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NELE NEUHAUS CHI SEMINA VENTO

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Academic year: 2022

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Per l’agente Pia Kirchhoff tre settimane di vacanza in Cina con Christoph, l’uomo che da tre anni le provoca ancora lo stesso «piacevole ed eccitante formicolio», sono state un vero toccasana. Archiviato lo stress degli ultimi casi e dimenticate la pioggia e la nebbia della Germania centrale, ora si sente finalmente pronta per tornare al lavoro.

Peccato che il volo da Shanghai sia arrivato con nove ore di ritardo, che la sua valigia spunti per ultima sul nastro trasportatore e che ad aspettarla non ci sia la sua migliore amica, bensí il patologo Henning, suo collega e, soprattutto, ex marito. Perciò, quando l’agente Oliver von Bodenstein la chiama per informarla che è stato appena rinvenuto il cadavere di un uomo e la sua presenza sarebbe gradita sul luogo del delitto, Pia guarda con tristezza la tintarella di Christoph e realizza che la vacanza è davvero finita.

La vittima è il guardiano notturno della WindPro, un’azienda che sta realizzando un parco eolico alle pendici di un piccolo paesino dell’Assia. La morte si direbbe accidentale: l’uomo era un bevitore, un solitario, niente di piú plausibile di una caduta dalle scale. Pia e Oliver si lanciano un’occhiata. A loro quella storia non convince.

Si apre cosí una nuova indagine dell’eccentrica coppia di agenti del Taunus che, sulle orme di cacciatori infuriati, cittadini che inneggiano alla rivoluzione e manager doppiogiochisti e senza scrupoli, scopriranno che una guerra è già in atto: da una parte l’associazione ambientalista, di cui fa parte anche il padre di Oliver, che non vuole che il bosco della vallata venga raso al suolo dalle ruspe; dall’altra, la WindPro, che se non concluderà il lavoro dovrà dichiarare fallimento. Come se la situazione non fosse già abbastanza ingarbugliata, il nostro saggio e riflessivo Oliver von Bodenstein prende una sbandata per una donna comparsa dal nulla che lo allontana dalle indagini, lasciando Pia da sola, con il caso piú complesso della sua carriera.

Tra corruzioni e omicidi, ricatti e vendette personali, Chi semina vento è «uno straordinario eco-thriller» (Stern) che ci svela un paese in cui nessuno è realmente chi dice di essere, e conferma il leggendario talento della nuova regina del noir europeo.

Nele Neuhaus è nata in Germania nel 1967 e, prima di diventare scrittrice, ha studiato Giurisprudenza, Storia e Letteratura, e ha lavorato in un’agenzia di pubblicità. I suoi romanzi, con la leggendaria coppia di investigatori

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Oliver von Bodenstein e Pia Kirchhoff, riscuotono sempre uno straordinario successo. Chi semina vento è stato a lungo al primo posto nella classifica dei bestseller in Germania ed è rimasto per 49 settimane tra i top 100.

Di Nele Neuhaus Giano ha già pubblicato Biancaneve deve morire (2011), Ferite profonde(2012) e La donna malvista (2012).

I LIBRI DELLA CIVETTA 12

DELLO STESSO AUTORE

Biancaneve deve morire Ferite profonde La donna malvista I LIBRI DELLA CIVETTA

NELE NEUHAUS CHI SEMINA VENTO

traduzione di Alessandra Petrelli

Avviso di Copyright ©

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo eBook può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma tramite alcun mezzo senza il preventivo permesso scritto dell’editore.

Il file è siglato digitalmente, risulta quindi rintracciabile per ogni utilizzo illegittimo.

I edizione eBook2014-6

Collana I LIBRI DELLA CIVETTA ISBN 978-88-6251-169-8

Titolo originale: Wer Wind sät

© Ullstein Buchverlage GmbH, Berlin 2011 Published in 2011 by List Taschenbuch Verlag

© Neri Pozza Editore/Giano 2013 www.neripozza.it

Per Vanessa Prologo

La strada era deserta e lei correva a piú non posso, mentre nel cielo buio esplodevano i primi botti di San Silvestro. Se solo fosse riuscita a raggiungere il parco, a

mescolarsi alla folla festante! Non conosceva la zona, aveva perso del tutto l’orientamento. I passi dei suoi inseguitori riecheggiavano dai muri dei palazzi, incalzandola, spingendola sempre piú lontana dalle vie principali, dai taxi, dalla metropolitana, dalla gente. Se ora fosse inciampata, sarebbe stata la fine.

Il terrore le toglieva il respiro, il cuore le batteva forte. Non poteva resistere a lungo mantenendo quell’andatura. Laggiú! Finalmente! Un varco buio si apriva tra le

facciate interminabili dei caseggiati. Svoltò a tutta velocità, ma il sollievo durò una frazione di secondo, il tempo di rendersi conto che aveva commesso il piú grave errore della sua vita. Di fronte a lei si alzava un muro liscio e senza finestre. Era in

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trappola! Il sangue le scrosciava nelle orecchie, i suoi ansiti erano l’unico rumore nel silenzio. Si accucciò dietro dei bidoni maleodoranti della spazzatura, premette il viso contro i mattoni ruvidi e umidi e chiuse gli occhi, nell’assurda speranza che gli uomini proseguissero senza vederla.

«Eccola!» esclamò qualcuno a voce bassa. «Presa!».

Si accese un faro, lei alzò un braccio e fissò accecata la luce abbagliante. Mille pensieri le vorticavano nella mente. Doveva chiamare aiuto?

