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382/2019 Sade, Masoch. Due etiche dell’immanenza

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382

giugno 2019

Sade, Masoch. Due etiche dell’immanenza a cura di Federico Leoni

Premessa 3

Tommaso Tuppini I due vortici. Sade con Bataille 6 Giovanni Bottiroli Sade e il desiderio di essere 23 Felice Cimatti Etica? Immanenza? 39 Gianluca Solla Carmelo Bene o dell’immanenza

dei corpi 55

Federico Leoni Singolarità, perversione, immanenza 70 Silvia Vizzardelli Erotismo della morte o ciclo di

isteresi. La perversione tra Barthes e Deleuze 91 Carmelo Colangelo Masochismo plurale. Il servo,

l’oggetto, la voce 106

Riccardo Panattoni Disconoscimento sur place 124 Andrea Muni Masoch oltre Nietzsche. Seduzione,

autoaggressione e ordalia del filosofo critico 138

DISCUSSIONI

Antonello Sciacchitano Il soggetto supposto

intelligente 161

Sergio Benvenuto Il mistero della passe 178

(2)

rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto

direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com

ISSN

: 0005-0601

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek

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Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci

Stampa: Galli Thierry, Milano

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Finito di stampare nel maggio 2019

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3

Premessa

L a posta in gioco di questo fascicolo di “aut aut” potrebbe essere formulata con una domanda piuttosto semplice. Perché mai una stagione tanto rilevante del pensiero francese novecentesco ha trovato in Sade e Masoch due stelle polari? Mi riferisco al- la stagione dei Bataille, dei Klossowski, dei Lacan, dei Deleuze, dei Foucault, dei Derrida, dei Barthes, dei Sollers. Perché mai ri- volgersi a due figure tanto eccentriche al canone della filosofia, e tanto eccentriche anche rispetto al canone dell’antropologia oc- cidentale, chiamiamolo così, che la psichiatria e la psicoanalisi le hanno ritenute degne di dare il loro nome a un quadro psicopato- logico specifico? Perché, in senso ancora più generale, la perver- sione e l’insieme delle perversioni, al plurale, si è, a un certo pun- to, imposto alla filosofia come una questione ineludibile, forse co- me l’unica questione?

Una prima precisazione. Tutti gli autori francesi citati si imbat- tono in Sade e in Masoch ogni volta che riflettono sull’etica, sulla struttura del soggetto, sul modo in cui un soggetto si soggettiva, sul mondo in cui quel soggetto si soggettiva. Ma Sade e Masoch non sono ciò a cui essi si oppongono. Non valgono come un anti- modello. Al contrario, Sade e Masoch indicano sempre la dimen- sione in cui muoversi. È nel solco di Sade che alcuni di loro pen- sano. O nel solco di Masoch, nel caso di altri.

Seconda precisazione. Il binomio Sade/Masoch, utile a rico-

struire una costellazione, a rintracciare una sorta di canone, reg-

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4

ge però fino a un certo punto. Regge fino al punto in cui ci si arrende all’evidenza che Bataille o Deleuze o Lacan non hanno semplicemente riflettuto sulla perversione o sul sadomasochismo.

Hanno esercitato un’opzione ben precisa. Hanno individuato il loro oggetto, forse la loro stella, in Sade oppure in Masoch, mai in entrambi, mai in un elemento eventualmente comune. Su tutti, Lacan e Deleuze hanno insistito nel disfare quel nodo altrimen- ti tanto stretto.

Terza precisazione. Tra Bataille e Lacan, tra Klossowski e De- leuze, per fare solo qualche esempio, si tratta probabilmente di due pensieri dell’immanenza non del tutto sovrapponibili, di due immanenze di segno piuttosto differente. Per questo le simpatie si polarizzano, ora verso Sade, ora verso Masoch. Si dovrebbe par- lare di una linea sadiana e di una linea masochiana, di una linea dell’immanenza sadiana come quella di Bataille, per esempio, e di una linea dell’immanenza masochiana, come quella di De- leuze. È quanto mostreranno in modo dettagliato i testi qui rac- colti, che proprio per questo motivo dovevano affrontare la que- stione da tanti punti di vista, moltiplicando i distinguo, soffer- mandosi su svariate sfaccettature.

Limitiamoci per ora a dire che la via di Sade suppone che l’immanenza sia qualcosa. Sembra una sentenza abbastanza oscura, ma basta pensare a ciò che Sade mette in scena costan- temente, ed ecco che la questione viene in chiaro. Per Sade quel qualcosa è la natura, la sua materia sorda, l’insieme delle sue leg- gi implacabili, la sua logica ferrea incessantemente convocata in estenuanti dimostrazioni. Il che è quanto dire: Sade è a distan- za. La natura è una meta, va raggiunta. La materia è sempre a ve- nire. Ostacoli di ogni genere vanno rimossi dal cammino. La di- struzione dei corpi e delle anime è necessaria a travolgere quel- le forme che impediscono all’informe di manifestarsi senza mez- ze misure. Ma la natura è l’informe? La materia è necessariamen- te materia macellata? L’immanenza è l’orizzonte, per Sade, ma un orizzonte lontano.

Viceversa, Masoch è un cultore dell’artificio, un appassionato

legiferatore, un instancabile bricoleur di forme di vita. Non tan-

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to nel senso che gioca l’artificio contro la natura, ma nel senso che vede bene che anche la natura è un artificio tra altri artifici.

Dunque la sua etica sarebbe l’etica di un’invenzione dell’imma- nenza piuttosto che di un’attuazione dell’immanenza, la sua etica consisterebbe nell’inventare immanenze molteplici nella misura in cui l’immanenza non è che le sue costruzioni, le sue congettu- re. L’immanenza non è qualcosa, per Masoch. Non va raggiunta.

Ci siamo già, e ci siamo nel modo dell’invenzione, della creazio-

ne. È un’invenzione, una creazione che si serve brevemente degli

strumenti che trova sul terreno, dà vita ad accordi che non mira-

no a fare sistema, si affida a negoziazioni che non smettono di la-

sciarsi attraversare dalle forze che sembrano imbrigliare. L’eroe

di Masoch procede per piccole differenze, non progetta ma orga-

nizza, non comanda ma governa, non seduce ma si concede, non

afferma ma suggerisce. Piega, inflette, accompagna, mai da fuori

ma sempre da dentro. L’immanenza non è un orizzonte, per lui,

ma una superficie. Una superficie assoluta, senza confine, senza

alterità, senza rovescio. [F.L.]

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6

aut aut, 382 2019, 6-22

I due vortici. Sade con Bataille

TOMMASO TUPPINI

I l confronto di Bataille con Sade è delimitato grossomodo da due saggi: Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade – scritto nel 1932, forse 1933, pubblicato postumo

1

– e Il segreto di Sade pubblicato nel 1947 su “Critique”, poi nel 1957 tra gli interventi di La letteratu- ra e il male.

2

L’occasione del primo saggio è l’aspra polemica che contrappose Bataille ai Surrealisti (sono gli anni della sua mili- tanza nei gruppi francesi della sinistra extraparlamentare, che du- rò fino al 1935). Bataille mette qui a punto per la prima volta la nozione di “eterologia”, la scienza del “tutt’altro”. L’altro saggio viene scritto durante e dopo il secondo conflitto mondiale, quan- do Bataille sembrerebbe allontanarsi dall’impegno politico e fare di Sade una questione estetica.

3

Nel Valeur d’usage Bataille se la prende con Breton e i suoi se- guaci. Per loro “la vita e l’opera di D.A.F. de Sade non avrebbero dunque altro valore d’uso che il valore d’uso plebeo degli escre- menti, nei quali il più delle volte si ama soltanto il piacere rapido

Tommaso Tuppini insegna Filosofia teoretica all’Università di Verona.

1. G. Bataille, “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, in Œuvres completes, Gallimard, Paris 1970, vol.

II

, pp. 54-69.

2. Id., “Sade”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1979, vol.

IX

, pp. 239-258.

3. Cfr. J.-M. Heimonet, Recoil in Order to Leap Forward: Two Values of Sade in Ba-

taille’s Text, “Yale French Studies – On Bataille”, 78, 1990, pp. 227-228. Questa è la rico-

struzione standard che gli studiosi hanno fatto del confronto di Bataille con Sade: dall’uso

politico degli anni trenta all’interesse prevalentemente letterario del dopoguerra.

(7)

7

(e violento) di evacuarli per non vederli più”.

