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CAPITOLO II

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Academic year: 2021

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CAPITOLO II

MONOLOGHI VISIVI

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1. LA FOTOGENIA

«Al cinema guardo, annuso, tocco. Primo piano, primo piano, primo piano» (Jean Epstein, Ingrandimento)

Per comprendere meglio il processo evolutivo dal quale sorge l’espressività dell’attore al cinema, è necessario conoscere il significato di ciò che determina le varie espressioni emozionali del volto, ovvero la fotogenia.

Il termine photogénie nasce nel XIX secolo, nell’ambito del linguaggio fotografico e viene usato con riferimento al cinema in un articolo della rivista Le

Film nel 1917, nella variante photogénique. Già negli anni Venti questo termine

fu oggetto di accesi dibattiti e ancora oggi la paternità dell’aggettivo è al centro di numerose discussioni, non solo per l’attribuzione di un “padre”, ma soprattutto per il significato del termine, che rimane ancora misterioso e inconoscibile. Colui che certamente contribuì a una sua più specifica definizione fu Jean Epstein, regista e teorico nato in Polonia e vissuto in Francia, il quale si soffermò a lungo, insieme ad altri studiosi, sul significato di questa parola.

Si tratta della rappresentazione di un concetto; la fotogenia può indicare le qualità compositive, plastiche o illuministiche delle immagini cinematografiche, ma anche gli attributi che deve possedere un attore per ben figurare sullo schermo. La presenza di questo elemento all’interno di un’immagine è come se aiutasse a definire cosa deve essere il cinema.

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«Che cos’è la fotogenia? Chiamerò fotogenico ogni aspetto delle cose, degli esseri e delle coscienze che accresca la sua qualità morale attraverso la riproduzione cinematografica» afferma Epstein.

Contrariamente a chi include sotto la definizione di fotogenico anche l’aspetto illuministico dell’immagine, Pierre Henry risponde: «la bellezza fotogenica ideale è quella che ‘rende’ egualmente sotto ogni angolazione immaginabile e non ha bisogno di illuminazioni particolari per essere valorizzata».

Le opinioni a riguardo sono divergenti. «C’è da rompersi la testa a volerla definire» scrive Epstein nel 1921, in Bonjour Cinéma. Anche Louis Delluc, teorico, regista e sceneggiatore, tra i primi ad approdare sul pianeta fotogenia, non ne aveva mai dato una definizione. Egli diede un contributo fondamentale al processo di elaborazione teorica che andava sviluppandosi negli anni Venti. Sviluppò il concetto di ‘oggetto fotogenico’, vale a dire la valorizzazione delle qualità dell’oggetto per caricarlo di significati e renderlo emotivamente forte. Affinché la fotogenia possa emergere è necessario, secondo Delluc, curare con attenzione quattro elementi: décor (scenografia), lumière (luce), cadence (montaggio) e la masque (maschera). L’attore viene infatti considerato principalmente una maschera, un elemento puramente creativo.

La fotogenia esprime l’accordo tra un soggetto e un oggetto della visione. La natura di questo accordo tra due polarità oscilla tra la casualità e la capacità di ‘saper vedere’ che deve caratterizzare il cineasta.1

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G. PESCATORE (a cura di), Fotogenia. La bellezza del cinema, in «cinema & cinema» , 64, 1992, p. 8

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Occorre saper cogliere la verità intima dell’immagine, il suo aspetto fotogenico e affinché ciò avvenga è necessaria la competenza tecnica ed espressiva:

Questa è bellezza, bellezza superiore, direi quasi la bellezza del caso, ma bisogna rendere giustizia all’operatore: ha saputo vedere con tale abilità da farci provare le sue stesse sensazioni di mare, di cielo, di vento. Non è più un film. È la verità naturale.2

Epstein raccolse l’insegnamento di Delluc e diede al concetto di fotogenia un significato quasi filosofico. Dinnanzi alla fotogenia ci si trova difronte a qualcosa di paradossale: è evidente e facilmente percepibile – grazie alla sua rappresentazione – ma risulta complicato e macchinoso spiegare a parole la sua vera natura. Da questo presupposto, nasce la funzione dell’arte, ovvero quella di svelare la bellezza e il mistero del mondo. E il suo disvelamento è possibile grazie all’artista che, in quanto educatore delle masse, rappresenta la realtà scomparendo dietro le sue opere. La fotogenia è lì, in quelle immagini. Riguarda il significato intrinseco dell’immagine e ne potenzia il valore. Si tratta di un accordo, un equilibrio perfetto di qualità, significati, caratteri specifici di oggetti e persone. E la sintonia tra queste parti svela la loro “verità intima” – come la chiama Epstein – che apparirà chiara. Il risultato di questo accordo è proprio la fotogenia quindi, ovvero la qualità specifica del cinema. Non è dunque l’oggetto fotogenico ad essere misterioso – essendo sotto gli occhi di tutti – bensì le sue leggi, il suo valore.

La fotogenia è l’arte di vedere e di mostrare, l’essenza stessa del cinema che unisce il talento riproduttivo della fotografia a quello ritmico vitale del movimento […] la fotogenia si ha quando fotografia e cinema raggiungono un accordo in equilibrio,

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un’armonia che fa vedere senza farsi vedere. Lo spettatore esige tutti i raffinamenti della tecnica ma non deve cogliere cosa ci stia dietro: il cinema è il mezzo per eccellenza in grado di educare l’occhio dell’uomo comune alla bellezza del mondo che altrimenti passa inosservata.3

Dalla metà degli anni Dieci, quegli anni in cui gli scritti francesi si diffondevano vigorosamente, la parola fotogenia ricorreva come una sorta di parola d’ordine, rappresentava, cioè, quella svolta estetica di cui il cinema aveva bisogno. Era il simbolo dell’opposizione alla tradizione. Un elemento così affascinante che però, via via nel tempo, ha perso la considerazione di fruitori e critici che, rispetto alla valutazione dell’immagine in sé, hanno investito molto di più la loro attenzione sull’aspetto narrativo del film.

Nonostante Epstein sia partito dalle considerazioni fatte da Delluc, egli si allontana un po’ dal suo mentore. Tra i due teorici si può notare, infatti, una sostanziale differenza di pensiero che si trova proprio nel tema riguardante il primo piano. Entrambi esaltano la forza espressiva di questo taglio cinematografico ma, ancora una volta, si scontrano pareri discordanti: secondo Delluc il primo piano assume il valore di figura retorica, di sineddoche, quindi di parte del tutto, proprio come il cinema è sineddoche del mondo naturale. Secondo Epstein, invece, il primo piano è autonomo e indipendente, espressione di un’idea astratta. Capacità sinestetica e immediatezza si confrontano e si scontrano in una ricerca profonda e indefinibile. L’intera sfera del sensibile viene così sollecitata e mobilitata, alcune certezze crollano mentre altre sfuggono.

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Le cose viste al cinema rinascono ogni volta che vengono osservate, sbocciano come se fossero viste per la prima volta, poiché la visione cinematografica ristabilisce la “naturalità” del mondo; restituisce l’immagine delle cose nella loro condizione più sincera. La mobilità del cinema fa da specchio alla mobilità del mondo e il loro accordo segreto nasconde quella pozione magica chiamata fotogenia, così variabile e discontinua. E le immagini riescono a veicolare il risultato dell’incontro di queste due mobilità. In entrambi i casi si tratta comunque di assistere a uno spettacolo chiuso in sé, completo e unitario perché contenutisticamente esaustivo.

