LA CASA SUL MARE
Serie di ANTONIO MULAS
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Copyright © 2021 ANTONIO MULAS
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“Signora come sta?”
“Ho ancora un forte mal di testa”
“Le preparo una tisana?”
“No grazie Marisa, adesso vengo di là...
piuttosto, Luca ha chiesto di me?”
“Non si preoccupi, è di là in sala che gioca tranquillo, ha già cenato, tra poco dovrebbe an- dare a letto”
“Mio marito è in casa?”
“No, è uscito a metà pomeriggio e non è rien- trato, lei mangia qualche cosa per cena?”
“No, no Marisa, grazie; mi dispiace, sei stata tutto il fine settimana a badare al bambino e non so come ringraziarti, ti lasco libera, metto io a letto Luca”
“Allora, a domani signora”
Indugio ancora a letto, mi rannicchio e scivolo nel sonno senza accorgermi.
Mi sveglio di soprassalto al rumore di una macchina che si muove piano sulla ghiaia e si allontana, penso sia Marisa che è uscita, guardo la sveglia e mi accorgo di aver dormito quasi mezz’ora, mi alzo dal letto e il movimento bru- sco mi provoca una fitta dolorosa dietro la nuca, sento il vomito che sale e mi fa correre in bagno.
Sono china sul lavabo per lavarmi la faccia con acqua fredda e sento che sto meglio.
Mentre mi guardo allo specchio, vedo riflessa la mia faccia bianca, slavata, come se l’acqua avesse portato via anche i miei lineamenti.
Come in un flash, mi viene in mente subito una cosa, attraversando la sala per correre in bagno non ho visto Luca.
Torno nel salone, le portefinestre che danno sul giardino sono chiuse e le tende tirate, ci sono solo dei giocattoli su una poltrona e altri sparsi qua e là, ma non vedo il bambino.
Vado in cucina e chiedo alla cuoca, che sta fi- nendo di rassettare la stanza, se ha visto mio fi- glio, ma mi dice di no preoccupandosi vedendo la mia ansia.
Salgo veloce al piano di sopra con un pen- siero, Luca ogni tanto ci sale da solo, ma le stanze come sempre sono chiuse, le controllo comunque accertandomi anche che lo siano le finestre.
Ridiscendo veloce, sono ancora sulle scale quando sento la cuoca chiamarmi.
“Signora il bambino è qui, l’ho trovato sulla soglia dello studio di suo marito”
Lei lo tiene per mano e lui mi sembra tranquillo.
Ringrazio la cuoca e abbraccio il bambino.
“Dove eri birbantello?”
“Volevo papà”
È strano che sia potuto entrare nel suo studio dal momento che, quando Lorenzo non è in casa, lo tiene chiuso a chiave, comunque entro con il bimbo in braccio.
“Vedi, papà non c’è, ma arriverà in tempo per darti la buonanotte perché, adesso, è l’ora di dormire”
Mi accorgo, mentre gli dico queste cose, che due cassetti in basso a destra della scrivania sono aperti e tutto quello che contenevano è sparpagliato per terra.
“Guarda cosa hai combinato”
Forse il mio tono di voce gli è parso troppo alto, infatti mi guarda con i suoi occhi chiari e l’espressione triste vicina al pianto; non volevo sgridarlo, sono solo stizzita sapendo quanto Lorenzo tenga in ordine le sue carte e quanto ne sia geloso, non permettendo a nessuno di toccarle, anche Marisa chiede sempre il per- messo quando deve pulire lo studio.
Lo metto giù e gli sorrido.
“Cosa cercavi?”
“Cercavo un giochino”
Lo bacio e lo coccolo un po’ per calmarlo.
“Adesso lo facciamo insieme un gioco, con mamma, mettiamo a posto tutte le cose di papà così, quando torna, sarà contento”
In effetti non so da dove incominciare, cerco di rimettere nei cassetti tutto quello che c’è per terra seguendo una mia logica ma dovrò dirgli quello che è successo, perché i documenti non saranno in ordine come lui li aveva messi.
Stiamo per finire quando, da una cartellina, scivolano per terra alcune foto.
Mi siedo accanto al bimbo e guardo nelle foto una bella ragazza in bikini, mora, i capelli mossi nel vento, un sorriso felice.
