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I LUOGHI COMUNI COME PREGIUDIZI LA PRECIPITAZIONE E L ’ UOMO NERO

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Capitolo Quarto

I LUOGHI COMUNI COME PREGIUDIZI LA PRECIPITAZIONE E L UOMO NERO

«Sono un uomo invisibile. Io non sono un fantasma come quelli che inseguivano Edgar Allan Poe e non sono neanche un ectoplasma di uno dei vostri film holliwoodiani. Sono un uomo di sostanza, di carne e ossa, fibra e liquidi — e si potrebbe addirittura dire che ho una mente. Cercate di capire, sono invisibile semplicemente perché le persone si rifiutano di vedermi. Come quelle teste “senza corpo” che qualche volta si vedono alle giostre; è come se fossi stato circondato da duri specchi distorcenti. Quando gli altri si avvicinano, vedono solo ciò che mi circonda, loro stessi, o particelle della loro immaginazione — effettivamente qualunque cosa eccetto me».

R

ALPH

E

LLISON

, L’uomo invisibile

«Nulla piace agli uomini quanto avere dei nemici e poi vedere se sono proprio come ci s’immagina» .

I

TALO

C

ALVINO

, Il visconte dimezzato

1. L’improprietà dei luoghi comuni: Meier e l’illusione dell’esser certi

Il significato della parola che leggiamo su un vocabolario è, a volte, e in questo caso, sufficiente per capire dove vogliamo arrivare. Nell’Oxford American Dictionary, alla voce prejudice si legge come primo senso: «preconceived opinion

that is not based on reason or actual experience: English prejudice against

foreigners […]» e anche «dislike, hostility or unjust behavior formed on such a

basis […]»; come secondo senso, riferito principalmente al Diritto: «harm or

injury that results or may result from some action or judgment: prejudice

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resulting from delay in the institution of the proceedings […]». Alla fine

dell’esposizione viene citata l’origine latina del termine: «praejudicium, from prae ‘in advance’ judicium» e c’è il rimando ad un’altra voce, “B

IAS

”. Leggo allora bias: «prejudice in favor of or against one thing, person, or group compared with another, usually in a way considered to be unfair […]»; «a concentration on or interest in one particular area or subject […]»; come verbo,

«influence unfairly to invoke favoritism […]» ma anche, come secondo senso,

«an edge cut obliquely across the grain in a fabric». Così, in ultimo, ricerco la parola edge e trovo qualcosa di singolare per i luoghi comuni che riporta all’inizio della storia: «The outside limit of an object, area or surface […]; a place or part farthest away from the center of something […]; a quality or factor that gives a superiority over close rivals or competitors […]. See note at

BORDER

, a line separating two political or geographical areas, esp. countries; an edge or boundary of something, or the part near it»

1

. Nella lingua italiana, pregiudizio è un’«idea od un opinione errata, formata e accolta in modo avventato, precedente dal giudicare, precedente alla diretta conoscenza di determinati fatti o persone, fondata su convinzioni tradizionali e comuni a più […] avere pregiudizi verso, contro, nei confronti di qualcuno o qualcosa; vale anche pena o

condanna pattuita a seguito del precedente giudizio. Etimologicamente, prae- judicium: giudizio antecedente, anticipato»

2

. Quello che si rileva da queste definizioni e che viene illustrato anche dall’immenso dibattito filosofico sul

1 Oxford American Dictionary, 2005. © Apple Computer, Inc.

2 Cfr. Dizionario DeAgostini e Dizionario Etimologico online 2006.

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concetto di pregiudizio, sono due caratteristiche fondamentali: l’avventatezza e il danno che da essa può seguirne. Sia che venga posta in testa, sia che venga posta in secondo piano, dai vocabolari, dalle discussioni o da noi stessi, la connotazione negativa della parola «pregiudizio» comunque resta. Ma queste stesse caratteristiche non sono forse valide anche per i luoghi comuni? Tra quelli che conosciamo, ascoltiamo o leggiamo, non ce ne sono forse taluni carichi di quella negatività con conseguenze dannose? Ammessi entrambi i sensi generali del pregiudizio, diventa fondamentale rispondere a due interrogativi: i luoghi comuni sono pregiudizi? E ci sono pregiudizi che hanno assunto la forma di luoghi comuni?

Ovviamente, ciascuna delle domande solleva uno dei due sensi di pregiudizio.

L’obiettivo di questo capitolo è spiegare la stretta correlazione tra quei due sensi e rispondendo in particolare alla seconda questione si farà invece nuova luce creando un vero e proprio allarme, atto a ribadire quanto il luogo comune non sia neutro, anzi altamente pericoloso, al punto da spingere gli individui a minacciare e minare la libertà degli uomini.

Prae-judicium significa prima di giudicare, anteriormente o davanti al giudizio.

Inoltre, la preposizione prae con l’ablativo è anche causa impediente, cioè che

impedisce di fare qualcosa. I pregiudizi sono degli ostacoli, degli impedimenti

per la conoscenza e quindi per il raggiungimento di una verità. La

precipitazione, l’avventatezza porterebbero ad errare nell’espressione delle

valutazioni o ad accogliere opinioni su qualcosa o qualcuno che non sono state

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sottoposte a interrogativi, a un esame critico completo, e finirebbero per diventare a loro volta principî di ulteriori giudizi fallaci. Ma l’avventatezza, la fretta, escludono necessariamente la verità? Oppure essa potrebbe essere colta solo in modo approssimativo e sfuocato? Tutto dipende da cosa è importante per noi e se ne siamo consapevoli.

C’è sempre un errore alla base di un pregiudizio? È sbagliato il suo contenuto o è sbagliato il modo con il quale lo abbiamo formulato o, ancora, è errato poiché viene pronunciato e accolto in quanto giudizio definitivo? Disparate voci hanno risposto e rispondono in vari modi a queste domande. D’altronde sui pregiudizi e sulle loro differenti definizioni si è discusso per secoli.