L’uso iniziale che Delluc fece del termine fotogenia presupponeva che il “reale” fosse alla base della rappresentazione filmica ma che venisse anche trasformato in qualcosa di nuovo, in modo tale da realizzare quello che chiamava “il miracolo del cinema”, che stilizza ma non altera la realtà. L’effetto della fotogenia doveva essere unico: far vedere le cose ordinarie come se non fossero mai state viste prima.4 In tal modo la fotogenia si rivela lo strumento col quale si può defamiliarizzare il familiare, come dicevano i russi. Non è semplice, dunque, spiegare a parole la grandezza delle sensazioni che si provano davanti a un’immagine fotogenica, nonostante spesso si cada nella banalità di definire un volto “semplicemente” – appunto – fotogenico. Per questa ragione Delluc, nello sviluppo delle sue riflessioni, ritorna più volte sul concetto anche per affermare che la semplice fotografia non è fotogenia ma, come abbiamo detto, un accordo superiore tra cinema e fotografia. Qualcosa che non è semplice tecnica, ma il carattere di una figura. È la qualità rivelatrice del cinema, quell’equilibrio tra la

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realtà del volto di un attore e la sua rappresentazione, che fa accedere poi ad una verità profonda.

Fra il 1915 e il 1919 la critica cinematografica francese attraversa un periodo di sviluppo, in quanto il cinema diviene spettacolo di massa e nuova forma d’arte. Come affermato pocanzi, molti autori si vedono impegnati nella riflessione sul nuovo mezzo e termini come fotogénie e cinégrafie si rivelano cruciali, e risultano più che mai instabili nel loro significato. Questi termini si rivelano in contesti intellettuali diversi fra loro, non restano relegati solo nell’ambito cinematografico, si trovano nelle correnti artistiche, nel marxismo e anche nella psicoanalisi freudiana. Se fino a poco prima l’attenzione verteva attorno alla narrazione, con gli anni qualcuno iniziò a soffermarsi sul metodo di descrizione o rappresentazione. Questo nuovo approccio si fece spazio sempre più perché i francesi credevano nell’enorme potenzialità del cinema, che infatti si rivelò ben presto mezzo di conoscenza oltreché di espressione artistica. Questo suo grande potere cognitivo risiede nella cinepresa, nel proiettore e nello schermo.

Emile Vuillermoz, compositore musicale e critico cinematografico, era convinto che il racconto filmico potesse essere uno strumento straordinario «per l’espressione della vita interiore, soggettiva di un personaggio».5

Influenzato dall’estetica simbolista, Vuillermoz vede nella cinepresa un mezzo per trasformare gli attori in «corpi astrali», la cui essenza viene consegnata allo spettatore in un incontro intimo e diretto. Un nuovo legame “umano” si stava dunque affermando, quello attore-spettatore, che divenne ben presto cuore pulsante, sede della misteriosa attrazione del cinema. La figura dell’attore,

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misteriosa e affascinante, iniziava ad attrarre l’attenzione di tutti, divenne incarnazione di desideri e sofferenze; un’entità astratta ma reale. Delluc vedeva l’attore come creatura straordinaria e non come un personaggio immerso in un sistema di continuità basato su convenzioni specifiche; come immagine separata dallo spettatore, che ne è disturbato quanto incantato. In quella immagine si può scoprire la condizione umana e questo fa sì che la rappresentazione divenga potente, creando uno straordinario sistema di sguardi che si rivela quasi psicoanalitico. All’origine di questo legame c’è una figura, una semplice immagine che dà origine all’inquadratura, unità di base comprendente i vari elementi fotogenici che operano dentro e fra le inquadrature e si congiungono poi attraverso il montaggio. Da qui l’emozione che solo il cinema riesce a dare a chi osserva. Per tutti questi motivi il primo o primissimo piano rappresenta l’inquadratura psicologica per eccellenza, «è il pensiero autentico del personaggio proiettato sullo schermo […] e col mezzo cinematografico il regista crea un brano di vita interiore» afferma Delluc. Questi brani di vita vengono coniugati dalla geniale costruzione del ritmo delle immagini filmiche, ovvero il montaggio che, secondo Epstein, è la fonte dalla quale deriva la funzionalità drammatica, formale e psicologica della pellicola cinematografica.

L’inquadratura è come un dipinto o una scultura in movimento, i suoi elementi grafici si ricombinano continuamente in schemi ritmici, quasi matematici.6

Pronunciando la parola fotogenia insomma

evochiamo quell’esperienza ma indichiamo al tempo stesso una mancanza di parole, un vuoto, una luccicanza che abbaglia le categorie dell’analisi e ne mostra tutta intera

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l’inadeguatezza. Cogliendo quella verità che altri strumenti di precisione non sanno cogliere, fotogenia ci ricorda che le scienze umane non sono scienze esatte e che pure tendono a un’esattezza di altro ordine.7

E qui entrerebbe in gioco un concetto molto vicino a quello di fotogenia, ovvero quello di cinegrafia, cioè lo svolgimento ritmico o strutturale della fotogenia nel corso di un film.

Cosa accade dunque allo spettatore che sta davanti allo schermo?

Assiste alla rivelazione. Mediazione, descrizione e contemplazione camminano a braccetto, in un universo sospeso e reale, finto ma vero. Il regista diventa poeta e grazie all’occhio della cinepresa nel consueto si rivela il nuovo. La fotogenia rivela il potere di dare accesso a un mondo di mistero e le immagini seguono il flusso mentale del regista che, come in una composizione musicale, diviene un direttore d’orchestra che dirige le “sinfonie di luce”, per dirla con le parole di Vuillermoz. Così il fotogenico si trasforma in cinematografico.

A rivelarsi fotogenico era ciò che si muove, che muta, ciò che viene a rimpiazzare ciò che sarà stato, la fotogenia, in qualità di regola fondamentale, metteva d’ufficio la nuova arte al servizio delle forze della trasgressione e della rivolta.8

Con la nozione di fotogenia nasce quindi l’idea del cinema-arte. Essa è per il cinema ciò che il colore è per la pittura e il volume per la scultura, ossia l’elemento specifico di quell’arte.

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M. DALL’ASTA, “Non ci sono mai state storie”. I teorici francesi e i problemi del racconto, in

Fotogenia…, cit., p. 40 8

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«Il cinema non è letteratura più di quanto non sia pittura, scultura, architettura o musica», scriveva Moussinac, «è un’arte profondamente originale che può prendere in prestito dalle altre arti certi elementi della sua forma definitiva, ma le precise leggi che lo sorreggono restano ancora da scoprire».9

Nella storia del cinema, come in quella dell’umanità, due immensi universi si affiancano in un continuo incontro-scontro: da un lato l’antica, austera ma trasgressiva Europa, dall’altro la giovane e potente America. L’approccio che questi due mondi ebbero nei confronti della fotogenia fu differente, se da un lato l’Europa puntava a indagare consapevolmente i caratteri fotogenici, concependo la fotogenia come legata a qualcosa di sottile e filosofico, concetto profondamente intellettuale ed elitario, dall’altro il Nuovo Mondo americano si muoveva istintivamente verso la fotogenia, lasciandosi trasportare da essa senza troppo preoccuparsi di definirla e spiegarla. Questa semplicità di approccio garantì al cinema americano un immediato giudizio positivo da parte del pubblico mondiale. Gli europei, invece, condizionati e intralciati dal classicismo della loro cultura, erano come frenati nell’esercitare questa nuova arte in maniera libera e spontanea, ogni cosa veniva vagliata e studiata nel dettaglio; combattuti e consapevoli, gli europei hanno sempre cercato di infrangere quelle regole che in realtà si rivelavano dominanti nelle loro opere. Gli americani, al contrario, meno “obbligati” da un pesante passato intellettuale, hanno cercato di liberarsi da quei fardelli che incatenavano gli amici europei.