4

I Surrealisti guar- dano a Sade come i popoli primitivi al loro re, “che adorano ese- crandolo e che coprono di onori paralizzandolo strettamente”.

5

Evacuare Sade e metterlo su un piedistallo poetico sono la stessa cosa. I Surrealisti sono “i letterati”

6

convinti che “il valore folgo- rante e soffocante che [Sade] ha voluto dare all’esistenza umana è inconcepibile fuori della finzione”.

7

I Surrealisti mostrano di non conoscere l’enigma di Sade, che Bataille propone in questi termini: com’è possibile che egli – come dice in una lettera – abbia pianto “lacrime di sangue” per la perdita del manoscritto delle Centoventi giornate di Sodoma e nel testamen- to, invece, si sia augurato la distruzione della propria sepoltura, l’o- blio per sé e la sua opera? Il ricordo e il libro da una parte, la solitu- dine e l’autodistruzione dall’altra: tra le due scelte “c’è la stessa di- stanza che separa la freccia dal bersaglio”.

8

I Surrealisti superano la contraddizione di Sade con una sintesi letteraria, adorano ed esecra- no con lo stesso gesto. Invece la contraddizione va mantenuta. Sa- de è la combinazione di atteggiamenti inconciliabili: la commozione fatta di rosse lacrime e la virginale indifferenza che tiene il mondo in gran dispitto, Juliette e Justine. La rivoluzione e il volumen.

La società omogenea

La “società omogenea”

9

dentro cui viviamo è fatta della sintesi del bisogno e dell’oggetto che lo soddisfa. La società omogenea –

“istituzioni politiche, giuridiche e commerciali”

10

– è una strategia di adaequatio tra l’uomo e le circostanze, tra i gruppi umani e l’am- biente: le scuole e le fabbriche soddisfano i bisogni feriali, l’arte e la letteratura quelli domenicali. Bataille chiama “appropriazione”

questa sintesi, ovvero l’“equilibrio statico” tra “l’autore dell’appro-

4. G. Bataille, “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, cit., p. 56.

5. Ibidem.

6. Ibidem.

7. Ivi, p. 57.

8. G. Bataille, “Sade”, cit., p. 244.

9. Id., “La structure psychologique du fascisme”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1970, vol.

I

, pp. 339-341.

10. Id., “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, cit., p. 58.

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8

priazione e gli oggetti”,

11

una “omogeneità generale, come quella che l’architetto stabilisce fra la città e i suoi abitanti”.

12

Due persone si danno appuntamento e chiacchierano. Il botta e risposta, le attese, il consenso, il dissenso, gli attestati di stima: tutto contribuisce al carattere omogeneo dell’incontro e al suo buon funzionamento.

Stringere le mani, annuire, visitare o farsi visitare, inseguire o farsi inseguire, indebitarsi o riscuotere, ascoltare, giustificarsi, aspettare, darsi ragione, darsi torto: “Il rispetto che gli uomini si scambiano li immette in un circuito di servitù in cui si danno soltanto momenti subordinati”.

13

Il bambino – poco pratico della vita – si chiede a che servono questi gesti concitati. Quando, diventato adulto, lo capisce – sono i rituali del riconoscimento reciproco e servono alla conservazione di una società –, sente tutta “la noia senile e l’inconcepibile vuoto dentro il quale sappiamo di parlare”.

14

Gli adulti cominciano ad angosciarsi e a chiedersi se c’è una via d’uscita.

Sade è una specie di solvente della società omogenea e del- le sue istituzioni. Egli sloga l’articolazione della società. Sospen- de la sintesi appropriativa del bisogno. Fa esperienza del “ganz Anderes”,

15

il “tutt’altro” dalla società omogenea: il passato che essa sembra aver dimenticato ma che in realtà torna a farsi valere nei momenti di crisi e di trasformazione.

Escrezione

Se nella società omogenea c’è appropriazione, allora c’è anche il déchet, lo “scarto”.

16

Lo scarto è ciò che rimane quando la società omogena si è spartita l’esistenza. Lo scarto è ciò che non si lascia né assimilare né evacuare. Lo scarto è lì a mostrare che “l’essere è qualcosa di più della semplice presenza”.

17

I libri di Sade ci

11. Ivi, pp. 59-60.

12. Ivi, p. 60.

13. G. Bataille, “Histoire de l’erotisme”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1976, vol.

VIII

, p. 153.

14. Id., “Cet enoncé étant terminé…”, in Œuvres complètes, cit., vol.

II

, p. 81.

15. Id., “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, cit., p. 58.

16. Ivi, p. 61.

17. G. Bataille, “L’Homme suverain de Sade”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris

1987, vol.

X

, p. 172.

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aut aut, 382, 2019, 23-38

Sade e il desiderio di essere

GIOVANNI BOTTIROLI

1. Bergson avec Sade. Le tesi dell’energetismo

Il sadismo, nella sua accezione filosofica, così come viene for- mulato negli scritti di Sade, è una versione dell’energetismo. Con questo termine vorrei indicare una posizione, una possibilità, che non ha un solo rappresentante ma che trova probabilmente in Bergson, e nella linea Bergson-Deleuze, la sua espressione più coerente. Tuttavia, mettere in rilievo un’affinità non marginale tra l’energetismo perverso di Sade e quello metafisico di Bergson non giustifica un’equivalenza affrettata: non si dovrebbero sminuire i punti di divergenza. Non è mia intenzione, dunque, affermare la perversione come l’orizzonte che ospita e racchiude per intero l’e- nergetismo. In prima istanza, vorrei piuttosto prendere le distanze dalla solidarietà che Lacan ha creduto di scorgere tra Sade e Kant, e proporre un punto di vista che ritengo più fecondo; e anche più fondato, benché non sia possibile in questa sede riesaminare le somiglianze sottilmente valorizzate da Lacan.

Per giustificare il mio punto di vista, è indispensabile tentare una definizione di quelle che sembrano essere le tesi fondamenta- li dell’energetismo:

1. L’energetismo è una filosofia dell’Uno, dell’assoluto, o dell’irrelato. Afferma la potenza della vita, forse la sua onnipo- tenza. E la vita è dinamismo, movimento, slancio, energia. La vi- ta, come vedremo meglio in seguito, è l’anti-separativo.

Giovanni Bottiroli insegna Teoria della letteratura ed Estetica all’Università di Bergamo.

(10)

24

2. L’Uno è l’indiviso, il necessariamente indiviso. Più semplice di tutto ciò che è semplice, più “uno” di qualsiasi unità. Pertanto, l’energetismo tenderà a svalutare ogni tipo di relazione, a eccezio- ne di quelle che si autodissolvono, paragonabili ai tagli inferti da un coltello sulla superficie dell’acqua. E se ogni relazione implica un “non” in quanto distingue tra termini ciascuno dei quali non è l’altro, e se il “non” è negazione, per l’energetismo non esiste ne- gazione che possa dividere l’indiviso.

3. Ciò significa che l’energetismo nega la relazione tra l’Uno e i molti, in nome di una compattezza che sarebbe anche irreversi- bile staticità? No, esso afferma la relazione con i molti, ma la pen- sa come una “non-relazione”. In una prospettiva di radicale im- manenza, l’Uno si moltiplica senza mai uscire da se stesso: non si aliena, non si separa da sé e non si moltiplica né si fraziona assu- mendo la maniera d’essere del separativo (quell’esteriorità mereo- logica, che Bergson chiama partes extra partes).

4. La forma logica dell’energetismo è la coincidentia oppositorum, cioè l’unità immediata tra l’Uno e i molti (e tra tutte le coppie oppo- sitive che ne costituiscono una variazione). Non si insisterà mai ab- bastanza sulla nozione di “immediatezza”, se si vuole comprendere questa posizione filosofica. Cerchiamo di chiarirne meglio lo statu- to. La coincidentia oppositorum non afferma la sintesi tra tutti gli op- posti (e non viola, né supera, il principio di non contraddizione): più precisamente, indica una sintesi tra contrari, e però radicalmente di- versa da quella hegeliana, che infatti non è immediata. In ogni con- cezione dialettica l’Uno non è mai abbastanza Uno, in quanto deri- va dal superamento di una negazione – superamento che è Aufhe- bung, e che dunque conserva il negativo: di qui il dissenso degli energetisti, e la loro incessante battaglia contro la dialettica. L’im- mediatezza redime dalla negazione, in tutte le coppie oppositive affermate dall’energetismo.

