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IL CONSENSO INFORMATO (IL TEMPO DELL’INFORMAZIONE E QUELLO DEL CONSENSO), IL RIFERIMENTO ALLE LINEE GUIDA E LA COMPILAZIONE DELLA CARTELLA CLINICA

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TAGETE N. 2 GIUGNO 2004 ANNO X

IL CONSENSO INFORMATO (IL TEMPO DELL’INFORMAZIONE E QUELLO DEL CONSENSO), IL RIFERIMENTO ALLE LINEE GUIDA E

LA COMPILAZIONE DELLA CARTELLA CLINICA

Dr. Pietro Tarzia*

Occorre premettere, in primo luogo, che è ben risaputo che quella medica, tra le attività professionali, risulta forse la più rischiosa, poiché incide direttamente su beni primari, quali la vita e la salute psico-fisica.

Infatti, fino ad alcuni decenni fa, le azioni civili e/o penali per eventuale

responsabilità professionale erano molto sporadiche.

L’ultimo decennio ha visto, invece, una netta inversione di tendenza, risultando ormai “routinarie” azioni legali verso medici per un atto omissivo o commissivo colposo.

I processi contro i medici sono ormai circa 12.000/anno e nell’ultimo decennio le Compagnie Assicuratrici hanno introitato circa 250 miliardi/anno di vecchie lire in premi, ma ne hanno pagati circa il triplo in risarcimenti.

Dal CED della Corte di Cassazione risultano, infatti, 0,67 sentenze/anno nei processi contro medici nei 40 anni fra il 1950 ed il 1990 e 3,9 sentenze/anno nei 10 anni compresi fra il 1991 ed il 2000.

Questo incremento patologico del contenzioso giudiziario ha notevolmente influenzato, in senso peggiorativo, il rapporto medico – paziente, che dovrebbe basarsi su solidi presupposti di fiducia; ciò ha determinato un atteggiamento di autodifesa da parte del medico stesso.

Nasce pertanto la cosiddetta “medicina difensiva”, fatta di protocolli terapeutici, iter diagnostici standardizzati, sfilze di esami di routine (medicina difensiva positiva) o nell’evitare pazienti o trattamenti ad alto rischio (medicina difensiva negativa), con lo scopo di ridurre la propria esposizione al rischio di accuse di

“malasanità”.

Dopo questa breve premessa, si vuole evidenziare come, nell’esercizio della professione sanitaria, oltre alle molteplici e diverse cause di natura prettamente

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medico – chirurgica, che hanno visto e vedono ancora coinvolto il medico in casi di presunta malpractice, vi sono, anche, altri aspetti di natura burocratica, che precedono la fase diagnostica e/o terapeutica, i quali, ugualmente, sono stati e sono a tutt’oggi, motivo di causa per una presunta colpa professionale.

Tra queste, primaria importanza viene data ai vizi del consenso all’atto medico.

La necessità di munirsi preventivamente del consenso al trattamento medico, comparve formalmente per la prima volta in America nel 1914, allorché, in una famosa sentenza del giudice Cardozo, si affermò testualmente che:

“… ogni essere umano adulto e sano di mente ha diritto di decidere ciò che sarà fatto sul suo corpo e che un chirurgo che effettua un intervento senza il consenso del suo paziente commette un’aggressione per la quale egli è perseguibile per danni”

.

La necessità del consenso all’atto medico si affermò nel secondo dopoguerra e viene fatta risalire al cosiddetto “Codice di Norimberga”, ovvero a quella sentenza che condannò i medici nazisti implicati nelle sperimentazioni nei campi di sterminio tedeschi. In tale sentenza, i giudici dichiararono esplicitamente che tutti coloro che partecipavano a sperimentazioni mediche dovevano esprimere il loro consenso “volontario”.

In giurisprudenza si è segnalato più volte l’obbligo del medico di prestare le cure nel rispetto dell’autonomia del paziente, ma si è trascurato di chiarire il fondamento giuridico di tale obbligo e le conseguenze collegate a una sua eventuale violazione.

