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(1)Capitolo I° Il cinema politico italiano

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Academic year: 2021

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Capitolo I°

Il cinema politico italiano.

Definire il cinema politico italiano è impresa decisamente ardua, un po’

per la scarsità di contributi al riguardo ma soprattutto per il carattere assolutamente eterogeneo del fenomeno: non è possibile stabilire delle coordinate spazio-temporali precise né tanto meno definire un canone di scelte stilistiche o tematiche ricorrenti. Spesso, la letteratura relativa a questo argomento distingue tra “cinema dell’impegno” e “cinema politico”, facendo riferimento con questa seconda definizione ad un tipo di racconto più direttamente collegato alla cronaca politica o all’indagine storica comunque riletta nelle sue relazioni con il contesto attuale. Questo è senza dubbio vero: il cinema politico è tale proprio

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perché rimanda, in modo più o meno esplicito, ad una riflessione sulle problematiche in atto, anche laddove il punto di partenza sia un avvenimento che già appartiene alla storia: è il caso, ad esempio, di Francesco Rosi che, con Salvatore Giuliano del 1962, realizza un film sulla Sicilia degli anni 1943-1950, mettendo in evidenza i complessi rapporti tra la mafia, il banditismo, il potere politico e il potere economico che si vanno creando in quegli anni e suggerendo una riflessione sulle influenze e i legami di continuità con il presente. Il film di Rosi, proprio per questi motivi, è considerato l’iniziatore della tendenza politica del cinema italiano. Sandro Zambetti, a questo proposito, sostiene che Salvatore Giuliano è il film che per primo ha compiuto “ (…) il gran passo dal sociale al politico (…) [collegando]

direttamente la storia all’attualità. (…) Su questa strada troviamo altri film dello stesso periodo, (…) ma in “Salvatore Giuliano” va senz’altro riconosciuta l’opera che segna più chiaramente ed organicamente la svolta politica del cinema italiano (…)1”.

Tra l’altro Rosi adotta uno stile documentario di ascendenza neorealista, intervenendo il meno possibile sull’immagine e ponendosi

1Sandro Zambetti, Francesco Rosi, La Nuova Italia, Firenze, 1976.

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essenzialmente come mezzo attraverso il quale la realtà si dà, senza ulteriori manipolazioni. Dunque, un film politico che “mostra”, attraverso uno sguardo oggettivo, mimetico, un momento della storia italiana e che sottende una riflessione sulle implicazioni nel contesto sociale degli anni Sessanta. Se Rosi è l’illustre capostipite, diremo però che lo è di uno specifico filone della più generale tendenza politica, ovvero del film di stampo giornalistico: recuperando la lezione di Bazin2, diremo che appartiene a quella schiera di registi che “credono

alla realtà” e che la restituiscono per

quella che è, senza in alcun modo modificarla o intervenire per commentarla.

All’opposto sta la scelta di Elio Petri di raccontare attraverso una modalità espressionistica, ovvero di privilegiare, esasperandolo, il dato emotivo della realtà rispetto a quello percepibile oggettivamente: la realtà di Petri è quella distorta dalla percezione malata dei suoi protagonisti, è la realtà restituita per come è stata vissuta, sentita, interpretata. Egli “crede nell'immagine”, nella sua “plasticità”, nella

2Andrè Bazin, Che cos'è il cinema?, Garzanti, 1999.

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manipolazione del dato oggettivo, nella “rappresentazione” oltre che nella “cosa rappresentata3”.

Linguaggi diversi, scelte narrative ed ideologiche spesso distanti. Il cinema politico italiano nasce dall’urgenza condivisa da taluni autori di riflettere sul contesto politico e sociale nel quale vivono. Esattamente come accadde per il neorealismo, non costituiscono un gruppo né tanto meno un movimento: è una tendenza diffusa che ciascuno rielabora a suo modo, con un proprio specifico linguaggio. A questo proposito, Lucia Cardone sottolinea che “(…) considerate queste premesse, il cinema politico non può che rivelare la sua natura di fenomeno ambiguo e affermarsi fin dall’inizio come “genere debole4”. Se è

3 Ecco cosa dichiara Bazin a questo proposito: “Per “immagine” intendo, molto genericamente, tutto ciò che alla cosa rappresentata può aggiungere la sua rappresentazione sullo schermo. Si tratta di un apporto complesso che può però essere sinteticamente ricondotto a due gruppi di fatti:

la plasticità dell'immagine e le risorse del montaggio (…).Nella plasticità bisogna comprendere lo stile della scenografia e del trucco, entro certi limiti anche quello della recitazione, ai quali si aggiungono naturalmente l'illuminazione e infine l'angolazione che completa la composizione”.

(Andrè Bazin, Che cos'è il cinema?, Garzanti, 1999, pag.75)

4 Lucia Cardone, Elio Petri, un regista scomodo, Il Campo, 1999.

Per meglio comprendere la definizione di “genere debole” rimando alla formalizzazione che Cardone realizza a partire dallo schema binario di Hjelmslev ,chedefinisce il segno come risultante di un rapporto segnico ( o funzione segnica) tra due livelli, quello dell’espressione e quello del contenuto. La medesima relazione tra piano formale e organizzazione tematica ci aiuta a definire il

“genere” e, nel nostro caso, ad individuarne la struttura discontinua. Ciascuno dei due piani dello schema è a sua volta suddiviso in due “strata”: la sostanza e l a forma. Avremo dunque la sostanza del significante (ad esempio la sostanza fonica, articolatoria) e la forma del significante (ad esempio le regole paradigmatiche e sintattiche), la sostanza del significato (ad esempio aspetti emotivi o nozionali) e la forma del significato (ovvero l’organizzazione formale dei contenuti).

Abbiamo già potuto osservare che il cinema politico è tale poiché affronta e sviluppa argomenti legati all’attualità del Paese o momenti storici significativi proprio per le relazioni che intrattengono con la medesima attualità: cronaca e storia sono dunque la materia del significato.

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corretto rintracciare nell'approccio “investigativo” dei film in questione un elemento comune – e tale approccio è senza dubbio il più adatto ad una tipologia di film che si propone di raccontare l'Italia e le sue profonde contraddizioni e di gettare luce su relazioni e dinamiche spesso oscure - è altresì vero che tale struttura si declina in modi assai diversi: l'inchiesta si sviluppa nella doppia articolazione di reportage giornalistico e racconto poliziesco, modalità narrative differenti che ci riportano al discorso circa l'intervento dell'autore nel film e la sua volontà di palesarsi, indirizzando o condizionando il punto di vista dello spettatore, manipolando l'immagine o intervenendo a livello del montaggio, ovvero all'opposizione bazianiana di cui sopra.

Preso atto della sostanziale ambiguità del fenomeno e della discontinuità delle sue manifestazioni, osserviamo dunque che è possibile individuare due “filoni” principali, e i rintracciarne gli iniziatori nelle figure di Francesco Rosi ed Elio Petri.