«Non riuscirà a scappare da qui» disse un altro.

Passi sull’asfalto. Gli uomini si stavano avvicinando, lentamente, senza piú nessuna fretta. La paura le contraeva dolorosamente tutto il corpo. Strinse i pugni sudati, conficcandosi le unghie nella carne. E poi lo vide. Era lui! Entrò nel cono di luce e chinò lo sguardo su di lei. Per un attimo fu pervasa dall’assurda speranza che fosse venuto ad aiutarla.

«Per favore!» bisbigliò con un filo di voce, protendendo la mano. «Posso spiegare tutto, io…».

«Troppo tardi» la interruppe lui. Il suo sguardo era carico di gelida collera e disprezzo. L’ultimo barlume di speranza si trasformò in cenere, come la bella villa bianca in riva al lago.

«Ti prego, non te ne andare!» supplicò con voce stridula. Voleva strisciare, implorare perdono, giurargli che avrebbe fatto qualunque cosa, ma lui le voltò le spalle e scomparve dal suo campo visivo, lasciandola sola con gli uomini da cui non si aspettava alcuna pietà. Il panico la racchiuse sommergendola come un’ondata nera. Si guardò intorno trafelata. No! No, non voleva morire! Non in quel vicolo buio e

sporco, che puzzava di urina e spazzatura!

Si difese con la forza della disperazione, tirando a casaccio calci e pugni,

combattendo la sua ultima disperata battaglia. Non aveva possibilità di successo, gli uomini la schiacciarono a terra e le piegarono brutalmente le braccia all’indietro. Poi avvertí una puntura al braccio. I muscoli le si rilassarono, il vicolo svaní davanti ai suoi occhi, mentre la spogliavano e la lasciavano nuda e inerme. Si sentí trascinare via, lanciò un’ultima occhiata alla sottile striscia di cielo nero tra i muri dei palazzi, vide le stelle che brillavano. Poi precipitò e cadde in un abisso nero e infinito. Per un brevissimo istante si esaltò, sentendosi incorporea, poi la caduta velocissima le tolse il respiro, venne buio e si sorprese di quanto fosse facile morire.

Si sollevò di slancio. Il cuore galoppava; impiegò qualche secondo per comprendere che si era trattato solo di un sogno. Un sogno che la perseguitava da mesi, ma non era mai stato tanto reale, non era mai giunto alla conclusione. Si strinse le braccia al petto rabbrividendo e aspettò che i muscoli si distendessero e il freddo l’abbandonasse. La luce di un lampione entrava dalla finestra con le sbarre. Per quanto tempo sarebbe stata al sicuro lí? Si lasciò ricadere all’indietro, premette il viso sul cuscino e

cominciò a singhiozzare, perché sapeva che non si sarebbe piú liberata da quel terrore.

Lunedí, 11 maggio 2009

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Il sole era appena sorto quando richiuse il cancelletto del giardino dietro di sé e, con il fucile in spalla, imboccò come tutte le mattine il sentiero in leggera salita verso il bosco. Tell, il pudelpointer bruno a pelo duro, trotterellava un paio di metri davanti a lui, annusando qua e là per raccogliere con il naso le migliaia di uste lasciate dalla notte. Ludwig Hirtreiter respirò a pieni polmoni l’aria fresca e frizzante e rimase ad ascoltare il concerto degli uccelli mattutini. Due caprioli si erano spinti sul prato ai margini del bosco. Tell girò il muso verso di loro, ma non diede segno di volerli spaventare. Era un cane intelligente e ubbidiente, che sapeva di doversi interessare alla selvaggina solo quando il padrone lo autorizzava.

«Bravo, cosí» borbottò Ludwig Hirtreiter. La sua fattoria non era distante dal bosco.

Superò la sbarra bianca e rossa che era stato necessario installare sulla strada qualche anno prima perché i pigri villeggianti della domenica da Francoforte si inoltravano sempre di piú nel bosco con la macchina. Al giorno d’oggi, soprattutto alle persone di città, mancava qualsiasi rispetto per la natura. Non sapevano distinguere un albero dall’altro, cianciavano chiassosi e lasciavano i loro cani liberi di scorrazzare anche nel periodo della riproduzione. C’era gente che si esaltava addirittura quando la sua bestia stanava la selvaggina e la inseguiva. Ludwig Hirtreiter non aveva nessuna

comprensione per un simile atteggiamento. Il bosco per lui era sacro. Lo conosceva come se fosse il suo giardino, ne conosceva le radure isolate, sapeva dov’era la selvaggina e quali tracciati percorrevano i cinghiali. Qualche anno prima aveva addirittura ideato e collocato i cartelli esplicativi del percorso didattico di Lindekopf, per avvicinare il pubblico ai segreti della foresta.

I raggi del sole filtravano attraverso il fitto fogliame, trasformando il bosco in una cattedrale verde dorata solenne e silenziosa. Alla prima biforcazione, Tell imboccò il sentiero di destra, come se avesse letto nel pensiero del padrone. Superarono la massiccia carbonaia e raggiunsero la zona brulla dove l’autunno precedente un temporale aveva inciso una cicatrice nel bosco. Ludwig Hirtreiter si fermò di colpo.

Anche Tell si bloccò drizzando le orecchie. Rumore di motori! Poco dopo il silenzio fu squarciato dal rombo molesto di una motosega. Non poteva trattarsi della forestale, in questa stagione non c’erano lavori da fare. Ludwig Hirtreiter si sentí assalire da un’ondata di collera. Tornò sui propri passi e si incamminò nella direzione da cui provenivano i rumori. Il cuore gli batteva forte. Aveva intuito che non avrebbero rispettato gli accordi e avrebbero cominciato subito a disboscare, per mettere la cittadinanza davanti al fatto compiuto durante l’assemblea pubblica.