5. Il postulato etico dell’energetismo suona così: tutto è bene.

Si potrebbe obiettare che, in base al principio di coincidenza dei

contrari, questa tesi è immediatamente solidale con quella oppo-

sta: “Tutto è male”. A un esame più attento, però, il male non ri-

sulterà essere un opposto del bene – se non dal punto di vista

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25

empirico, limitato. Il principio di coincidentia oppositorum esclu- de la parità del metafisico e dell’empirico. L’empirico è sottomesso al metafisico: ma per comprenderlo occorre assumere il punto di vista della metafisica.

Questa disparità, o differenza, verrà interpretata esplicitamen- te come sottomissione nell’universo sadiano: ma, riconosciuta o meno che sia, governa tutte le concezioni energetiste. Il rapporto è sottomesso al senza-rapporto, la negazione all’assenza di nega- zione, e così via.

6. La prospettiva modale dell’energetismo è quella della ne- cessità. Il che porta a valorizzare inesorabilità e concentrazione (tutte le differenze, tutti gli atti possono venire concentrati in un punto di pienezza, o di estasi).

Può darsi che questa presentazione venga giudicata incomple- ta dai rappresentanti dell’energetismo. Per quanto mi riguarda, tuttavia, a non essere stati portati in piena evidenza non sono i principi di una filosofia dell’indiviso, bensì i suoi dogmi impliciti:

(a) La tipologia degli opposti contempla soltanto due relazio- ni fondamentali, i contraddittori e i contrari. La coincidentia op- positorum si riferisce agli opposti nella realtà, e non a contraddi- zioni logiche. Dunque, per l’energetismo gli opposti (intesi come i contrari, come la relazione oppositiva eminente) sono sempre sin- tetizzabili;

(b) Il “non” (la negazione, comunque venga intesa) indica sem- pre una mancanza.

Vale la pena di precisare sin d’ora che l’energetismo igno-

ra il “non” della non-coincidenza di un ente con se stesso: una

possibilità logica e ontologica che trova la sua autentica dimen-

sione soltanto nei correlativi, e grazie a essi. I correlativi sono op-

posti non-sintetizzabili. Non ci si lasci ingannare da quella che è

in effetti una somiglianza, e cioè dal carattere anti-separativo di

questa relazione, che sembra avvicinarla alla coincidentia opposi-

torum. A ben vedere queste due posizioni sono radicalmente in

contrasto, l’una afferma una sintesi immediata (la più sintetica

delle sintesi), l’altra la non-sintesi (e la fecondità degli antagoni-

smi). I correlativi si ispirano al principio di non-coincidenza.

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39

aut aut, 382, 2019, 39-54

Immanenza? Etica?

FELICE CIMATTI

Alla fin fine, etologia è un anagramma di teologia.

1

P rovare a immaginare un’etica dell’imma- nenza sembra porre una sfida, prima an- cora che filosofica, logica. In effetti qua- lunque etica implica un principio o una norma, e qualcuno che esplicitamente e volontariamente prenda posizione rispetto a quella norma: l’etica, scrive Moore, riguarda “what is good”.

2

Più specificamente, “Ethics is undoubtedly concerned with the ques- tion what good conduct is”.

3

Una condotta può essere buona solo se avrebbe potuto anche essere cattiva. Quindi non c’è etica sen- za qualcuno – tipicamente, un soggetto – in grado di scegliere. Il soggetto è, per definizione, qualcuno libero di scegliere. Tutta- via il mondo fisico non è retto dalla libertà, bensì da connessio- ni causali. Il soggetto, allora, può essere un soggetto solo a pat- to di non essere – in quanto soggetto – un’entità come le altre en- tità fisiche del mondo. Non c’è etica senza questo dualismo. Al contrario, immanenza significa che non c’è nessun dualismo, che l’ontologia è piatta, in particolare non ci sono né soggetti né nor- me. Il soggetto, infatti, è un soggetto solo a condizione di esse- re qualcos’altro rispetto al mondo. Il soggetto, qualunque sia la

Felice Cimatti insegna Filosofia del linguaggio e Filosofia italiana contemporanea all’Uni- versità della Calabria.

1. A. de Swaan, Reparto assassini. La mentalità dell’omicidio di massa (2014), trad. di P.

Arlorio, Einaudi, Torino 2015 p. 75.

2. G. Moore, Principia ethica, Cambridge University Press, Cambridge 1903, p. 2.

3. Ibidem.

(13)

40

sua caratterizzazione, è trascendente rispetto al mondo. Ma allo- ra, questo è il nocciolo del problema, un’etica dell’immanenza è impossibile per definizione. Sembrerebbe che o c’è l’etica, e quin- di soggetto e norma, oppure c’è l’immanenza, senza soggetto e norme. Etica implica trascendenza. Cos’è allora un’etica dell’im- manenza? Tuttavia, come proveremo ad argomentare, “immanen- za” non è propriamente un sinonimo di “mondo”. In realtà “im- manenza” significa piuttosto il collasso del dualismo fra sogget- to e mondo.

Ma perché il soggetto, in qualunque accezione, “sporge”, e non può non sporgere, rispetto al piano del mondo? La formu- lazione più chiara, e conseguente, di questo radicale dualismo la si trova, probabilmente, nella Critica della ragion pratica. Il pun- to di partenza, evidente ma anche indimostrabile, è il Factum del- l’“autonomia del principio fondamentale della moralità, per mez- zo del quale essa determina la volontà dell’azione”.

4

Ci può es- sere moralità, solo se questa radicale e assiomatica “autonomia […] determina la volontà dell’azione”. Qui “azione” va intesa co- me termine tecnico: un comportamento è un’azione se alla sua ba- se c’è questa fondamentale “autonomia”. Questa non è una de- scrizione di che cosa è un’azione morale: è la sua definizione.

Non si tratta di capire se qualcosa del genere esista realmente nel mondo; il punto è che senza azione in questo senso preciso, non può esserci moralità.

5

Vediamo in che consiste, per Kant, questo

“principio fondamentale della moralità”:

Tale fatto è inscindibilmente connesso con la coscienza della libertà della volontà, anzi fa tutt’uno con essa; e per ciò la vo- lontà di un essere razionale che, in quanto fa parte del mondo

4. I. Kant, Critica della ragion pratica (1797), in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, a cura di P. Chiodi,

UTET

, Torino 1995, p. 180.

5. Da questo punto di vista tutto il gran discutere di “naturalizzazione” dell’etica non

cambia i termini della questione posta da Kant; cfr. F. de Waal, Good Natured: The Origins

of Right and Wrong in Humans and Other Animals, Harvard University Press, Cambridge

(Mass.) 1996; M. Hauser, Moral Minds: How Nature Designed Our Universal Sense of Right

and Wrong, Little, Brown, New York 2006. O la morale umana a un certo punto si emanci-

pa dalle sue basi biologiche, oppure non si può parlare di morale umana.

(14)

41

sensibile, si riconosce, al pari delle altre cause efficienti, sotto- posto alle leggi della causalità, ha nel pratico, nello stesso tempo ma da un altro lato, cioè come essere in sé, coscienza della sua esistenza come tale da poter essere determinata da un ordine intelligibile delle cose, non, in verità, mediante un’intuizione particolare di sé stessa, ma secondo leggi dinamiche che ne possono determinare la causalità nel mondo sensibile; […] la libertà, se ci è attribuita, ci trasporta in un ordine intelligibile delle cose.

6

La “libertà” non è una constatazione empirica; al contrario, la libertà è il fatto della moralità, ossia l’assioma (per definizione indimostrabile) della moralità. Ma se c’è la libertà ne segue che l’agente morale, qualunque sia la sua realizzazione materiale, si colloca al di fuori del mondo sensibile, cioè del mondo delle cause, ossia del mondo senza morale. La morale non è, quanto ai suoi presupposti, cosa naturale: “Al contrario, la legge morale, benché non ne dia alcuna veduta, ci pone di fronte a un fatto assolutamente inspiegabile mediante i dati del mondo sensibile e l’intero ambito dell’uso teoretico della nostra ragione, un fatto che annuncia un mondo dell’intelletto puro, anzi lo determina anche positivamente e ce ne fa conoscere qualcosa, cioè una legge”.