Questo è ciò che accade: uno sguardo miope formula un giudizio; la sua visione

è dubbia ma diviene definitiva; un normale sguardo afferra qualcosa

nell’oscurità oppure frettolosamente; si perdono i dettagli ma la descrizione di

quel qualcosa si solidifica. Potremmo rivedere quel qualcosa o qualcuno una

seconda volta, con tanta luce e senza fretta, cogliere i dettagli ma non riuscire

comunque a sostituire la nostra precedente visione. Infine, con calma ed

esercizio, potremmo giungere a vedere ciò che credevamo essere diversamente,

oppure, ogni volta, essere comunque pronti alla messa in discussione del nostro

ultimo giudizio espresso o accolto, poiché riconosciamo, cartesianamente, la

naturale debolezza dell’intelletto umano. Anche sul pregiudizio è stata posta e si

pone la stessa domanda: è possibile sanare il pensiero da questo ‘morbo’? Ci è

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consentito liberarcene? Dove vale specificamente l’equivalenza tra errore e pregiudizio?

Questo dipende dalla considerazione che abbiamo del pregiudizio stesso: esso è di per sé falso oppure è fallace solo la maniera con la quale accogliamo o rigettiamo conoscenze che possono essere anche vere? Cosa importa a noi, il grado di verità o di falsità del contenuto o l’illusione di certezza (nella forma) che generano in chi ne è vittima? Questo discrimine tra l’aspetto contenutistico e quello formale, centrale nell’analisi meieriana

3

del problema dei pregiudizi, fa luce sulla natura umana e dimostra che si avrebbe solo una conoscenza parziale senza di esso.

Questo discrimine non lo si è ancora approfonditamente stabilito per i luoghi comuni, ma occorre farlo poiché in base ad essi potremmo accogliere qualcosa di falso, oppure qualcosa che realmente è vero. Comunque resterebbe sempre un errore, quello cioè dell’“illusione di essere certi” che essi generano in noi.

Mai ho escluso che vi potesse essere qualche verità in un luogo comune, bensì, come Meier per i pregiudizi, penso che vi sia sempre posto anche per l’errore.

“Quando certe ragioni vengono dette erronee, si possono intendere due cose.

Per un verso, quelle ragioni impossibili e contraddittorie, assolutamente prive di verità […]. Ma alcuni pregiudizi derivano da ragioni che non sono affatto erronee e spesso, a partire da ragioni erronee, si viene indotti a formulare un giudizio che non è per questo un pregiudizio. Tutti sanno che quando

3 Meier G. F., Beyträge zu der Lehre von den Vorurtheilen des menschlichen Geschlechts, Halle, Carl Hermann Hemmerde, 1766; tr. it a cura di Del fosse H. P., Hinske N., Rumore P., Contributi alla dottrina dei pregiudizi del genere umano, Pisa, Edizioni Ets, 2005.

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un’opinione è ritenuta vera per il solo fatto di essere nuova o antica, si ha sempre a che fare con un pregiudizio. […] Di contro, mediante una dimostrazione portata innanzi a fatica, che tuttavia contiene in sé un principio falso, si può venire indotti a commettere un errore, e nessuno lo chiamerà pregiudizio […] è possibile poi che per ragioni erronee si intendano le ragioni improprie, al fine di contrapporle a quelle corrette e adeguate che si devono tener presenti in un giudizio qualora se ne voglia indagare la verità o la falsità.

Vi sono ragioni da cui non può assolutamente venir dimostrato che un giudizio è vero oppure falso […] se qualcuno ritiene che il ballo sia consentito o che rappresenti invece un peccato perché crede, sulla base delle proprie convinzioni, che esso non contravvenga a nessuna legge o che sia invece in contrasto con essa, egli può dunque forse assumere una legge errata, o comprendere in modo scorretto una legge vera, oppure non applicare correttamente al ballo una legge vera, e perverrà in ogni caso a giudicarlo in maniera scorretta […] il suo giudizio sul ballo non è un pregiudizio. Posto però che egli ritenga che il ballo sia consentito perché è di moda fra la gente per bene, o che lo ritenga un peccato perché è stato considerato tale da alcuni stimati precettori morali, allora questi suoi giudizi sarebbero meri pregiudizi, in quanto né la moda né le opinioni dei precettori morali costituiscono ragioni sulla cui base si può affermare la legittimità di una qualsiasi azione libera”

4

.

Le ragioni erronee su cui si fonda un luogo comune non sono quelle impossibili e assolutamente prive di verità che ci conducono ad una conoscenza errata tout

4 Ivi, par. 5, par. 6, par. 7, pp. 21-29.

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court o, ad un puro nominalismo. Anzi, dobbiamo credere che alcuni di essi

derivino da ‘principi di realtà’. Effettivamente qualcosa è cambiato rispetto ai tempi passati, vi sono molti più politici corrotti, la porta di casa viene chiusa a chiave, la velocità dei ritmi di vita è aumentata, il clima sta subendo drastici cambiamenti, e solo quando la salute è compromessa ci si accorge davvero della sua importanza. In riferimento a tali temi, non necessariamente si esprime o si è un luogo comune. Così come è possibile partire da uno di essi e, attraverso faticosi ragionamenti, giungere ad un’affermazione vera o ad comportamento logicamente conseguente. Al contrario, invece, è possibile che da ragioni fondate, si possa cadere in luoghi comuni. Non è detto che, come si è già ricordato, si è necessariamente consapevoli di questo. Come si fa ad accusare le buone intenzioni? Tutto dipende dal contesto, dipende dal modo in cui lo diciamo e soprattutto da quanto sappiamo in base alla nostra esperienza.