In un’altra, sempre lei in primo piano, bella, giovane con uno sguardo brillante, in un’altra ancora, lei è distesa al sole prona senza reggi- seno a evidenziare un sedere tonico e ben fatto.
Tutte sono state fatte sulla mia barca, sulla barca di mio padre.
Le riguardo una ad una, con calma ma, non c’è dubbio, ne riconosco tutti i particolari, in
una di queste dietro la figura della donna, tra le sartie e gli alberi delle altre barche ormeggiate si intravedono gli edifici della nostra marina.
Rimango interdetta.
Tolgo le foto dalle mani del bimbo che ci sta giocando.
Le riguardo una ad una, le volto e le rivolto, nessun nome, nessuna data, le rimetto nella cartellina e, insieme agli ultimi documenti, metto a posto i cassetti come posso, prendo Luca in braccio, esco e chiudo a chiave.
Luca dorme, se Dio vuole, al contrario di me che rimango seduta sul letto cercando di capire chi sia quella donna, faccio mente locale di tutte le persone che ultimamente hanno frequentato la nostra casa per lavoro o solo per amicizia ...
è giovane, magari è qualche figlia di nostri conoscenti, mi sforzo, vado col pensiero indie- tro di qualche anno ma non me la ricordo.
Lei non può essere altro che il motivo della freddezza di Lorenzo nei miei riguardi, è così senz’altro... è una bella mora, ha un bel corpo...
li vedo nudi, abbracciati.
Questo pensiero mi fa montare una rabbia che non mi so spiegare, dal momento che non lo
amo più da tempo, forse è solo il mio amor proprio ferito, il mio orgoglio di donna tradita ma poi penso, sulla barca di mio padre o in una camera d’albergo faccia pure quello che vuole e con chi vuole.
La tristezza offusca la mia rabbia con la consapevolezza della mia gravidanza, e diventa così profonda che si trasforma in un pianto muto, in singhiozzi tanto intensi da scuotermi nel letto, così, seduta con le mani nei capelli, mi abbandono in un pianto tutt’altro che liberato- rio.
Cosa faccio, non riesco a pensare a niente di concreto se non di chiamare Guido, stasera è tardi, lo farò domani... devo rivederlo al più presto.
Mi alzo per andare in cucina a prendere un po’
d’acqua, mi sento distrutta in tutto il corpo, sto per uscire dalla mia camera da letto quando sento la porta d’ingresso aprirsi e ritorno a se- dere sulla sponda del letto.
Riconosco Lorenzo dalle sue abitudini quando rientra, lo sento in anticamera mentre getta le chiavi dell’auto nella vaschetta sulla mensola, lo sento subito dopo in sala mentre si
versa da bere, poi silenzio, infine, un’imprecazione sommessa prima di sbattere di una porta, mi immagino quella del suo studio.
Ritorno sotto le coperte, non voglio vederlo, aspetterò che vada in camera sua e che si addormenti, poi andrò a prendermi da bere.
*****
Questa settimana ho pensato a Luigi spesso, lui mi ha chiamata dall’estero ogni giorno; mi ha detto si fermerà fino a lunedì prossimo, mi ha fatto veramente piacere e non so perché oggi ho accettato questo appuntamento.
L’invito a pranzo da parte di Paolo, che avevo quasi scordato, mi è sembrato un modo per di- strarmi, per sfuggire a questa leggera depres- sione. Questi ultimi giorni sono stati tristi, mi sono sentita sola come non mai, con il lavoro che non gira come sempre, con la sensazione addosso di essere stata estromessa, di sbagliare ogni cosa, di non essere ascoltata o considerata.
Anche il mio capoufficio si è rivolto a me con freddezza.
Se ci penso, un comportamento da parte sua
fino a ieri inusuale e poi mi è entrato in testa il pensiero sottile, ma plausibile, che dietro questo mobbing strisciante in ufficio ci sia la mano di Lorenzo per quello che è successo domenica scorsa, forse ho esagerato, non dovevo fare quello che ho fatto, ma volevo ripagarlo con la stessa moneta, forse diventando l’amante di un uomo potente mi aspettavo di più e mi sono illusa, non sono niente per lui, sono solo stata disponibile.
Mi sono detta, Paolo sembra un bravo ragazzo, poi mi fa ridere, ha cinque anni meno di me, una ventata di aria giovane mi farà bene.