Ma è importante sottolineare anche che, in un periodo storico tanto ricco di trasformazioni politiche e sociali, l’impegno di taluni registi va

La forma del significato è invece definita dalla “struttura semantica profonda che organizza il senso” ovvero dall’inchiesta, nella doppia articolazione di reportage giornalistico e racconto poliziesco. La materia dell’espressione è invece costituita dai cinque ordini di significanti di cui comunemente si serve il cinema sonoro( le immagini, le tracce scritte, le voci, i rumori e la musica).

Infine la forma del significante ovvero la modalità espressiva che l’autore sceglie di adottare.

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al di là dell’adesione più o meno rigorosa alle soluzioni narrative dell’uno o dell’altro filone, al di là di qualsiasi possibile classificazione e diventa urgenza che percorre trasversalmente generi e sottogeneri assai diversi tra loro. A questo proposito Maurizio Grande sostiene che

“fare un’opera politica non significa rappresentare un determinato momento politico, bensì elaborare il politico come senso e come atto dell’opera, al di là di un’immediatezza di uno scopo politico particolare, che viene affidato all’opera di propaganda5”.

Senso politico e atto politico: “Il senso politico di un film può risiedere nello smascheramento di una situazione, nella critica ad un modo di concepire la vita privata e pubblica, nella messa in questione di equilibri ideologici consolidati, nell’invalidazione di credenze e saperi comuni, e infine nella messa in crisi del patto convenzionale che regola i rapporti tra l’opera e il fruitore (è il caso dell’invalidazione della “immedesimazione”passiva dello spettatore con i personaggi e con la finzione drammatica provocata dalle tecniche dello straniamento brechtiano a fini critico-politici)6”. Proprio a proposito dei rapporti di fruizione di un’opera d’arte, individuiamo invece come

5 Maurizio Grande, Eros e politica,Protagon Editori Toscani, Siena, 1995, pag.23.

6 Maurizio Grande, Op. cit., pag.24

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“atto politico” il progetto del cinema sperimentale indipendente, nato nella seconda metà degli anni Sessanta, di veicolare contenuti rivoluzionari attraverso strategie comunicative sostanzialmente nuove, lontane dalle forme codificate del racconto classico, e il rifiuto della dimensione industriale del cinema. Dedicherò ampio spazio a questo tipo di esperienze più avanti, laddove sarà necessario chiarire i motivi per i quali Elio Petri è stato metodicamente accusato dalla critica di aver accettato le condizioni dell’industria cinematografica e di avere, per questo motivo, rinunciato ad intervenire direttamente per boicottare il sistema. Dunque, due ambiti entro i quali si muove il cinema politico:

“l’ambito dei significati politici affidati ad un tema o a un discorso;

l’ambito dell’influenza politica affidata a un fare, al modo di concepire, comporre, usare un’opera in quanto appartenente alla sfera della prassi7”.

Un’analisi dei fattori strutturali e formali ci aiuterà ad evidenziare le differenze presenti tra i film facenti parte dell’uno o dell’altro ambito:

da uno scopo politico del film - sia questo sostenere una lotta ideologica attraverso moduli narrativi tradizionali oppure rifiutare

7 Maurizio Grande, Op. cit., pag. 16-

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qualsiasi “compromesso linguistico” e formulare un discorso totalmente anti-narrativo - ad un enunciato filmico che assume la cronaca politica come oggetto della rappresentazione, fino al contenuto politico di un discorso ovvero “il politico come senso”: (…) un contenuto che non può essere identificato e rappresentato se non

ricorrendo alle categorie del politico8”.

Per chiarire ulteriormente: “Il politico concerne la dimensione della vita pubblica nelle sue relazioni con il potere; politico non è tanto ciò che riguarda la società quanto la configurazione dei rapporti di potere

nella vita pubblica9”.

Ecco perché parlare di politicità a proposito di film come I pugni in tasca di Marco Bellocchio o Dillinger è morto di Marco Ferreri, per fare qualche esempio, così come a proposito dei film d’esordio dello stesso Petri: senza dubbio vicini alle tematiche dell’alienazione e dell’incomunicabilità, questi film raccontano l’uomo come prodotto sociale, la sua inadeguatezza e la sua mostruosità come risposta alle aberrazioni alle quali si è, suo malgrado, assuefatto.

A questo proposito Petri dichiara: “Per politico io intendo qualcosa

8 Maurizio Grande, Op. cit., pag. 24.

9 Maurizio Grande, Op. cit., pag. 18.

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che ha a che fare con l’antropologia (…) I pugni in tasca è stato il film di una generazione, quella del Sessantotto, che aveva dentro una rivolta culturale globale contro le strutture familiari e quindi contro tutto quello che attraverso le strutture familiari arriva nelle nostre coscienze, quindi contro le strutture della società. I pugni in tasca è politico come lo fu Ossessione. Nel 1942 Visconti svelava a tutti noi un’Italia completamente diversa da quella ufficiale, un’Italia di disoccupati, di disperati che si rifiutavano di vivere nei falsi valori imposti dal fascismo, nell’ottimismo, nell’obbedienza (…)Ossessione fu un manifesto culturale e politico,il manifesto di una generazione contro: Ossessione contro il fascismo, I pugni in tasca contro i suoi eredi10”.

Ne I giorni contati, film del 1962, invece, la crisi esistenziale di Cesare Conversi e il suo tentativo di tornare alla vita sottendono una riflessione ulteriore che verrà poi amplificata e articolata da La classe operaia va in paradiso: l’individuo ha sacrificato il suo tempo esistenziale al tempo lavorativo, e della sua vita senza lavoro non sa più che fare: “Era il primo film contro il lavoro. Era contro la produttività, nel ’62: sulla divisione che scorpora dal tempo

10 Aldo Tassone, Parla il cinema italiano, vol II, Il Formichiere, Milano, 1979-80, pag.274.

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esistenziale il tempo economico11”.

E il conflitto interiore che vivono i due esclusi, Cesare Conversi e Lulù Massa, rimanda al conflitto sociale in atto in quegli anni: le prime battaglie sindacali del 1962 e i fatti di piazza Statuto dello stesso anno, e le lotte operaie degli anni 1868-1973: “Si può dire che I giorni contati e La classe operaia va in paradiso affrontano il tema della divisione del lavoro nel mondo moderno dal punto di vista degli esclusi. I due film descrivono la “divisione” che dall’oggettività si proietta nell’escluso12”.

È, quest’ultima, una peculiarità del cinema di Elio Petri sulla quale rifletteremo a lungo in seguito e che ora mi limito ad accennare: al centro dell’interesse del regista c’è sempre e comunque l’individuo - il cittadino, l’operaio, l'impiegato - e il rapporto che instaura col potere, le scissioni interiori che si trova ad affrontare nel mettere in discussione questo stesso potere o il modello culturale che ne garantisce la sopravvivenza; l’inevitabile follia, risultato della trasgressione che ha compiuto e il bisogno di essere reintegrato nel sistema per sentirsi normale. Alla fine di ogni film, una sola domanda: ma il pazzo è chi ha

11 Aldo Tassone, Parla il cinema italiano, vol II, Il Formichiere, Milano, 1979-80, pag.240.

12Elio Petri in Jean Gili, Elio Petri, Facultè des Lettres et Sciences Humaine, Nice,1974, pag.37.

