianza di come, nelle società industriali e post-industriali, anche nelle aree rurali il ruolo dell’agricoltura, comunque inteso, tende strutturalmente a contrarsi e, quindi, un suo qualunque impiego per scopi tassonomici possa risultare non significativo.Ciò nonostante, come peraltro avevano, a suo tempo, rilevato diversi Paesi Membri, tra cui l’Italia, la metodologia utilizzata dall’OCSE è ragione di numerose perplessità, infatti, in primo luogo, se è vero che il criterio è “bassa” mentre una densità di popolazione superiore a 150 abitanti/kmq è “alta”.

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per definire la ruralità è esclusivamente demografico, è pur vero che la finalità originaria nell’individuare le aree rurali risiede nella particolarità e singolarità socio-economica di queste aree, che necessita, di particolare attenzione e politiche mirate. L’idea che nelle aree rurali si rilevino i caratteri di una società rurale, con le sue specifiche caratteristiche, in sostanza, non collima affatto con una definizione di area rurale così generica che, spesso, fa apparire inconsistente l’identificazione tra regione rurale e società rurale (Esposti, 1998). Altri motivi di critica, rispetto alla metodologia utilizzata, che sembrano persino contraddire la definizione adottata dall’OCSE, sono relativi al ricorso a soglie per l’individuazione dei “comuni rurali” e alla successiva distinzione in classi sulla base del grado di ruralità. A questo riguardo, infatti, se il primo punto dà l'impressione di essere una evidente forzatura rispetto al concetto sfocato di bassa densità di popolazione21, il secondo rappresenta un intervento altrettanto inutile e

discutibile che conferisce ulteriore arbitrarietà a questa metodologia di classificazione. “Queste definizioni lasciano insoddisfatti sia i territori che si trovano esclusi dai finanziamenti spettanti alle aree rurali, sia gli studiosi che vedono ridurre ad un parametro così semplice le loro riflessioni sulla complessità del rurale” (Fonte, 2000).

In ogni caso è opportuno rilevare che, a dispetto del fatto che fosse già reduce da esperienze analoghe22, indirizzate prevalentemente al tentativo di

ottenere una adeguata distinzione delle situazioni tipiche del contesto urbano rispetto a quelle del contesto rurale, anche l’EUROSTAT23, così

come l’OCSE, ha utilizzato, sempre nel corso degli anni novanta, una metodologia che, per la discriminazione delle aree urbane, si avvaleva di un 21In base al criterio adottato dall’OCSE la popolazione di un comune con densità di 149,9 abitanti/km² è rurale, mentre quella di un comune con densità di 150,1 abitanti/ km² è urbana.

22Verso la fine degli anni ottanta, EUROSTAT ha utilizzato un metodo gerarchico di “cluster

analysis”applicato a dieci indicatori ritenuti idonei a classificare le regioni europee.Tale esperienza consentiva l’identificazione di aree contigue che, tuttavia, a causa del livello di dettaglio regionale adottato, risultavano assai vaste e poco utilizzabili per l’indirizzo di politiche territoriali; non è un caso, infatti, che in Italia, l’applicazione di tale metodo ha riprodotto sostanzialmente il dualismo, già noto, Nord-Sud.

23 L’Ufficio Statistico dell'Unione Europea è il riferimento più importante, per tutti i soggetti coinvolti nel processo di produzione e utilizzo delle statistiche ufficiali europee. L'obiettivo di fondo di EUROSTAT è quello di contribuire alla costruzione del Sistema Statistico Europeo, attraverso l'armonizzazione degli standards, delle nomenclature e delle metodologie, e, nel contempo, di fornire assistenza per la costruzione di un sistema statistico affidabile ai Paesi non ancora facenti parte dell'Unione.