Quando l’ho conosciuto mi sono sentita subito a mio agio, anche se non mi è mai capitato di uscire con uomini più giovani di me.
Certamente si aspetta qualcosa in cambio, ma penso, se ce ne fosse bisogno, di poterlo tenere a bada.
Quando siamo entrati, avevo dato un’occhiata all’ambiente del ristorante di cui Paolo aveva tanto decantato la buona cucina, un locale poco elegante, anzi piuttosto spartano; mi sono detta
‘ma dove mi ha portata?’, ripensando al risto- rante e alla serata passata con Luigi.
Tutt’intorno sedie e tavoli di legno vecchio apparecchiati con tovaglie a piccoli quadri bianchi e rossi, pareti bianche strollate grezze con appeso qualche quadro di maniera, con tramonti e barche che affrontano tempeste.
Per di più, a coprire una intera parete laterale, un pezzo di tramaglio appeso con dentro invi- schiate delle stelle marine rinsecchite e un paio di carapaci di granceole grigiastre.
Un arredamento marino un po’ kitsch, come a voler ricordare che siamo sulla darsena vicino a un porto di pescatori, o che la maggioranza delle portate è a base di pesce.
Ho pensato, speriamo bene, anche perché en- trando avevo un certo appetito.
Almeno sulla cucina mi sono dovuta ricre- dere.
A partire dal primo piatto, una zuppetta di frutti di mare misti che ho trovato buonissima.
Anzi una volta finita ero tentata di fare la scarpetta, ma non ho voluto strafare per non suscitare una qualche impressione negativa, sa- pendo poi che avevamo ordinato dei calamari con verdure alla brace che si sono rivelati divini e che ho mangiato con gusto.
Abbiamo riso e scherzato tutto il tempo fino al dessert perché, mentre affondo il cucchiaino nella crema catalana, mi fa: “Se scopi come mangi fortunato il tuo amante”
La crema che ho in bocca si fa subito gelida e faccio fatica a mandarla giù.
Metto la posata nel piatto e lo guardo seria, in quel momento mi sento offesa, sto per dirgli qualcosa di cattivo quando, opportunamente, squilla il mio telefono, apro la borsa e riconosco sul display il numero di mia madre.
Sono giorni che mi cerca e mi rendo conto che sono stata stupida a non parlarle, lei non se lo merita, ma non ho mai voglia di sentirla perché mi snerva sempre con le sue domande sulla mia vita privata, ma adesso le rispondo volentieri, non fosse altro per impedirmi di rispondere male a questo qui.
Senza badare a scusarmi o a giustificarmi prendo subito il telefono dalla borsa.
“Ciao mamma, come stai?”
“Ciao Martina, io sto bene, ma è da lunedì mattina che cerco di chiamarti... il tuo numero o è occupato o non risponde”
“Scusa ma questa settimana ho avuto dei
giorni veramente pieni... ti avrei richiamata io comunque”
“Ho bisogno di vederti, di parlarti un po’, quando possiamo farlo?”
“Mamma spero presto, ma ti sento ansiosa, c’è qualche problema serio? Diversamente ti richiamo io, al più tardi domani, adesso non sono sola, sono a pranzo fuori con un amico”
“No, no, scusami capisco, ci sentiamo domani, ci conto allora, ciao.”
“Ciao”
Finiamo di pranzare in silenzio.
Credo che lui si sia accorto di avermi detto qualcosa di sbagliato, però, dopo il caffè, mi guarda con un sorriso tale che dimentico quello che mi aveva detto facendomi innervosire.
“Hai mangiato bene?”
“Sì Paolo, tutto molto buono, grazie”
“Hai voglia di fare due passi lungo il molo?”
“Certo”
Usciamo, mi prende sottobraccio con fare gentile, camminiamo piano e a lungo nel porto, costeggiando gli scogli frangiflutti, fermandoci ogni tanto a guardare il mare che mi pare ingrossato, parlando del più e del meno. Mentre
siamo seduti su un basso scoglio a guardare l’orizzonte, si stringe un po’ a me, forse accorgendosi che ho freddo, in effetti sono uscita vestita leggera e il tempo sta cambiando velocemente, ma a parte questo mi sento bene, senza pensieri.
Si è alzato un vento forte, improvviso, che ha addensato nubi nere che si avvicinano e si accumulano sopra di noi velocemente, mi guardo intorno accorgendomi che siamo in uno spazio aperto privo di ripari, vedo la mia macchina in lontananza posteggiata vicino al ristorante.