7

Il fatto della morale è “assolutamente inspiegabile”, tuttavia non cessa di essere un fatto, cioè un assioma. La morale, in fondo, non è altro che questo assioma, tutto il resto ne segue. Accettare questo fatto comporta, e così arriviamo all’insormontabile problema del dualismo, che il mondo morale è radicalmente diverso dal mondo naturale. In questo senso l’etica è radicalmente innaturale:

Questa legge deve dare al mondo dei sensi in quanto natura sensibile (per quanto concerne gli esseri razionali) la forma di un mondo dell’intelletto, cioè di una natura soprasensibile, senza tuttavia sconvolgerne il meccanismo. Ora la natura nel

6. I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 180.

7. Ivi, p. 181.

(15)

55

aut aut, 382, 2019, 55-69

Carmelo Bene o dell’immanenza dei corpi

GIANLUCA SOLLA

1. Che cos’è realmente perverso? Pierre Klossowski dedica le battute iniziali di Le philosophe scélérat alla scrittura in Sa- de. In particolare le dedica all’antinomia tra il linguaggio, il cui valore è sempre universale – è sempre una “generalità” –, e la sin- golarità della scrittura con cui di volta in volta, scrivendo, Sade prova a stabilire una “contro-generalità”.

1

La scrittura non può pertanto che essere attraversata da questa tensione tra l’assoluta singolarità del suo momento e l’universalità del suo linguaggio con cui si trova comunque a operare, ma che continuamente non può che essere ribaltato e sovvertito nelle sue intenzioni. Questo vale anche per quella particolare scrittura delle vite che sono le pratiche. Rispetto al condizionamento normativo implicito nella valenza universale del linguaggio “logicamente strutturato della tradizione classica”,

2

la sola forma di emancipazione per la specie umana si può realizzare valorizzando “la specificità delle perver- sioni”. Non è tanto l’idea della perversione – ed eventualmente la sua pratica – a costituire un contro-bilanciamento o un’alternati- va. Questa va cercata piuttosto nella “specificità” che con risolu- tezza tanto Sade quanto Klossowski rivendicano.

A essere dirompente è “il caso singolare delle perversioni”,

Gianluca Solla insegna Filosofia teoretica all’Università di Verona.

1. Pierre Klossowski, Sade mon prochain, preceduto da Le philosophe scélérat, Seuil, Paris 1967, p. 19.

2. Ivi, p. 18.

(16)

56

che rispetto alla generalità normativa del linguaggio si definisce

“per una assenza di struttura logica”. Essere perversi vuol dire sovvertire la logica, ma sovvertire la logica vuol dire potenziare e sfruttare la singolarità dei casi contro la generalità della nor- ma. Il singolare sarebbe, da questo punto di vista, sempre ecces- sivo. La mostruosità sadiana, potremmo dire, non ha altro con- tenuto che questa assoluta specificità in cui, caso per caso, vol- ta per volta, corpo per corpo, qualcosa della perversione può aver luogo. In quanto irriducibile all’universalismo che fa del linguag- gio una norma cogente, la perversione consiste in questo gusto – in questa attrazione vertiginosa e irresistibile – per la singolarità.

In quanto tale, essa esclude le definizioni preconcette e l’anticipa- zione prescrittiva – moralizzante e giudicatrice – che fanno sem- pre ricorso alla generalità di una norma. Qui non è in discussio- ne il contenuto delle norme, quanto la struttura normativa stes- sa, che prevede una fittizia universalità il cui correlato principale è il riferimento alla “specie umana”, qualsiasi cosa essa sia. Non è però in discussione neppure il contenuto delle perversioni, bensì unicamente l’assoluta singolarità con cui viene fatto valere, di vol- ta in volta, ciò per cui la norma non vale, il buco cieco di ogni re- gola, precetto o legge.

Si potrebbe proseguire interrogandosi su quanto questa “con- tro-generalità” non sia in fondo interna alla stessa generalità nor- mativa e normalizzante che intende interrompere. La domanda verterebbe, in questo caso, su quanto di dialettico ci sia in questo procedimento (tanto in Sade, quanto in Klossowski). In fondo, come Sade sa e come Klossowski annota, è già l’ateismo del razio- nalismo a produrre un rovesciamento, estraendo dal fondo del- la generalità imperante una contro-generalità. La traccia che mi sembra più feconda da seguire è però un’altra: se l’universalismo è auto-contradditorio, cosa ne è di quello che Klossowski chiama

“il caso singolare delle perversioni”? Come si articola una per-

versione il cui contenuto non è una determinata predilezione, per

esempio per una pratica erotica, né tantomeno fa riferimento a

un desiderio inconfessabile? Come pensare quanto ha il suo trat-

to propriamente perverso nella sua assoluta singolarità? Cosa ne

(17)

57

è della potenza di questa singolarità? E cosa ne è della sua possi- bilità di staccarsi dalla subordinazione a funzioni abituali e gene- rali, quindi implicitamente o esplicitamente normative, che ne ga- rantiscono, se non la vita, almeno la sopravvivenza?

2. Se la singolarità – anche quella della scrittura – è di per sé perver- sa, è perché è portatrice di un eccesso del corpo rispetto alla presa normativa delle istituzioni. Tuttavia tale eccesso può essere pensato in molti modi. Due di questi sono presenti in un aneddoto in cui Carmelo Bene racconta di un incontro con l’amico Klossowski. A questo aneddoto è affidata una precisazione decisiva:

Una sera a cena proposi a Klossowski questa definizione del porno: “Il porno è ciò che eccede il desiderio”. Si entusiasmò:

“Très beau, Carmelo”, ma suggerì una variante: “Il porno è al di là del desiderio”. Non mi piacque. Glielo dissi. C’era qualcosa di metafisico e cattolico in quella definizione. L’ec- cesso dell’eros è quanto si cadaverizza, quanto è disponibile a rendersi mero oggetto. Nel porno a subire sono solo due oggetti che si annullano reciprocamente. Hai presente due pietre che copulano? Rende l’idea. Si amano in quanto si disattendono (ne ho frequentate alcune, rare, nei miei letti).

Nulla a che fare con la recita complice di Masoch. Nel porno non c’è complicità, non c’è partner, non c’è desiderio e non c’è vagito. Non c’è intimità né il mito della condivisione trova qui ospitalità. Non c’è altra prossimità se non quella inquietante con l’oggetto-porno del sedicente soggetto (in realtà oggetto anche lui, suo malgrado). C’è il congelamento della specie.

L’ottusità del giardino d’infanzia è l’ideale del porno. Basta mantenersi recidivi. Derive patologiche come la necrofilia so- no la fungaia putrescente della vita che si decompone a vista.

Tutto ciò che è patologico è l’uomo. Se non lo è, chissà cos’è.

(Detto altrimenti: che sarebbe di noi se non fossimo mancati?

Che sarebbe di Dio se esistesse?)

3

3. C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 1998, p. 35.

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aut aut, 382 2019, 70-90

Singolarità, perversione, immanenza

FEDERICO LEONI

Il dio feticcio

La perversione è obliqua, sinuosa, tortuosa. Non nega qualcosa, non afferma qualcosa. Piuttosto svia, devia, piega. Che cosa svia, che cosa piega? La sua non è una posizione ma un’operazione o un insieme di operazioni. Ma che tipo di operazioni?

Se stiamo alla psicoanalisi, nevrosi e psicosi sono anzitutto posizioni, posizionamenti soggettivi. Scrive per esempio Lacan:

“Il nevrotico, isterico o ossessivo, o più radicalmente paranoi- co, è colui che identifica la mancanza dell’altro con la sua stessa domanda”;

1

viceversa: “Nella follia, quale che ne sia la natura, ci tocca riconoscere […] la libertà negativa di una parola che ha ri- nunciato a farsi riconoscere”.

2

In altri termini, la nevrosi sta davanti a qualcosa, la psicosi non arriva a star davanti a quel qualcosa, che Lacan chiama leg- ge, o altrove mancanza, o castrazione simbolica, o parola dell’al- tro. Lo stare è però decisivo in entrambi i casi, anche quando lo è nel senso dell’impossibilità di stare. L’uno la assume, quella co- sa, vi sottomette la propria vita soggettiva, o piuttosto diventa un soggetto assumendola, sottomettendovisi, facendola propria. L’al- tro la costeggia senza incontrarla, o la incontra come un geroglifi- co indecifrabile, inutilizzabile.

Se la nevrosi e la psicosi sono posizioni, modi di stare di fron-

Federico Leoni insegna Antropologia filosofica all’Università di Verona.

1. J. Lacan, “Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio” (1966), in Scritti, trad.

di G. Contri, Einaudi, Torino 1976, vol.

II

, p. 827.

2. Id., “Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi” (1966), in Scrit-

ti, cit., vol.