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saputo adeguarsi, chi ha smesso di stupirsi di ciò che di atroce accade intorno a noi, chi ha sviluppato un’insana indifferenza verso tutto e tutti o colui che ha trasgredito la norma, che ha messo in discussione un sistema che non può essere considerato giusto per il solo fatto di essere quello al quale siamo ormai abituati? Questo interrogativo pone l’accento sull’innegabile attualità del cinema di Elio Petri: è senza dubbio fondamentale contestualizzarne le opere ma è altrettanto vero che il suo interesse ad indagare la psiche umana e l’approccio antropologico-psicanalitico dei suoi film lasciano spazio a riflessioni tutt’oggi pertinenti.

Quest’ampia parentesi sugli elementi di politicità presenti in buona parte del cinema italiano dal dopoguerra in poi ha certamente complicato il tentativo iniziale di “definire” il cinema politico, di circoscriverne i tratti essenziali. Alfredo Rossi, autore di uno dei contributi più affascinanti sull’opera di Petri13, stabilisce due discriminanti per individuare i confini di un discorso prettamente politico, legato ad un impegno e ad una partecipazione civili, e per distinguerlo da un cinema che, pur appellandosi alle categorie del

13 Alfredo Rossi, Elio Petri, La Nuova Italia, Firenze, 1979.

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politico, rimanda al film d’autore: l’intrigo e l’italianità.

“(…)La politicità di tali film consiste nel contestare una realtà di potere, oggi, nel nostro Paese inscenandola come intrigo di potere e,

sottolineerei, intrigo italiano14

La messa in scena dell’apparato di potere come realtà “intrigata ed intrigante15” implica la considerazione che la scena “celi una verità svelabile, dicibile”: è “la verità del sociale nazionale16”, è il più ampio contesto nel quale taluni eventi si collocano, è il sistema che li produce e il modello culturale che li legittima. Perché l’enunciato politico rimandi ad una verità tanto vasta è necessario che diventi enunciato allegorico: l’inchiesta condotta su uno specifico intrigo è l’inchiesta da condursi su un più generico sfondo sociale.

Se l’inchiesta è dunque il modulo narrativo per eccellenza del cinema politico, Rosi e Petri, che di tale tendenza furono i principali esponenti, scelsero di applicare tale modulo ciascuno a suo modo: se il primo scelse la via dell’adesione alla realtà e del reportage giornalistico, Elio Petri, come abbiamo già sottolineato, fu iniziatore di un secondo filone, il politico-poliziesco, nel quale si impossessa dei moduli del racconto

14 Alfredo Rossi, Op. cit.,pag. 12.

15 Alfredo Rossi, Op. cit.,pag. 12.

16 Alfredo Rossi, Op. cit.,pag. 13.

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giallo, rielaborandoli in modo del tutto personale, addirittura stravolgendoli, per veicolare un discorso circa i complessi rapporti tra individuo e Potere, per spostare l’opposizione centrale nella “detection novel” – quella tra investigatore e assassino/colpevole – sul piano dell’interiorità dei personaggi dei quali mette in evidenza l’intima problematicità:“Siccome siamo fatti dentro un po’ come è fatto il mondo, un’investigazione sugli ambienti sociali e sull’oggettività diventa una raccolta dati sulla soggettività, un’autoinvestigazione17”.

Il cinema politico di Elio Petri.

“I miei sono film politici ma in un modo molto diverso da come lo sono i film di Rosi. Per me la rappresentazione non deve apparire imparziale, deve essere brechtiana, nel senso che l’elemento caricaturale – quello che Brecht chiama “rettifica”- deve essere addirittura interno alle strutture dell’immagine. Attraverso la rettifica del reale-naturalistico si cerca di demistificare il banale, cioè quella

17 Aldo Tassone, Op. cit., pag. 247.

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realtà quotidiana di cui tutti, per la forza dell’abitudine, per il peso schiacciante delle convenzioni, accettano le aberrazioni18”.

I numerosi spunti contenuti nella definizione che lo stesso Petri dà del suo discorso politico proprio a partire dalla distanza rispetto al cinema di Rosi, ci aiutano ad introdurre l’analisi delle peculiarità di tale enunciato: qui esposte in modo generico, tali peculiarità saranno in seguito indagate nella loro messa in pratica nei film oggetto del nostro studio.

Elio Petri ha spesso dichiarato di essersi avvicinato al cinema perché, all’epoca del suo esordio, quella era una delle poche professioni accessibili a chi, come lui, provenisse da una famiglia povera: come il jazz e come la boxe, anche il cinema era un’arte popolare, non elitaria.

Popolare anche perché concepito per raggiungere un pubblico il più vasto ed eterogeneo possibile, con il quale instaurare un rapporto dialettico, fosse questo finalizzato al semplice intrattenimento o ad un intento didattico. La scelta che Petri ha portato avanti per tutta la sua storia artistica di assecondare questa vocazione popolare del cinema e di farne uno strumento attraverso il quale veicolare un messaggio

18 Aldo Tassone, Op.cit., pag.273.

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politico che fosse in prima istanza comprensibile, ha provocato non poche reazioni di disapprovazione tra i critici, per i quali l’adozione di un linguaggio “consueto”- che poi così consueto non è - rimanda ad un’esigenza di commerciabilità piuttosto che di “popolarità19”.E l’ostracismo che Petri ha spesso subìto è stata la causa più diretta della superficialità con la quale troppo spesso è stato trattato.

La necessità di lasciarsi comprendere è, per il cinema di Petri, fondamentale perché funzionale al suo principale intento: creare consapevolezza nello spettatore, esplorare le contraddizioni dell’uomo e dei rapporti sociali nei quali è avviluppato, “demistificare il banale”, e alimentare il dibattito, nel tentativo di provocare un cambiamento, prima individuale e poi sociale: “A me interessa prima di tutto raccontare una storia che fornisca al pubblico,con intenti drammatici, degli utili elementi di riflessione. E quindi anche il linguaggio si piega un po’ anche a questa nozione di utilità20”.

Questa dichiarazione circa l'intento essenzialmente didattico del suo cinema ci rimanda direttamente alla citazione che apre il paragrafo e ai

19 Il dibattito a questo proposito è piuttosto articolato e ne daremo sintesi nel paragrafo sucessivo.

20 Aldo Tassone, Op.cit., pag. 251.

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principi della rappresentazione brechtiana ai quali Petri dichiara esplicitamente di ispirarsi.

Perchè tale rappresentazione possa essere davvero un luogo di cambiamento e consapevolezza, è necessario che lo spettatore assuma una posizione distaccata rispetto a ciò che sta osservando: il teatro non deve rapirlo in un sonno consolatorio, deve risvegliarlo. A partire dalla critica del teatro “drammatico”, che tende a far immedesimare lo spettatore nelle vicende dei personaggi, a farlo appassionare tanto da appannargli la lucidità di giudizio, Brecht teorizza un teatro nuovo, che sia anti-aristotelico, “epico”21, narrativo: l 'attore deve entrare e uscire dal personaggio, giudicarlo dall'esterno mentre lo interpreta, deve creare e smontare di continuo l'illusione per far riflettere sui casi mostrati sulla scena, che diventa, a sua volta, spazio significante, strumento per capire il mondo nel quale viviamo, con le sue sfaccettature contraddittorie, un'arma per cambiarlo.