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L. MOUSSINAC, Cinématographie, in Mercure de France, 1° novembre 1921, in Fotogenia…, cit., p. 27

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2. LA LIROSOFIA

Dietro la macchina da presa e soprattutto sulla superficie dello schermo è possibile esplorare le operazioni non-linguistiche, non-razionali dell’inconscio umano, per questo Epstein credeva in una “grammatica” e “logica” dell’inconscio, che chiamava lirosofia, ovvero qualcosa in grado di fornire una base epistemologica o ontologica all’arte filmica. La lirosofia è la confluenza di lirismo e filosofia in un unico “corpo”; rappresenta la possibilità di ampliare le capacità conoscitive dell’uomo grazie alla fusione del mondo sensibile e della sapienza, cioè delle sensazioni e della conoscenza. È l’incontro di ciò che sappiamo e ciò che percepiamo.

Per la prima volta si faceva spazio nei discorsi critici francesi l’affascinante opera di Freud ed Epstein contribuì ad allargare i confini della conoscenza approdando sul pianeta lirosofia, dove lo sguardo si rivolge verso la dimensione del subcosciente e si affaccia oltre i territori conoscibili. Epstein credeva nell’ “indipendenza” della cinepresa, cioè nella sua capacità di agire come cervello meccanico e quindi indipendente dall’agire umano e nella sua capacità di sfondare i confini convenzionali della percezione umana. Il cinema sembrava creare dunque un nuovo sistema di conoscenza lirosofica, appunto, portando alla conoscenza dell’inconscio grazie all’estensione del senso della vista. Se consideriamo il film come nuovo strumento di conoscenza esso può descrivere ciò che accade «fra lo schermo e lo spettatore come una misteriosa trasmissione di

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energia, come nel fenomeno della respirazione, o in quello di ricevere un sacramento».10

Il cinema è allora qualcosa che comunica senza bisogno di parlare, dove si può fare a meno della parola senza cessare di capirsi; è per questo che Roland Barthes accosterà il concetto di fotogenia a quello di alchimia. La sua funzione non può ridursi alla semplice efficacia tecnologica; è un potenziale emotivo, non basta posizionare una cinepresa davanti a un soggetto affinché ciò che chiamiamo fotogenia venga alla luce, essa è qualcosa che arriva in un certo momento che va assecondato e accolto. Da un lato abbiamo il mondo e dall’altro il cinema. Se da un lato il cinema ha la capacità di cogliere il mondo, dalla parte del mondo c’è qualcosa che è fatta per essere colta dal cinema; qualcosa che svelato dal suo sguardo dà l’impressione di vedere per la prima volta anche le cose più ordinarie.

Alla domanda “quali sono gli aspetti fotogenici delle cose, degli esseri e delle anime, gli aspetti ai quali l’arte cinematografica ha il dovere di limitarsi?” Epstein risponde che «l’aspetto fotogenico è una componente delle variabili spazio-tempo. Questa è una formula importante. Se ne volete una traduzione più concreta, eccola: un aspetto è fotogenico se si sposta e varia simultaneamente nello spazio e nel tempo».11

La mobilità simultanea lungo le dimensioni dello spazio-tempo è la chiave della fotogenia e non si applica solo all’aspetto esteriore delle cose, è anche la chiave della più profonda drammaturgia cinematografica.

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R. ABEL, Fotogenia e cinegrafia, in Fotogenia…, cit., p. 37

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E’ molto chiaro dunque che quella epsteiniana è pura filosofia. E ciò emerge anche dal fatto che il concetto di fotogenia da lui sviluppato è simile a quello del sublime kantiano: la manifestazione dei limiti della cognizione, una manifestazione che provoca nell’osservatore uno stato di ansia dovuta alla consapevolezza dei propri limiti, ma a rassicurare il soggetto subentra la ragione. Nella concezione di Epstein, però, la ragione non riesce a sanare la frattura apertasi nella coscienza, poiché gli appigli dell’esistenza vengono a trovarsi in crisi. Il corpo, il volto divengono qualcosa di inconsistente e la coscienza rivela la sua insufficienza nello spiegare ciò che vede. L’intelletto razionale non riesce a dare una risposta altrettanto sicura come l’affidabilità della percezione. «Il cinema crea un regime di coscienza particolare» scrisse infatti Epstein nel 1921, in

Grossissement.12 Ciò accade perché l’obiettivo della macchina da presa è un occhio senza pregiudizi, scevro d’influenze e vede nei tratti ciò che noi spettatori, col nostro carico di simpatie, culture e influenze non vediamo e non sappiamo vedere. La percezione ordinaria si estingue per qualche istante, insieme ai significati che ora si alternano e si scambiano mediante la complessità della luce e del tempo.

L’idea di cinema che dunque Epstein sviluppò nel corso dei suoi studi è quella di un cinema puro, ovvero pervaso dalla fotogenia in quanto espressione più pura del linguaggio cinematografico. Questa nuova proprietà cinematografica delle cose contiene il potenziale emotivo delle immagini, che si vedono aumentare, proprio grazie alla riproduzione cinematografica, il loro valore estetico e morale. La mobilità fotogenica è dunque una mobilità soprattutto interna più che esterna. È il

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S. LIEBMAN, “When the light of sense/goes out in flashes…”: il cinematografo visto dall’Etna, in

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cinema stesso, ovvero potenza analitica e sua espressione. È una nozione libera: insieme semplice e indefinibile, vaga ma precisa.

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3. LO SCHERMO È UN ALTOPARLANTE

La “chiaroveggenza” del cinematografo è tale da rappresentare il mondo nella sua mobilità continua e profonda. Esso scopre dei movimenti là dove il nostro occhio non vede che stasi; raggiunge l’anima del visibile e dell’udibile, rivelando «le apparenze dello spirito e lo spirito delle apparenze».13

L’arte cinematografica la si può accostare, di diritto e senza indugiare, alle grandi scoperte quali quelle di cannocchiali astronomici e microscopi; in egual modo aiuta a visualizzare e comprendere ciò che accade in luoghi vicini ma lontani, minuscoli ma immensi. Sullo schermo i pensieri e le sensazioni più segrete vengono messe a nudo e rivelate con chiarezza. Ciò che la mente non ha il tempo di trattenere, né l’occhio ha la capacità di percepire in un’espressione, il cinema lo mostra e permette di esaminarlo come sotto una lente di ingrandimento.

Lì, le migliori menzogne restano prive di forza, mentre la verità esplode a prima vista, colpisce lo spettatore con l’immediatezza dell’evidenza, suscita in lui un’emozione estetica.14

Il cinematografo registra e riproduce un soggetto e, nel farlo, lo trasforma e lo ricrea donandogli un’altra personalità e un altro aspetto, forse quello vero. E il vedersi sullo schermo mette in dubbio l’identità di chi si osserva poiché mette in evidenza il suo essere in modo diverso rispetto a come il soggetto si percepisce nella realtà. Il soggetto realizza, così, di non pensarsi come si vede. Per questa ragione il primo piano costituisce «un attentato all’ordine consueto delle apparenze». Nei gesti l’intelligenza scompare davanti all’istinto che è l’unico a

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J. EPSTEIN, L’essenza del cinema…, cit., p. 77

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poter governare giochi di muscoli così sottili, sfumati e ciecamente giusti. Il mondo delle forme si rivela a chi sa osservarlo. La soggettività propria del meccanismo di ripresa amplifica l’emozione «rappresenta le cose non come sono percepite dagli sguardi umani, ma solo come le vede lui, secondo la sua struttura particolare che gli attribuisce una personalità».15 Ha un potere inquisitorio ineguagliabile e innegabile. Osservata in primo piano, la mimica rivela i sussulti, le contrazioni, le inquietudini e le esitazioni, ma anche la sicurezza, lo stupore e le angosce. Assurdo quanto vero, non c’è nulla che, rimanendo in modo assoluto al proprio posto, possa estendersi così tanto al di là come l’occhio.