Pochi minuti piú tardi vide confermati i propri timori. Passò sotto il nastro rosso e bianco svolazzante che delimitava la piccola radura sotto la cresta del monte e guardò allibito i furgoncini arancioni parcheggiati e la mezza dozzina di uomini che si

muovevano indaffarati qua e là. La motosega tornò in azione, con un lancio di trucioli di legno. Un grande abete ondeggiò e cadde di schianto nella radura. Che farabutti bugiardi! Tremante di rabbia, Ludwig Hirtreiter imbracciò il fucile e tolse la sicura.

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«Fermi!» ordinò mentre la motosega borbottava in folle. Gli uomini si voltarono dalla sua parte, alzando le visiere dei caschi. Hirtreiter avanzò nella radura, affiancato da Tell.

«Se ne vada!» gli gridò uno degli uomini. «Non è autorizzato a stare qui!».

«Andatevene voi!» ribatté Ludwig Hirtreiter torvo. «All’istante! Chi vi ha dato il permesso di abbattere gli alberi qui?».

Il responsabile del gruppo notò l’arma e la determinazione nello sguardo di Hirtreiter.

«Suvvia, si calmi». Alzò le mani in un gesto conciliante. «Facciamo soltanto il nostro lavoro».

«Andatelo a fare da qualche altra parte. Fuori dal bosco, e subito».

Gli altri si avvicinarono. La motosega taceva. Tell ringhiava minaccioso e Hirtreiter posò il dito indice sul grilletto. Era serissimo. L’inizio del cantiere era fissato per i primi di giugno, quell’intervento di disboscamento anticipato era illegale, anche se veniva compiuto con il tacito accordo del sindaco o del consiglio provinciale.

«Avete cinque minuti di tempo per raccogliere le vostre cose e sparire!» gridò al gruppo. Nessuno si mosse. Allora prese la mira sulla motosega che uno degli uomini teneva in mano e premette il grilletto. Risuonò uno sparo. All’ultimo istante Ludwig Hirtreiter aveva spostato l’arma leggermente verso l’alto, e il colpo passò a circa un metro dalla testa dell’uomo. Per un paio di secondi tutti rimasero come paralizzati, fissandolo attoniti. Poi corsero via a gambe levate.

«Non la passerà liscia!» gli gridò il responsabile dei lavori. «Chiamerò la polizia!».

«Si accomodi». Ludwig Hirtreiter annuí e si rimise in spalla il fucile. Nessuno avrebbe chiamato la polizia, perché sarebbe stato un autogol per questi delinquenti vigliacchi.

Era stato a un passo dal credere alle promesse tanto sbandierate. Non sarebbe stato abbattuto neppure un albero prima che venisse decisa ogni cosa, glielo avevano ripetuto in pompa magna giusto il venerdí prima. In realtà dovevano aver già affidato l’incarico all’impresa di disboscamento, con l’accordo di cominciare il lunedí

successivo. Aspettò che i furgoncini si fossero allontanati dalla radura portandosi via il rombo dei motori, poi appoggiò il fucile al tronco di un albero e si accinse a togliere il nastro di delimitazione. Qui non sarebbe stato abbattuto nessun altro albero, finché lui avesse potuto impedirlo. Era pronto a combattere.

Con il braccio già allungato a recuperare la valigia dal nastro della consegna bagagli, Pia Kirchhoff sentí un trillo nella tasca della giacca. Impiegò qualche istante per collegare la melodia al cellulare che aveva acceso subito dopo l’atterraggio. Per tre superbe settimane l’apparecchio aveva taciuto e da strumento fondamentale della vita quotidiana era diventato un accessorio del tutto inutile. In quell’istante, tuttavia, il bagaglio era decisamente piú importante della chiamata. La valigia di Christoph era stata una delle prime ad arrivare e lui era già uscito presumendo che Pia lo avrebbe seguito quasi subito, invece lei aveva dovuto aspettare quindici minuti buoni, in

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quanto i bagagli del volo LH729da Shanghai venivano scaricati sul nastro a singhiozzo e con irritante lentezza.

Una volta sistemata la valigia rigida grigia sul carrello portabagagli, si decise a pescare il telefono dalla tasca. Nel terminal rimbombavano gli annunci degli

altoparlanti, qualcuno la colpí rudemente al polpaccio con il proprio carrello, senza neppure scusarsi. Una nuova orda di passeggeri era stata sputata fuori dall’ennesimo aereo, davanti alla dogana si era formato un ingorgo. Finalmente Pia trovò il cellulare che continuava a squillare imperterrito e rispose.

«Sono all’aeroporto!» esclamò. «Mi richiami piú tardi, per favore!».

«Oh, scusami tanto» rispose il commissario capo Oliver von Bodenstein all’altro capo della linea con tono divertito. «Credevo che foste tornati ieri sera».

«Oliver!». Pia sospirò rincresciuta. «Scusami. Il nostro volo ha accumulato nove ore di ritardo, siamo appena atterrati. Che cosa succede?».

«C’è un piccolo problema» spiegò Bodenstein. «Abbiamo un cadavere, ma oggi alle 11 è fissato il matrimonio di Lorenz e Thordis. Se non mi faccio vedere, verrò radiato dalla famiglia».