In generale, e in assenza di una specifica legislazione concernente gli atti medici, la giurisprudenza fa usualmente riferimento all’art. 50 del codice penale che afferma la non punibilità delle lesioni fisiche provocate con il consenso della persona che può validamente disporne:

“Consenso dell’avente diritto: “non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, con il consenso della persona che può validamente disporne”

.

Allo stesso tempo, è da notare che gli atti di disponibilità del proprio corpo non possono essere ritenuti pienamente liberi per il codice italiano e sempre ammissibili, neppure in presenza del consenso dell’avente diritto (Art. 5 c.c.:

“Atti di disposizione del proprio corpo”: “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume” ed

Art. 579 c.p.

: “Omicidio del consenziente”: “Chiunque cagiona la morte di un uomo, con il consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni”

.

Il citato art. 5 del codice civile è importante perché consente l’effettuazione di trattamenti sanitari diagnostici e curativi entro certe limitazioni, non solo per il

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medico ma anche per il paziente, perché anche per quest’ultimo esistono beni non disponibili.

L’obbligo per il medico di munirsi del valido consenso della persona assistita trova, inoltre, riscontro nella Carta Costituzionale.

Infatti, l’art. 32 della Costituzione afferma al secondo capoverso che

“…

nessuno può essere sottoposto a trattamento sanitario se non per disposizione di legge”

.

Con l’art. 13 della Costituzione, inoltre, viene sancito che la

“libertà personale è inviolabile”

.

Anche, il codice di deontologia medica, dal canto suo, pone in particolare rilievo questi principi nella sua attuale formulazione del 03.10.98 dall’art. 30 all’art. 35.

Il problema dell’informazione e del conseguente consenso, quindi, rappresenta il centro del complesso rapporto medico - paziente.

Troppo spesso, l’informazione è stata interpretata come finalizzata a tutelare il medico da successive citazioni in giudizio.

L’informazione al paziente deve essere intravista come parte integrante e preliminare del processo curativo: in altre parole non è un momento neutro ma un intervento terapeutico a tutti gli effetti e forse più che di informazione si dovrebbe parlare di “comunicazione”.

L’informazione va, inoltre, fornita dallo stesso sanitario che dovrà effettuare la prestazione professionale ovvero da un suo delegato che abbia comunque una piena conoscenza del caso concreto.

L’informazione, quindi, deve essere:

1. semplice, perché il paziente non è generalmente un esperto di conoscenze mediche;

2. personalizzata, cioè deve essere adeguata al livello di cultura dell’assistito;

3. deve esaudire tutte le richieste della persona assistita.

Nel nostro ordinamento giuridico non vi è una norma esplicita che imponga una forma particolare di espressione del consenso (orale o scritta), per cui, il consenso può in alcuni casi essere considerato implicito nella stessa richiesta di prestazioni d’opera, quando si tratti di prestazioni esente da rischi o scevre di controindicazioni.

Al contrario, per il medico che dovrà effettuare degli esami invasivi o interventistici, magari con l’utilizzo del mezzo di contrasto, o per il chirurgo che si appresta ad effettuare un intervento, il consenso deve essere sempre richiesto ed ottenuto in forma esplicita. In pratica alla persona assistita viene consegnato

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accuratezza per renderlo maggiormente consapevole della natura delle prestazioni da effettuare.

Lo strumento del consenso dovrebbe permettere al medico, oltre che una adeguata valutazione delle principali funzioni cognitive dell’assistito, la possibilità di far pervenire il paziente al convincimento libero che l’intervento terapeutico proposto è necessario.

In definitiva perché si parli di consenso immune da vizi occorrono i seguenti requisiti:

- la maggiore età della persona assistita, o, nel caso del minore d’età:

consenso dei genitori; nel caso di dissenso dei genitori: autorizzazione da parte dell’Autorità Giudiziaria;

- la capacità psichica del paziente. Per essere valido il consenso deve provenire da persona in possesso di una normale capacità di intendere e volere. Nel caso di incapacità anche transitoria, il consenso deve essere prestato da un familiare o da chi ne è il legale rappresentante.