In campo educativo e terapeutico il mezzo cinematografico, e soprattutto il ralenti del movimento di un volto, rappresentano uno strumento d’introduzione alla psicanalisi, di diagnosi. Addirittura i pazienti, osservandosi, imparano a conoscere il proprio problema e a individuare gli squilibri che ne derivano, in tal modo riescono meglio a lavorare sulla correzione del comportamento. Ma, se vogliamo, il mezzo cinematografico nasconde un’altra faccia: «rivela le verità spiacevoli solo per poterle meglio nascondere; questo sperimentatore di sincerità è anche maestro di menzogna».16 Il cinematografo è dunque un robot intellettuale, potremmo dire, che si serve di foto ed elettromeccanici per elaborare figure e pensieri. Riproduce la vita mentale di cose e persone con esattezza profonda. La sua natura è legata all’umano ma non è destinata a svolgere un lavoro identico all’uomo, tutt’altro: deve raggiungere quei luoghi a lui inaccessibili.

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J. EPSTEIN, L’essenza del cinema…, cit., p. 84

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Non furono né le tempeste né le eruzioni dei vulcani i nuovi e sorprendenti temi che vennero in luce grazie all’impiego dei mezzi espressivi dell’arte cinematografica. Al contrario, vennero in luce i particolari più nascosti: la piccola lacrima che brilla sul ciglio dell’uomo e che è invisibile o insignificante sulla scena teatrale.17

Questa nuova arte non mostra soltanto una storia ma ce ne comunica il significato. Come sostiene Bèla Balàzs, non si tratta solo di storia dell’arte ma della storia dell’uomo. I gesti più banali o impercettibili fanno la differenza:

Un uomo corre alla stazione per salutare la donna che ama, per dirle addio. È sulla banchina. Non vediamo il treno, ma comprendiamo che “lei” è già seduta in uno degli scompartimenti. Non vediamo altro che un primo piano dell’uomo, una breve contrazione dell’angolo della bocca, mentre sul viso luci e ombre si alternano sempre più rapidamente. Nell’occhio dell’uomo brilla una lacrima. Questa è la scena. Non c’è altro. Non dobbiamo indovinare che cos’è successo. Oggi lo indoviniamo facilmente.18

Le luci che riflettono sul volto dell’attore sono quelle del treno che, partendo, ha diviso i due amanti per sempre.

Sua maestà il volto, come era accaduto nei dipinti per secoli interi, ricco di sfumature e contrasti, può parlare senza parlare. E non parlare, non significa non avere nulla da dire. Chi non parla può avere in sé qualcosa che deve essere espressa soltanto in forme, immagini, mimica e gesti.

«Ciò che il volto e i suoi movimenti dicono, nasce da uno stato d’animo che mai potrebbe essere rivelato dalle parole. Lo spirito diviene allora simile al corpo:

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B. BALÀZS, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Torino, Einaudi, 2002, p. 21

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visibile».19 I concetti si trasformano in corpi e in sguardi. Ogni cosa la si vede dal di dentro, lo spettatore guarda gli occhi di chi sta guardando degli occhi; lo sguardo è filtrato e immedesimato al contempo. Guardiamo e siamo guardati. La scoperta dell’arte cinematografica strappò il primato al principale ponte di collegamento fra uomo e uomo, la stampa, ovvero la parola e così il linguaggio dei gesti si rivelò ben presto la vera lingua materna dell’umanità. Quei fattori che restano inespressi nonostante la cultura verbale divengono esprimibili solo attraverso la mimica e il cinema si offre al suo servizio; dà voce all’uomo invisibile, l’uomo interiore. Spalancò prepotentemente la porta sul sentiero della grammatica dei gesti e il pubblico iniziò ad accorrere al cinema comprendendo perfettamente quel che aveva da dire, senza attendere che le accademie più accreditate confermassero teorie. Si acquisì più familiarità con la psicologia, ovvero quella disciplina capace di dire qualcosa prescindendo dalla capacità di esprimerlo a parole e il linguaggio mimico si rivelò suo migliore alleato, poiché assai più personale di quello della parola. Non esistono “errori mimici” da correggere e l’espressione del volto non conosce l’ostacolo della diversità di lingua o di cultura. La fisionomia e la mimica sono le forme d’espressione più soggettive di cui l’uomo disponga. Più soggettive di un linguaggio, influenzato da determinate regole grammaticali. La mimica è espressione indipendente, la più soggettiva delle comunicazioni. Osservando la mimica degli altri ci poniamo in contatto con sentimenti diversi dai nostri e, automaticamente, li impariamo. Il gesto non solo è un impulso affettivo ma anche ispirazione. Il successo internazionale dell’arte cinematografica risiede proprio nell’intelligibilità della

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mimica e dei gesti degli attori, visti come esseri umani. La lingua del cinema è solo una, comprensibile universalmente, esattamente come sono comprensibili i volti di ognuno nella vita reale. Il film muto è indubbiamente il caposaldo di questa espressività. Ed è così che l’umanesimo internazionale si serve del cinema come strumento utile. Quel faro posto alla sommità del corpo si scoprì così universo ricco di costellazioni e significati e trovò nel film il posto ideale per esprimersi nel modo più completo.

Balàzs ritiene che «accanto all’espressione del volto dell’attore v’è nell’inquadratura l’espressione dell’inquadratura stessa, la quale sottolinea e intensifica al massimo le gradazioni e le sfumature della rappresentazione». Come sostiene Marco Vallora: il vedere cinematografico è un viaggio vertiginoso entro la spazialità illusoria della pellicola.

Quando sullo schermo un personaggio guarda negli occhi l’amata, guarda al tempo stesso dentro i nostri occhi. I nostri occhi sono dentro la macchina da presa, si identificano con gli occhi dei personaggi. Afferma Balàzs.

Nel movimento della macchina da presa vi è un fortissimo fattore drammatico, capace di iniettare nello spettatore esattamente le stesse sensazioni di chi, nel film, sta vivendo quella scena e, straordinariamente, può sortire l’effetto contrario, omettendo ciò che sta difronte al soggetto che guarda. Accade spesso, infatti, che un attore stia guardando qualcosa e la macchina da presa non riveli ciò il soggetto guarda: se viene mostrato un volto che guarda qualcosa senza che si possa vedere cosa stia osservando, occorre dedurre dall’espressione dell’attore di cosa si potrebbe trattare ed allora il volto rispecchierà, come sempre, ciò che sta

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guardando. Nessun’altra forma d’arte potrebbe fare altrettanto. Il valore altamente lirico della macchina da presa risulta essere, così, ineguagliabile. La macchina traduce dunque effetti psicologici che, dal protagonista, si riverberano sullo spettatore con la stessa intensità.

