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L’intera storia dell’uomo, quella che sempre più è apparsa scritta in caratteri umani, testimonia infatti, un corpo a corpo tra l’uomo e la natura esterna e interna a lui

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Academic year: 2021

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ROSSELLA BONITO OLIVA   

ANCORA UNA DOMANDA SULLA NATURA UMANA 

1. La natura invocata  2. Cercando l’altra faccia dello specchio  3. Lo specchio e l’altro 

   

1. La natura invocata 

Può sembrare paradossale, ma quanto più  si  moltiplicano  le  capacità  esplorative,  adattative  dell’uomo,  tanto  più  radicalmente  viene  posto  l’interrogativo  sulla  natura  umana.  Forse  sarebbe  più  giusto  dire  che  la  domanda  scaturisce  proprio  dalla  distonia  tra  conoscenza  e  processualità della natura umana. L’intera  storia dell’uomo, quella che sempre più è  apparsa  scritta  in  caratteri  umani,  testimonia  infatti,  un  corpo  a  corpo  tra  l’uomo e la natura esterna e interna a lui. 

La  domanda  parte  da  un  ossimoro,  nella  misura in cui l’uomo ha sempre instaurato  con la natura una relazione di negazione e 

subordinazione  insieme,  producendo  un  ripetuto  cortocircuito:  la  natura  non  è  ancora  umana e l’uomo non è più naturale. Neanche le neuroscienze  sciolgono l’ossimoro, ogni  volta che si tratta di entrare nella non prevedibilità assoluta del comportamento umano,  dai  casi  patologici  personali  agli  eventi  in  cui  sembra  quasi  che  l’umanità  smarrisca  la  capacità di fare tesoro della sua esperienza. Nonostante questo, la domanda si ripete e si  ripete  quanto  meno  sembra  scontata  una  familiarità  tra  umanità  e  uomo.  In  realtà  la  stessa posizione della domanda smaschera una difficoltà, così come le risposte sembrano  cercare  più  uno  smarcamento  dalla  nettezza  della  domanda,  che  una  reale  intenzione  risolutiva. Sarebbe perciò necessario precisare il significato che assume il termine natura  coniugato con la realtà umana, là dove anche la struttura materiale dell’uomo trascende 

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l’ambito rigorosamente fisico, biologico, ecc. Non si tratta di un cambio di fattori, ma dei  modi nei quali prende corpo la relazione – dall’interno o dall’esterno – producendo uno  spostamento  nella  natura  come  nell’uomo.  Perciò  parlare  di  natura  umana  può  tanto  voler  dire  richiamarsi  alla  struttura  materiale  e  finita  dell’uomo,  eliminando  ogni  idealizzazione  o  comparazione  con  quanto  l’uomo  dovrebbe  o  potrebbe  essere,  tanto  cercare una sorta di struttura che si dinamizza nelle figure dell’umano senza per questo  perdere o alterare una sua invariante. 

L’uomo è allora naturale? O piuttosto la natura dell’uomo è nella innaturalità, o meglio  nel  gioco  di  elaborazione  continua  della  propria  naturalità?  Pretendere  di  dare  una  risposta  a  questa  domanda  sarebbe  ancora  una  volta  un  tentativo  di  irrigidire  questa  continua apertura di fronti – una sorta di scatola cinese – che si presenta a chi cerca un  approccio scientifico alla questione.  

Nelle  teorie  antropologiche  è  stato  alternativamente  sostenuto  che  l’uomo  è  difettivo,  mancante,  eccentrico,  creativo,  un  feto  nato  prematuramente,  o  un  vivente  ritardato; 

ognuna  di  queste  definizioni  dice  l’uomo  attraverso  un  troppo  o  un  troppo  poco  e  si  legittima  a  partire  da  una  scelta  di  campo  comprovata  con  indizi  e  dettagli  che  a  loro  volta  si  prestano  a  interpretazioni  diversificate,  dando  ragione  a  una  o  all’altra  tesi.  In  ogni  caso  lo  sfondo,  come  affermato  da  Carl  Schmitt,  è  la  scelta  di  prospettiva  che  si  assume come chiave di lettura di ciò che l’uomo ha fatto di se stesso a partire dai propri  limiti, in vista di una loro compensazione o di un loro oltrepassamento1. Anche la lettura  di Schmitt, che pure è illuminante circa la complementarietà delle diverse ipotesi, finisce  per  privilegiare  le  capacità  dell’homo  faber,  l’aspetto  decisionale  più  che  la  valenza  ideologica e orientativa che queste teorie hanno nella determinazione dell’umano. Ogni  antropologia di fatto procede per osservazione e per accumulazione di un materiale che  rimarrebbe  insensato  e  inerte  senza  il  reperimento  della  traccia  di  ciò  che  l’uomo  ha  fatto  di  se  stesso.  Ogni  teoria  antropologica  riproduce  in  qualche  modo  l’istanza  pragmatica  di  determinazione2,  quasi  la  legittima  individuando  la  struttura  universale  della configurazione dell’umano nella risposta riequilibrante di un difetto o di un eccesso: 

difesa  e  disciplinamento.  In  ogni  caso  la  domanda  come  la  risposta  testimoniano  della 