Non sussiste vizio del consenso quando il procedimento dell’informazione e della volontà dell’assistito si è correttamente svolto, cioè:

- vi deve essere la buona fede dei contraenti (ad esempio, il paziente non deve essere stato tratto in inganno da dichiarazioni false del medico, ecc.);

- la persona assistita può revocare il consenso in qualsiasi momento del rapporto;

- il consenso non deve essere stato viziato da una scorretta informazione da parte del medico circa la diagnosi o la prognosi e il programma terapeutico;

- vi deve essere rispetto del protocollo diagnostico e terapeutico concordato con il paziente, in tal modo che il sanitario non è abilitato a eseguirne un altro, non preventivato né consentito, soprattutto se al di fuori dello stato di necessità;

- non devono sussistere vizi sul modo in cui il consenso è stato prestato (forma implicita o esplicita);

- non devono sussistere vizi sull’interpretazione dello stesso, in pratica non vi deve essere nessuna discordanza tra la volontà del paziente e quanto dichiarato o sottoscritto dal medico.

Il medico, quindi, ha l’obbligo di chiarire, e ciò nel suo interesse, quali siano la natura delle sue prestazioni, le finalità, i rischi che sono ad essa connessi, le eventuali complicazioni, le alternative, trasferendo mediante la richiesta di un consenso manifestato, l’espressione della decisione finale da se stesso al

proprio assistito.

La mancanza del consenso o la sua non validità possono avere pesanti

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conseguenze giudiziarie, quali ad esempio: il risarcimento del danno ex art.

2043 c.c., nonché la sanzione penale per omicidio e lesioni colpose.

Quindi, per essere giuridicamente valido e immune da vizi, il consenso della persona assistita deve qualificarsi come:

Personale Reale Informato Valido Attuale

Tenuto conto delle norme vigenti già citate, si possono individuare ora quattro fattispecie in base alle quali una persona può essere sottoposta a trattamento medico, senza la manifestazione del preliminare valido consenso:

1. in caso di rischio immediato per la vita della persona (Stato di necessità) senza che vi sia la possibilità di spiegare la situazione o che il paziente sia in grado di comprenderla. In questo caso il rifiuto al trattamento è considerato non efficace (art. 54 c.p.);

2. malattie mentali (art. 33 Legge n. 180/78): il legislatore pur affermando che il malato mentale non può essere sottoposto a trattamento contro la propria volontà, ammette la possibilità, sotto particolari garanzie di legge e come evento straordinario, di trattamenti sanitari obbligatori;

3. vaccinazioni obbligatorie (Legge n. 292/63; Legge n. 51/66; Legge n.

165/91: Obbligo degli interventi di immuno-profilassi attiva della difterite, del

tetano, della poliomielite e dell’epatite B;

4. malattie sessualmente trasmissibili, tubercolosi e lebbra (Legge n. 897/56);

Detto ciò, viste le caratteristiche e l’importanza del consenso, non si può non stigmatizzare il comportamento di quelle strutture sanitarie o di quei professionisti che disbrigano le delicate operazioni del consenso facendo apporre al paziente la firma sotto uno stampato generico senza alcun elemento di personalizzazione dell’informazione resa. Trattasi di un consenso non valido sotto ogni profilo: morale, deontologico e, soprattutto, giuridico.

L’auspicio è che siano sempre preponderanti le parti del modulo riempite a mano.

Un elemento di innovazione viene oggi spesso invocato nell’impiego, a questo fine, della stessa cartella clinica quale “diario di bordo”.

Nonostante queste ben note premesse, spesso si nota nei clinici una insofferenza verso questi ed altri aspetti medico – legali della professione medica, giudicati come una sorta di “Fastidi burocratici” da disbrigare nella

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Chi ha sufficiente dimestichezza in tema di colpa professionale, sa bene, però, che 10 – 15 minuti “persi” con il paziente sarebbero in grado di migliorare notevolmente non solo il rapporto medico – paziente, ma anche l’andamento delle denuncie per responsabilità professionale.