Così nella sala cinematografica si intrecciano catene di sguardi. Osserviamo lo sguardo della macchina da presa, quindi quello del regista, che guarda quello dell’attore, il quale “guarda” lo sguardo dello spettatore. Di conseguenza l’inquadratura contiene al suo interno più rappresentazioni artistiche: alla mimica caratteristica dell’attore si aggiunge l’inquadratura dell’operatore, il taglio del regista e l’illuminazione della fotografia. Accanto all’espressione del volto dell’attore vi è dunque nell’inquadratura l’espressione dell’inquadratura stessa. La ripresa cinematografica non riproduce soltanto una scena, ma dà alla scena stessa una sua forma.

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5. IL PRIMO PIANO DI JEAN EPSTEIN

Vedere significa idealizzare, astrarre ed estrarre, leggere e scegliere, trasformare. Sullo schermo rivediamo quello che il cinema ha già visto una volta: trasformazione doppia o piuttosto di riflesso. Qui la bellezza è polarizzata come una luce, bellezza di seconda generazione, figlia, ma figlia nata prematura, da una madre che amavamo ad occhio nudo, e figlia un po’ mostruosa. È per questo che il cinema è psichico. Ci presenta una quintessenza, un prodotto distillato due volte.20

Il primo piano è l’anima del cinema. Anche se breve, al suo interno vagano frammenti di un’emozione; l’effetto della fotogenia dura solo qualche istante, si tratta di una scintilla, di un’eccezione. Una frammentazione. La fotogenia è un valore che si misura in secondi. Parossismi intermittenti scuotono come punture. Un viso che si prepara a sorridere è più bello del riso stesso, un istante da interrompere. E’ lì l’energia. Nella bocca che sta per parlare e ancora tace, nel gesto che oscilla tra la destra e la sinistra, nell’indietreggiare prima del salto, e il salto prima dell’ostacolo, il divenire, l’esitazione, la molla carica, il preludio e, ancora di più, il piano accordato prima dell’inizio. Il germoglio di pensiero da cui scaturisce il gesto è forse più importante del gesto stesso. Il cinema, subdolo radiografo, scuoia fino al midollo, fino a ciò che non è palpabile. La fotogenia si coniuga al futuro e all’imperativo; è dinamismo, creazione. Non ammette immobilità. L’immensità di uno stato viene incredibilmente contenuta nei limiti illimitati di un’inquadratura che esprime al massimo la fotogenia del movimento: il primo piano, ovvero la chiave di volta del cinema. Si può assistere al vero dramma solo perché esiste il primo piano; un racconto che solo il cinema riesce a

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dare. Quel racconto scaturito da un movimento interiore che si riflette all’esterno, anche senza volerlo. Quel che si osserva sullo schermo è certamente legato alla realtà del mondo, ma il cinema vede “la sua” verità. Epstein infatti coglie la verosimiglianza come una minaccia per il cinema, un attentato alla verità del racconto cinematografico. La verosimiglianza è concepita come parvenza di verità, convenzione, artificio. Il cinema assorbe e interiorizza una storia, ma la restituisce agli spettatori nel modo che gli è proprio.

Come nell’ipnosi dal primo piano di un volto sgorga una sorgente di energia nervosa, che richiama qualcosa di illogico ma incredibilmente eloquente. Il primo piano è un’analisi, una drammaturgia minuziosa, scarna e sottile, agli antipodi del teatro dove tutto è suonato col pedale, il primo piano che amplifica esige la sordina.

Così come passeggiando ci si abbassa per guardare meglio una pianta, un insetto o un sasso, l’obiettivo della macchina da presa deve incastonare in una veduta di un campo il primo piano di un fiore, di un frutto o di un animale: nature vive. Il volto è dunque emblema di uno stato d’animo e come tale diviene paesaggio. E la “danza del paesaggio” è fotogenica. Il regista suggerisce, poi persuade e poi ipnotizza. La pellicola è “soltanto” una connessione tra questa fonte di energia nervosa e la sala che respira il suo irradiarsi.

[…] Di colpo lo schermo ostenta un volto, e il dramma, a quattr’occhi, mi dà del tu e si gonfia a intensità impreviste. Ipnosi. Ora la tragedia è anatomica […] Arte ciclope. Arte

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monosenso. Retina iconottica. Tutta la vita e tutta l’attenzione sono nell’occhio. L’occhio non vede che lo schermo. E sullo schermo solo un volto come un grande sole.21

Dramma in presa diretta, il primo piano rafforza, già solo per le sue dimensioni. L’ingrandimento agisce sull’emozione, la conferma e poi la trasforma e lo spettatore, allora, si inquieta davanti a quell’impressione di prossimità che lo divora. Il dolore o la gioia sono a portata di mano. Se si allunga il braccio si può toccare quell’immagine, c’è intimità. Si possono contare le ciglia di quella sofferenza. Si può sentire il sapore di quelle lacrime.

Nessun viso si era mai avvicinato tanto al mio. Mi incalza da vicino, e sono io che lo inseguo faccia a faccia. Non è neanche vero che tra noi ci sia dell’aria; la mangio. È in me come un sacramento. Acuità visiva massima. Scrive Epstein.

Il potere del primo piano sta anche nel fatto che può limitare e dirigere l’attenzione. Costringe e indica l’emozione. Non si ha il diritto né il modo di essere distratti dinnanzi a un volto. È l’imperativo presente del verbo comprendere, è una potenza che esplode con la delicatezza di un sussurro. Non c’è mai stato un procedimento emotivo così omogeneo, così esclusivamente ottico come il cinema. Il corpo registra il pensiero e il movimento diviene poesia muscolare. Con il primo piano si possono cogliere, nell’onda di una folla, le pepite di un sorriso. I primi piani sono nutrienti e misteriosi; assorbono e restituiscono. Un volto non è mai fotogenico, ma talvolta lo è la sua emozione. Attraverso la danza delle forme il film nomina le cose, ma lo fa visivamente. Con le immagini e non con le parole.

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Epstein elabora inoltre delle poetiche relative all’estetica del cinema come, ad esempio, l’ “Estetica della prossimità”, in cui gli ostacoli tra spettacolo e spettatore vengono abbattuti grazie all’utilizzo del dettaglio che permette un’immedesimazione più veloce:

Tra lo spettacolo e lo spettatore, nessuna barriera.

Non si guarda la vita, la si penetra.

Questa penetrazione permette ogni sorta di intimità. Un volto, sotto la lente, fa la ruota, sfoggia la sua fervente geografia.

Cateratte elettriche scorrono nelle faglie di questo rilievo che mi giunge cotto dai tremila gradi dell’arco.

È il miracolo della presenza reale,

la vita manifesta,

aperta come una melagrana matura,

privata della scorza,

assimilabile,

barbara.

Teatro della pelle.

Non mi sfugge nessun sussulto.

Uno spostamento di piani devasta il mio equilibrio.

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Che valle di lacrime, e muta!

La sua doppia ala si tende e trema, vacilla, decolla, si sottrae e fugge:

Splendido allarme di una bocca che si apre.

Alla luce di un dramma seguito col binocolo di muscolo in muscolo, quale teatro di parola non appare miserabile? 22

Siamo difronte a un gioco di specchi, dinnanzi a degli incontri inattesi con se stessi. L’obiettivo della macchina da presa rivela le sue capacità inumane. Senza pregiudizi, privo di morale o influenze, vede nei volti e nei movimenti umani tratti che noi, pieni di simpatie, antipatie e riflessioni, non riusciamo a vedere. La sua è una forza analitica assolutamente ineguagliabile.