La “giusta distanza” e la diversa prospettiva dalla quale osservare il reale permettono alle menti sopite di tornare a pensare: le cose che sembrano “normali” sono, in realtà, le assurdità alle quali ci siamo

21Il termine epico va inteso in senso aristotelico: sintetizza cioè le caratteristiche proprie di una narrazione di vicende (epos) che non è soggetta a quelle leggi di unità di tempo, di luogo e di azione essenziali invece – secondo l'estetica classica – per il dramma, per l'opera teatrale.

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gradualmente assuefatti, le aberrazioni divenute “usuali”. Sulla scia del drammaturgo tedesco, il cinema di Petri si propone di raccontare l'uomo moderno nel suo rapporto con i poteri economico-politico e giuridico proprio a partire da una rappresentazione deformata e straniante della realtà, affinchè lo spettatore possa percepirne le contraddizioni e le antinomie senza sentirsene partecipe. Il realismo di Petri, dunque, non ha nulla di fotografico: al contrario egli lavora sull'immagine perché sia essa stessa strumento di “rettifica” del reale- naturalistico, alterazione caricaturale, deformazione grottesca. Gli arditi movimenti della macchina da presa, che si avvicina tanto da rivelare ogni minimo dettaglio per poi allontanarsi all'improvviso, le zoomate strettissime sui volti, quasi a volerne rivelare i segreti nascosti22, le scenografie articolate, dense di richiami simbolici e di rimandi pittorici23 che suggeriscono soluzioni visive eccentriche, la “satira degli

22Christian Viviani, ad esempio, dice a proposito di A ciascuno il suo: “L'interesse del film deriva dal sorprendente contrasto tra la sua apparenza ordinata e la virulenza sarcastica della realizzazione che,con l'aiuto di zoomate assai violente,svela sordidi dettagli fisici, che bruscamente distruggono l'armonia di superficie della scena. L'esempio più sorprendente della tecnica di Petri si trova nel capovolgimento finale,acrobaticamente filmato al teleobiettivo e che riduce il matrimonio di Gabriele Ferzetti e Irene Papas a una pura apparenza, un semplice gioco sociale,dietro al quale si nascondono i peggiori compromessi e atti criminali”. (Christian Viviani, Elio Petri dans son milieu naturel, in Jean Gili, Elio Petri, Facultè des Lettres et Sciences Humaine, Nice, 1974, pag.126)

23 Elio Petri è stato un grandissimo appassionato di pittura e tale passione si è riversata nei suoi film, quando tramite la citazione diretta di una corrente artistica - ed è il caso di film come La decima vittima e Un tranquillo posto di campagna nei quali i riferimenti alla pop art sono evidenti- quando tramite la collaborazione con importanti pittori - ed è il caso di Domenico Purificato all'epoca dell'apprendistato al fianco di De Santis e soprattutto di Renzo Vespignani, suo amico di vecchia data e collaboratore per L'assassino, per il quale si occupò delle scenografie, I giorni

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oggetti24”, la recitazione straniante degli attori: tutto questo definisce l'espressionismo formale di Petri25 - o il suo “eccessivo protagonismo formale” nelle stroncature della critica - la rappresentazione iperbolica della realtà come esperienza vissuta e non come dato oggettivo:

“Il canone neorealistico imponeva abiti espressivi penitenziali, la realtà andava “rispettata”, diventava essa stessa canone, e io invece pensavo che essa fosse sempre da interpretare poiché la realtà è simbolo e metafora e non va mai ripetuta piattamente, schematicamente (…)Ero convinto che ognuno vivesse la realtà a modo suo e che quindi doveva restituirla come il suo spirito l'aveva vissuta26”.

Il ricorso al grottesco come procedimento espressivo consente a Petri di attivare l'effetto di straniamento di cui abbiamo detto: “Il grottesco non costruisce un mondo altro, un mondo fantastico, un mondo illusorio

contati e La proprietà non è più un furto, per i quali realizzò le acqueforti e i disegni su carta per i titoli di testa, e Le mani sporche, film per la televisione per il quale fu nominato consigliere artistico.Ma, al di là dei riferimenti pittorici precisi, la costruzione stessa delle immagini è indicativa di una sensibilità e di un interesse particolari nei confronti dell'arte in generale.

24 Alfredo Rossi, Op.cit.,pag. 49.

25“Lo stile del regista si caratterizza fin da subito per l'attenzione agli aspetti visivi, per la composizione ampia, per gli arditi movimenti di macchina da presa, che da un lato recano le tracce della scuola desantisiana e dall'altro partecipano del gergo che va diffondendosi negli anni Sessanta, di quella “esuberanza della scrittura” che dal principio del decennio si sta affermando come linguaggio comune”.( Lucia Cardone, Elio Petri, impolitico, ETS, Pisa, 2005,pag.30)

26 Goffredo Fofi, Il cinema italiano d'oggi 1970-1984 raccontato dai suoi protagonisti, Feltrinelli, Milano, 1984

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contrapposto a quello reale, pensato come sogno, quindi alternativa desiderata alla vita reale, o come incubo, cioè come possibilità paventata. Il grottesco rende altro ciò che è proprio, estraneo ciò che è familiare, lontano ciò che è vicino. Il grottesco è sempre realistico, ma il suo realismo è tale da diventare irreale,secondo una prospettiva onirico-favolistica o fantastico-orrida (…) il grottesco non costituisce un mondo possibile ma l'impossibilità del mondo reale27”.

Il tratto carico, eccessivo, caricaturale del linguaggio di Petri è segno di un realismo che si disfa in forme allucinatorie: la realtà di cui egli racconta è quella vissuta dai suoi personaggi - malati, impotenti, alienati - il cui volto è segnato dalle pulsioni negative che li attraversano e il cui corpo disfatto è il corpo della società che li ha resi tali28.

La maschera che questi personaggi indossano è ribalta e argine della

27Roberto De Gaetano, Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano, Bulzoni Editore, Roma, 1999.

28 Tale riflessione rimanda alla definizione delle due tipologie di grottesco: “Ai due estremi del trucco naturalista troviamo comunque la natura carica, o per le metamorfosi incessanti dell'interiorità, o per esaltazione dell'esteriorità: troviamo il corpo-grotta e il volto-maschera”.

Maurizio Grande definisce ulteriormente tale duplice natura del grottesco per mezzo di due immagini metaforiche: l'antro e il camerino.

“L'immagine dell'antro si riferisce al soggetto ripiegato su se stesso: il che è perfettamente visibile nel grottesco, dove abbiamo una proliferazione di rughe, di gobbe, di curve nel corpo, che si ripiega sulle sue cavità e che diviene una grotta. L'immagine del camerino si riferisce al fenomeno opposto, al punto di specularità simmetrico rispetto all'antro: il soggetto(...) è rovesciato all'esterno,esalta il volto col trucco, altera la faccia nella maschera, nell'immagine carica del suo carattere”.( M.Grande, Eros e politica, Protagon Editori Toscani, Siena, 1995.pag.68-69)

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pressione pulsionale che li devasta: non è dunque difficile intuire il motivo per il quale Petri ha scelto sempre di collaborare con attori di formazione accademica, uomini di teatro capaci di dare forma alla profonda umanità e consistenza psicologica dei suoi personaggi.