Mi stringo a lui e gli dico: “Se piove la prendiamo tutta.”
Mi risponde soltanto: “Vieni”
Accelera il passo mentre il vento si calma improvviso, l’aria si fa umida, pesante, salma- strosa e le prime gocce di pioggia ci bagnano.
Mi prende per mano e mi incita: “Corri!”
Corriamo ridendo come due ragazzini ma, quando siamo vicini al ristorante, non si ferma e continua a correre verso la darsena fino a un piccolo albergo con sopra solo l’insegna di un bar.
Ci ripariamo nell’ingresso prendendo fiato,
faccio per entrare ma lui mi dice: “Vieni, dai”
Non mi dà il tempo di reagire e mi trascina fuori, sotto l’acqua del temporale che adesso scroscia violenta.
Corriamo veloci verso la casa di fronte, costeggiamo un alto muro di cinta fino all’ingresso e ci fermiamo nel vano, ansanti e bagnati.
“Ma che fai, dove vuoi andare? Sono tutta bagnata”
Sono veramente stizzita, con la camicetta e la gonna leggera appiccicate addosso.
Lui mi sorride come se non avesse ascoltato le mie rimostranze.
“Non ti preoccupare, fidati, adesso ci asciughiamo”
Mentre dice questo apre la porta d’ingresso abbracciandomi le spalle e invitandomi, gentil- mente, a entrare.
Solo quando sono nell’atrio riconosco la casa col giardino che avevo visitato poco tempo prima con lui e con Anna e ne sono veramente stupita.
“Perché mi hai portata qui? Avevi progettato tutto per bene... hai con te persino le chiavi! È una prassi della vostra agenzia? Portate con voi tutte le chiavi degli appartamenti che avete in
vendita... per cosa? Per essere sempre pronti alla chiamata o per portarci le donne? Non fare quella faccia... rispondimi e dammi una spiegazione plausibile”
Lui ride della mia agitazione, si avvicina, mi abbraccia e mi tiene stretta, sento il suo corpo caldo e mi fa svanire il nervoso.
“Beh, in parte hai ragione, è da stamattina che sono qui, avevo un appuntamento con un cliente per questa casa, lui l’aveva già visitata e sem- brava molto interessato, tant’è che pensavo di concludere la vendita, ma non si è visto, non mi ha chiamato per disdire l’appuntamento e al numero che mi ha lasciato non risponde. Da quando ci siamo lasciati non ho mai smesso di pensarti, anche se tu non mi hai più telefonato, allora ti avevo chiesto se potevamo pranzare insieme e stamattina mi sono detto ‘sono già qui, è sabato, magari Martina è libera’; questo è tutto... e poi lo sai che mi piaci tanto.”
Mi prende la nuca con entrambe le mani e mi bacia sulla bocca.
Non mi interessa veramente quello che ha detto, ma sarà che sono infreddolita e lui così caldo, che la sua bocca è morbida e dolce che lo corrispondo volentieri.
Lui si stacca, mi prende per mano e mi invita
a salire al piano di sopra. Di sopra faccio caso a particolari che la volta prima non avevo notato, d’altronde la casa interessava ad Anna, non l’avevo vista tutta, ma riconosco che aveva ragione a esserne entusiasta, è ben strutturata e, al piano di sopra, scopro due grandi camere da letto e un secondo bagno.
Giro curiosando nelle stanze quando, improvvisamente, da dietro Paolo mi solleva e mi prende in braccio e quasi correndo mi porta in una delle due stanze da letto, la più grande.
“Dai mettimi giù”, gli dico appena entriamo.
Lui lo fa malvolentieri, ma si accorge che non sono arrabbiata e cerca di riprendermi.
La camera è arredata con un grande letto, con le testate scure in ferro battuto, alto come usava una volta, e un armadio a quattro ante in stile.
Scappo, giro veloce intorno al letto per scan- sarlo e mi fermo davanti alla finestra che dà sul mare e, guardando fuori, mi rendo conto che è quasi sera e che qui non c’è la corrente.
Paolo salta agile sul letto e si distende allun- gando le braccia, mi prende in vita trascinan- domi sul letto con sé.
È una lotta muta, rapida, come lui, che mi mette una mano in mezzo alle gambe e stringe forte.