Come ha scritto Epstein il cinema è una macchina per far confessare le anime. Solo l’obiettivo riesce a rendere pubblica, meccanicamente, l’intimità delle cose. È così che è stata scoperta la fotogenia di carattere. Tra i più potenti strumenti poetici e il più reale strumento dell’irreale.

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6. IL VOLTO DELLE COSE

Mi ha sempre sorpreso la sensibilità delle cose. Si scoprono vita e pensiero in un mobile, in una stoffa, in un bicchiere, una specie di anima sottile sparsa, misurata. Ciò non si vede troppo facilmente.23

Grazie alla tecnica cinematografica si può vedere il primo piano non solo dei volti ma anche delle cose a una distanza tale da distinguere quei particolari che altrimenti non si percepirebbero neanche; dettagli microscopici che solo il primo piano rivela. Il valore compositivo del primo piano è ineguagliabile non solo a livello estetico, soprattutto a livello contenutistico: ogni porzione di spazio che entra in gioco ha un proprio significato. Ciò è straordinario poiché questo significato è percepibile solo nel momento in cui l’immagine è proiettata sullo schermo, non prima, anche se si sta accanto alla macchina da presa durante le riprese. La caratteristica fondamentale del cinema risiede proprio in questo: «non riproduce le immagini, le produce».24

Si scopre così il volto e l’anima dei personaggi e delle cose, quelle cose con le quali si vive e si interagisce. Si acquisisce il peso drammatico dello spazio, il ritmo delle masse, il linguaggio di ciò che è muto. Il cinema non si limita a riprodurre realtà ma ne produce di nuove.

Ciò è evidente, ad esempio, nel personaggio di Charlot il quale rivela la natura “umana” degli oggetti, trasformandoli in partners del suo stesso valore. «Sull’oggetto si proietta l’espressione umana, che lo rende significativo. Le cose rispecchiano il nostro sguardo» dice Balàzs.

23

L. DELLUC, La jungle du Cinéma, La Siréne, 1921, in Fotogenia…, cit., p. 81

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Lo spazio e gli oggetti diegetici partecipano attivamente allo sviluppo della storia e divengono essi stessi dramma. Il cinema «ci ha fatto materialmente sentire il peso drammatico dello spazio, che ci ha permesso di afferrare l’anima di un paesaggio, il ritmo delle masse, il linguaggio segreto dell’eterna esistenza».25

Prima dell’avvento del cinema l’essenza dell’arte era costituita dalla consapevolezza dello spettatore della distanza interiore fra lui e l’opera, l’arte cinematografica elimina questa distanza.

Immagino il primo piano di un uomo che guarda il mare: vedo solo il volto, vicinissimo, e odo il mare, e immediatamente posso cogliere il rapporto fra lo spazio infinito e la profonda felicità che si specchia su quel volto.26

La macchina da presa scoprì un mondo nuovo, grazie ad essa lo spettatore è accompagnato verso una dimensione semplice e familiare, si avvicina talmente tanto da essere lontanissimo. Il meccanismo del cinema fornisce temi sui quali meditare, mette insieme elementi piccolissimi e produce qualcosa che si colloca nelle radici della vita, osserva ciò che brulica attorno a noi. E solo col primo piano è possibile vedere tutto questo.

La macchina da presa ha rivelato che la cellula è la base di tutto ciò che vive, ha esplorato i luoghi in cui nascono, partendo da fattori più piccoli ed elementari, i grandi avvenimenti. Anche la frana più colossale nasce dal movimento di minuscoli sassolini e di invisibili molecole. Una serie di primi piani ci permette di cogliere l’istante in cui “la quantità si trasforma in qualità” (Marx). Il primo piano ha non soltanto ampliato ma ha

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B. BALÀZS, Il film…, cit., p. 39

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anche approfondito la nostra visione della vita. Non si è limitato a mostrarci oggetti nuovi, ma ce ne ha pure svelato il senso.27

Grazie al primo piano è possibile sollevare il velo che ricopre le cose, arricchendo e completando la nostra visione; svela l’uomo anche ritraendo un oggetto, perché gli oggetti rispecchiano lo stato di chi li guarda. Su di essi si proietta l’espressione umana e da quella deriva il significato dell’oggetto. «Le cose rispecchiano il nostro sguardo» sostiene infatti Balàzs. Un po’ come la creazione del mito e degli dei, avvenuta a immagine dell’uomo, vediamo il volto delle cose grazie ad un processo antropomorfico e il primo piano rappresenta lo strumento ideale di questo antropomorfismo visivo. La scoperta del volto, sia dell’uomo che delle cose, rese l’arte cinematografica certamente più significativa e “speciale” rispetto alle altre arti ed anche alla scienza. Il film diviene così strumento di assorbimento e defamiliarizzazione, sia che esso si concentri sugli oggetti inanimati, sui volti umani o sui paesaggi.

Il vapore che si sprigiona dalla sirena, le dita che tamburellano sui vetri della finestra, i rintocchi convulsi delle campane, gli occhi dilatati e la bocca contorta possono esprimere il panico assai meglio del quadro totale d’una massa di uomini in preda al terrore.28

Di esempi in grado di far emergere questo tipo di capacità nel film ce ne sono centinaia ma uno su tutti può esserne il miglior rappresentante, quello cioè relativo alla epica sequenza della scalinata, nella pellicola ejzenstejniana La

corazzata Potemkin, nella quale si vedono sui gradini i corpi feriti e ormai senza

vita di alcune vittime della sommossa. La macchina da presa riprende i volti

27

B. BALÀZS, Il film…, cit., p. 50

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cosparsi di sangue e inondati di dolore, successivamente ci mostra i cosacchi che sparano sulla folla, ma in realtà vediamo solo i loro stivali che calpestano i volti. L’autore rappresenta la crudeltà e l’infamia dei carnefici metaforicamente, sfruttando proprio la qualità migliore dell’arte cinematografica. Qualcosa di simile accade anche in Ottobre, nel quale il primo piano del lampadario rappresenta una fortissima metafora visiva: durante l’assalto al Palazzo d’Inverno il lampadario comincia a vacillare e la vibrazione dei suoi cristalli sembra impersonare il panico dell’aristocrazia e della borghesia zarista, che barcollano esattamente come quello sfarzoso lampadario.

Il primo piano può insomma contenere non solo un volto, ma anche un frammento o un oggetto e la differenza sostanziale tra la raffigurazione di un volto e quella di una qualsiasi altra porzione di spazio sta nel fatto che:

la mano isolata non avrebbe senso (e perderebbe perciò ogni espressione), se lo spettatore non potesse immaginare l’uomo cui essa appartiene. L’espressione d’un volto isolato, invece, è chiusa in se stessa e perfettamente comprensibile: non v’è bisogno di pensare a null’altro nello spazio e nel tempo. Non importa che un momento prima abbiamo visto quel volto come parte integrante di un corpo. Vedendolo isolato, ci troviamo improvvisamente soli, a quattr’occhi, con quel volto. Non importa che prima l’abbiamo visto in un grande ambiente: vedendolo isolato, dimentichiamo l’ambiente he lo circondava. L’espressione del volto, e il significato di tale espressione, non hanno alcun rapporto o legame con lo spazio. Dinanzi a un volto isolato non ci sentiamo nello spazio. Non esiste più, in noi, la percezione dello spazio. Per noi esiste una dimensione di altro genere: la fisionomia. Il significato spaziale che generalmente si attribuisce al fatto che le singole parti del volto si vedono l’una accanto all’altra ( e quindi esistono nello spazio: gli occhi in alto, le orecchie ai lati, la bocca in basso), scompare allorché vediamo