Allo stesso tempo, a mio avviso, però, il vero nodo da sciogliere, è quello di individuare un punto di equilibrio, capace di bilanciare interessi contrapposti; e proprio la mancanza di un corpus normativo, specificamente riferito alla professione medica, che accentua ancora di più la delicatezza e la difficoltà del consenso informato.

In proposito mi associo all’unanime richiesta di un intervento legislativo che, preveda una disciplina ad hoc, sollevando la dottrina e la giurisprudenza dallo sforzo di adattare il codice; infatti, la soluzione di questo particolare problema, che ha portato a condanne penali per lesioni personali dolose, omicidio colposo o per omicidio preterintenzionale, non potrà passare unicamente attraverso un aumento della burocratizzazione degli atti medici.

Un breve cenno merita, poi, l’applicazione oramai consolidata delle Linee – Guida.

Queste vengono riconosciute come strumenti di comunicazione ed informazioni vitali e dinamici redatti allo scopo di aiutare il medico pratico a fornire la propria risposta terapeutica alle circostanze cliniche del paziente specifico.

In Italia, è stato avviato il Programma nazionale per le linee guida (PNLG) che ha come scopo la preparazione, la divulgazione, l’aggiornamento e l’implementazione delle linee guida.

I molteplici prodotti delle PNLG comprendono linee guida vere e proprie, documenti su argomenti specifici, che vanno dagli interventi preventivi o terapeutici a quelli di diagnosi e riabilitazione.Ci si può chiedere se è corretto ritenere automaticamente in colpa il medico che si sia discostato nella sua pratica clinica, dalle linee guida, che rappresentano delle <<raccomandazioni di comportamento clinico>> per trattare nel modo migliore il malato affetto da determinate malattie.

La risposta al suddetto quesito non può che essere negativa, anche nell’ipotesi di linee guida correttamente elaborate, adeguatamente diffuse e generalmente condivise nella pratica.

Le linee guida fanno, infatti, riferimento a un paziente astratto, non a quel

<<particolare>> paziente che il medico deve in concreto curare.

Voglio, inoltre, precisare che le suddette linee - guida non sono delle leggi, bensì delle linee di riferimento, per cui devono essere seguite, ma non come

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legge assoluta. Proprio, perché, sono linee guida e non legge, devono essere

applicate a seconda delle circostanze.

La dottrina medico – legale, pur affermando che per valutare la condotta professionale dei medici si deve fare riferimento <<anche>> a questi documenti, sottolinea correttamente <<il valore relativo>> delle linee guida

<<per i singoli casi>>.

Le linee guida devono quindi essere utilizzate a fini medico – legali <<con prudenza ed equilibrio>>, tenendo presente la discrezionalità tecnica dell’agire del medico nel singolo caso.

Bisogna, quindi, rimarcare tale stato di cose: le linee guida non hanno un’autorità legale specifica e non sono in alcun modo legalmente vincolanti.

Infatti, la responsabilità della scelta del trattamento da praticare compete al medico che ha in cura il paziente e, quindi, spetta al sanitario verificare se nel caso di specie si deve seguire l’indicazione contenute nelle linee guida ovvero è opportuno discostarsene a ragion veduta.

Nonostante ciò, le stesse possono avere un significato legale potenziale in quanto esse rappresentano lo stato dell’arte e, come tali, aiutare i legislatori nella regolamentazione di attività cliniche o medico – legali controverse, ricordando, però, che la responsabilità professionale presuppone l’accertamento non solo della colpa medica, ma anche della sussistenza del rapporto di causalità tra comportamento del sanitario ed evento dannoso per il paziente.

Un altro aspetto da considerare, che talvolta potrebbe essere causa di una presunta “malpractice” è quello della compilazione della cartella clinica.

Tale documento sanitario rappresenta tutt’oggi <<una vistosa lacuna della legislazione sanitaria italiana, povera di precisi riferimenti >>.