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algoritmo basato prevalentemente sulla densità di popolazione. Un’analisi, quella di EUROSTAT, che, malgrado utilizzi, analogamente a quanto stabilito dall’OCSE, uno stesso criterio discriminatorio, poi però, ne diverge sia nello scopo24 per cui è stata concepita sia per quanto riguarda i livelli di

soglia proposti25, ed anche perché, oltre alla densità di popolazione, tiene

conto in modo determinante della contiguità fra zone. Fermo restando tutte queste puntualizzazioni, c’è ad ogni modo da rilevare che, come per l’analisi dell’OCSE, anche in questo caso, al vantaggio di applicare un criterio così facilmente comparabile sia nello spazio sia nel tempo, come quello della densità di popolazione, e che quindi, rende immediato il confronto fra Paesi con caratteristiche radicalmente diverse, e in tempi differenti; si oppone, però, il fatto che la sola densità non sempre consente di cogliere quegli aspetti peculiari che fenomeni complessi come questi vengono ad assumere nei diversi contesti territoriali (INEA, 2000). Tuttavia è indispensabile tener di conto che, nel ponderare la capacità di un dato criterio di discriminare tra categorie di aree, è essenziale considerare anche il livello geografico scelto per applicare il criterio stesso. A questo proposito, alcuni organismi internazionali, come l’OCSE, e la stessa Unione Europea nel sottolineare l’importante necessità di individuare una tecnica discriminatoria identica per tutti i paesi, hanno posto più volte la loro attenzione alla ricerca di unità territoriali di riferimento che permettessero di disporre di dati statistici comparabili in tutto il territorio oggetto d’indagine. Ad, oggi, a livello europeo, le statistiche regionali vengono rilevate compilate e diffuse in base ad una classificazione regionale comune la cui dicitura “ Nomenclatura delle unità territoriali per la statistica”, è stata, in seguito, abbreviata26. La “Nuts”, tale è oggi l’indicazione di questa

nomenclatura, si basa, prima di tutto, sulle scomposizioni istituzionali27

24Tale metodologia è stata pensata da EUROSTAT per rispondere alle esigenze specifiche dell’indagine europea sulle forze di lavoro (LFS) (INEA, 2000).

25 Nel criterio adottato da EUROSTAT la soglia richiesta per individuare un’Area poco popolata o rurale ammonta, infatti, a 100 abitanti/ km².

26Vedi “REGOLAMENTO (CE) N.1059/2003” relativo all'istituzione di una classificazione comune delle

unità territoriali per la statistica (Nuts).

27“(…)Nel ripartire il territorio nazionale in regioni vari sono i criteri utilizzabili. Essi in genere si suddividono in criteri normativi e analitici:Le regioni normative sono l'espressione di una volontà

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attualmente in vigore negli Stati membri (meglio definiti come criteri normativi), e può, in sintesi, essere indicata come una classificazione gerarchica su cinque livelli che suddivide, ogni singolo stato in un numero intero di regioni di livello “Nuts !”, ciascuna delle quali è a sua volta suddivisa in un numero intero di regioni di livello “Nuts 2” ed in questo modo proseguendo anche per i successivi. In realtà, però, i livelli della Nomenclatura ufficialmente riconosciuti sono solo i primi tre, e di questi soltanto due coincidono effettivamente con la struttura amministrativa dei singoli stati membri28; mentre per quello che riguarda i restanti livelli,

nonostante la crescente necessità d’informazioni in ambito locale né abbia reso indispensabile la determinazione, questi sono ancora in corso di definizione29. In sostanza, ciò che sembra, oltremodo, evidente è costituito

dalla palese inadeguatezza delle ripartizioni amministrative classiche, che appaiono ormai obsolete sia per essere identificate come unità di base per studi comparativi del territorio, sia per essere riferimento di politiche sociali ed economiche: “il territorio si configura sempre più come “ritaglio amministrativo” funzionale allo svolgimento di determinate azioni : la gestione di servizi, la determinazione di vincoli per la tutela dell’ambiente, l’espletamento di piani ecc. (…)”30.