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un’espressione: che è quanto dire, un sentimento, uno stato d’animo, un’intenzione, un pensiero, e non figure in carne e ossa. Vediamo dunque, coi nostri occhi, qualcosa che non esiste nello spazio. I sentimenti, gli stati d’animo, le intenzioni, i pensieri non sono oggetti che si trovino nello spazio, anche se per esprimerli l’uomo ricorre a gesti che pure esistono nello spazio.29

Come i volti, anche gli oggetti quindi possiedono una propria fisionomia, la prospettiva dell’inquadratura e l’angolo visuale sotto cui si trova lo spettatore, vanno poi a incidere sulla fisionomia che l’immagine acquisisce. Nell’arte dell’inquadratura, esattamente come nella poesia, si manifesta la personalità dell’autore che l’ha ideata. Tutte le cose che l’uomo vede hanno una fisionomia e la sensibilità soggettiva fa sì che ognuno possa percepirla. Tutte le forme esercitano su di noi un effetto emotivo poiché ci ricorda – sia pure inconsciamente – una fisionomia umana o animale. Noi stessi proiettiamo la nostra fisionomia sulle cose, umanizziamo ciò che vediamo e per questo il mondo che ci circonda è sostanzialmente antropomorfico. L’arte, dunque, non fa altro che dar vita ad una realtà umanizzata. All’interno dell’inquadratura nulla è neutrale, ogni cosa agisce e diviene “gesto”. Come Goethe intuì, l’ambiente influisce sull’uomo e anche l’uomo influisce su quanto lo circonda. Il soggetto, immerso nello spazio, ne estrae, per così dire, una sezione per sé, che viene riempita di immagini del suo Io. Una legge delle arti figurative stabilisce che tra l’espressione del viso umano e la fisionomia delle cose che lo circondano, non deve esistere alcun contrasto. L’espressione del volto umano s’irradia oltre i contorni del volto stesso e si riverbera sulle figure dei mobili, degli alberi, della nubi: crea, se così si può dire, gli “echi visivi” . L’atmosfera di

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un paesaggio o di una stanza prepara la scena che sta per svolgersi in quell’ambiente. Rispecchia la tensione che si scarica nell’azione dell’uomo.30

Nel suo viaggio in Sicilia, alla scoperta dell’Etna, Epstein osservò l’immagine della terra, del paesaggio vulcanico e ne scoprì le sue incredibili bellezze. «La terra aveva un volto umano» disse.

In tal modo il cinema rivela il suo animismo, ovvero quell’energia che anima l’intera natura. Sullo schermo non esistono nature morte. Gli oggetti hanno degli atteggiamenti, gli alberi gesticolano, gli scenari si spezzettano e ciascuno dei frammenti assume un’espressione particolare. La mano si separa dall’uomo, vive da sola, e da sola soffre e gioisce. E il dito si separa dalla mano. Tutta una vita si concentra improvvisamente e trova la sua espressione più acuta in quell’unghia che tormenta meccanicamente una penna stilografica carica di tempesta.31

Chi non ha mai visto nei drammi americani la scena della pistola che spunta da un cassetto aperto a metà? Quella pistola possiede una personalità. Rappresenta desiderio e disperazione, è la chiave di una moltitudine di combinazioni. Ragion per cui il linguaggio filmico è animistico: attribuisce “personalità” alle cose e alle persone o, se non altro, ne rende visibile lo spirito. Oggettivo e soggettivo si mescolano.

Il film muto, quando divenne arte, scoprì il mondo visibile. Ci svelò il volto delle cose, la mimica della natura e la microdrammaturgia fisiognomica. Nelle sequenze del montaggio divenne palese il rapporto di reciprocità esistente tra le figure e i movimenti, e al tempo stesso si dispiegò la potenza associativa insita nella successione delle immagini […] La

30

B. BALÀZS, Il film…, cit., p. 93

31

S. LIEBMAN, “When the light of sense…”, in Fotogenia…, cit., p. 94 oppure (J. EPSTEIN, Il cinematografo visto dall’Etna in A. SOMAINI, Ejzenstejn, p. 237)

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vita e le cose parlano con noi quando in una stanza vuota il pavimento scricchiola, quando un proiettile passa sibilando vicino all’orecchio, quando i tarli rodono i vecchi mobili, quando la fonte gorgheggia nel bosco. I poeti più sensibili hanno sempre saputo avvertire e descrivere con parole questi significativi suoni della vita. Tocca al film farli entrare nel nostro mondo.32

Uno dei primi che esplorò il piccolo mondo delle cose quotidiane ma sconosciute fu Dziga Vertov. Egli guardò e fece guardare gli aspetti ignorati delle cose più comuni e vicine a noi. Intendeva scrutare con l’occhio della macchina da presa i gesti quotidiani, quelli cui non si presta mai troppa attenzione e che Balàzs chiama “molecole di vita”, che acquistano significato non appena vengono isolate proprio nel primo piano; come se venissero guardate dal buco della serratura. Prestando un’apparenza di vita a tutti gli oggetti che designa, il cinema diviene così una lingua e come tutte le lingue è animista. Più un linguaggio è primitivo, più questa tendenza animista è marcata e il suo essere così primitivo gli dona vita intensa anche se si trova a descrivere oggetti apparentemente morti, che si vedono così riportati in vita. Questo è un principio fondamentale che regola le leggi della fotogenia.

Solo gli aspetti mobili e personali delle cose, degli esseri e delle anime possono essere fotogenici, acquisire cioè un valore morale superiore grazie alla riproduzione cinematografica.33

All’interno del testo epsteiniano Il cinematografo visto dall’Etna è presente l’affermazione:

32

B. BALÀZS, Il film…, cit., p. 210-211

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È stata spesso ribadita l’importanza quasi divina che acquisiscono, in primo piano, i frammenti di corpi, gli elementi più freddi della natura! Una rivoltella in un cassetto, una bottiglia infranta a terra, un occhio circoscritto dall’iride, si innalzano attraverso il cinema alla dignità di personaggi del dramma. Essendo drammatici, paiono viventi, come fossero collocati nell’evoluzione di un sentimento. […] E’ un primo piano di rivoltella, non è più una rivoltella, è il personaggio-rivoltella.34

Il significato che l’oggetto nasconde dietro di sé emerge solo attraverso il primo piano, che è in grado di evidenziarlo e quindi disvelarlo. Lo spettatore, poi, affida a quell’oggetto un significato legato a un ricordo o un’emozione, di conseguenza esso svolge un’azione drammatica e assume un carattere morale ovvero la sua espressione viva e “umana”.

L’erba nella prateria è un genio sorridente e femminile. Anemoni pieni di ritmo e di personalità volteggiano con la maestà dei pianeti, gli alberi e le pietre gesticolano, le meduse danzano, le montagne significano.35

34

J. EPSTEIN, Le cinématographe vu de l’Etna, Parigi, Les Ecrivains Réunis, 1926, in Fotogenia…, cit., p. 81

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7. BÈLA BALÀSZ

Dal grado di cultura cinematografica che riusciremo a diffondere tra le masse dipenderà la salute spirituale di interi popoli.