Le ragioni erronee del luogo comune sono come quelle che Meier definisce ragioni improprie. Esse non servono ad indagare la verità o la falsità di un giudizio o di un gesto. Attraverso i luoghi comuni non si è in grado di indagare la verità delle cose del mondo. Ad essi cioè non spetterebbe, anche se lo fanno continuamente con il loro contenuto, la facoltà di giudicare ciò che sta e si compie fuori dai loro borders.

Faccio un esempio: se qualcuno ritiene che l’acquisto di un Suv sia fondamentale

o che costituisca invece una cosa da evitarsi, perché crede sulla base delle

proprie convinzioni, che esso garantisca maggiore sicurezza e comfort o che sia

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invece uno spreco di denaro e altamente inquinante per l’ambiente, quel qualcuno può dunque forse assumere delle ragioni errate o comprendere scorrettamente delle motivazioni reali o applicarne di inappropriate e quindi giudicare in maniera scorretta, ma non cadrà in un luogo comune. Posto però che il Suv sia un acquisto da fare perché è di moda fra la gente per bene, o che sia da evitare perché siamo intellettuali di sinistra e possiamo così accusare quelli di destra di inquinare l’aria, allora i giudizi e i comportamenti sarebbero meri luoghi comuni, in quanto né la moda né un atteggiamento abbinato ad un ideologia politica costituiscono le ragioni per affermare la verità o la falsità di una cosa o di un’azione nel mondo.

Sostenere che le ragioni del luogo comune sono ragioni erronee improprie, vuol dire che nel momento in cui giudichiamo o agiamo frettolosamente sulla base di un luogo comune, giudichiamo e ci comportiamo sulla base di ragioni che, anche se dovessero avere dei fondamenti di verità in sé, non potrebbero però ergersi affatto a testimonianze di verità o inesattezza. A causa di queste stesse ragioni da cui dipendono, essi appaiono come conseguenze non necessarie e corrette. Credere che come si mangia in Italia non si mangia da nessuna parte al mondo solo sulla base del fatto che alcuni “patrioti disperati” vogliano spostare

l’attenzione su ciò che si può ancora salvare del nostro paese, allora si ha a che fare con un luogo comune.

Da questo ne consegue che l’esclusività del cibo italiano sia anche vera?

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“Capiterà spesso di notare come qualcuno ritenga malvagia un’altra persona e come serbi nei suoi confronti una ripugnanza talmente forte da non poterla tollerare. Se gli si chiede la ragione del perché la trovi a tal punto insopportabile, costui non saprà indicare nessun’altra ragione se non che tra loro vi è antipatia:

una parola, il cui significato è in questo caso certamente oscuro […] l’intelletto brancola nel buio e viene al contempo determinato da un cieco caso a giudicare in un modo o in un altro […] chi incorre in un pregiudizio è spesso consapevole delle ragioni per cui giudica in tal modo, ma si tratta comunque di ragioni improprie: costui ritiene qualcosa vero o falso senza nessuna ragione corretta.

La novità e l’antichità di una dottrina non rappresentano affatto ragioni da cui sia possibile derivare, anche solo in grado minimo, la sua verità o scorrettezza”

5

. È possibile essere consapevoli del contenuto di un luogo comune e crederci fermamente? Siamo in grado di riconoscerci luoghi comuni?

Si proietta un’altra nuova luce su di essi, un’altra particolarità. Credere con convinzione alle ragioni di un determinato luogo comune è possibile, ma solo in un certo senso, cioè dall’interno; poiché, appunto, non ci rendiamo conto che esse sono ragioni improprie e quindi, paradossalmente, escludono la vera consapevolezza del luogo comune. L’improprietà non può dare certezza. È dall’esterno, come spettatori o ascoltatori veramente consapevoli, che osserveremmo quel tipo di consapevolezza come illusione di verità su ragioni inappropriate e quindi tali da farne derivare solo un luogo comune; ma

5 Ivi, par. 8, pp. 29-33.

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dall’interno essa non verrebbe percepita e quindi si vedrebbe solamente una semplice conseguenza derivata in maniera necessaria e corretta.

Ci sono ancora altre cose da non escludere, altri tipi di consapevolezza: l’uso cosciente dei luoghi comuni pur sapendo dell’improprietà delle sue ragioni — anche non credendoci — di solito preceduto dall’affermazione «per usare un luogo comune… », con l’obiettivo di istaurare dialoghi, inserirsi in contesti in cui esso ha facile preda, spesso perché “il silenzio è ciò che terrorizza di più la gente”

6

. C’è il caso in cui non si sanno nemmeno quelle improprie di ragioni e, dunque, non sarà mai possibile riconosce un luogo comune. Al massimo ci si accorge solo che la nostra espressione l’abbiamo sentita pari pari migliaia di volte. Tutto questo non è privo di conseguenze e quanto è stato detto finora sui pregiudizi ha una ragione veramente propria, drammaticamente corretta eppure tanto poco percepita: molti pregiudizi sono diventati luoghi comuni e questo nuovo volto li ha resi ancora più devastanti.

6 Sono le parole di Robert Zimmerman, in arte Bob Dylan, tratte dal documentario No Direction Home di Martin Scorsese del 2005. Questa frase conferma la potenza dei luoghi comuni. Seppur raramente, in situazioni di silenzio imbarazzante, mi è capitato di fare uso cosciente di luoghi comuni, sapendo di trovare orecchie in grado di recepirlo e di scatenare parole, o meglio, rumore. La particolarità e, da un punto di vista, anche la positività di questi casi credo consista nell’esclusione delle ragioni assolutamente erronee, per esempio quelle che motivano i pregiudizi come comunemente, e non etimologicamente, li intendiamo. I siciliani sono tutti mafiosi e gli extracomunitari vengono in Italia per rubare e spacciare, sono pregiudizi diventati luoghi comuni.