I

, p. 273.

(19)

71

te a quella mancanza, a quella legge, quelle della perversione non sono posizioni ma operazioni. La perversione si industria senza so- sta, maneggia e rimaneggia i suoi materiali, fabbrica e rammenda continuamente quel qualcosa che la nevrosi incontra e assume, e la psicosi non incontra e non assume. Se per la nevrosi e per la psico- si la legge o la mancanza sono un dato, anche nel senso che sono qualcosa che è stato dato, che perciò proviene da altro o da altro- ve, per la perversione sono invece un fatto, anche nel senso che so- no qualcosa di fabbricato, qualcosa che anzi va continuamente co- struito, congegnato, architettato. O forse si dovrebbe dire: creato.

Per questo la perversione è complessivamente illuminata dal feticismo, che per tanti aspetti non è che una sua provincia. Non si comprende la perversione se non si comprende la sua dimen- sione fabbrile. La prima interpretazione che la psicoanalisi ha avanzato intorno alla perversione è in ogni senso esemplare.

3

Freud mette in scena un bambino che si imbatte nella madre nu- da e non ne sopporta la visione, perché quella visione gli rive- la una mancanza minacciosa. La donna è priva di pene. Potreb- be un giorno esserne privato a sua volta? Il piccolo feticista disto- glie lo sguardo, lo lascia vagare lungo il corpo della madre, si fer- ma dove trova qualcosa che gli dà sostegno. “Come sostituto del pene che manca alla donna, si è creato un feticcio”,

4

commen- ta Freud. Poco importa che l’insopportabile mancanza intravista nell’altro riguardi il pene, come nella prima ipotesi freudiana, o un qualsiasi altro significante fallico. L’essere non è dato, l’essere esige creazione per poter essere, è questa l’esperienza fondamen- tale del feticista.

In fondo l’operazione della perversione è perversa soprattut- to perché fabbrica ciò da cui dovrebbe provenire ogni fabbrica- zione, perché costruisce l’ambito stesso nel quale dovrebbe muo- versi ogni creazione. Crea il presupposto. Lo fa essere après coup.

3. S. Freud, “Feticismo” (1927), in Opere, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 1967-1980, vol.

X

, p. 494. Per uno straordinario approfondimento dei modi in cui l’ope- razione feticista innerva le altre operazioni, via via più lontane, della perversione, cfr. H.

Rey-Flaud, Le démenti pervers. Le refoulé et l’oublié, Aubier, Paris 2002.

4. Ibidem.

(20)

72

È in questo disordine del tempo, che si annida tutta la hybris del- la perversione. Non solo la psicoanalisi, anche l’antropologia si sofferma da sempre sullo stravolgimento ontologico che il fetici- smo porta con sé. È noto che i commercianti portoghesi sbarcati nel Cinquecento sulle cose africane avevano reagito con sconcer- to al culto che le popolazioni locali tributavano alle piccole, mal- certe divinità che esse ricavavano dall’assemblaggio di pezzi di le- gno e lembi di stoffa, perline e conchiglie. “Dei facticii”, li aveva- no prontamente ribattezzati. Da cui il termine divenuto classico, feticci. Come potete credere, chiedevano gli europei agli africa- ni, alla potenza di questi dei che avete appena finito di fabbrica- re con le vostre mani? La risposta degli africani avrebbe potuto rovesciare facilmente l’argomento europeo: come potremmo cre- dere ai poteri di un dio che non abbiamo fabbricato con le nostre mani, come potremmo confidare in un dio già fatto?

5

Il dio cadavere

“Dio è morto.”

6

Da Nietzsche in poi questa frase risuona senza sosta insieme all’altra constatazione nietzschiana: d’ora in poi si tratterà di fare i conti col “cadavere di Dio”.

7

Un cadavere di cui il meno che si possa dire è che è ingombrante.

Da un certo punto di vista, del resto, la filosofia non si è sem- pre collocata in quel punto in cui Dio è morto, in quel punto in cui al posto di Dio c’è piuttosto un archivio, un corpo di idee e tradizioni, una serie di materiali che bisognerà riorganizzare in un’altra verità, ricomporre in un’altra forma di esperienza?

Senza dubbio è nella scia di questa eredità nietzschiana che si collocano tutti i pensatori che questo fascicolo raduna in una strana costellazione. Bataille, Klossowski, Foucault, Deleuze, Blanchot, tutti loro capiscono che davanti all’annuncio della mor-

5. Riformulo, a dire il vero con qualche libertà, la risposta che Bruno Latour dice gli sarebbe piaciuto sentire uscire dalla bocca degli africani in quel frangente: B. Latour, Il culto moderno dei fatticci (1996), trad. di C. Pacciolla, Meltemi, Roma 2005, pp. 46-47.

6. F. Nietzsche, La gaia scienza (1887), trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1997, afo- risma 125.

7. Ibidem.

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aut aut, 382, 2019, 91-105

Erotismo della morte o ciclo di isteresi. La perversione tra Barthes e Deleuze

SILVIA VIZZARDELLI

1. Premessa: descrizioni e forme

Si può vivere con Sade, si può vivere con Masoch. A cosa dobbiamo il gusto di intrattenerci con loro, di assaporarne gli universi imma- ginari? Non certo alla volontà di attuare nella nostra vita i detta- gliati programmi sadici e orgiastici contenuti nei loro libri, frutto di una bizzarra e satanica grandeur. Per alcuni versi, neanche allo sfinente lavoro interpretativo cui filosofi, pensatori e psicoanalisti, più frequentemente di area francese, si sono dedicati, allestendo scenari speculativi di sofisticatissima officina, fatti di vertiginosi scambi di posto e ontologici capovolgimenti. Una fatica del pen- siero che talvolta sembra allontanarci dall’oggetto di godimento e dalla desiderabilità di quelle volute teoriche, pur donandoci infine, per restare nel nostro tema, un piacere altro. Del resto fu proprio Jean Paulhan, autore della prefazione alla prima versione di Justine (Les infortunes de la vertu), a sottolineare che questo libro poneva una domanda tanto ardua che un secolo intero non sarebbe stato sufficiente per darvi una risposta.

1

Un esempio su tutti: Kant con Sade

2

di Lacan. Lo leggiamo, lo studiamo, a ogni giro di frase ci pare di capire, ma poi non riusciamo a tollerare lo sforzo di tenere insieme una lettura azzardata della seconda critica kantiana con lo stravolgimento della massima sadica riscritta a

Silvia Vizzardelli insegna Estetica e Filosofia della musica all’Università della Calabria.

1. D.A.F. de Sade, Les infortunes de la vertu (1787), introduzione di J. Paulhan, Éd. du Point du Jour, Paris 1946.

2. J. Lacan, “Kant con Sade”, in Scritti (1966), vol.

II

, a cura di G. Contri, Einaudi, To-

rino 2002.

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proprio uso e consumo. Non voglio essere fraintesa: ho sofferto e tanto imparato da questo testo, come, in modi diversi, da quelli di Bataille, di Klossowski. Tutti sono decisivi, e di tutti terrò conto in queste mie brevi considerazioni, non fosse altro che per mettere a frutto il brusio, con l’annesso godimento perverso, che sento ancora ronzare nella testa.

Si può vivere con Sade e Masoch a patto di sposare una pro- spettiva al contempo descrittiva e formale. Dopotutto, ci muovia- mo in un campo tra psicoanalisi e filosofia, che è stato sempre reso instabile dalla doppia necessità di tenere insieme lo studio e l’analisi del caso, nella sua evidenza fenomenologica, con la ri- cerca delle componenti strutturali, “trascendentali”, la forma ap- punto, capace di mostrarci la possibilità di ciò che viene tratta- to, contro ogni nominalismo. Il rischio di descrivere comporta- menti, occorrenze, figure materiali e morali della perversione, di fatto rincorrendo affannosamente nomi, è sempre alle porte. Co- sì come è sempre dietro l’angolo il pericolo opposto, quello di un affanno formale, che rende troppo distante il riferimento all’e- sperienza. Occorre quindi tenere insieme il più possibile questi due versanti. Purtroppo non ci sono esempi significativi, nella storia delle interpretazioni, di questa sintesi feconda, per cui mi limiterò a individuare i maestri dei due modelli, quello descrit- tivo e quello formale, rimandando magari ad altro contesto, la proposta di ibridazione.