“L'attore della strada può servire per un gesto, per un'apparizione, ma quando occorre un contributo mentale, una psicologia, sono senz'altro per l'attore di teatro; l'attore della strada serve ai personaggi del neorealismo di ieri. Io cerco un contatto non con la realtà tout-court, ma con la realtà del personaggio, con la sua coscienza29”.

Elio Petri si è avvalso, nella maggior parte dei suoi film, di tre grandissimi attori, che considerava molto diversi l'uno dall'altro ma allo stesso modo “anti-naturalisti30”, dunque “brechtiani”: Randone, Mastroianni, Volontè hanno mirabilmente portato sulla scena quel campionario di personaggi nevrotici, scissi, alienati di cui il mondo del regista romano è popolato; quest'ultimo, a sua volta, ha saputo rileggerne ed interpretarne le peculiarità caratteriali, le doti, oltre che interpretative, umane al fine di raggiungere quell'effetto di straniamento che sta alla base della sua concezione di cinema. Ci sono

29 Gabriella Guidi, Elio Petri e i segreti delle coscienze, Rivista del cinematografo,n°3,1962.

30 “La concezione popolare dell'arte è antinaturalista. È il borghese che non vuole drammi, che non vuole vivere, soffrire, che vede la vita piatta”. ( A. Tassone, Op. cit.,pag.242)

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molte cose di Elio Petri che mi hanno affascinata ma, su tutte, c'è la sua infinita curiosità, il desiderio di capire, di scandagliare l'animo umano per comprenderne le dinamiche: è interessante osservare in che modo egli abbia saputo tradurre in elemento di forza per i suoi personaggi le fragilità dei suoi attori, le loro paure come uomini.

A proposito di Randone, protagonista de I giorni contati e de L'assassino e poi splendido cammeo nella maggior parte delle altre pellicole, per esempio, dichiara:“ [Randone] rappresenta la cultura borghese, non nel senso del potere o dell'establishment, perché è un uomo molto isolato, ha solo il potere della sua espressività,, della grandezza della sua arte.(...)Ne “I giorni contati”porta con sé questo assetto psicologico conservatore che viene frantumato dalla vicenda o dal modo di raccontarla e anche dal fatto di averlo obbligato ad impersonare un ruolo che non aveva mai interpretato, quello di un popolano (...)nel film c'è segno della sua angoscia di non sentirsi nei panni di un operaio, che è poi l'angoscia che provano tutti gli operai, che non si sentono affatto bene nei panni dell'operaio31”.

Allo stesso modo, rilegge la flemma di un Mastroianni pigro e sornione

31 A. Tassone, Op. cit.,pag.241

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come schermo “di una grande follia, di un'autodistruttività32 attraverso la quale l'attore, romano come lui e amico di vecchia data, conferisce spessore ai personaggi nei quali “si degna di rispecchiarsi33”.

Infine, Gian Maria Volonté, l'attore che, più di tutti, ha condiviso con Petri la convinzione che l'arte possa e debba essere strumento di cambiamento: non già l'art pouor l'art, l'arte fine a se stessa, ma l'arte come mezzo di intervento civile, come percorso di apprendimento, di svelamento della realtà. Come Petri, anche Volonté, che ad un certo punto del suo percorso artistico abbandona il teatro a favore del cinema, ha fiducia in un dispositivo che, per le sue caratteristiche tecniche, garantisce una comunicazione molto più ampia in termini di pubblico: torna il tanto osteggiato dalla critica concetto di “popolarità”, di comprensibilità dell'opera, di fruibilità della stessa. Nonostante il rapporto conflittuale, sfociato talvolta addirittura in rissa34, quando a

32 A. Tassone, Op. cit.,pag.242

33 A. Tassone, Op. cit.,pag.242

34 Pirro racconta che i due più di una volta litigarono sul set. Petri mal tollerava le continue provocazioni di Volonté, “la resistenza strisciante che esercitava sul set e fuori”,l'insofferenza con la quale sottolineava la sua disapprovazione verso posizioni ideologiche che non condivideva, come nel caso de La classe operaia va in paradiso: “ il suo era un borbottio continuo, un dissenso che manifestava soprattutto quando era chiamato a interpretare scene che riteneva polemiche nei confronti del sindacato(...)”. Anche in occasione delle riprese di A ciascuno il suo i momenti di tensione tra i due non furono pochi, addirittura arrivarono alle mani: “ Gian Maria aveva degi improvvisi sbalzi di umori politici(...)Esasperato dagli atteggiamenti polemici di Volonté, Petri, agitando un bastone, lo rincorse per tutto lo studio, Volonté scappava spaventato come un

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causa di posizioni ideologiche diverse quando per il brutto carattere dell'uno e dell'altro, i due seppero costruire una collaborazione intensa e duratura. Gian Maria Volontè ha interpretato magistralmente i personaggi più complessi del cinema di Petri, condividendone pienamente i presupposti ideologici e poetici:“Oltrepassando la misura di Sordi e Totò, scelse di interpretare personaggi reali di per sé inconfondibili, marcando la somiglianza fino all'esasperazione e sortendo per eccesso di naturalismo effetti opposti, voluti, di astrazione, disagio, paradosso. Di programmatico straniamento.

Cercava non tanto di avvicinarsi il più possibile fisicamente alla persona eminente, ma di esserla, di sostituirla fino a stravolgerla dall'interno, annullandola e confutando ogni traccia di familiarità35”.

Nell'ultimo capitolo di questo mio lavoro, dedicato all'analisi del film La classe operaia va in paradiso, ci soffermeremo più a lungo sulla figura e sulle immense capacità interpretative dell'attore milanese che, insieme a Randone e ad una giovanissima Mariangela Melato, ne è protagonista; concludiamo, invece, questo exursus sul cinema politico

bambino per quell'improvvisa ira finché Elio non urtò con violenza contro una sedia e si fratturò un dito del piede sinistro. Scoppiarono a ridere entrambi, ma non sul momento. Fu Gian Maria il primo a soccorrere Elio”.( Ugo Pirro, Il cinema della nostra vita, Lindau, Torino, 2001, pag. 42.)

35Anton Giulio Mancino, La maschera sociale, In AAVV, Gian Maria Volonté. Un attore contro, a cura di Franco Montini e Piero Spila, Biblioteca Universale Rizzoli, Roma, 2005,pag.62

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di Petri, rievocando le spesso troppo violente critiche che dovette subire e che ne provocarono, nel tempo, un doloroso isolamento.

Elio Petri e la critica.