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2. La verità e i fantasmi

È in quell’improprietà, in quell’ambiguità che si coglie un’ulteriore ragione di eternità e di forza per il luogo comune. Non siamo forse più tolleranti all’incertezza, mentre siamo più propensi a condannare l’errore, lo sbaglio?

Naturalmente è indispensabile riconoscere questa improprietà affinché non si cada nell’errore di dichiarare, ancora una volta, guerra totale ai luoghi comuni.

Non si deve dichiarare guerra, non è l’atteggiamento appropriato, anzi è fuorviante per la loro comprensione. Se si ammette la loro improprietà, la spiegazione all’eternità di un luogo comune si eleva limpida davanti a noi:

l’ambiguità lascia spazio ad una potenziale verità. Questo è il perché.

“Si può senz’altro concedere che forse la maggior parte dei pregiudizi sono falsi;

ma lo sono perciò stesso tutti, senza eccezione alcuna? […]. Il modo in cui formuliamo un pregiudizio è sempre un modo scorretto di giudicare. Tuttavia, esattamente come nulla diviene una verità per il solo fatto che è esaminato e indagato in maniera corretta, allo stesso modo nulla diverrà falso per il solo fatto che è esaminato e indagato in maniera scorretta. […] Infatti, anche quando giudica alla cieca e del tutto a casaccio, il nostro intelletto può talvolta comunque giudicare correttamente. […] Se un uomo sposasse una dottrina soltanto perché si tratta di una dottrina antica, potrebbe comunque dare il proprio assenso a una dottrina vera”

7

. Questo ‘gioco’ tra verità e falsità, che si attiva attraverso una modalità sempre scorretta di indagine, rende gli uomini

7 Ivi, par. 10, pp. 35-37.

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tolleranti, pazienti o, addirittura, condiscendenti all’esistenza del luogo comune.

Altrimenti, ancora, non si spiegherebbe perché continuino a vivere anche in coloro che si battono per dare al proprio intelletto l’autentica libertà di pensiero.

Meier ci suggerisce di pensare alle conseguenze di un luogo comune. Non è detto che da esso nascano inevitabilmente giudizi, pensieri o gesti sbagliati.

Quando Dio diviene luogo comune, quando ‘si spera che esso guardi giù’, oppure lo si invoca continuamente in occasioni di meraviglia o stupore, non per fede ma per eredità, possiamo derivarne delle verità teologiche come chi riconosce la presenza di Dio dopo insegnamenti e riflessioni, come chi prega e ha fede.

L’improprietà di un luogo comune, che si dà, lo si è visto, nella forma dell’omogeneizzazione, del particolarismo senza sfumature, ecc., costituisce molto più spesso un ostacolo al raggiungimento della verità, ma non un vicolo cieco. “Sarebbe irragionevole se si volesse considerare falso qualcosa semplicemente in quanto lo si è finora ritenuto vero, o viceversa. […] Un amante della verità, se ragionevole, agisce altrimenti. Se costui ha finora ritenuto vero qualcosa […], e adesso scopre di aver finora giudicato in maniera precipitosa, vede al contempo che fino a quel preciso momento non aveva effettivamente saputo se quel qualcosa era vero o falso. In quel momento egli cessa di ritenerlo vero, ma nemmeno lo ricusa, poiché altrimenti caccerebbe via un demonio per mezzo di un altro”

8

. Una volta riconosciuto, e con il proposito di esaminarlo accuratamente, il luogo comune pone nella condizione di deplorare noi stessi

8 Ivi, par. 13, p. 47.

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per il fatto di aver considerato esclusivamente, e per vari motivi, lo spazio di una sua verità trascurandone l’ambiguità.

Ancora una volta, rigettare il luogo comune non è concretizzabile poiché, nonostante la falsità del contenuto che potremmo riuscire a smascherare, esso mostra, attraverso la forma e alla fine di tutto, la più grande verità di cui l’uomo deve essere consapevole quando ha a che fare con il luogo comune: non si uscirà mai completamente dallo stato di minorità poiché, empiricamente non potremo mai cogliere tutto e con certezza, e il resto di ciò che non cogliamo con le sensazioni e che recepiremo

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conterrà sempre opinioni.

Senza stare a scomporre uno ad uno i luoghi comuni che si odono o che si vedono, la minorità dell’uomo e la formazione di un luogo comune è chiara, ad esempio, quando supponiamo superficialmente e definitivamente che qualcosa è corrispondente alla sensazione che abbiamo, oppure concludiamo che tra gli eventi spesso sussistenti l’uno accanto all’altro in un medesimo tempo, vi sia un legame di causa, oppure ancora che la somiglianza tra due cose venga reputata un’uguaglianza. “È così che alcuni ritengono che il timore che provano per i propri peccati o la gioia che si genera in loro in seguito ad una preghiera siano trasformazioni sovrannaturali, mentre qualsiasi dotto in materia di religione sa che spesso non sono che semplici trasformazioni naturali. Proprio in questa maniera si possono spiegare alcune storie di fantasmi. Un uomo accumula sin dalla propria infanzia una grande quantità di rappresentazioni di fantasmi.

Nottetempo sente e vede qualcosa, e questa sua sensazione può essere del tutto

9 Etimologicamente: recipere, re-capere, prendere indietro.

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identica a una di queste rappresentazioni. Costui giudicherà dunque per precipitazione di aver visto o sentito un fantasma”

10

.

Il luogo comune è una non-verità nel senso che è stato dato, ma è una verità, per me, nel senso di ciò che attraverso la sua non-verità esso rivela. Allora l’uomo nero — che non si avvicinava mai, ma sarebbe sbucato fuori in qualunque posto a castigarci e ancora si aggira per cercare di intimorire i bambini — è la conseguenza di quella precipitazione, o presunzione, per cui si crede di cogliere con le proprie sensazioni l’intima natura degli oggetti corrispondenti. Una sensazione spiacevole diventa la qualità di qualcosa e quindi un male reale. Se il nero è un colore che fa paura o ci indispone perché richiama il buio, l’indistinto, il diverso e poi giudichiamo frettolosamente, allora anche la pelle di un uomo evocherà il pericolo, la malvagità, l’ignota punizione

11

. Così questo inganno si cristallizza e diventa un luogo comune.