1 C. Schmitt, Le categorie del politico, (1932‐1968), tr. it. Il Mulino, Bologna 1972. 

2 V. Gerhardt, Selbstbestimmung, in Was ist der Mensch? , (hrsg.) V. D. Ganten, V. Gerhardt, J‐N. Heilinger,  J. N. Rumelin, Walter de Gruyter, Berlin 2008.  

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difficoltà di giungere al profilo unitario di un genere in divenire, presentando nella teoria  il livello di autoconsapevolezza e di autorappresentazione degli uomini egemonica in una  data epoca3

  

2. Cercando l’altra faccia dello specchio 

Come il bambino che si guarda nello specchio, o si riflette nello sguardo della madre, ciò  che  prende  corpo  nel  contenuto  di  ogni  teoria  è  il  tentativo  di  fissare  un’immagine  quanto più possibile armonica e stabilizzante. Persino il corpo, che non scegliamo nella  sua  costituzione  e  capacità,  non  è  semplicemente  un  oggetto  tra  altri,  ma  il  farsi  fenomeno a se stesso di ogni Io, riflesso nello specchio o nell’occhio dell’altro, in cui si  costituisce e si proietta ogni processo di individuazione. Nelle sue più intime fibre, nella  pelle  esso  testimonia  un  più‐che‐vita,  terreno  della  carica  pulsionale,  ma  anche  carico  della  memoria,  della  storia  di  un  genere  eccentrico  e  in  continua  costruzione.  In  ogni  corpo si incarna e si rende effettuale la capacità di farsi soggetto nella complementarietà  dell’aprirsi  al  mondo  e  dell’aprirsi  a  se  stesso  in  cui  si  gioca  l’umanità  dell’uomo. 

L’apertura al mondo produce una torsione: l’individuo si guarda guardando il mondo, si  sente sentendo il mondo, percepisce sempre un doppio lato soggettivo e oggettivo della  relazione.  

Lo  sforzo  della  torsione  non  produce  risultati  confortanti.  L’uomo  come  Alice  non  si  accontenta,  cerca  l’altra  faccia  dello  specchio,  ma  anche  lì  l’enigma  non  trova  una  soluzione  univoca.  Konrad  Lorenz  ipotizza  una  possibile  conoscenza  in  termini  biologici  dell’apparato conoscitivo umano ne L’altra faccia dello specchio, che, però, non aiuta ad  annullare  la  percezione  dell’inversione  –  di  un’immagine  monca,  di  un  mondo  rovesciato4.  Cassirer  è  perciò  scettico  rispetto  a  questa  conclusione  che  ipotizza  e  presume  di  poter  individuare  una  radice  materiale  della  plasticità  e  della  razionabilità  umana, quasi una meccanica di un gioco di riflessi raddoppiati come se la base biologica  potesse dare un fondamento più stabile a quanto si specifica nella sua instabilità5. L’altra  faccia dello specchio, come nel caso del racconto di Carroll, non è solo ciò che c’è dietro,  ma il luogo in cui prendono corpo favole, immagini di un non‐detto, di un indicibile, che 

3 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, Suhrkamp,  Frankfurt am Main 2006. 

4 K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio (1973), tr. it. Adelphi, Milano 1974. 

5 E. Cassirer, Saggio sull’uomo. Una introduzione alla filosofia della cultura umana (1944), tr. it. Armando, 

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sfugge al controllo e alle intenzioni di chi nello specchio cerca in primo luogo se stesso. È  stato lo stesso Lorenz a rilevare come il gioco tra il bambino e lo specchio sia dirimente  della  differenza  tra  uomo  e  animale.  Attraverso  lo  specchio  il  bambino  acquisisce  la  capacità  di  fare  del  proprio  corpo  l’oggetto  privilegiato  dell’esplorazione  del  mondo  esterno,  la palestra in cui impara a relazionarsi attraverso il controllo e la conoscenza del  proprio corpo.  Il fatto stesso di giocare con lo specchio si ripercuote sull’altra faccia, in  ogni  posizione  assunta  l’uomo  non  può  eliminare  l’articolazione  tra  esterno  e  interno,  immagine  e  movimento.  Anche  l’occhio  dell’altro,  o  l’altro  occhio  capace  di  vedere  ciò  che  il  soggetto  non  vede,  rispecchia  il  desiderio  di  vedere  se  stesso:  una  reiterazione  della scoperta infantile artificiosamente fissata, di contro all’evoluzione fisica e biologica. 