Nel paragrafo precedente abbiamo spesso sottolineato con quale atteggiamento di disapprovazione la critica abbia, il più delle volte, accolto e commentato il lavoro di Petri. Possiamo, ad oggi, constatare quanto tale atteggiamento, generalizzato e generalizzante, abbia condizionato il giudizio su un autore pressoché dimenticato, a mala pena citato dalle letterature cinematografiche, sottovalutato nonostante - anche se sarebbe più corretto, nel caso di Petri, usare un complemento di causa piuttosto del concessivo - il grande successo di pubblico che i suoi film ottennero. Come giustamente osserva Alberto Barbera nell'introduzione al catalogo che ha accompagnato la mostra fotografica sull'autore allestita presso il Museo Nazionale del Cinema a Torino nell'autunno del 200736, se molti dei giudizi emessi dalla critica in quegli anni di radicalizzazioni ideologiche e poetiche, di

“estremismo stilcritico37”, sono stati rivisti e modificati, se “molti

36Petri Pegoraro Paola (a cura di), Lucidità inquieta. Il cinema di Elio Petri. Museo Nazionale del Cinema, Torino, 2007.

37Alfredo Rossi, Elio Petri, La Nuova Italia, Firenze, 1979.

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registi ingiustamente sottovalutati sono stati accolti nell'olimpo dei maestri e autori osannati oltre misura sono stati riportati ad una dimensione più confacente ai loro meriti reali38”, così non è stato per Elio Petri, al quale la critica non ha mai perdonato ciò che ha interpretato come una concessione alle strutture istituzionali finalizzata al successo commerciale: “(...) il plebiscito ottenuto presso il pubblico da molti dei suoi film più famosi fu inversamente proporzionale agli apprezzamenti di una critica che, con poche eccezioni, ne fece il bersaglio preferito di una battaglia ideologica dalle premesse alquanto discutibili, il prototipo di tutto quanto andava evitato al cinema in quel momento39”. Un atteggiamento della critica che si è smorzato nel tempo fino a diventare silenzio. Sono passati molti anni dalla scomparsa del regista e, con stupore, ho dovuto constatare che i testi a lui dedicati sono veramente pochi, come le righe nei manuali sulla storia del cinema italiano, che pure Petri, a mio parere, ha contribuito a raccontare. Scorrendo la bibliografia, si può inoltre notare che buona parte dei contributi monografici sul regista risalgono agli ultimissimi anni: il che da una parte ci fa ben sperare circa la possibilità

38Paola Petri Pegoraro, op. cit., pag.6

39Paola Petri Pegoraro, op. cit., pag.6

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futura di approfondirne e rivalutarne il lavoro, mentre dall'altra è ulteriore testimonianza di quanto lungo sia stato il silenzio tributato a Petri. Al contrario, gli articoli di rivista che ho potuto reperire nelle mie ricerche sono abbastanza numerosi e, a loro modo, utili per ricostruire le fasi fondamentali del dibattito sul cinema in quegli anni politicamente cruciali: se tali contributi non ci diranno nulla di nuovo né di positivo su Elio Petri, quantomeno ci aiuteranno a contestualizzarne il lavoro e ad apprezzarne la coerenza. In primo luogo, però, è necessario procedere ad un tentativo di schematizzazione che ci permetta di dipanare i fili di una matassa altrimenti troppo ingarbugliata. Quello della critica, nel periodo in questione, è un vero e proprio “labirinto” nel quale è assai difficoltoso orientarsi: a partire dai primi anni '60, infatti, si moltiplicano le riviste specializzate e, in particolare dal 1968, il dibattito sulle valenze politiche del cinema si fa sempre più articolato e combattivo. È utile, a questo proposito, distinguere tra tali riviste specializzate, nelle quali il cinema “viene considerato in sé come privilegiato oggetto di studio40”, e tutte quelle pubblicazioni che ospitano rubriche dedicate al cinema “considerato

40 Lucia Cardone, Elio Petri, un regista scomodo. La filmografia di Elio Petri attraverso l'analisi de La decima vittima, Il Campo, 1999, pag. 25.

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come un fatto di costume, come un momento della vita culturale41”.

All'interno di quest'ultimo settore, è possibile distinguere ulteriormente tra le “correnti di opinione” e le “correnti di tendenza42”: se nel primo caso si fa riferimento alla critica dei quotidiani e dei periodici non specializzati, nel secondo sono inclusi tutti gli interventi legati alla stampa di partito. Al di là di qualsiasi relazione con i partiti o con le testate giornalistiche più note, ma in stretta relazione con l'ideologia rivoluzionaria del Movimento studentesco e le tesi della Nuova Sinistra, si sviluppa, in questi anni43, quella sezione della critica specializzata così detta “militante”: una militanza che si origina dalla concezione dell'arte come terreno peculiare di lotta e che si esprime, in primo luogo, in termini di elaborazione teorica e di valorizzazione diretta del cinema considerato rivoluzionario44.

41 Lucia Cardone, op.cit.,pag. 25.

L'autrice definisce i due settori della critica per mezzo degli aggettivi “filmico” e “cinematografico”

ispirandosi alla terminologia attraverso la quale Christian Metz distingue gli elementi propri del mezzo cinematografico e tutti quegli elementi che, seppur presenti nei film, non sono specifici di tale mezzo d'espressione.

42 Entrambe le espressioni virgolettate sono prese a prestito da Alfredo Rossi, Elio Petri, La Nuova Italia, Firenze, 1979.

43“Queste posizioni si delineano tra l'avvio del 1968 e i primissimi anni settanta in coincidenza con almeno tre fatti: il primo è l'apparizione di alcuni film direttamente impegnati sul terreno della politica (…); il secondo è il movimento degli studenti con il suo violento attacco a tutte le forme di potere, da quello statuale a quello familiare, e con il suo invito agli intellettuali a scendere sul piano della lotta concreta; il terzo è la polemica che accompagna alcuni festival, accusati di ospitare per puro comodo prodotti nuovi all'interno di strutture ancora elitarie, selettive, autoritarie”.(Francesco Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Bompiani,1993, pag.201)

44 Francesco Casetti individua tre fasi fondamentali del lavoro dei critici impegnati nel dibattito: ad una prima fase descrittiva segue la fase propositiva, ovvero quella di riflessione “su quanto si è fatto e su quanto si può fare, con l'indicazione delle opzioni che il teorico ritiene più giuste: è il

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Ma che cosa si intende per “cinema rivoluzionario”?

Volendo sintetizzare le posizioni delle testate più attive nel dibattito -

“Cinema Nuovo”, “Ombre Rosse”, “Filmcritica”, “Cinema e Film” - osserviamo che la risposta a tale domanda oscilla tra i due poli della

“controinformazione” e dello “sperimentalismo”: “ (…) C'è dunque chi chiede al cinema di farsi portatore di contenuti altrimenti occultati e c'è chi gli chiede invece di sovvertire la dimensione espressiva45”.

Da una parte, dunque, la ricerca di nuovi contenuti, la capacità di rompere gli equilibri tradizionali, di aggredire la cultura di massa, borghese, al fine di “aprire la porta ad una cultura altra, che attraverso la Diversità, la Negazione e l'Antagonismo esprima il vissuto e le aspirazioni di una classe fin qui tenuta fuori dalla storia e la riscatti dal destino ad essa assegnato46”; dall'altra parte, la centralità della riflessione sul linguaggio e sui problemi formali: “un film non vale né per quello che dice né per quello che fa fare; non diventa politico solo perché costituisce una denuncia, o solo perché invita alla

momento in cui anche la teoria si carica di una valenza politica, in cui, se si vuole, si fa schieramento e linea”; infine la fase militante “di valorizzazione diretta dei film che sembrano incarnare le tendenze auspicate, sia attraverso una loro difesa su riviste, libri, schede di accompagnamento, sia attraverso una loro esibizione in festival, manifestazioni, rassegne”.(F.