Eppure a volte, il prudente s’arma d’una pistola e chiude a chiave la porta, scordandosi di ben altro spettro che gli è più da presso

12

.

10 Meier, op. cit., par. 18, p. 59.

11 Allport, op. cit., Le etichettazioni effettivamente colorite, in Percezione e pensiero in rapporto alle differenze di gruppo, pp. 252-255.

12 Cfr. Stevenson R. L., The strange case of Dr. Jekill and Mr. Hyde, 1886; tr. it. a cura di Brilli A., Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr. Hyde, Milano, Mondadori, 2001.

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3. La valle di lacrime e il nemico

C’è un’altra fonte di vita per i luoghi comuni. Ancora una volta essa scaturisce dalla minorità dell’uomo. Parlarne qui, dove essi sono proposti come pregiudizi, non è un caso. Nel momento in cui il luogo comune si radica nella mente, diventando la regola in base a cui l’intelletto si abitua a formulare giudizi o a far muovere azioni, esso ricaccia lontano ciò che non è conforme al suo territorio.

Rifiuterebbe cioè opinioni o esperienze che lo contraddicono. Se si considera la

parola pregiudizio nella connotazione negativa che accompagna (e consegue)

quella di semplice anteriorità, cioè di danno, giudizio contro qualcosa o

qualcuno, riportata dai dizionari e comunemente usata, capiamo non solo che

questo si svolge al suo interno ma c’è costantemente una guerra di difesa che si

combatte dalle sue mura. L’unica possibilità d’accesso è per opinioni o

comportamenti che gli risultano conformi, degni di abitare le sue terre. Chiuso

in se stesso con la sua verità non-verità e ostile a ciò che resta al di fuori e che

deve rimanere là fuori, come opinione e gesto estraneo, ‘diverso’, punibile con

l’emarginazione, il luogo comune traccia tagli per differenziare al suo interno, e

fuori, con ciò che non è conforme a sé. Se il luogo comune è la non-domanda,

l’illusione di dominio della complessa realtà del mondo, il potere che ci rende

sicuri e ci protegge, allora il senso critico diverrebbe un optional e il dissenso un

reato punibile con il carcere o con la morte. Il luogo comune contamina i

ragionamenti e i gesti con la sua maniera di guardare.

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Può esser scorto anche nel profondo o all’origine di una religione, specialmente quando dà la caccia agli infedeli? È una risposta difficile da dare. “Si osservi solamente l’infinità di giudizi differenti che gli uomini pronunciano riguardo alle opinioni di fede. Si provi a presentare a un ebreo, a un turco, a un pagano e a un cristiano un’opinione concernente la religione: perché l’uno la accoglie e l’altro la ricusa? Di certo il pagano e il cristiano le daranno il proprio assenso se essa è conforme alle loro altre opinioni in materia di fede […]. Un ebreo ricuserà certamente la dottrina delle opere di riconciliazione, dal momento che ha accolto già da parecchio tempo l’opinione secondo cui Dio può rimettere i peccati sine satisfactione. Se si è avvezzi a rappresentarsi il mondo come una valle di lacrime,

come un mondo che è stato completamente corrotto dal peccato, non si troveranno che insensatezze nella dottrina del migliore dei mondi possibili”

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. Se è difficile asserire che ci siano luoghi comuni, ovvero quel determinato sguardo, quel determinato modo di procedere e di mantenersi, quella loro forza, all’origine di una religione, penso invece sia più facile che nelle menti degli uomini essi stessi divengano oggetto di fede da annoverare tra gli dei. Gli uomini si conformano e addirittura manifestano devozione per essi. Come accade per la religione, anche per i luoghi comuni esistono gli infedeli o i peccatori. La salvezza nella società, l’inferno dell’esclusione e dell’etichetta dell’immoralità, la possibilità della redenzione, l’accecamento, dipendono dal rispetto o meno dei loro dogmi. In queste terre, c’è persino posto per il cimitero delle cose che non si usano più, dei comportamenti non idonei.

13 Meier, op. cit., par. 21, p. 65.

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Un dialogo con i non credenti, o tra le religioni, è attuabile, ma raramente i fedeli concludono che non è la loro la dottrina più autentica, e invece rimangono della convinzione che i loro dèi siano i custodi delle verità eterne. Non sto escludendo la possibilità che alla fede in Dio, qualunque esso sia, o all’ateismo, si possa pervenire anche per mezzo di faticose riflessioni ed elaborazioni. Penso questo valga anche per la fede in un luogo comune, qualunque esso sia. Non è assolutamente biasimevole, ma anzi apprezzabile il fatto che un individuo, a poco a poco, sviluppi un ragionamento e delle riflessioni per le quali alla fine accoglierà un tipo di religione anziché un altro. Né si può biasimare del tutto che egli veda il mondo e le sue gesta sulla base di quella religione.

Ciononostante egli non dovrebbe decidere improrogabilmente che il proprio luogo divino sia assolutamente pieno di verità, in cui non si rintraccia niente di

sbagliato e nulla che sia stato creduto vero per puro caso, o per ragioni improprie.