«Un cadavere? Dove?». Pia stava per oltrepassare il controllo doganale, ma una funzionaria bassa e grassottella che osservava con espressione distaccata i viaggiatori di passaggio, alzò la mano. Evidentemente le parole pronunciate da Pia avevano risvegliato il suo interesse. Davvero inopportuno, quando si era di fretta.

«Nella sede di un’azienda di Kelkheim» rispose il suo capo. «La comunicazione è appena arrivata. Manderò il nostro nuovo aiuto, ma preferirei che ti recassi lí anche tu, se possibile».

«Qualcosa da dichiarare?» gracchiò la poliziotta.

«No». Pia scrollò la testa.

«Come… no?» chiese Bodenstein allibito.

«No, volevo dire… sí» replicò Pia spazientita. «No, non ho niente da dichiarare. Sí, ci vado».

«Che cosa sarebbe questa storia?». L’agente della dogana alzò le sopracciglia. «Per favore, apra la valigia».

Incastrando il cellulare tra la guancia e la spalla, Pia armeggiò con il lucchetto della valigia rompendosi un’unghia. La magia rilassata della vacanza si dissolse nel nulla.

Lo stress tornò ad assalirla.

«Sí, d’accordo, ci vado. Dammi l’indirizzo».

Aprí la valigia. La poliziotta rovistò con circospezione il contenuto sistemato alla rinfusa, nella speranza di trovare tra la biancheria da lavare un vaso Ming importato illegalmente, una bottiglia di grappa di contrabbando o diverse stecche di sigarette.

Intanto la fila dei passeggeri in attesa si era allungata. Pia scoccò un’occhiata ostile alla donna che, dopo la vana perquisizione, la congedò con un arrogante cenno del capo. Pia chiuse con foga la valigia, la gettò sul carrello e si incamminò verso l’uscita.

Le porte scorrevoli si aprirono. Christoph aspettava dietro le transenne con un sorriso

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vagamente nervoso e accanto a lui c’era, chiaramente contrariato, l’ex marito di Pia, il dottor Henning Kirchhoff. Ci mancava solo questa! Prima del decollo aveva sentito Miriam, che durante la loro assenza si era occupata degli animali a Birkenhof, ed erano rimaste d’accordo che sarebbe stata lei ad andarli a prendere all’aeroporto.

«La mia valigia è stata scaricata per ultima» si scusò Pia. «E poi l’addetta alla dogana ha voluto perquisirmi il bagaglio. Mi spiace. Che cosa ci fai tu qui?».

La domanda era rivolta al suo ex marito. Accanto a Christoph con la sua abbronzatura orientale, Henning sembrava ancora piú pallido e smunto.

«Anch’io sono felice di rivederti» rispose questi sarcastico facendo una smorfia.

«Ho l’auto da piú di un’ora in divieto di sosta. Se mi hanno dato la multa, la paghi tu».

«Perdonami». Pia lo baciò sbrigativamente sulla guancia. «Grazie di esserci venuto a prendere. Come mai non è venuta Miriam?».

La relazione tra il suo ex marito e la sua migliore amica si era complicata da quando Henning era sospettato di essere il padre del nascituro della sua ex amante. Dopo un silenzio radio totale durato tre mesi, durante il quale Henning, per vigliaccheria, aveva seriamente pensato di trasferirsi all’estero, lui e Miriam si erano riavvicinati, ma non si poteva certo dire che tra di loro fosse tornato a regnare un rapporto di fiducia.

«Miriam ha un appuntamento a Magonza alle nove e non poteva aspettare che il vostro volo atterrasse» spiegò Henning con una nota di rimprovero, mentre si avviavano verso il parcheggio. «Siccome secondo lei l’istituto è a poca distanza da qui, ha pensato che potessi venire io. Ma ditemi, com’è andata la vacanza?».

«Bene» rispose Pia scambiando un’occhiata fugace con Christoph. “Bene” non si avvicinava nemmeno lontanamente all’assoluta perfezione di quelle tre settimane trascorse in Cina. Erano state la sua prima vera vacanza ed erano state sublimi.

Sebbene stessero insieme ormai da diverso tempo, la vista di Christoph le causava ancora quel piacevole ed eccitante formicolio e a volte stentava a credere di aver avuto la fortuna di trovare un uomo come lui. Si erano conosciuti l’estate di tre anni prima nel corso di un’indagine per omicidio, quando Pia si era ormai già quasi rassegnata a trascorrere il resto della vita da sola con i suoi animali a Birkenhof. Tra di loro era stato amore a prima vista, anche se all’epoca Bodenstein aveva annoverato Christoph tra i sospettati, e questo non aveva certo facilitato le cose.

L’aria fresca del mattino di maggio fece rabbrividire leggermente Pia. Dopo quattordici ore di volo si sentiva appiccicosa e sporca e anelava a una doccia, ma avrebbe dovuto rimandare ancora.

Sulla macchina di Henning non c’era nessuna multa, il che probabilmente

dipendeva dal fatto che dietro il parabrezza era ben visibile il cartello con la scritta

«medico in visita». Lui e Christoph caricarono le due valigie nel portabagagli mentre Pia si accomodava sul sedile posteriore della Mercedes.

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«Che cosa vuoi fare adesso?» si informò qualche minuto piú tardi, mentre Henning imboccava l’autostrada in direzione di Kelsterbach. Il traffico verso Francoforte causava forti rallentamenti.