politica; i loro limiti sono fissati a seconda dei compiti attribuiti alle comunità territoriali, della consistenza demografica necessaria per effettuare tali compiti in modo efficace ed economico e dei fattori storici, culturali e di altro genere;Le regioni analitiche (o funzionali) sono definite in base a requisiti analitici; esse raggruppano zone utilizzando criteri geografici (ad esempio, altitudine o tipo di terreno) oppure criteri socio-economici (ad esempio, omogeneità, complementarità o polarità delle economie regionali). (…)” http://europa.eu.int/

28A dimostrazione di quanto riportato si osservi che la struttura amministrativa può trovarsi, ad esempio

ai livelli “Nuts 1”e “Nuts 3”, per il Lander e i Kreise in Germania, o differentemente ai livelli “Nuts 2” e “Nuts 3” per indicare le Regioni e Province in Italia, o le Regioni e Dipartimenti in Francia.

29 Per quello che riguarda l’ulimo e più piccolo livello, “NUTS 5”, è forse più corretto affermare che questo sia stato, ormai, stabilito per tutti gli Stati Membri, e che questo generalmente corrisponda al concetto di “municipalità”.

30 “Occorre considerare due classi di ripartizione (…) quello funzionale e quello delle ripartizioni identitarie (…) mentre le ripartizioni funzionali definiscono i livelli ottimali di esercizio della funzione considerata, sono cioè mezzi relativi agli obiettivi sociali, le.ripartizioni identitarie sono invece connesse al mantenimento del modello sociale ed esplicitano in termini territoriali uno schema di valori(…) ”. (Ferlaino F., 2000).

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5. Un nuovo ruolo per l’agricoltura?

Se la crescita economica ha rappresentato, e tuttora costituisce, la principale determinante delle trasformazioni rurali; è anche vero che; nel lungo periodo, l’equilibrio socio-economico che è andato delineandosi in queste zone è stato caratterizzato dalla trasformazione strutturale dell’economia, in altre parole, dall’alterazione della proporzione dei diversi settori economici e dal corrispondente impatto che un simile cambiamento ha determinato sull’organizzazione della vita sociale e della produzione nei diversi territori. Durante questa trasformazione l’agricoltura, che da sempre in ambito rurale ha rivestito il ruolo di principale interprete del cambiamento, ha visto gradualmente ridurre il suo peso nell’economia sia in termini di quota d’occupazione, di valore aggiunto che di esportazioni. Quale conseguenza di questo processo si è, quindi, assistito ad una radicale modifica delle sue “competenze”; tanto è vero che se da un lato il settore ha visto progressivamente diminuire la sua importanza come fornitore di cibo, dall’altro ha incrementato la sua importanza quale acquirente di prodotti industriali e servizi. Un tale deflusso di risorse dal settore verso il resto dell’economia, principale conseguenza del differenziale di reddito dei fattori tra i diversi settori, si è mantenuto costante durante tutti gli stadi della crescita economica, e ciò, non solo per il suo tradizionale “isolamento” all’interno di una società in crescita ma, soprattutto, in ragione della sua “specificità”31. A questo proposito, infatti, i vincoli

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strutturali dell’agricoltura, ovvero quelli dovuti ai legami con la terra e l’ambiente fisico, ai condizionamenti reciproci fra famiglia ed azienda ed alla particolare natura dei prodotti, hanno operato come una sorta di frizione alla trasformazione strutturale in quanto valutati come simboli di arretratezza ed inefficienza. Tuttavia se la specificità dell’agricoltura ha in qualche modo contraddistinto il processo di trasformazione strutturale, condizionandone le forme ed i tempi, non si può negare che questo settore non sia stato, a sua volta, influenzato dalla crescita economica, e quindi costretto in un certo qual modo ad adattarsi alle regole dominanti, mutando anch’esso. In ambito rurale, infatti, i modelli di comportamento urbani e industriali che si sono diffusi hanno dato vita a quello che è stato altrimenti definito come “processo di omologazione” ovvero quella trasformazione interna del settore che ha condotto, in sostanza, ad un utilizzo più efficiente delle risorse. Attraverso l’erosione della specificità dell’agricoltura, gli operatori del settore sono stati indotti a ricercare quelle soluzioni produttive ed organizzative che hanno avuto, poi, quale principale conseguenza, l’allentamento dei vincoli strutturali. Per il superamento di detti vincoli l’omologazione ha imposto, quindi, sostanziali mutamenti nello sfruttamento delle risorse agricole, tuttavia la non uniforme capacità di reagire da parte delle imprese e della società rurale ha, però, prodotto esiti differenziati che hanno portato alla distinzione tra due distinte tipologie di - Il legame con la terra che condiziona i risultati produttivi agli investimenti fondiari e agli