Casetti, Op. cit.,pag.200)

45 F. Casetti, Op. cit., pag. 204.

46 F. Casetti, Op. cit., pag. 202

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mobilitazione. Contro questa concezione ristretta le cose su cui puntare sono altre: l'uso di un linguaggio non impositivo e non autoritario, il superamento della dimensione didascalica e illustrativa, la volontà di rendere conto non solo dell'esistente ma anche del possibile, e non solo del contingente ma anche del necessario, la densità delle soluzioni scelte e insieme l'apertura a letture sempre nuove, oltre naturalmente alla creazione di strutture economiche- istituzionali che consentono un'effettiva libertà d'espressione47”.

Dunque, perché un opera sia autenticamente rivoluzionaria, è necessario che adotti strategie comunicative nuove, lontane dalle consuetudini del racconto classico: nelle esperienze più estreme, come quella del cinema “underground48”, il film diventa mezzo attraverso il quale “rompere l'illusione realista e mettere a nudo le condizioni materiali dell'esistenza delle immagini e dei suoni49”; è inoltre necessario creare un circuito di produzione - diffusione alternativo a

47 F. Casetti, Op. cit., pag. 203

48 Nella seconda metà degli anni '60, un gruppo di trenta giovani filmakers crea una “cooperativa del cinema indipendente”: il gruppo rifiuta nettamente la dimensione industriale del cinema e sperimenta un linguaggio assolutamente nuovo e anti- narrativo: “Operano all'esterno del normale circuito, sperimentano con la massima autonomia tutte le possibilità tecniche ed espressive del linguaggio cinematografico(...) visualizzano le loro immagini mentali oppure lasciano libera la cinepresa di afferrare liberamente brandelli di realtà oppure facendo del linguaggio stesso il contenuto del film”. (Bruno Torri, Cinema italiano:dalla realtà alle metafore, Palumbo, Palermo, 1973. pag 110)

49F. Casetti, Op. cit., pag 203.

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quello tradizionale perché il film possa affrancarsi “dall'ideologia del sistema economico che lo fabbrica e lo vende, nella fattispecie l'ideologia capitalista50”.

Queste, in sintesi, le posizioni della critica militante, nei confronti delle quali la critica più moderata assunse un atteggiamento di

“condiscendente indifferenza”, facendosi spettatrice defilata del dibattito che, in quegli anni turbolenti, travolse tutti quegli autori che, come Petri, avevano scelto di veicolare il loro impegno attraverso percorsi narrativi tradizionali e circuiti produttivi istituzionali.

Sono significativi, a questo proposito, gli ultimissimi interventi di Petri nel dibattito: con un'intervista rilasciata a Umberto Rossi e pubblicata da “Cinema 60” nella primavera del 1982 - Ci rimproverate ma non ci avete mai difeso – e una lettera indirizzata a Mino Argentieri e pubblicata dal medesimo giornale nell'estate dello stesso anno – Indifferente la sinistra verso il nostro cinema – il regista romano ribadisce il suo atto di accusa nei confronti di una critica biecamente ostile a qualsiasi forma di dialogo costruttivo nonché responsabile, insieme all'indifferenza della sinistra italiana, del deterioramento della

50F. Casetti, Op. cit., pag 209.

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coscienza politica dei cineasti. Leggiamo in questi interventi:

“I registi che si sono occupati più direttamente e con maggior costanza di cinema politico, sono stati aggrediti severamente dalla critica, sono stati censurati dai partiti, guardati con sospetto da tutti:

da Lotta continua ai giornali conservatori(...)Come fate oggi a rammaricarvi della scarsa sensibilità politica dei cineasti italiani quando non avete fatto nulla per combatterla, per difendere gli autori che cercavano, tra mille difficoltà, di continuare a parlare di politica?51

E ancora: “Nel considerare la funzione della critica, ho cercato, se vuoi ingenuamente, di attenermi all'etimologia. La critica apre una crisi nell'opera, e nel suo linguaggio, e nella storia delle opere, e del linguaggio, perché si apra una crisi nella coscienza del lettore/spettatore e degli autori. Deve, tuttavia, per non essere fine a se stesso, o non deve, il processo critico, mirare ad un risultato per così dire vitale, sia pure nella prospettiva di innumerevoli altre crisi, sempre più in profondità, e, dunque, sempre più vitali?(...)Solo in questo modo, mi pare, l'etimologia crisi-criterio-critica può essere

51Elio Petri (intervista di Umberto Rossi), Ci rimproverate ma non ci avete mai difeso,in “Cinema 60”,n.144, 1982; (ora in) Jean Gilli, Elio Petri. Scritti di cinema e di vita, Bulzoni editore, Roma, 2007, pag.106

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vissuta anche nel suo versante positivo e non soltanto in quello negativo e persecutorio. In quest'ultima accezione del processo critico si giunge semplicemente a distruggere, per il cinema, ogni possibilità di riscatto52

Contro tale atteggiamento persecutorio e, soprattutto, contro l'incapacità dei critici di porsi in posizione dialettica rispetto ad un'opera e di mettere in discussione il proprio ruolo di “magistrati del gusto53”, Petri si era scagliato in più di un'occasione: la più celebre di queste polemiche fu senza dubbio quella esplosa nel 1973, in seguito alla stroncatura preventiva del film La proprietà non è più un furto, presentato alle “Giornate del cinema” di Venezia nel settembre di quell'anno54.

Dopo aver enunciato, a grandi linee, le posizioni sostenute dalla critica militante, non è difficile concludere quali siano le ragioni di tanta

52Elio Petri, Indifferente la sinistra verso il nostro cinema, in “Cinema 60”, n.146, 1982; (ora in) Jean Gili, Op. cit.,2007, pag.111.

53Elio Petri in Aldo Tassone, Op. cit., pag. 259

54Petri racconta che il film in questione, la cui uscita era prevista per ottobre e la cui prima era programmata per le “Giornate del cinema di Venezia”, fu stroncato dai critici ,che lo avevano visto in saletta, già a giugno. E aggiunge: “ Io andai a Venezia e, il giorno stesso della proiezione, Lietta Tornabuoni mi chiese un'intervista. Gliela rilasciai ma a patto che vertesse esclusivamente sulla critica cinematografica e sul quel che ne pensavo. Dissi a Lietta Tornabuoni alcune cose molto semplici. La principale era la seguente: perchè tutti noi, nel cinema italiano, ma anche in tutti gli altri campi della cultura, all'università, tra gli scrittori, tra i pittori, stavamo rimettendo in discussione i nostri ruoli, soltanto i critici cinematografici si tenevano in disparte, sordi alle nuove esigenze, mummificati nel loro eterno ruolo di magistrati del gusto?” ( Elio Petri in Aldo Tassone, Op. cit., pag. 259)

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ostilità nei confronti degli autori del cinema politico italiano. Da una parte l'adozione di un linguaggio consueto, di moduli narrativi tradizionali e di procedimenti spettacolari già collaudati e, dall'altra, la scelta di essere coinvolti nelle strutture produttive dell'industria cinematografica, sono elementi letti come inevitabili fonti di

compromesso e contraddizione:

“La loro prima pretesa sembra essere quella di approdare ad un cinema radicato nella realtà, capace di fondarne una critica più o meno diretta, ma che nello stesso tempo non rinunci a nessuno dei procedimenti e delle tecniche che concorrono a definire, nel cinema l'illusione di realtà. Rispolverando poi con entusiasmo l'immagine sbiadita di un vecchio Brecht in pantofole scoprono che per parlare della realtà si può fare ricorso alla favola, all'apologo, all'invenzione, alla falsificazione e si attestano così sul versante della dialettica finzione-realtà55”.