«In che senso?» domandò lui subito diffidente. Pia alzò gli occhi al cielo. Non era mai stato capace di rispondere in maniera semplice a una semplice domanda! Si massaggiò le tempie che le pulsavano. Nelle tre settimane appena trascorse aveva davvero staccato la spina, gettandosi alle spalle le ansie quotidiane, il lavoro, persino l’imminente ordine di demolizione che incombeva sulla fattoria. Adesso tutto le ricadeva addosso. Non avrebbe avuto esitazioni a prolungare all’infinito la vacanza, ma forse la vera felicità stava proprio nel fatto che era limitata.

«Devo andare sulla scena di un crimine a Kelkheim» rispose. «Mi ha appena telefonato il capo. La vacanza è proprio finita».

Il grande cancello del canile era chiuso a chiave, il parcheggio davanti al basso edificio dell’amministrazione era vuoto. Mark camminava inquieto su e giú lungo l’alta recinzione, gettando occhiate nervose al cellulare. Le sette e un quarto. Dove si era cacciata Ricky? Gli restavano ancora al massimo venti minuti. Se fosse arrivato a scuola anche con un solo minuto di ritardo, i professori avrebbero fatto un casino e avrebbero scritto subito un’email a sua madre, solo perché negli ultimi tempi era mancato un paio di volte. Al diavolo. Perché i suoi non volevano capire che non aveva piú voglia di studiare? Da quando aveva lasciato il collegio, tutta la vita gli sembrava assurda e sbagliata. Avrebbe preferito mille volte fare qualcosa di intelligente, invece di sprecare le ore seduto in classe. Qualcosa con gli animali, magari vivere in un appartamento pieno di cani e gatti, come da Ricky e Jannis. Sarebbe stato forte. A suo padre però sarebbe venuto un colpo se gli faceva una proposta del genere. Diploma e laurea erano d’obbligo, magari con qualche semestre di studio all’estero tanto per gradire. Qualunque scelta inferiore era da proletari. Un fallimento su tutta la linea.

Praticamente la strada diretta verso l’abisso della disoccupazione.

Da dove si trovava aveva un’ottima visuale sul viottolo asfaltato che scendeva fino a Schneidhain ma, a parte qualche proprietario che portava a spasso il cane, non c’era in giro nessuno. Era rimasto seduto per gran parte della notte davanti al computer, perché non riusciva a dormire. Non appena chiudeva gli occhi, i ricordi tornavano ad assalirlo. Aveva scritto un SMS a Ricky, e lei gli aveva risposto che quella mattina sarebbe stata al canile alle sette. Oramai erano le sette e mezza. Mark decise di andarle incontro.

Quando il giudice aveva stabilito per lui una condanna a ottanta ore di lavoro

socialmente utile al canile, era quasi andato fuori di testa: che enorme cazzata. Ma poi aveva conosciuto Ricky e Jannis, il suo compagno, e all’improvviso aveva avuto di nuovo qualcosa che lo rendeva felice. Il lavoro al canile lo divertiva e continuava a lavorarci anche se oramai aveva scontato da tempo la pena. Gli sembrava di aver trovato una nuova casa, una nuova famiglia, nella quale era sempre il benvenuto.

Jannis era il suo grande modello, a volte la sera discutevano a lungo di cose per le

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quali finora Mark non aveva mai nutrito alcun interesse: il conflitto in Afghanistan, gli insediamenti in Israele, il trasferimento dei prigionieri di Guantánamo in Germania, oppure il tema preferito di Jannis, la menzogna sul clima. Jannis si intendeva di tutto e aveva idee diametralmente opposte a quelle del padre di Mark, che al massimo si indignava per la politica fiscale del governo federale oppure per la sinistra e i verdi.

Ma l’aspetto piú importante era che Jannis faceva seguire i fatti alle parole. Mark lo aveva accompagnato già alcune volte a incontri e manifestazioni ed era rimasto profondamente impressionato, perché Jannis conosceva migliaia di persone.

Ora Mark si stava infilando il casco per montare in sella al suo scooter, quando scorse la station wagon scura di Ricky risalire lungo la via. Il cuore gli balzò in gola, quando lei si fermò accanto a lui e abbassò il finestrino.

«Buongiorno» lo salutò con un sorriso. «Mi spiace di aver fatto tardi».

«Buongiorno». Si rese conto di essere diventato tutto rosso. Purtroppo per lui arrossire come uno stupido era una reazione abituale.

«Dammi una mano con il foraggio» gli propose lei. «Cosí intanto possiamo parlare, okay?».

Mark era titubante. Ma sí, al diavolo la scuola. Aveva già imparato tutto quello che serviva per vivere. La vita vera d’altronde si svolgeva altrove.

«Okay» rispose.

Il sole del mattino si rifletteva sull’alta facciata a vetri dell’edificio ipermoderno adagiato come una nave spaziale su un prato impeccabilmente curato nella zona

industriale. Henning lasciò l’auto nel parcheggio, ancora quasi completamente vuoto a parte un paio di macchine. Tirò fuori dal bagagliaio le due valigie di alluminio

brontolando un «ce la faccio» quando Pia fece per prendergliene una. Da quando avevano lasciato Christoph al cancello di Birkenhof un quarto d’ora prima, era

piombato in uno scontroso silenzio mattutino, ma dopo sedici anni di matrimonio con lui, Pia conosceva perfettamente il suo carattere e non se ne curò. A volte Henning poteva restare in silenzio anche per tre giorni di fila. Attraversarono il cortile lastricato con rigogliose aiuole fiorite e una fontana, accanto alla quale erano parcheggiate due auto della polizia. Pia rivolse lo sguardo sull’insegna dell’azienda. WindPro GmbH.