investimenti atmosferici

- Il legame con la famiglia che condiziona le scelte di impresa ai bisogni e alle disponibilità della famiglia stessa

- Il legame con il mercato degli alimenti che condiziona la produzione ai limiti imposti dalla legge di Engel. (Basile et al., 1998).

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agricoltura: omologata e non omologata. Mentre la prima è stata utilizzata per indicare, quell’agricoltura che una volta riuscita a superare i vincoli dovuti alla sua specificità riesce quindi ad inserirsi sul mercato, con prodotti realizzati per il consumo di massa; la seconda invece è quella che non avendo eliminato la specificità del settore impiega le risorse a livelli “sub-ottimali”; fermo restando che, in ogni caso, i rapporti che si vengono a creare con l’economia e la società continuino ad essere rilevanti e si sviluppino lungo direzioni innovative. Da un simile dualismo si è anche determinata una differenziazione rispetto alle funzioni che le due agricolture svolgono all’interno del sistema economico: l’agricoltura omologata, quale interprete del ruolo che le è attribuito tradizionalmente in una società industrializzata, fornendo merci destinate, più o meno direttamente al consumo alimentare di massa, mentre l’agricoltura non omologata, quale fornitrice di beni e servizi di qualità per i mercati differenziati e finalizzati a soddisfare consumi materiali ed immateriali emergenti.(Cecchi, 2000). Se, poi, sempre nel merito dell’agricoltura non omologata, si considera, unitamente al fenomeno della differenziazione produttiva32, quello della diversificazione, degli stili di consumo e della

sempre maggior importanza che viene attribuita in essi alla componente della qualità; ecco che l’attenzione viene ad incentrarsi su di un altro particolare aspetto: la multifunzionalità. Questo carattere, che rimanda a

32“(…) differenziazione produttiva, ovvero la modificazione della composizione settoriale dell'economia

dovuta all'emergere di attività industriali e del terziario in un ambiente tradizionalmente dominato dall'agricoltura”. (Basile et al., 1998).

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nuovi e antichi significati33, da qualche anno viene utilizzato per indicare,

tra gli altri, il nuovo modello di agricoltura europea, secondo cui “ (…) oltre la sua primaria funzione di produrre alimenti e fibre, l’attività agricola può anche curare e modellare il territorio ed il paesaggio, fornendo benefici ambientali come la protezione del suolo, la gestione sostenibile delle risorse naturali rinnovabili e la tutela della biodiversità, e contribuire così alla vivacità socioeconomica di molte aree rurali.” (European Commisssion, 1998). La multifunzionalità dell’agricoltura rappresenta quindi una condizione multidimensionale in grado di utilizzare la varietà implicita del settore e quella dei sistemi territoriali, dove si propone, per dare impulso allo sviluppo integrato e sostenibile dei territori rurali. Una condizione quella della multidimensionalità che si figura, in questo caso, quale sintesi ultima di altrettanti caratteri, quali: quello della sostenibilità economica ed ambientale; quello della diversificazione, espressione della rilevante eterogeneità produttiva e tecnologica propria della realtà agricola; quello della integrabilità che rivela l’esigenza di un inserimento attivo delle imprese all’interno di un sistema territoriale; quello della multi-settorialità, che evidenzia la capacità dell’imprenditoria agricola di affrontare le attività produttive tradizionalmente non proprie; ed infine quello della autoriproduttività che manifesta, invece, la necessità di continuare ad essere vitale.(Pennacchi, 2002) Pertanto il concetto di 33 “(…) In realtà l’importanza dello stesso carattere, anche se in modo implicito era ben evidente prima che intervenisse l’omologazione delle attività agricole (…) si era soliti parlare di agricoltura multiforme, perché la natura dei beni risultava molto articolata,perché le tecniche di produzione erano proposte in funzione delle differenti conoscenze contestuali, perché le imprese agricole riuscivano a svolgere non solo funzioni produttive, amache quelle della trasformazione e distribuzione(…)” ( Pennacchi, 2002).