Aprirsi alla eventualità di una modificazione è l’unico atteggiamento che gli è

indispensabile tenere per non farsi accecare dai dogmi e divenire un

fondamentalista. Quanto è frequente, tra i fedeli dei luoghi comuni, lo scandalo

della modificazione, lo smarrimento dalla retta via, il peccato della violazione

dei loro comandamenti? Se la non-domanda, l’improprietà, il caso, la

convinzione-presunzione di avere tra le mani la verità ultima, se insomma il

luogo comune si radica nella mente e nei gesti, al punto tale da divenire una

seconda natura — come accade con le religioni — diverrà persino difficilissimo

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accorgersi di essere guidati, dominati e accecati dal suo potere. L’eventualità di scoprirsi ignoranti rispetto alle cose che ci rappresentiamo, di sapere ancora troppo poco rispetto a quanto dovremmo per essere in grado di esprimerci correttamente, non è, secondo me, l’atteggiamento più diffuso tra gli uomini, altrimenti non si spiegherebbe l’indiscutibilità divina dei luoghi comuni per migliaia di menti e di vite. E così, come gli dèi possono essere tanto favorevoli che sfavorevoli, non bisogna dimenticare che anche un luogo comune, alla luce di quanto detto finora, potrebbe apparire benevolo o sconveniente. Tuttavia vi sono lati del mondo e della gente sui quali quasi sempre si mostra sfavorevole, anzi si crea proprio quel senso orribile che, solitamente e anteriormente alla spiegazione appena fatta, si dà alla parola pregiudizio. In questo caso, il

“pensare male degli altri” è un espressione ellittica che sottende disprezzo, disgusto, paura, antipatia, che spinge alla discriminazione, sia come espressione, sia come modo di vivere, senza elementi di fatto su cui poggiare. Anche in questo caso, o lo si ‘eredita’ tristemente a causa della non-domanda o si è sicuri

— con presunzione — di avere ragioni sufficienti per avvallare il proprio punto di vista. Potremmo parlare di esperienze negative a contatto con i profughi, i cinesi, i neri, i preti, gli omosessuali. Ma, nella maggior parte dei casi, è evidente che tali fatti sono insufficienti o irrilevanti. Cosa accade?

Diventiamo vittime di una selezione individuale dei nostri ricordi, mischiati e

confusi con le notizie, le dicerie, gli ‘sguardi incompleti’ che parlano e creano

attorno una strage di nemici, di mostri, di pazzi. Non possiamo essere sicuri di

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sapere, non ci è dato conoscere tutti i cinesi, i milanesi, i gay, i preti. Quindi ogni giudizio negativo in merito è un esempio di pensiero calunnioso verso un individuo o l’insieme degli individui che parlano la stessa lingua, hanno la stessa pelle o le stesse usanze, un pensiero privo di ragioni sufficienti, dove per sufficienti intendo dire improprie, in cui c’è la stessa probabilità per verità ed errore. Il pregiudizio è l’atto di distruggere qualcosa che ancora non si è costruito.

Se già esperire di ‘prima mano’ non dà certezze, figuriamoci quando di

esperienze dirette con i ‘mostri’ non ce ne sono mai state. Ritorna la

generalizzazione a cui adeguiamo il pensiero e le azioni, ritorna la minorità, i

sensi, la debolezza della natura umana, la miopia, la non-domanda. Il

pregiudizio è esistito in tutte le società, tanto in quelle strutturate in caste,

quanto in quelle in cui c’era schiavitù o si credeva nelle streghe — è esistito ed

esiste sempre. C’è un aspetto, in riferimento alla sua percezione nella società,

che mi preme chiarire: è il sentimento di oltraggio morale, che potrebbe

accompagnarlo o meno, a rendere un giudizio un pregiudizio? Non è il senso

morale di chi osserva a stabilire se gli atteggiamenti o i commenti a cui assiste

sono pregiudizi? No. Bisogna distinguere tra i fatti obiettivi inerenti al

pregiudizio e i relativi giudizi culturali e morali. Se la parola pregiudizio ha un

sapore amaro non è in base al giudizio di valore che suscita. Pensiamo alla

caccia alle streghe: pochi ne facevano una questione morale poiché era un

costume socialmente accettato.

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Quello che mi chiedo è: se il grado di indignazione morale suscitato da un atteggiamento negativo contro determinate persone o cose non è determinante, cosa accade quando il pregiudizio diventa luogo comune? Stando a ciò che si è visto, molto probabilmente, non ci sarà spazio nemmeno per quella indignazione. Quando un pregiudizio si dà nella forma di un luogo comune, è seriamente difficile cogliere la sua gravità. Esso ne sfrutta i mezzi e la potenza, senza considerare la possibilità che gli uomini, contro le persone, dicono o fanno cose che non stanno necessariamente in rapporto diretto con ciò che sentono o pensano di esse. Nel connubio con un pregiudizio, il luogo comune mostra il suo doppio carattere di giudizio e habitus, e si adegua ai vari gradi: quello della diffamazione, quando si parla con l’obiettivo di danneggiamento, o quelli più gravi quando si mantengono le distanze da ‘certe’ persone o si discrimina effettuando concretamente delle distinzioni-esclusioni.

Secondo Allport, di fondo c’è una tendenza dei gruppi umani a restare separati.

Non si tratta di un istinto gregario o di una ‘coscienza della specie’. Tutto si spiega con principi di comodità, di minor sforzo, di congenialità o di orgoglio di appartenere a una determinata cultura. Questa tendenza viene elaborata psicologicamente, viene esagerata al punto che i canali comunicativi tra i gruppi si impoveriscono e si creano conflitti, talvolta fisici, talvolta anche immaginari.