La pala a vento stilizzata che ne costituiva il logo indicava il settore in cui operava.

Un poliziotto in divisa sbadigliò in piedi sulla scala davanti alla porta d’ingresso e li lasciò passare con un cenno del capo. L’inconfondibile odore dolciastro di carne in putrefazione colpí violento Pia non appena ebbero messo piede nel maestoso atrio aperto.

«Allora, direi che qualcuno è rimasto in questa incubatrice per tutto il fine settimana» osservò Henning accanto a lei. Pia fece finta di non cogliere il cinismo nelle parole dell’ex marito. Il suo sguardo salí al terzo piano, raggiungibile con una slanciata scala a giorno e un ascensore di vetro. Davanti a un bancone di acciaio sul lato destro c’era una donna seduta piegata in avanti, i gomiti appoggiati alle

ginocchia, il volto nascosto tra le mani. Intorno a lei alcuni agenti in uniforme e un

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uomo in abiti civili. Doveva essere il nuovo collega di cui le aveva parlato Bodenstein.

«Toh, guarda chi c’è» disse Henning.

«Chi? Lo conosci?».

«Sí. Cemalettin Altunay. Lavorava all’ufficio 11 di Offenbach».

In qualità di vicedirettore dell’istituto di medicina legale di Francoforte, Henning conosceva la maggior parte dei collaboratori delle varie sezioni per i crimini violenti della regione Reno-Meno e di tutta l’Assia meridionale.

Pia osservò l’uomo che si era chinato verso la donna e le parlava sottovoce. Doveva avere meno di quarant’anni e se non altro da un punto di vista estetico rappresentava un decisivo miglioramento rispetto al suo predecessore Frank Behnke. Camicia immacolata, jeans scuri, scarpe lucidissime, folti capelli neri con taglio militare: un aspetto impeccabile. Pia provò istintivamente un certo disagio per la propria maglietta grigia spiegazzata con agli aloni di sudore sotto le ascelle e i jeans macchiati. Forse sarebbe stato meglio passare da casa a fare una doccia e a cambiarsi. Troppo tardi.

«Salve, dottor Kirchhoff» salutò il nuovo collega con una piacevole voce baritonale, poi si girò verso di lei e le porse la mano.«Commissario Cem Altunay. Mi fa piacere conoscerti, Pia. Kai e Kathrin mi hanno già raccontato tantissime cose di te. Hai fatto buone vacanze?».

«Io… hm… sí, gra… grazie» balbettò lei. «Sono atterrata giusto mezz’ora fa, con nove ore di ritardo…».

«Non hai fatto in tempo a tornare e ti trovi già un cadavere ad aspettarti. Mi rincresce». Cem Altunay sorrise dispiaciuto, quasi dipendesse da lui. Rimasero a fissarsi per qualche istante, poi Pia abbassò gli occhi. Quello sguardo intenso come cioccolato fondente la irritava. Passò qualche secondo ancora, il silenzio stava diventando imbarazzante. Alle loro spalle Henning emise una specie di breve sbuffo sarcastico che riportò Pia alla realtà. Si riscosse.

«Che cosa abbiamo?» si informò.

«La vittima si chiama Rolf Grossmann e lavorava qui come guardiano notturno da un paio d’anni. A prima vista sembra un incidente» rispose Cem Altunay.

«Un’impiegata ha trovato il cadavere stamattina verso le sei e mezza. Venite».

L’odore dolciastro si fece piú intenso. Di solito i cadaveri che spargevano un puzzo cosí penetrante non offrivano un bello spettacolo. Pia seguí il collega, superò le scale e si preparò psicologicamente. Tuttavia la vista che le si presentò le tolse il respiro per un attimo. Il morto, con la faccia gonfia e livida ormai quasi irriconoscibile, era

riverso con le membra grottescamente piegate sul pianerottolo tra il secondo e il terzo piano. Nonostante gli anni di esperienza accumulati, Pia provò una stretta allo

stomaco di fronte alle mosche che ronzavano intorno al cadavere. Se evitò di vomitare davanti al nuovo collega fu solo grazie alla sua forza di volontà e professionalità.

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«Perché pensi che si tratti di un incidente?» chiese cercando di soffocare i conati di vomito. Il calore accumulato nel vasto ambiente la faceva sudare copiosamente.

«Uffa! Non si può accendere il condizionatore o almeno aprire le vetrate?».

«Non ti azzardare!» esclamò Henning, che stava indossando una tuta bianca. «Non vorrai rovinarmi la scena del crimine».

Pia si accorse dell’espressione allibita del nuovo collega.

«Siamo stati sposati» spiegò succintamente. «Allora dimmi, che cosa ne pensi?».

«Direi che è inciampato ed è caduto dalle scale» rispose Cem Altunay.

«Hm». Lo sguardo di Pia percorse la scalinata che saliva al terzo piano compiendo una lieve curva. «Hai già parlato con la donna che l’ha trovato? Che cosa ci faceva qui alle sei e mezza di mattina?».

Henning aprí rumorosamente la valigia. Le mosche si misero a ronzargli intorno quando si chinò sul cadavere e lo esaminò con occhio critico.

«Comincia a lavorare sempre molto presto. Si occupa dell’amministrazione».

Altunay si girò verso la donna che per tutto il tempo era rimasta seduta immobile davanti al bancone. «È sotto shock. A quanto pare conosceva bene il morto, si incontravano tutte le mattine».

«Per quale motivo dovrebbe essere caduto dalle scale?» chiese.