Molte sono le definizioni di cartella clinica formulate; la più frequentemente utilizzata in letteratura è quella riportata nella slide.

Non può mancare un breve accenno alle fonti normative, che risalgono ai primi del secolo, che impongono la documentazione della degenza, e fan carico al Primario (R.D. 30 settembre 1938, n. 1631), della regolare tenuta sotto la propria responsabilità delle cartelle cliniche e dei registri nosologici, nonché (D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128) della loro conservazione fino alla consegna all’archivio centrale, fino cioè alla attribuzione di ogni responsabilità al direttore sanitario cui compete ogni vigilanza in materia.

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La quantità di informazioni che la cartella clinica contiene (o dovrebbe contenere) sul paziente e sull’iter clinico ne fanno, almeno teoricamente, il più completo strumento del sistema informativo sanitario ospedaliero, in grado di fornire i più concreti elementi alle valutazioni a posteriori dell’attività svolta, sia epidemiologiche che medico – legali.

La sua redazione deve soddisfare precisi requisiti formali e sostanziali, pur non esistendo precise disposizioni circa la regolare compilazione tecnica.

Tra i requisiti formali e sostanziali spiccano la veridicità, la completezza, la correttezza grafica e contenutistica e la relativa chiarezza.

Anche se, allo stato attuale, come già detto, non vi è una normativa che stabilisca come debba essere compilata una cartella clinica, in un eventuale contenzioso giudiziario, il CTU o il Perito, nell’ipotesi di un reato colposo nei confronti del medico andrà ad esaminare il contenuto di tale documento; è importante, quindi, forse più per una maggiore tutela del medico, che questi riporti nella maniera più precisa possibile, tutto ciò che fa parte sia della storia clinica del paziente, sia dell’esame obiettivo e sia del diario clinico, menzionando gli esami strumentali e/o di laboratorio, ovvero la terapia prescritta al paziente, tutto ciò al fine di evitare, in un eventuale contenzioso, discordanze medico - legali.

Nell’ottica dell’assistenza globale al paziente, è auspicabile che in una parte di tale documento sia previsto, anche, una vera e propria sezione che contenga una descrizione delle informazioni date al paziente circa la sua malattia e la terapia.

Concludendo questa mia disamina su quegli aspetti, di natura esclusivamente burocratica della professione medica, si auspica che, anche, in Italia, come già avvenuto in altri paesi europei (Francia e Belgio), venga emanata una normativa che regolamenti i casi di presunta colpa medica.

Il nostro Legislatore potrebbe conformarsi al modello francese e, precisamente, alla Legge n. 303 del 04.03.2002; tale disposto normativo stabilisce, tra l’altro, anche l’obbligo del consenso informato preventivo, e l’obbligo dell’informazione successiva all’atto medico, cioè, il professionista ha l’obbligo di informare il paziente sulle eventuali complicanze delle cure effettuate, e degli eventuali danni sopraggiunti.

Dopo questa mia prospettiva

de iure condendo

, in attesa di una sperata normativa che regolamenti tale settore, stando così le cose, è importante che il medico, oltre ad un ottima preparazione clinica, abbia, anche, una certa esperienza medico – legale, nel proprio bagaglio culturale.

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La cosiddetta “prevenzione medico – legale” è importante al fine di evitare che il suddetto sanitario venga coinvolto in un caso di colpa medica; solo così, si potranno evitare, o quanto meno ridurre ancor di più, quei casi di

“malpractice” medica che potrebbero vedere coinvolto qualsiasi sanitario.

Allo stesso tempo, concludo questo mio intervento, ammonendo quei tecnici, incaricati dal Magistrato di eseguire consulenze o perizie medico–legali, che si pongono a caccia dell’errore, cercando di individuare prove di colpevolezza in dettagli che, seppure valorizzabili seduti al tavolo di lavoro, possono comprensibilmente non emergere allorché il medico si trovi ad operare in condizioni di urgenza o, peggio ancora di emergenza, e dunque non a mente sempre lucida e con l’ansia di risolvere immediatamente la gravità di un quadro clinico.

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