“Un lavoratore messicano nel Texas non ha alcuna relazione con il datore di

lavoro americano. Egli vive per conto suo, parla una lingua diversa, ha una

tradizione diversa, così come diversa è la sua religione. Assai probabilmente i

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suoi figli non frequentano la stessa scuola di quelli del datore di lavoro, e non giocano insieme. Tutto ciò che sa il direttore è che Juan si reca a lavorare, ritira il suo salario e se ne va. Ma egli nota che Juan non è regolare nel lavoro, sembra poco comunicativo. Assai facilmente il datore di lavoro è indotto a ritenere che il comportamento di Juan sia caratteristico di tutto il suo gruppo. Pertanto si svilupperà in lui uno stereotipo concettuale, inerente alla pigrizia, alla imprevidenza e alla insubordinazione dei messicani. Così, se egli si troverà danneggiato economicamente dall’irregolarità di Juan al lavoro, egli potrà avvallare le ragioni della sua ostilità — specialmente se ritiene che le tasse elevate o i suoi danni finanziari siano dovuti ai messicani. Il datore di lavoro di Juan pensa ora che «tutti i messicani sono pigri»”

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.

Ma non tutti i messicani sono uguali e Juan poteva avere valide ragioni per comportarsi in un modo e non in un altro. Si affrontano cose complesse in maniera semplicistica. Delle semplici chiacchiere, delle dicerie sono in grado di aiutare a sollevare masse e quindi linciaggi. Dovremmo credere che uomini in posizioni di potere non siano soggetti alla frettolosità, ai pregiudizi e quindi non determinino la vita di ‘certe’ persone? Pur sfidando l’evidenza dei fatti, si può restare attaccati a un pregiudizio nonostante il riconoscimento dell’errore. La loro resistenza dipende dal nostro intelletto. Come ho già detto, la paura del ribaltamento delle nostre sicurezze, di schemi che ci siamo costruiti o abbiamo accolto per utilità, la presenza di ciò che non è familiare, supera l’evidenza, oppure ci fa aggrappare a quell’unico granello di verità che diventa un’enorme

14 Allport, La normalità del pregiudizio, in op. cit., pp. 25-27.

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isola tranquilla. Inoltre il fatto che la cerchia di persone o amici con le quali viviamo condivide e approva i nostri pregiudizi, ci dà un piacevole senso di integrazione, perché mai dovremmo riconsiderare le nostre opinioni se soddisfano noi e l’ambiente che ci circonda?

Siamo portati a valorizzare il nostro modo di vivere e a sottovalutare o minacciare quello che potrebbe contraddirlo. Gli immigrati scombussolano e mettono in moto i nostri ‘comuni’ sistemi difensivi

15

. Pensiamo a quando una nazione, o il suo governo, sente di avere un nemico che minaccia i suoi valori positivi, per esempio la libertà o la democrazia; allora essa rinforzerà le difese, o meglio dichiarerà guerre, esagerando i meriti della sua causa. Essa sente di essere nel giusto (altrimenti non si spiegherebbe il perché investa tante risorse negli armamenti). Se è vero che ci possono essere guerre giuste, è vero che ogni guerra ha un pregiudizio dietro. Se c’è una reale minaccia ai valori, allora ogni cittadino di quel popolo pericoloso sarà giudicato tale

16

.

È strano, ma persino l’invito alla tolleranza può divenire luogo comune capace di serbare un pregiudizio. “Uno studente del Massachusetts, un apostolo dichiarato della tolleranza, scrisse che la questione dei negri non avrebbe mai potuto essere risolta fino a che non si fosse aperta la mente a quelle teste di

15 Sigmund Freud esprimeva lo stesso pensiero, attribuendo all’amore di sé o al narcisismo i sentimenti di avversione e di antipatia che gli individui provano verso gli stranieri con cui hanno a che fare.

16 Non è da escludere che la ragione ufficiale possa essere solo una copertura per motivazioni che paradossalmente sarebbero molto meno improprie, per esempio fare la guerra a zone strategiche per obiettivi strettamente economici. Anche questa lettura s’è fatta ormai luogo comune.

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cazzo dei bianchi meridionali”

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. Qui la minaccia è avvertita contro il proprio idealismo che non dovrebbe, proprio perché si tratta di tolleranza, condannare nessuno. Oppure coloro che dicono di non essere razzisti ma, spesso senza nemmeno specificare il soggetto della loro affermazione, sanno che se restassero a casa loro sarebbero più felici!. Essi, seppur inconsciamente, difendono i loro propri

privilegi, il loro quieto vivere dietro ciò che appare come comprensione dell’altro.

Vi sono luoghi comuni che si giustificano con quella che Allport chiama “teoria della reputazione meritata”, per la quale vi sarebbero delle presunte obiettive qualità che caratterizzano il soggetto condannato

18

. Ma di per sé la differenza non crea ostilità. C’è ancora qualcosa da scoprire. L’esigenza di definire ciò che abita il mondo e ciò che lo mobilita, è lecita. Tuttavia la precipitazione può deviare, ad esempio, la ricerca e la circoscrizione di una responsabilità. La mancanza, l’indefinibilità del soggetto di alcuni luoghi comuni (“Queste tasse non le pago. Li aspettino pure i miei soldi e che vengano a cercarmi!”), insegna che nell’uomo non solo c’è l’esigenza di individuare un diverso, ma il bisogno profondo di designare un nemico per scaricare rabbia e vedere fuori da sé, lontano, gli aspetti più brutti di un essere umano, come dire a se stessi “non

17 Allport, op. cit., p. 38.

18 Ivi, p. 121. Un esempio di questa teoria: Giobbe Covatta, “Non sono io che sono razzista, sono loro che sono napoletani!”, detta in una trasmissione televisiva, Spartacus (inizio anni ’90). “Tu meriti il posto che occupi”, titolo di una canzone della band bolognese Disciplinatha (metà anni

’90). Sul perché la razza sia diventata il fulcro di ogni generalizzazione di idee relative alle differenze umane, è un argomento importante ma che non è possibile approfondire qui.

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sono io, non sono i miei”. L’‘urgenza di un nemico’ crea un luogo comune ed esso supera l’urgenza stessa di una definizione.

Ritorno al punto di partenza. Grazie ai luoghi comuni e ai pregiudizi che in essi potrebbero nascondersi, se ne deduce, ancora una volta, la minorità dell’uomo.