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agricoltura multifunzionale si evolve nel tempo, ed il fatto che ad oggi molti paesi avanzati gli abbiano attribuito una notevole rilevanza è da imputare non tanto alla novità del carattere quanto piuttosto alla necessità di un ripensamento del settore alla luce delle mutate esigenze della collettività e del contesto internazionale. In ragione di questi fatti, e se è verosimile pensare che multifunzionale indichi tutto ciò che è in grado di assolvere più funzioni, la multifunzionalità del settore può essere oggi riconducibile alle seguenti tipologie:

- La sicurezza alimentare generalmente, impiegata per segnalare quella condizione in cui tutta la popolazione ha accesso fisico ed economico sufficiente per il proprio sostentamento, ad alimenti salubri e dal punto di vista nutritivo rispondenti alle proprie necessità; nei paesi sviluppati viene utilizzata, principalmente, per garantire la disponibilità dei prodotti nelle possibili situazioni di rischio;

- La funzione di tutela dell’ambiente fisico, ossia, il mantenimento e la riproduzione di luoghi che l’agricoltura ed il conseguente utilizzo del suolo hanno, nel corso degli anni, lentamente trasformato. Tali alterazioni hanno, infatti, condotto alla costruzione di un ambiente artificiale, dove il compito del settore si realizza nel rintracciare il giusto equilibrio tra esigenze della natura e quelle degli uomini. La funzione ambientale passa, quindi, attraverso la riduzione di quelle che sono oggi definite esternalità negative, come: l’erosione dei

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suoli, l’abuso di pesticidi e fertilizzanti o la non meno importante perdita della biodiversità; cercando al contempo di investire negli effetti benefici (o esternalità positive) dell’attività agricola come ad esempio la rigenerazione delle risorse naturali o addirittura la conservazione della stessa biodiversità;

- La funzione di tutela dell’ambiente antropico, con cui si amplia notevolmente la sfera d’ingerenza dell’attività agricola, riconoscendo così, peraltro implicitamente, gli effetti deleteri di pratiche di “ tipo industriale”che conducono, piuttosto, ad una perdita di quei valori culturali che da sempre caratterizzano il mondo contadino34.;

- La funzione produttiva o economica, costituita originariamente dalla sola produzione fisica di beni, ovvero, di alimenti per il consumo umano e non, si arricchisce, qui, di nuovi elementi, in grado di soddisfare bisogni differenziati35.

Una tale classificazione, il cui unico intento è, quello di dare un’indicazione approssimativa sulla natura delle attività d’interesse dell’agricoltura multifunzionale, pur non esplicitando molte delle funzioni36 che, ad oggi,

vengono attribuite a questo settore dimostra, in ogni caso, il notevole accrescimento della sua sfera di competenze.( Pacciani….).

Tabella 2 le funzioni dell'agricoltura.

34 “ Non desta novità, quindi il fatto che l’attività agricola, valorizzando l’idea di multifunzionalità, possa generare servizi utili e facilitare dinamiche di inclusione sociale incisive ed appropriate. A tale riguardo, le aziende agricole possono: erogare servizi utili per le popolazioni locali (…) contribuire a potenziare le relazioni sul territorio, consolidare il capitale sociale disponibile e potenziare l’identità locale (…) (Di Iacovo, 2003).