Mi divincolo e mi alzo dal letto quasi urlando.
“Mi hai fatto male... ma che maniere sono...
nessuno ti ha mai parlato di preliminari?”
Lui sul letto, disteso con la testa appoggiata a un gomito, mi guarda sornione, ride di gusto e dice: “Preliminari? Cioè togliersi le calze...
accendere una sigaretta...”
“Ma sei scemo…”, viene da ridere anche a me e sto al gioco.
“Ma li guardi i film? Lui si accende la siga- retta dopo, non prima”
“A me piace durante il rapporto... sai, si dice che il fumo rilassi”
“Ma piantala...”
Mi giro ancora verso la finestra, la spalanco, mi affaccio e guardo il mare mosso.
Ha smesso di piovere, sta incominciando a imbrunire, di fianco vedo un lato del piccolo al- bergo vicino a questa casa, ci sono due finestre, ma molto più in basso rispetto alla nostra.
In una di esse la luce è accesa, attraverso le tende, si intravedono distintamente due sa- gome, un uomo e una donna.
Le due ombre si agitano, si muovono veloci ora da una parte ora dall’altra della finestra, sbracciano entrambi, sembra che discutano, improvvisamente la donna da uno schiaffo che
fa girare la testa dell’uomo, poi spariscono.
Sento Paolo spazientito.
“Dai Martina, vieni qua”
“Un attimo”
Sono curiosa di quello che sto vedendo e non do troppo retta a Paolo con cui mi è piaciuto flirtare, ma non voglio assecondarlo fino in fondo nei suoi progetti.
Mi sono resa conto che è solo un ragazzo, bello, simpatico, grezzo e probabilmente troppo eccitato, così indugio ancora immobile, conti- nuando a guardare la finestra illuminata di sotto le cui tende si aprono di colpo, così come le imposte.
Si affaccia un uomo e dietro di lui si vede chiaramente una donna seduta su un letto.
Io d’istinto mi ritraggo, anche se non mi può vedere, sono più in alto e in ombra, ma faccio ancora un passo indietro per sicurezza poi ri- mango lì alla finestra con le mani lungo i fianchi, impietrita, incredula, tanto che Paolo mi dice: “Ma cosa c’è?”
Non gli rispondo nemmeno, guardo quell’uomo e sento che sta parlando alla donna seduta dandole le spalle ma non riesco a sentire cosa si dicono, poi la donna si alza va verso di lui e da dietro lo abbraccia, sembra che lo voglia
avvolgere, tanto che i suoi lunghi capelli biondi nascondono, in parte, il viso di lui.
Mi scuoto dalla mia sorpresa e d’istinto, mi muovo svelta verso la borsetta, prendo il tele- fono e cautamente mi avvicino ancora alla finestra; cercando di rimanere nell’ombra scatto diverse foto alla coppia ancora abbracciata, poi mi ritiro.
Mi giro verso Paolo.
“Scusa Paolo, ma devo proprio andare... mi accompagni o esco da sola?”
“Ma perché, cosa è successo? Ti vedo scon- volta. Cosa hai visto? Perché hai fatto le foto?”
Nel dire questo si alza e va verso la finestra aperta.
“Non vedo niente, non c’è nessuno... dai Martina, cosa ti è preso? Te la sei presa per prima... io scherzavo”
“Tu non c’entri, non posso spiegarti adesso, si sta facendo tardi, tra poco sarà buio ed è meglio che rientri”
Prendo la borsetta ed esco dalla stanza.
Lo sento imprecare e mi dispiace, comunque non pensavo di lasciarlo così, poi mi raggiunge di corsa quando sono già alla porta mi prende un braccio e mi dice: “Dai, ti accompagno”
Camminiamo veloci, senza parlare, fino al
ristorante dove avevo parcheggiato.
Prima di salire in auto lo saluto appena, lui non può capire la mia agitazione, lo vedo sorpreso, un po’ deluso e incapace di dare un senso al mio comportamento.
“Scusami ancora Paolo... ti ringrazio, ti richiamo io presto”
Mentre mi allontano vedo Paolo nello spec- chietto, lì fermo, impalato e con una faccia tri- ste, mi dispiace veramente ma accelero, come se fossi inseguita, soprattutto per non incrociare su quella strada qualcuno che conosco bene.