Dunque, da una parte Barthes, dall’altra Deleuze. Barthes lo assumo come la via maestra di una “fenomenologia” del- la perversione attraverso la delibazione della letteratura sadi- ca, col suo gusto dei dettagli materiali, e la capacità di far ba- lenare, lungo la linea dell’invisibile, la struttura a venire; De- leuze come esempio di un antinominalismo strutturale esplici- to, che mantiene sullo sfondo i casi, le evenienze, le occorrenze.

Insomma, se dovessi fare un esperimento mentale, direi che la

trattazione migliore della perversione, ammesso che si voglia il

testo unico e non ci si accontenti di aprire e chiudere due libri

entrambi imprescindibili, sarebbe quella che disvela l’implici-

to dei due autori.

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2. Barthes: il viaggio senza viaggio, il vestire senza vestire, il mangiare senza mangiare

Un ingresso morbido nell’edificio della perversione ce lo offrono i due saggi che Barthes dedica a Sade in Sade, Fourier, Loyola (1971).

La perversione viene presentata come un “canto discontinuo di amabilità”, una pluralità di incanti “in cui nondimeno leggiamo la morte con più certezza che nell’epopea di un destino”.

3

E allora si affaccia subito il tema del viaggio. Viaggiano molto i personaggi di Sade, in Europa, tra Francia e Italia, o fino in Siberia, ma è un viaggio privato della sua anima, un viaggio senza iniziazione, senza apprendistato. Le geografie delle città, delle campagne, dei giardini, anziché rappresentare luoghi di avventura, sono mappe funzionali dove nulla è da scoprire, nulla da imparare. “Le città non sono che procacciatrici, le campagne ritiri, i giardini scenari e i climi operatori di lussuria.”

4

Si attraversano continenti, ma il luogo è sempre uno solo, quello chiuso, isolato, autarchico della ri- petizione, dell’insistenza, dell’accanimento. Luoghi allestiti, come scene teatrali, da una sapiente e dettagliata regia che fa del quoti- diano la vera utopia. “Orari, programmi di nutrizione, progetti di abbigliamento, installazioni mobiliari, precetti di conversazione o di comunicazione, tutto questo è in Sade.”

5

Dunque c’è il viaggio, ma sul lato del sembiante. Occorre abituarsi a questa sfasatura dello sguardo per simpatizzare con i libertini di Sade.

Lo stesso accade per l’alimentazione. Sappiamo tutto di quel- lo che si mangia a Silling dall’alba al tramonto, entrando in un dettaglio gastronomico che fa invidia a un buon ricettario, eppu- re il cibo è semplicemente un segno che rinvia a un fatto di casta.

Dunque anche il cibo è preso dal lato del sembiante. Come il ve- stire, del resto: spogliato della sua componente erotica, l’abbiglia- mento acquista un valore asetticamente funzionale. “L’abito o se- gnala, mediante artifici precisi (colori, nastri, ghirlande) le clas- si di soggetti: classi di età […], classi d’iniziazione (i soggetti ver-

3. R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola (1971), trad. di L. Lonzi e R. Guidieri, Einaudi, To- rino 2001, p.

XXVI

.

4. Ivi, p. 5.

5. Ivi, p. 7.

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aut aut, 382 2019, 106-123

Masochismo plurale. Il servo, l’oggetto, la voce

CARMELO COLANGELO

L ungo tutto il secolo scorso, in particola- re a partire dagli anni quaranta, i temi del sadismo e del masochismo – e con es- si gli scritti di Sade e Masoch – sono stati indagati con regola- rità dal discorso filosofico, soprattutto di area francese, ma non solo. Grazie a un confronto sovente assai serrato con le prospet- tive della psicoanalisi, della fenomenologia, della critica lettera- ria, la riflessione filosofica, a cominciare da quella pratico-mora- le, si è impegnata in una disamina attenta dei due fenomeni che più apertamente manifestano la presenza, nella vita psichica, di un rapporto specifico tra desiderio e sofferenza, inferta o patita.

Di primo acchito può colpire questa circostanza: mentre general- mente il sadismo è stato illustrato ricorrendo a un numero tutto sommato piuttosto ristretto di predicati (nevrotico, perverso, cri- minale, sociale), l’aggettivazione che modula il termine masochi- smo è molto più cospicua. Per limitarci alle espressioni più fre- quenti, si è parlato non solo, con Freud, di masochismo primario (originario) e secondario, perverso e nevrotico, erogeno, “femmi- neo” e morale, ma anche di masochismo ideale, fondamentale, formale, sociale, dimostrativo, estetico, ordinario. La lista è lungi dall’essere completa. Il masochismo, sembrerebbe, si dice in mol- ti modi: il suo “problema economico” ha assunto figura e densi-

Carmelo Colangelo insegna Filosofia morale all’Università di Salerno.

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107

tà grazie alla declinazione delle sue modulazioni e all’analisi della sua varietà, delle sue fasi, del suo “movimento”.

1

Solo nel 1924 Freud, è noto, si è risolto a parlare apertamen- te di “enigmaticità” della tendenza masochista e del “grande pe- ricolo” da essa rappresentato (ben maggiore di quello legato al sadismo).

2

Egli lo ha fatto chiedendosi se il dolore e il dispiace- re, nella misura in cui si trovino a essere subiti e cercati come fi- nalità, non pongano in questione il dominio del principio di pia- cere nei processi psichici. Più precisamente, Freud si domanda se nel masochismo il dolore non rappresenti il momento di una ve- ra e propria “paralisi” – o di una “narcosi” – di quello che egli non ha mai smesso di considerare il “guardiano della nostra vita psichica”, anzi della vita umana tout court, il Lustprinzip, appun- to.

3

Questione determinante, che il fondatore della psicoanalisi affronta con circospezione, non senza moltiplicare le ipotesi espli- cative, da un lato interrogandosi sui rapporti che il “guardiano”

intrattiene con le pulsioni di morte e le pulsioni erotiche, dall’al- tro isolando con attenzione forme, dinamiche, proprietà essenzia- li della tendenza masochista, sottolineandone ormai una consi- stente indipendenza rispetto a quella sadica.

Nel successivo moltiplicarsi delle qualificazioni del fenomeno si può cogliere il segnale di una considerazione della sua natura intesa ad assumerlo in chiave per così dire transclinica: esso, cioè, oltre e più che essere indagato in termini di “anormalità” e per-

1. Cfr. M. de M’Uzan, De l’art à la mort, Gallimard, Paris 1977, pp. 132-133: “Al ter- mine masochismo sarei portato a preferire quello di movimento masochista”.

2. S. Freud, Das ökonomische Problem des Masochismus (1924), in Gesammelte Wer- ke, Fischer, Frankfurt a.M. 1976, vol.

XIII

, p. 371; trad. di R. Colorni, Il problema economi- co del masochismo, Boringhieri, Torino 1975, vol.

X

, p. 5: “Il masochismo ci appare dun- que nella veste di un grande pericolo, mentre ciò non vale affatto per il suo corrispettivo opposto, il sadismo”. Dove ritenuto necessario o opportuno le traduzioni citate sono sta- te modificate.

3. Ibidem: “Se il principio di piacere domina i processi psichici in maniera tale che il

loro primo scopo è quello di evitare dispiacere e ottenere piacere, il masochismo è incom-

prensibile. Se invece il dolore e il dispiacere non sono meri avvertimenti, ma possono es-

si stessi rappresentare dei fini [Ziele], il principio di piacere ne risulta paralizzato [lahmge-

legt] e in un certo senso narcotizzato [gleichsam narkotisiert] il guardiano [Wächter] della

nostra vita psichica. […] Siamo tentati di affermare che il principio di piacere non è solo il

guardiano della nostra vita psichica, ma della nostra vita in genere”.

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108

versione, è colto come un elemento basilare della configurazione del sintomo stesso in quanto tale, e al limite anzi come “possibili- tà” esistenziale che è sempre possibile veder affiorare nei destini soggettivi, nel rapporto che gli uomini intrattengono con se stessi e con l’altro. Nel campo filosofico il masochismo è stato discusso verificando i modi in cui si manifesta nell’ambito delle forme vi- genti di organizzazione della vita, della cultura, della società, e al contempo tentando di ricavarne una prospettiva aggiornata sul- le dinamiche del desiderio. Nello stesso torno di tempo in cui si è ragionato sull’“uomo moderno” in quanto “animale masochista”,

4

il tema è stato affrontato ponendolo in rapporto con altri nuclei fortemente problematici del pensiero contemporaneo.