Una  cosa  è  certa:  l’una  e  l’altra  faccia  dello  specchio  appartengono  a  questo  Giano  bifronte, ma non vi appartengono come dati statici, o meglio sono la combinazione delle  due  facce  in  un  intreccio  filogenetico  e  ontogenetico  insieme.  Essere  sociale  e  irriducibilità  individuale  convivono  in  maniera  più  o  meno  armonica  nell’assemblaggio  delle componenti istintuali e culturali senza risolversi l’una nell’altra.  

Le  due  facce  si  riproducono  continuamente  là  dove  ogni  individuazione  si  gioca  nella  reciprocità tra interno e esterno, tra proprio e improprio, tra continuità ed evento, che  permangono  nonostante  ogni  ricerca  di  determinismo  e  unitarietà.  Allora  si  capisce  come  l’ossimoro  della  domanda  è  prodotto  dallo  stesso  strabismo  di  questo  vivente  eccentrico,  nella  cui  immagine,  narcisisticamente  cercata  e  delineata,  si  produce  una  sorta  di  anacronismo  tra  vecchio  e  nuovo,  tra  filogeneticamente  determinato  e  ontogeneticamente acquisito, senza che sia possibile fermare quest’effetto di distorsione  che emana dalla sua figura.   

In fin dei conti si può dire con Valéry che questa ricerca assuma la forma di un’idea fissa6,  che  sembra  tanto  più  affermarsi,  quanto  più  emerge  l’impossibilità  di  uscire  dalla  impossibile  coincidenza  tra  mente  e  corpo.  In  qualche  modo,  venuta  meno  la  triangolazione  Dio‐uomo‐mondo,  attraverso  cui  circoscriveva  i  limiti  alla  sua  spinta  pragmatica e creativa, l’uomo emancipato si è trovato senza sfondo e senza prospettiva,  sbilanciato,  rinviato  a  se  stesso  e  alla  propria  contingenza  ed  eccedenza7.  La  risposta  cercata  in  svariate  strade  si  è  ricollocata  su  quell’animale  malato,  orfano  della  natura, 

6 P. Valéry, L’idea fissa (1932), tr. it. Adelphi, Milano 2008.  

7 K. Löwith, Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche (1967), tr. it. Donzelli, Roma 2000.  

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vittima  del  disincanto  del  mondo,  in  definitiva  rinviato  come  Narciso  ad  un’immagine  senza  proprietà.  In  realtà  tutto  il  dibattito  antropologico,  dal  naturalismo  all’idealismo,  per finire all’alleanza tra neuroscienze e filosofia della mente, ha continuato a riprodurre  un conflitto di interpretazioni in cui sembra essere in gioco ancora una volta la capacità  di autodeterminazione dell’uomo a partire dalla conoscenza. Ciò che si cerca è la piena  evidenza  e  trasparenza  di  un  oggetto  che,  individuato  nella  sua  eccedenza,  nella  sua  difettività, nel suo ritardo o nella sua evoluzione rimane a un tempo visibile e invisibile,  leggibile  e  illeggibile,  coeso  e  disarmonico.  I  modi  dell’esperienza  umana  si  sono  trasformati trasformando il mondo e insieme l’uomo stesso, tuttavia ciò non ha prodotto  un necessario salto fuori dal piano empirico o materiale. Le forme nelle quali l’uomo ha  organizzato la sua vita, a livello personale e sociale, hanno man mano preso il peso di una  natura, sia pure seconda. La sperimentazione nella quale l’uomo ha incrementato la sua  conoscenza  dei  processi  neuronali,  fisiologici,  biologici  ha  prodotto  una  progressiva  trasformazione  della  qualità  e  delle  condizioni  della  sua  vita.  Questo  poter  guardarsi  dentro, però, non ha determinato la congruenza tra le due facce dello specchio, ha dato  luogo  piuttosto  a  ulteriori  slittamenti  nella  percezione  di  sé.  Ma  tale  divaricazione  è  prodotta  proprio dal modo in cui si dà ragione di questa complessità, dal piano a cui si fa  riferimento nell’organizzazione dei dati.  

 

3. Lo specchio e l’altro 

Che  si  proceda  dalla  reazione  dell’uomo  alle  basi  materiali  della  propria  esistenza  o  invece dalla sua caratteristica di muoversi sulla base di una finalità o di un progetto, che  si proceda dal dato neuronale e biologico, alla fine può essere irrilevante. È significativo il  dato  comune  di  queste  interpretazioni,  un  dato  che  rimane  quasi  in  secondo  piano,  riattivando  in  tal  modo  la  polarizzazione  e  il  tentativo  di  un’assolutizzazione  di  una  prospettiva sulle altre. 