Essi svelano che stiamo bene con i nostri simili, che siamo strettamente connessi con la loro esistenza. L’individuo insomma non può essere se stesso senza di loro e crede di non poter esserlo senza un nemico. Con i luoghi comuni si impara che il nemico può non essere così diverso da noi.

4. Un’ultima considerazione: vederci nei pregiudizi comuni

“Sono sempre stato consapevole di quello che dicevano, con parole o sguardi.

Quello che gli altri credono di vedere in una persona finisce col diventare la sua realtà. Se pensano che un uomo sia sbilenco, quell’uomo diventerà sbilenco, scoordinato, perché quello è il suo ruolo nella vita di chi gli sta intorno, e se dicono che non si veste bene, lui imparerà a trascurare il proprio guardaroba, per disprezzo nei loro confronti e per punire se stesso”

19

.

Quello che gli altri credono di vedere in noi ha davvero la forza di ‘piegarci’ fino a che non siamo conformi a quella credenza? Lo sguardo del mondo può decidere per noi il ruolo che abbiamo? La risposta è: sì, potrebbe.

19 Don DeLillo, Le confessioni di Benno Levin, in Cosmopolis, Torino, Einaudi, 2003, p. 50.

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Penso alla mente umana, alla socialità dell’uomo, al potere delle istituzioni, penso alla cristallizzazione delle opinioni che diventano verità, alla differenziazione e generalizzazione che il luogo comune compie, ai risvolti negativi di tutto questo, quando la presunzione della sicurezza annienta l’‘umiltà della modificazione’ delle conoscenze. Ho parlato di uso dei luoghi comuni o di essere luoghi comuni. Ho parlato di opinioni o gesti che diventano verità, e di pregiudizi che si fanno luoghi comuni. In merito all’ultimo argomento però sottolineerei ancora un aspetto, perché ritengo sia questo il momento più giusto per comprenderlo.

Vivere di pregiudizi che hanno la forma di luoghi comuni significa appiccicare addosso a persone o cose una rigida definizione, un carattere, un certo senso, con tutte le dinamiche e le conseguenze che scattano nella mente etichettante, completamente distratta dalla realtà concreta.

Cosa avviene però nella mente stessa del soggetto etichettato? Dipende. Visto

che non è possibile sfuggirli o eliminarli, è il grado di influenza che i luoghi

comuni esercitano, cioè il come ne ha a che fare e come li percepisce, a mutare il

comportamento dell’etichettato. A un grado di influenza corrisponde,

riflessivamente, un tipo di comportamento. L’etichetta potrebbe non essere

importante oppure potremmo desiderarla o sentirne gravemente il peso. Il

desiderio di rientrare sotto una definizione che, ad esempio, isoli una

caratteristica (trascurando la totale unità con altre e la complessità della realtà) o

che ci assegni una personalità, è un lato umano che abbiamo già focalizzato.

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Quando però ci si accorge di essere ‘vittime’ di un etichetta che gli altri ci hanno applicato, bollandoci in un certo modo, accadono due cose.

Con lo scudo della consapevolezza dei meccanismi di formazione di un luogo comune e pur sentendo stretto l’abito che ci è stato cucito indosso, potrebbe non importarcene di ciò che gli altri dicono o pensano di noi

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. Sapendo che la sua presenza è inevitabile, è chiaro che il suo sguardo punterà l’attenzione solo su uno dei nostri attributi e ne fa suo oggetto. Ma, se normalmente i luoghi comuni hanno assunto il ruolo di guida dei nostri passi, se quotidianamente si sono trasformati in dèi nei quali riporre fede, allora è probabile che le opinioni e gli sguardi altrui che ci piombano addosso, le etichette che ci pregiudicano, inizino a convincerci che siamo quello che dicono e consentiamo loro di costruire un ruolo per noi. Quando parlo del potere delle etichette penso alle donne e ai ruoli che molte hanno assunto dalla storia. La storia è piena di luoghi comuni

21

. Penso ad oggi, al luogo comune pesantemente suggerito della ragazza bella, magra e famosa. Il “magro è bello” porta al pregiudizio del grasso. Il grasso è brutto e ci si fa convincere da questo e ci si chiude porte che forse, senza quell’etichetta, sarebbero ancora aperte.

20 Segui il tuo corso e lascia dir le genti”, scriveva Marx il 25 luglio del 1867.

21 “Le donne sono poi come dei bambini cresciuti; posseggono una notevole loquela e talvolta spirito; ma quanto a ragionamento concreto e buon senso, non ne ho mai conosciuta in tutta la mia vita una che ne fosse provvista, o che ragionasse e agisse in modo consequenziale per ventiquattro ore di seguito. Un uomo di buon senso […] non chiederà mai loro consigli, né tratterà con loro affari seri, pur facendo talvolta loro credere entrambe le cose, poiché di una tale fiducia esse vanno del tutto orgogliose”. Chesterfield P. D., Lord Chesterfield’s letters to his son and others, London, 1929; ed. it. Lettere al figlio 1750-1752, Milano, Adelphi, 2001.

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Profezie che si auto-adempiono, etichette che creano la realtà a cui si applicano, pregiudizi, perdita dei dettagli, della personalità, errori, improprietà, minorità.

Tutto questo non è triste?

Prima di ragionare attorno ai luoghi comuni provavo avversione, ma è un sentimento che oggi s’è ridimensionato. L’assoluta condanna sarebbe stata l’adozione della loro prospettiva, quella della non-domanda, in cui risiedono i

‘nemici’. Forse avrei continuato ad appiccicarmi addosso l’etichetta dell’anti- luogo comune se non mi fossi sforzata di cercare un tipo diverso di domanda nell’infinito complesso delle possibilità.

C’è qualcosa che possa rincuorare gli uomini della loro limitatezza e quindi

giustificare l’uso di luoghi comuni?

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