35 La produzione primaria include, infatti, anche il foraggio ed i mangimi per l’alimentazione animale, la materia prima per la produzione di energia, la coltivazione di erbe medicinali o cosmetiche, e molti altri prodotti per gli usi più disparati.

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AMBIENTALI SICUREZZA ALIMENTARE SVILUPPO RURALE Negative Positive -Produzione cattivi odori -Controllo inondazioni -Miglioramento dell’accesso agli alimenti Aumento/mantenim ento occupazione rurale -Percolamento pesticidi, fertilizzanti ecc. -Controllo erosione eolica -Miglioramento della qualità e della sanità degli alimenti

-Miglioramento reddito agricoltori -Salinizzazione falde acquifere -Conservazione dei suoli -Eliminazione della fame -Creazione insediamenti in aree remote

-Erosione dei suoli

-Conservazione della biodiversità -Prestazione di servizi ricreativi sanitari, riabilitativi e agriturismo -Perdita di biodiversità Conservazione del paesaggio -Tutela piccole strutture aziendali -Inquinamento genetico -Creazione habitat fauna silvestre Custodia delle tradizioni contadine -Emissioni gas tossici -Mantenimento

spazi aperti -Salvaguardia dell’eredità culturale -Riduzione habitat fauna silvestre -Isolamento congestione cittadina -Salvaguardia della vitalità delle comunità rurali -Contribuire allo sviluppo di altri settori economici.

Fonte: B.E. VELAZQUEZ (2001), “Il concetto di multifunzionalità in agricoltura: una rassegna” in

La Questione Agraria, Vol.3.

Una volta riconosciuta all’agricoltura la capacità di svolgere funzioni che vanno oltre la sola produzione di merci, si pone però, a questo punto, un’importante questione legata proprio alla presenza di quei beni “secondari” cui il mercato è incapace di assegnare un prezzo e che, pertanto, sono definiti come prodotti non diretti al mercato. A tale proposito, la letteratura in materia, nel trattare il tema dell’agricoltura multifunzionale, e più nello specifico, quello delle funzioni che questa è in grado di offrire, è solita distinguere tra beni a domanda privata ed a domanda pubblica o semipubblica. Pertanto, mentre i primi rispondono ad

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una domanda diretta dei consumatori e, come tali, sottoposti ad una domanda di mercato; i secondi rispondono, invece, a criteri di “riconoscibilità sociale”, come i servizi di difesa ambientale o produzione dei paesaggi, e, quindi, necessitano di meccanismi di regolazione e controllo appropriati per assicurare, così, l’incontro tra domanda ed offerta sociale, abitualmente mediato da soggetti pubblici. In conseguenza di ciò, non sempre la traduzione operativa della multifunzionalità può, dunque, rimettersi ai soli meccanismi di mercato, poiché un simile atteggiamento potrebbe, in un certo qual modo, persuadere gli attori interessati a lasciare inespressa una parte del potenziale di domanda e la possibilità di attivare una più ampia gamma di servizi. Conseguentemente, nella produzione di beni pubblici o semi pubblici, il ruolo e l’azione di promozione ed organizzazione degli attori pubblici è in questi casi, alquanto rilevante (Di Iacovo, 2003). In conclusione, una volta fatte ferme tutte quelle richieste a cui la società attuale immagina l’agricoltura possa attendere, e quindi, tra le altre, la richiesta di cibo sicuro e di alta qualità, la protezione dell’ambiente o la salvaguardia e il risparmio di risorse limitate; “ (…) è necessario sottolineare che, in tale visione, lo sviluppo della multifunzionalità non implica l’abbandono dell’agricoltura “produttiva” ma, al contrario, richiede la ricerca di una soluzione di compromesso efficiente tra gli obiettivi strettamente produttivi e quelli sociali ed ambientali” (Spinisi, 2004).

Figura

Figura 1 L'Europa rurale a 25.
Tabella 1- La ruralità in base al criterio dell'OCSE.

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