È il caso specifico di Petri, le cui scelte espressive eccentriche rispetto, ad esempio, allo stile piano adottato da Rosi, e funzionali alla rappresentazione straniante della realtà, sono rilette in chiave

55Grignaffini Giovanna, Petri e Rosi: timeo Danaos et dona ferentes, in “Cinema e Cinema”, n.7-8, 1976, pag 101

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assolutamente negativa, chiamando addirittura in causa il concetto di

“Midcult” elaborato da Dwight Mac Donald negli anni '30: il termine rimanda a tutti quei lavori “che paiono possedere i requisiti della cultura aggiornata ma che di quella cultura costituiscono una parodia, una falsificazione attuata a fini commerciali56”.

Bruno Torri, ad esempio, parla di “consumismo impegnato57” a proposito del “cinema civile”, sottolineando in questo modo l'equivoco, la contraddizione nella quale il “genere” si dimena: “Nell'odierno

“cinema civile”, la spettacolarità (la causa) e il successo(l'effetto), intesi appunto in senso prevalentemente negativo, sono proprio le principali componenti distintive, o comunque le più perseguite; anche se non sono le uniche, poiché si accompagnano, contraddittoriamente, con altre invece positive, a cominciare da un certo impegno contenutistico e da un certo anticonformismo tendente a contestare, almeno in qualche misura se non decisamente, quanto le classi dominanti (e quindi le idee dominanti) vogliono far credere58”.

E a proposito del nostro regista dichiara: “ [le opere di Petri]

costituiscono un esempio di come ad un avanzamento tematico possa

56Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano, 1964, pag35.

57Bruno Torri, Cinema italiano dalla realtà alle metafore,Palumbo ,Palermo,1973, pag.151.

58Bruno Torri, Op. cit., pag.153.

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corrispondere un arretramento espressivo che finisce per svuotare, o peggio, stravolgere le novità contenutistiche pre-testuali59”.

Della stessa idea è Lino Micciché per il quale Petri, che pure ha il merito di aver affrontato tematiche nuove e coraggiose, si colloca in una posizione di “ambiguità merceologica” che necessariamente ne condiziona le scelte a livello estetico e linguistico: la “formula” di Petri consiste “da un lato, nella piena accettazione dei meccanismi spettacolari volti ad ottenere il gradimento del pubblico e nell'uso consapevole degli ingredienti merceologici capaci di garantire al circolazione del prodotto secondo il così detto gusto del mercato, dall'altro nella strumentalizzazione di tali meccanismi e ingredienti in funzione di un discorso civile.(...) I rischi e i limiti di una posizione siffatta sono evidenti, poiché sembra ormai difficile trovare chi affermi teoricamente fondato comunicare un “messaggio” progressivo con una forma regressiva e chi non sappia, anzi, che non si contrastano le pratiche ideologiche del dominio adottandone le pratiche simboliche,

anche se caricate di sinuosa ideologia60”.

La perentorietà di tali giudizi suscitò fortunatamente non poche

59Bruno Torri, Op. cit., pag.158.

60Lino Miccichè, “Le contraddizioni di Elio Petri”, in Il cinema italiano degli anni '60, Marsilio editore, Venezia, 1965, pag. 149.

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reazioni di protesta: è il caso di Nanni Loy, che nel 1977 pubblica un breve saggio61 a difesa del cinema politico e contro l'arroganza dei critici, sottolineando come questi ultimi, “folgorati dallo strutturalismo e dalla linguistica62”, abbiano, tutto ad un tratto, deciso di rinnegare tutto quanto avesse un legame col “contenutismo” e di arrogarsi il diritto di stabilire le caratteristiche dell'opera autenticamente rivoluzionaria. Micciché diventa, tra le pagine di questo testo, il bersaglio di un'irriverente ironia e Loy, nel commentare una dichiarazione del “professore”, recupera il senso più profondo del l'operato di Petri e di chi, con lui, sosteneva la necessità per il cinema di non sottrarsi alla comunicazione, necessaria alleata in un processo di cambiamento:“ (...)il nostro professore alza il dito e scrive:

“...ricordando con Brecht che Lenin, contrariamente a Petri e a molti nostri registi, non diceva cose diverse da Bismark ma le diceva diversamente...”(...)Forse il nostro vuol sostenere che a contenuti rivoluzionari dovrebbero corrispondere forme rivoluzionarie. In questo caso, citare Brecht ci sembra, francamente, controproducente:

il linguaggio di Brecht e di Lenin non soltanto era ed è molto chiaro e

61Nanni Loy, Quale cinema per gli anni 80?, Guaraldi Editore, Rimini-Firenze, 1977.

62Nanni Loy, op. cit., pag. 49

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semplice, popolare, tradizionale ma doveva esserlo. Per fortuna lo è stato: si sono fatti capire subito da tutti63”.

Per Elio Petri questo è il fulcro del discorso e per questo non si pone affatto il problema della novità formale del suo cinema: non è il linguaggio a dover essere rivoluzionato ma il sistema discriminante della comunicazione e il classismo culturale che rispecchia la struttura verticale della società. Quando, nel maggio del 1972, Elio Petri è chiamato a rispondere alla domanda di un questionario-inchiesta64 della rivista “Bianco e Nero”, ecco cosa risponde: “Per chi faccio i miei film? Per gli “amici” alti , medi o bassi che siano. “Amici “sono coloro che nutrono le vostre stesse opinioni e desiderano gli stessi mutamenti da voi desiderati, con i quali è giusto e necessario avere uno scambio reale ed uno scontro “efficace”, nei limiti ghettosi dell'irrazionalità del sistema. Essi, gli amici, se non altro, nell'oscurità delle sale cinematografiche, che tendono a trasfigurare, o ad annullare, le presenze umane, sono un vero punto di riferimento.

63Nanni Loy, op. cit., pag.50.

64 Autore anonimo, in “Bianco e nero”, n.5-6, maggio-giugno 1972; ora in Jean Gili( a cura di), Elio Petri, scritti di cinema e di vita,Bulzoni editore, Roma, 2007.

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Possono essere anche decine di migliaia: ciò dipende dalle vostre opinioni e dalle vostre speranze65

65Elio Petri in Jan Gili (a cura di), op.cit., 2007, pag.103.

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