«Aveva qualche problema con l’alcol, almeno è quanto sostiene l’impiegata»

rispose Cem Altunay. «Il cadavere puzza di alcol e nella cucina dietro al banco della portineria c’è una bottiglia di Jack Daniels aperta».

Il fattorino con la divisa marrone scuro le porse ansimando il tablet e la penna perché firmasse la ricevuta della consegna.

La donna scarabocchiò sul display rigato e sorrise soddisfatta. L’uomo non si preoccupò di nascondere il proprio malumore per essere stato costretto a trascinare il pacco fino al magazzino invece di lasciarlo nel cortile. Ma Frauke Hirtreiter non ci badò.

Entrò nel negozio, accese la luce e si guardò intorno. Sebbene l’attività commerciale appartenesse a Ricky Franzen, lei l’amava come se fosse di sua proprietà. Finalmente aveva trovato un luogo dove si sentiva sempre a suo agio. Il Paradiso degli animali si meritava tale nome; non aveva niente a che fare con i negozi per animali ammuffiti, umidi e male illuminati che Frauke ricordava dall’infanzia.

Aprí la porta della stanza attigua che serviva da sala per la toelettatura. Era il suo regno. Si era specializzata come parrucchiera per cani – oggi si diceva groomer – alla scuola serale, il suo lavoro era apprezzato dalla clientela e la riempiva di

soddisfazioni. A questo si aggiungeva la scuola per cani di Ricky e da qualche settimana il negozio online, che funzionava sempre meglio. Frauke tornò in ufficio, dove Nika era già seduta al computer e stava evadendo gli ordini arrivati.

«Quanti sono?» si informò Frauke curiosa.

«Ventiquattro» rispose Nika. «Rispetto a lunedí scorso c’è stato un aumento del cento percento. Però non riesco a inserire i nuovi articoli».

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«Perché?». Frauke prese due tazze dal pensile sopra il lavandino della piccolissima cucina. La caffettiera borbottava e sbuffava allegramente.

«Non ne ho idea. È sempre lo stesso problema. Inserisco l’articolo ma quando voglio salvarlo, non succede niente».

«Bisogna chiedere a Mark di dargli un’occhiata. Di sicuro lui saprà che cosa fare».

«Penso che sia la cosa migliore». Nika diede il comando di stampa e subito dopo il foglio con le ordinazioni uscí dalla stampante a getto d’inchiostro. Nika si stiracchiò sbadigliando. «Vado al magazzino».

«Prima beviamoci un caffè. Abbiamo ancora un po’ di tempo».

Frauke versò il caffè nelle tazze e ne porse una a Nika.

«Il latte è già dentro».

«Grazie». Nika sorrise e soffiò sul caffè bollente.

Frauke era felicissima che Nika arricchisse il team del Paradiso degli animali, perché Ricky aveva sempre meno tempo per il negozio. Le commesse mandate dall’ufficio di collocamento non valevano granché. La prima rubava, quella successiva era troppo stupida per occuparsi dei clienti e la terza dopo tre giorni accusava dolori alla schiena apparentemente dovuti al lavoro faticoso. Nika al

contrario era sveglia e non si lamentava mai, aveva organizzato la caotica contabilità e la sera, da quando la donna delle pulizie si era licenziata, spazzava addirittura il

negozio. Frauke non sapeva molto di lei, a parte che era una vecchia amica di Ricky e che alloggiava da lei e Jannis a Schneidhain. La prima volta che l’aveva vista non era rimasta particolarmente colpita: era una ragazza magra, taciturna, con capelli stopposi biondo cenere, gli occhiali e un colorito pallido. Portava abiti che chiunque altro avrebbe messo nei sacchi per la Croce Rossa e a confronto di Ricky scompariva come una starna di fronte a un pavone, ma forse proprio per questo erano diventate amiche.

Ricky non apprezzava particolarmente la concorrenza e Nika non rappresentava un pericolo in tal senso, al pari di Frauke. Le sarebbe piaciuto avere piú informazioni su Nika, era sempre cosí laconica e a volte sembrava triste ma, con suo rincrescimento, la ragazza non parlava quasi mai di sé. Ogni tanto Frauke non ce la faceva a tenere a freno la curiosità e le chiedeva qualcosa, ma Nika si limitava a sorridere dicendo che la sua vita era stata cosí anonima che non valeva la pena parlarne.

«Io allora vado». Nika posò la tazza nel lavello. «Ricky dovrebbe arrivare intorno alle nove e mezza per spedire gli ordini. Ci pensi tu a chiamare Mark?».

«Certo». Frauke annuí e sorrise soddisfatta. La sua vita aveva subito una svolta decisamente positiva. C’era da sperare che restasse cosí. Magari per sempre.

Henning aveva esaminato a fondo il cadavere raccogliendo le prime informazioni.

Abbassò la mascherina sul mento e si rivolse a Pia e Cem Altunay.

«Direi che la morte risale a un momento compreso tra le tre e le sei di sabato

mattina» disse. «Il rigor mortis non è piú presente, le macchie cadaveriche sono ormai stabili».

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«Grazie». Pia rivolse un cenno all’ex marito che continuava a fissare il cadavere con la fronte aggrottata.

«Che cosa c’è?» gli domandò.

«Mah, può darsi che mi sbagli, ma qualcosa mi dice che la morte non è stata causata da una caduta dalle scale. Non ha il collo spezzato».

«Secondo te è intervenuto qualcuno?».