Si potrebbe dire che, in modo implicito o esplicito, due que- stioni in particolare abbiano accompagnato e persino guidato l’interesse teorico nei confronti della tendenza masochista. An- zitutto il problema del rapporto tra padrone e servo, nella sua struttura, nelle sue possibilità di sclerosi e nelle sue mutazioni; in secondo luogo la questione della tenuta, nella vita individuale co- me in quella collettiva, delle forme simboliche dell’autorità e del- la Legge, questione discussa in relazione all’eclissi della funzione paterna e della sua capacità di regolare il campo del desiderio. In- crociandosi con questi cospicui plessi problematici, l’enigmatici- tà del desiderio masochista si è rivelata suscettibile di rilanciare la comprensione di temi determinanti della riflessione etica, offren- do possibilità interpretative capaci di presentarli in nuova luce.

Si ricorderà che il sogno che apre Venus im Pelz è rudemente in- terrotto dai rimproveri che colpiscono il dormiente sottraendolo alle delizie del suo incontro onirico. A scuotere il narratore è la

“voce rauca” del suo servo cosacco, che lo apostrofa con severità

4. T. Reik, Masochism in Modern Man, Farrar & Rinehart, New York-Toronto 1941;

trad. di L. Volpatti, Il masochismo nell’uomo moderno, Sugar, Milano 1963, p. 8. Al termi-

ne dell’introduzione al suo volume Reik precisava: “Mi sono interessato maggiormente al

problema di un tipico comportamento nei riguardi della vita, piuttosto che di quello tra-

gicamente anormale. Questo è un problema che compromette sempre più la nostra inte-

ra cultura. Voglio far notare questo aspetto della odierna situazione umana” (ivi, p. 12).

(27)

124

aut aut, 382 2019, 124-137

Disconoscimento sur place

RICCARDO PANATTONI

I n Il freddo e il crudele

1

Gilles Deleuze affer- ma che il concetto di disconoscimento, al- meno a un primo sguardo, può apparire co- me un movimento molto più superficiale della negazione,

2

eppu- re l’atto del disconoscere ha una sua specifica modalità di messa in crisi del principio di attualizzazione, tale per cui ci si rivolge a quest’ultimo senza accettarne la validità. È un tipo di operativi- tà in potenza che si mantiene sul punto iniziale, sorgivo, della sua modalità e tende a contestare il giusto diritto di ciò che inequivo- cabilmente sembra, in ogni modo, destinato a doversi affermare.

Introduce cioè una forma di sospensione sostanziale, una neutra- lizzazione in grado di aprire, al di là di ciò che comunque appa- re come dato, un non dato che non mira più ad alcuna realizza- zione a venire.

Non si tratta quindi di contrapporre a un’apparente evidenza un criterio capace di mostrarne un’altra altrettanto possibile, ma di sottrarre all’accadimento in atto ogni principio di pura eviden- za, senza per questo negarne la fatticità. In questo senso la figura del masochista – almeno per come viene evidenziata da Deleuze

Riccardo Panattoni insegna Etica e psicoanalisi all’Università di Verona.

1. G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. di G. De Col,

SE

, Milano 1991.

2. S. Freud, La negazione (1925), in Opere, a cura di C.L. Musatti, vol.

X

, Boringhie-

ri, Torino 1978. Cfr. anche S. Benvenuto, La psicoanalisi e il reale. “La negazione” di Freud,

Orthotes, Napoli 2015 e P. Virno, Saggio sulla negazione. Per una antropologia linguistica,

Bollati Boringhieri, Torino 2013.

(28)

125

attraverso l’opera di Leopold von Sacher-Masoch – è quella più adatta a esplicare questa modalità del disconoscimento, mostran- done simultaneamente tre differenti processi. Il primo è quello di riconoscere alla donna la presenza del fallo, attribuendole così la capacità di poterlo far rinascere ogni volta per via partenogeneti- ca, perché in realtà alla vita non si nasce mai una sola volta, ma innumerevoli volte: nascere è un’invenzione e non è detto che ci si riesca sempre. Il secondo è quello di escludere completamen- te il padre da ogni ruolo relativo a questa seconda nascita, evitan- do così di introdurre ogni principio trascendente. Il terzo, infine, consiste nel liberare il piacere da ogni finalità strettamente geni- tale e procreativa. La simultaneità di questi tre processi incentrati sul principio del disconoscimento, si sorregge inoltre sulla costel- lazione di altri quattro riferimenti essenziali: la sospensione, l’at- tesa, il feticismo e il fantasma.

All’interno della teoria freudiana il feticcio è l’immagine sostitu-

tiva di un fallo femminile che si incarna in un oggetto determi-

nato, l’ultimo che il bambino ha visto prima di rendersi conto di

quell’assenza inaccettabile e su cui lo sguardo ritorna attraverso

una forma di disconoscimento in atto. Si determina così, per

esempio, un feticismo rivolto verso la scarpa per uno sguardo che

ridiscende verso il piede. Non si tratta quindi tanto di un oggetto

in quanto tale, di un distoglimento dello sguardo dal corpo della

madre per dirigerlo verso qualcosa d’altro presente alla vista, ma di

un ritorno su una parte del corpo che non viene contestata, bensì

sovradeterminata e associata a un’oggetto che la copre mettendola

in evidenza. La scarpa è infatti l’oggetto del piede. Per questo il

feticcio sottostà alla legge della collezione, perché ogni scarpa, pur

nella specificità del suo riferimento singolare, rimarrà comunque

l’ideale del piede mancante, vero oggetto del desiderio sostituti-

vo. Dunque l’immagine sostitutiva del fallo femminile è il piede

assente, ideale, della scarpa che rimane invece un oggetto reale

da ricercare e, una volta trovato, da rendere sempre sostituibile

con un altro dello stesso tipo, ricercabile sempre di nuovo. Di

conseguenza non è tanto l’oggetto scarpa che permette di mante-

(29)

126

nere il diritto all’esistenza dell’oggetto contestato, quanto il piede mancante che l’oggetto scarpa reclama. Per questo immagine e immaginario stanno decisamente insieme: l’immagine scarpa è l’immaginario del piede, così come l’immaginario feticistico della scarpa è la stessa immagine assente del piede.

La pulsione feticistica non corrisponde dunque tanto a un at- to di simbolizzazione sostitutiva, quanto a una focalizzazione ri- spetto a una messa in scena teatrale, che viene fissata e congela- ta nella sua scenografia; un’immagine perfettamente arrestata in se stessa, una vera e propria fotografia alla quale è sempre possi- bile ritornare, attraverso la ricerca dell’oggetto desiderato, al fi- ne di evitare le conseguenze inaccettabili di un movimento che si concatenerebbe in una inevitabile sequenza rivelativa. È ri- conoscere all’esplorazione il criterio veritativo del dato di fatto, è lasciare che tale esplorazione si perda nei meandri aleatori di quell’incastro non realizzabile tra il piede e la scarpa, che rima- ne da ricercare senza soluzione possibile. Ecco perché rispetto all’evidenza del visto non subentra alcun rimosso, si tratta piut- tosto dell’intromissione di un’opacità che si illumina sull’ogget- to feticcio assente, la scarpa, capace di avvolgere il piede come parte sostitutiva della mancanza del pene: solo così il piede è il luogo pulsionale sostitutivo del sesso femminile, ripreso come assente nell’oggetto scarpa. È la ripresa e la dilatazione sospen- siva dell’ultimo istante in cui è ancora possibile credere al per- fetto trasporto riflettente sul corpo dell’altro. In questo modo la scoperta, l’imposizione del principio di realtà, viene sconfessata dalla potenza in un reale immerso nei criteri di un puro imma- ginario, senza che subentri alcuna necessità di un dispiegamen- to immaginativo: la scarpa rimarrà comunque il solo condensa- to del piede.

Il feticcio non ha di conseguenza nulla della mera illusione

sostitutiva, ma esprime piuttosto uno stadio di intensificazio-

ne di un’esperienza singolare, che non si rassegna a una verità

oggettiva che deve valere per tutti. In questo senso il feticismo

è innanzitutto un disconoscimento, in quanto sostenere che la

donna non manchi del pene non deriva da una semplice nega-

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aut aut, 382 2019, 138-159

Masoch oltre Nietzsche. Seduzione, autoaggressione e ordalia del

filosofo critico

ANDREA MUNI

Premessa

La resistenza psicologica e culturale che tutti proviamo di fronte a una qualsiasi (pur minima, simbolica, teatrale) idea di autoag- gressione o sottomissione volontaria si riflette in innumerevoli espressioni del linguaggio comune. Eppure il masochismo, termine che racchiude troppi significati differenti per un’unica denotazio- ne, non cessa di esercitare su molti di noi un fascino misterioso.