(B. BALÀSZ, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Piccola biblioteca Einaudi, Torino, 2002, p. 5)

All’interno del percorso finora effettuato abbiamo incontrato più volte il nome di Béla Balàsz, teorico e regista ungherese, vissuto tra il 1884 e il 1949. I suoi testi risultano essere un’eredità inestimabile per la storia e l’evoluzione dell’arte cinematografica, poiché nelle sue pagine vi è un’egregia spiegazione, grazie all’uso di metafore e sorprendenti paragoni, cosa è stato, cos’è e cosa potrà essere l’arte cinematografica. Il testo Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova è una summa rigorosa e chiarissima di cosa rappresenta il cinema. Il suo approccio nei confronti del mezzo cinematografico non è solo di tipo teorico e critico, in quanto la sua estetica si fonda sull’indagine psicologica delle immagini e sulla metafora dell’inquadratura. Incontrarlo lungo questo cammino è inevitabile e fatale, poiché egli pensa una cinematografia “antropomorfica”, all’interno della quale ogni cosa ha un’espressione, ogni immagine respira, ogni oggetto possiede un volto e gli ambienti hanno uno sguardo. Egli estrae la fisionomia da ogni cosa. Racconta della minacciosa espressione di una porta che si apre nel buio o della brutta linea sogghignante di un camino. La sua visione è ampia, interroga ogni cosa e considera ogni dettaglio. Balàsz si sofferma molto sul volto degli attori ma anche sul volto del cinema. Racconta di attori del muto come poeti lirici della

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mimica e del gesto. Parla di cinema come di esperienza e rivelazione delle forme esistenti nella realtà; parla di realtà trasformata in arte. Le prerogative insuperabili dell’arte cinematografica le riscontra nell’arte del muto, attraverso il quale è possibile scorgere il dramma mimico che il cinema sonoro ha cancellato, anche se ha “restituito” ed esaltato, in compenso, l’espressività del silenzio. Marco Vallora, autore dell’introduzione del testo sopraccitato scorge nell’atteggiamento di Balàzs quello di uno psicologo della percezione; sostanzialmente di uno studioso delle reazioni umane. Come è stato riscontrato nelle teorie di Ejzenstejn, anche Balàsz parla del piccolo dettaglio come parte del tutto, come quel frammento che racconta qualcosa in più. Ritiene che dell’immagine filmica sia un “atomo”, una “cellula” o “molecola”, alludendo così a quella componente minima ma fondamentale che caratterizza un insieme di elementi e, anche lui, si affida alle teorie kantiane per giungere a tali conclusioni:

legge fondamentale di qualsiasi rappresentazione, di qualsiasi creazione artistica è quella per cui la creazione stessa vale come esempio e simbolo di tutta la realtà viva, per quanto minuscolo sia il frammento di realtà che essa rappresenta.36

Il film è visto e usato, dunque, come cassa di risonanza dell’esistenza, illumina la realtà rendendola visibile. La quotidianità diviene madre e testimone di fatti emozionanti e così la macchina da presa si fa portatrice di uno sguardo approfondito, ulteriore, potenziato. La visione approfondita del mezzo cinematografico ci porta nello stomaco delle immagini, nella coscienza che si ingloba in esse. È facile percepire che anche nell’autore ungherese si trova l’intenzione di vedere le cose dal di dentro, in modo tale da far toccare allo

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spettatore lo spazio con gli occhi. Il film accompagna, insomma, verso una maggiore consapevolezza, grazie alle continue associazioni che propone, come farebbe uno psicanalista con la coscienza di un suo paziente.

L’arte cinematografica ha insegnato a comprendere un nuovo linguaggio, fatto di immagini in movimento, di luci, suoni e sguardi. Nel giro di vent’anni ha stabilito una grandissima cultura visiva, assolutamente inedita e col cinema l’uomo ha imparato la fragile ma potentissima comunicazione non verbale. L’evoluzione del mezzo cinematografico è la testimonianza della storia che scorre, parla del grado di civiltà raggiunto dai popoli, dell’evoluzione umana e del gusto del tempo. Scorge lo spirito delle epoche proponendo con fotografica esattezza i fenomeni visivi della vita e ne riassume le forme in un’immagine. Svela ciò che sta sotto la pelle della realtà.

Tutto questo è contenuto – anche secondo Balàsz – nel mondo del primo piano, il quale possiede una particolare rilevanza all’interno delle sue considerazioni. Nelle precedenti pagine di questo elaborato è possibile constatarlo. Nel 1924 celebra infatti, all’interno del testo L’uomo visibile, il fondamentale ruolo del primo piano (Grossaufnahme) e la sua ineguagliabile forza espressiva. Grazie al primo piano è possibile accedere, attraverso la mimica e i gesti, ad un linguaggio universale. Egli sostiene come, attraverso la forma di rappresentazione cinematografica, la cultura degli anni Venti sia diventata così una “cultura visuale” (visuelle Kultur) al centro della quale vi era un uomo “visibile”. In tal modo il cinema si rivela fondamentale per lo studio antropologico della storia sociale dell’umanità. E il volto è sempre protagonista e “bandiera” di queste realtà variegate. Mentre, in relazione alle possibilità tecniche, il primo piano può svelare il suono anche di

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elementi impercettibili e quindi rivelare suoni intimi e lievi. Rende visibile legami e rapporti sottili che si instaurano fra pensieri e sentimenti, decisivi allo sviluppo dell’azione.

Il viso di una persona che ascolta un brano musicale può avere due espressioni diverse. L’effetto “riflettente” della musica può non solo illuminare l’animo umano, ma può al tempo stesso illuminare l’anima della musica, ed è in grado di provocare – con l’iuto dell’espressione fisiognomica – l’esperienza umana che a sua volta “libera” l’esperienza acustica. Quando il film ritrae il maestro che dirige un’orchestra che lo spettatore non vede, la mimica del direttore può conferire al “gioco” dei suoni un senso determinato, e per conseguenza l’effetto della musica può essere indirizzato verso la direzione prevista. La rappresentazione dell’emozione umana può intensificare la potenza della musica più e meglio di qualsiasi effetto strumentale.37

Già precedentemente è stata affermata e ribadita l’importanza e l’intensità ineguagliabile del volto umano all’interno dell’arte cinematografica – come del resto lo è nella realtà – e Balàsz ne da un’ulteriore conferma. Tali concetti sono facilmente condivisibili oggi, dopo decenni di storia del cinema, ma egli arrivò a considerazioni incontestabili già quando l’arte cinematografica muoveva i primi e timidissimi passi verso una gloria all’epoca inaspettata.

Un uomo è seduto nella sua stanza. Ha il volto scuro, tormentato. Dalla scena precedente lo spettatore ha appreso che nella camera accanto si trova la donna. Primo piano dell’uomo. Ad un tratto il volto si illumina da una sola parte. L’uomo volge il capo, il volto gli si illumina interamente. Egli guarda, con la speranza negli occhi, verso la fonte della luce. La luce dopo un attimo scompare, con la stessa rapidità con cui era apparsa. Anche la luce interiore scompare dal volto dell’uomo. Deluso, egli china il capo. Si fa

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buio. È l’ultimo quadro di una tragica scena. È sufficiente. Quella luce proviene dalla porta aperta dalla donna ed il buio che avvolge il volto dell’uomo seduto è quello che la donna lascia, chiudendo per sempre la porta. È qui che risiede l’efficacia e la potenza del film: colpire il cuore dello spettatore, far comprendere le situazioni ed i relativi significati senza spiegare ogni cosa. “Il primo piano ci svela, proiettata sulla parete, l’ombra con la quale viviamo senza conoscerla; e il volto muto e il destino degli oggetti della camera in cui viviamo”.38

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