L’elemento è lo stesso  punto di partenza, che è la considerazione dell’uomo come una  totalità  configurata  intorno  al  simbolico,  al  visibile,  al  biologico  o  al  neuronale,  ecc.  In  questo  tutto,  o  meglio  nel  nome  di  questo  tutto  è  racchiuso  il  carattere  specifico  del  genere  umano:  la  capacità  di  autorappresentarsi,  rappresentando  e  muovendosi  nel  mondo.  Non  si  tratta  di  un  centro,  di  un  punto,  di  un  dato,  ma  di  una  determinazione  complessiva che permette di riconoscere il perdurare di determinati meccanismi anche 

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nel momento in cui si perdono, si recidono, si disattivano parti dell’uomo. Ma la stessa  resistenza di invarianti, o il condensarsi di caratteri acquisiti ha sempre per così dire uno  sfondo pubblico, più che personale. La stabilizzazione di ogni configurazione dell’umano  è risultato di quel gioco di specchi tra passato e presente, tra individuo e individuo, tra io  e altro da sé che testimonia e dà forza a un patrimonio comune, transindividuale prima  ancora che interpersonale o comune. Nel disciplinamento che ha prodotto l’incivilimento  e  l’evoluzione  del  genere  umano  agisce  sempre  una  complessa  dialettica  tra  norme  abitudinarie,  accettazione  di  nuove  discipline,  adattamenti  a  nuovi  ordini:  nulla  viene  cancellato  e  nulla  assunto  in  maniera  assolutamente  neutrale.  In  fin  dei  conti  che  sia  distonica,  armonica,  trasversale,  accumulativa  la  natura  umana  non  può  essere  determinata  che  come  una  totalità  delineata  da  una  serie  di  variabili  che  giocano  nel  tempo, nella storia, nello spazio, nel comune e nel personale. Può essere detta invariante  solo questa struttura a raggiera dei processi di individuazione umana8. In questo senso  ogni  generalizzazione  non  può  che  operare chirurgicamente,  eliminando  e  perdendo  in  tal modo parti che non possono essere sostituite o eliminate senza lasciare una ferita e  un  difetto  di  conoscenza.  D’altra  parte  anche  arrendersi  al  particolare  comporta  un  difetto di visione che emerge non appena ci si soffermi sulla legittimazione di ogni teoria,  che  tende  a  privilegiare  qualcosa  mettendo  in  subordine  altro  –  il  corpo  sulla  mente,  l’interno  sull’esterno,  ecc.  –  svelando  subito  il  non‐detto:  l’istanza  alla  compiutezza  di  ogni procedimento conoscitivo dell’uomo. Rimane in definitiva il desiderio o la volontà di  sapere dinanzi a quella che vorremmo definire una costellazione in movimento.  

In  ogni  volto  umano  si  rivela  la  natura  umana,  ma  non  in  ciascun  volto  in  maniera  assoluta,  né  generica.  La  risposta  alla  domanda  allora  non  può  che  essere  di  carattere  etico, nel tentativo di mantenere fermo quell’intervallo che l’uomo sempre è in termini  storici, temporali, psicologici, sociali: lì dove l’uomo risponde a se stesso di se stesso, lì  dove si canalizza la spinta all’assolutizzazione e alla sicurezza nell’itinerario complesso e  articolato  vissuta  sin  dall’infanzia.  Lì  dove  si  dischiude  un  mondo  nella  misura  in  cui  emerge con forza il desiderio, lì dove conoscere se stessi non può prescindere dalla sfera  del  riconoscimento  dell’altro.  Tutto  questo  però  non  può  essere  solo  affidato  alla  osservazione o a procedimenti definitori, ma richiede lo sguardo arrendevole e pacificato 

8  N.  Chomsky  –  M.  Foucault,  Della  natura  umana.  Invariante  biologico  e  potere  politico  (1994),    tr.  it. 

DeriveApprodi, Roma 2005. 

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di  chi  ha  imparato  a  farsi  domande  più  che  a  darsi  risposte,  sapendo  che  la  risposta  è  sempre affidata a quell’immagine distorta in cui l’uomo, cercando se stesso trova altro,  altri, nel proprio presente il passato, il futuro, in un continuo divenire il cui dato è il poter  essere altrimenti. 

                                                   

ROSSELLA BONITO OLIVA insegna Filosofia Morale presso l’Università degli Studi di Napoli – L’Orientale 

 

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