Da parte mia credo che in questo fascino, antico e attualissimo nello stesso tempo, si nasconda un significato filosofico e politico che siamo ancora lontani dall’avere ancora soltanto accarezzato.

Nella dinamica masochista, di cui Masoch è stato senz’altro un grande attore, ma non certo il primo, si nasconde infatti un segre- to che meriterebbe di essere approfondito attraverso un’inedita genealogia. Invece di indagare il “masochismo” da un punto di visto politico, filosofico o psicoanalitico, mi piacerebbe piuttosto rovesciare il piano e provare a ripensare alcune forme di sedu- zione politica, psicoanalitica e filosofica a partire dalla peculiare dinamica seduttiva, e dal particolare rapporto di potere, in gioco nella strategia masochista.

Nel fascio di problemi cui ci introduce il masochismo, inte-

so come strategia e come modalità di produzione della verità, si

declina infatti in maniera del tutto singolare l’antichissimo tema

della trasformazione di sé: il ferirsi, l’autointaccarsi, il farsi violen-

za. Lo sdoppiamento e la divisione del soggetto – concepiti anche

in chiave politica come modalità di seduzione e di trasformazio-

ne dell’altro – sono infatti il nocciolo del masochismo che, ancora

(31)

139

oggi, ci interessa e merita di essere approfondito. Le storie di Ma- soch ci raccontano, in ultima istanza, proprio di come sia neces- sario farsi del male per trasformarsi, per provare a se stessi una ve- rità, e di come tutto questo non si possa fare senza “un altro”; ma ci raccontano anche di come “gli altri” non possano essere il sup- porto delle nostre trasformazioni senza esserne, per questo, a loro volta intaccati. La seduzione masochista e il rapporto che essa ar- ticola tra il soggetto, l’altro, il godimento e la verità, ci riportano infatti a una dimensione del discorso e del rapporto intersogget- tivo che nella nostra cultura rimane a tutt’oggi velata, sincopata, misconosciuta: quella ordalico-sofistica, in cui la verità non è fatta per essere conosciuta, ma giocata, inflitta e subita, come un even- to che si scrive sui corpi.

L’orrore di Nietzsche

A eccezione del fatto che sono entrambi morti folli, che erano ammiratori di Schopenhauer e che scrivevano in tedesco, tutto sembra dividere Nietzsche e Masoch. In primo luogo la formazione cattolica e mistico-barocca dello scrittore galiziano, radicalmente opposta a quella protestante di Nietzsche. In secondo luogo, la sto- ria familiare: da un lato Nietzsche, figlio di un pastore protestante teneramente amato e prematuramente scomparso, dall’altra Ma- soch, figlio di un questore cordialmente detestato. In terzo luogo a dividerli troviamo le convinzioni politiche: da un lato Masoch, per metà slavo e affascinato del panslavismo, vicino agli ambienti anar- chici bakuniniani e proudhoniani, simpatizzante delle rivolte dei contadini piccolo-russi contro la nobiltà polacca e strenuo difenso- re dell’impero transnazionale asburgico. Dall’altro lato Nietzsche:

prussiano, acerrimo nemico di qualunque forma di socialismo, gioiosamente ateo e, a suo modo, nazionalista tedesco. Eppure, forse proprio a causa di questa siderale e paradossale prossimità, mi è parso di poter rintracciare un’affascinante complementarità in un punto decisivo del loro pensiero che mi sembra perfetta per inoltrarci nel “masochismo” che (ancora oggi) ci interessa.

Nietzsche nella Genealogia ci racconta una specie di mito, una

fiaba grottesca. La storia di come i poveri, gli umiliati, gli ultimi,

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140

i malriusciti, i giudeo-cristiani (per chiamarli col loro nome) so- no stati capaci di sedurre i “migliori” alla loro nuova, mostruo- sa e inquietante verità per mezzo di quel “dio”, e di quella inedi- ta “autoaggressività”, di cui gli antichi signori non avrebbero let- teralmente saputo che farsene. Nietzsche si ferma qui, dicendo- ci a chiare lettere che se si addentrasse ulteriormente tra i vapo- ri malsani di questo ripugnante segreto rischierebbe di restarne contagiato come da una malattia. Dopo aver osato scoperchiare con grande coraggio un simile vaso di Pandora, egli sembra infat- ti proibirsi misteriosamente nella Genealogia tutte le domande (e le risposte) decisive. Come hanno fatto gli schiavi, a livello pratico, a sedurre i propri padroni? A ben vedere infatti – Nietzsche ce lo lascia intuire, gli schiavi non hanno trasformato i valori per mez- zo della violenza ma, piuttosto, per mezzo della seduzione. E do- ve avrebbero trovato, gli schiavi, la volontà di potenza necessaria per compiere un così seducente e inaudito rovesciamento di valori? Ri- sposta (ancora velata) di Nietzsche: nella cattiva coscienza e nel ressentiment covati per secoli nei confronti di quei “signori” che li dominavano, che erano davvero più forti – e quindi più “veri”

– di loro. Ma come hanno fatto gli “schiavi” a dimostrare l’esistenza del loro dio, della loro nuova verità? La risposta, spaesante e ver- tiginosa (che prendo a prestito da una celebre sentenza di Lacan) è: amandolo, agendo come se quel dio e quella verità fossero rea- li. Gli schiavi della Genealogia hanno dimostrato ai propri signo- ri l’esistenza e la superiore potenza del loro dio (della loro verità e, quindi, del loro “io”) soffrendo e morendo da martiri per que- sti nuovi valori, in loro nome.

Nietzsche si accorge nitidamente che la volontà di verità, la morale degli schiavi, si è imposta nella storia dell’Occidente at- traverso un’inedita e spaventosa forma di seduzione “masochi- sta” che ha contagiato i primi “buoni” (i “signori”), inducendo- li a riconoscersi a un certo punto della storia come i nuovi “mal- vagi”. La volontà di verità – la volontà che esista una separazio- ne vero/falso che raddoppia quella morale (e cristiana) di bene/

male – si è instaurata storicamente nella psiche dell’uomo occi-

dentale a partire da questa sfida, da questa seduzione ordalico-

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Discussioni

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161

aut aut, 382, 2019, 161-177

Il soggetto supposto intelligente

ANTONELLO SCIACCHITANO

Tutti i modelli sono falsi, ma alcuni sono utili.

Uno statistico bayesiano

Probabiliter conjicio corpus existere.

Cartesio, Sesta Meditazione

Se l’intelligenza è artificiale, la stupidità è naturale?

“Intelligenza” è un termine più psicologico che filosofico; non ricorre, per esempio, nel Dizionario di filosofia di Abbagnano.

Da Cartesio a Nietzsche il filosofo ha problemi a trattare nozioni teleologiche. Infatti molte definizioni correnti di intelligenza pre- suppongono il finalismo. Si va dal problem solving – nell’ipotesi che ogni problema o sia risolvibile o si dimostri che è impossibile risolverlo, con tutti i gradi intermedi di difficoltà – alla capacità di raggiungere un fine in situazioni complesse.

1

La stupidità sa- rebbe antiparallela all’intelligenza, estesa in diverse forme dall’i- nadeguatezza rispetto allo scopo fino all’ostacolo attivo al suo raggiungimento.

2

A ciò si aggiunga che la nozione di intelligenza non si autofon- da. A giudicare l’adeguamento dell’intelligenza ai suoi compiti – dell’intelletto alla cosa – c’è sempre un’istanza esterna, “il terzo uomo” aristotelico, un arbitro metaintelligente, non necessaria- mente intelligente nel senso della definizione data. Alla fine si ri- conosce intelligente la prestazione utile al potere. La meccanica quantistica è in questo senso intelligente perché supporta più del- la metà del mercato informatico, pur su basi incerte (ma dà risul-

1. “L’intelligenza è la capacità di realizzare fini complessi”, M. Tegmark, Vita 3.0. Es- sere umani nell’era dell’intelligenza artificiale (2017), trad. di V.B. Sala, Raffaello Cortina, Milano 2018, p. 61.

2. Esemplare a questo proposito è la prima commedia di Molière, L’étourdit ou les con-

tre-temps (1658), dove Lelio intralcia sistematicamente l’operato del fedele Mascarillo, che

traffica per procurargli l’amata.

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