«È possibile» confermò Henning con un cenno. Pia valutò se fosse il caso di

telefonare a Bodenstein, poi decise di non farlo. Il commissario capo le aveva affidato la direzione delle indagini, quindi stava a lei giudicare la situazione. Il vago sospetto di Henning che la morte non fosse stata accidentale bastava per mettere in moto il meccanismo degli accertamenti.

«Chiamiamo la scientifica e qualche altro collega per isolare la scena» disse a Cem Altunay. «L’edificio resterà sotto sequestro finché non sapremo che cosa è successo.

E voglio un’autopsia».

«Okay, me ne occupo io». Cem prese dalla tasca il cellulare. Scesero insieme, mentre delle voci concitate si levavano nei pressi della porta d’ingresso sempre chiusa. Uno degli agenti, incaricato di impedire agli impiegati della WindPro l’accesso all’interno della palazzina per evitare la distruzione di eventuali prove presenti sul luogo, si allontanò dal proprio posto e andò incontro a Pia.

«Che cosa succede?» si informò lei.

«È arrivato il capo e vuole entrare» rispose il poliziotto.

«Lo faccia passare. Però gli altri devono rimanere fuori».

Il poliziotto annuí e tornò all’ingresso.

«Adesso possiamo far entrare un po’ d’aria fresca?» chiese Pia a Henning. Era madida di sudore e non sopportava piú l’intenso odore di putrefazione.

«No» rispose Henning asciutto. «Prima aspettiamo l’arrivo della scientifica. Non voglio che Kröger mi faccia dei rimproveri».

«Te li farà comunque» osservò Pia, «perché hai toccato il cadavere prima di lui».

Cem Altunay aveva finito di telefonare e si rimise in tasca il cellulare.

«La scientifica è già partita, ci manderanno dei rinforzi e Kai penserà ad avvisare il procuratore» riferí.

«Molto bene. È arrivato il capo del nostro morto. Come ci regoliamo?» chiese Pia al nuovo collega.

«Tu fai le domande, io ascolto» rispose questi.

«Okay». Si sentiva sollevata perché sembrava che con Cem Altunay non ci sarebbe stato un conflitto di competenze come con Behnke, il quale aveva l’abitudine di

ficcare il naso in ogni indagine e ogni interrogatorio forte del suo status di piú anziano in servizio. Poco dopo un uomo alto e con le spalle larghe attraversò l’ingresso

accompagnato dall’agente di polizia. L’odore nauseabondo e la notizia che un impiegato della sua azienda era deceduto avevano fatto perdere ogni colorito al suo viso. Ma prima che potesse presentarsi a Pia, la donna che aveva trovato il morto si

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riscosse dallo shock che l’aveva paralizzata. Balzò in piedi e si gettò verso il suo capo lanciando un gemito affranto. Lui dapprima le rivolse un’occhiata carica di irritazione, poi l’abbracciò e le accarezzò le magre spalle. Esercitando una rispettosa pressione, Cem Altunay riuscí a convincere la donna in preda ai singhiozzi a staccarsi. Gli impiegati rimasti al di là della transenna che delimitava la scena ammutolirono impietositi. Il capo della WindPro era visibilmente scosso, ma manteneva un perfetto controllo di sé.

«Commissaria Pia Kirchhoff dell’ufficio 11 di Hofheim. Lui è il mio collega Cem Altunay» si presentò Pia.

«Stefan Theissen» replicò lui. «Che cosa è accaduto?».

La stretta di mano di Theissen era vigorosa e leggermente sudata, cosa che non sorprese Pia alla luce della temperatura e delle circostanze. Per guardarlo in viso era costretta ad alzare la testa. Doveva essere alto almeno un metro e novanta e aveva un aspetto piacente. Per un attimo l’aroma pungente del suo dopobarba scacciò l’odore di morte. I capelli accuratamente pettinati erano ancora umidi, la pelle sopra il colletto della camicia era leggermente arrossata per la rasatura.

«Sembra che il suo guardiano notturno, il signor Grossmann, sia stato vittima di un incidente mortale».

Pia esaminò attentamente Theissen, per coglierne la reazione.

«È terribile. Come… che cosa… cioè…» tacque turbato. «Santissimo Iddio».

«Stando ai primi accertamenti, è caduto dalle scale» proseguí Pia. «La prego, però, andiamo a continuare la nostra conversazione da qualche altra parte».

«Certo. Vogliamo andare nel mio ufficio?». Theissen rivolse un’occhiata interrogativa a Pia. «È al terzo piano. Possiamo prendere l’ascensore».

«Meglio di no. Stiamo ancora aspettando i colleghi della scientifica. Finché non saranno arrivati nessuno può entrare nell’edificio».

«E i miei impiegati?» si informò Theissen.

«Oggi purtroppo dovranno cominciare piú tardi» spiegò Pia. «Prima è necessario ricostruire accuratamente la dinamica dell’incidente».

«Quanto tempo ci vorrà?».

Sempre la stessa domanda. E Pia dava sempre la stessa risposta.

«Non sono in grado di dirglielo con precisione».

Poi si girò verso Cem Altunay.

«Cem, potresti dire che mi chiamino quando arriva la scientifica?».

Era strano dare del tu in maniera tanto spontanea a quello sconosciuto. Per qualche motivo Pia non riusciva ancora a considerarlo un collega. Forse la routine le risultava piú faticosa del solito perché il giorno prima a quell’ora era ancora molto distante da lí. Pensò brevemente a Christoph e si toccò con il pollice l’anello che portava al dito e che era sfuggito persino agli occhi di falco di Henning. Le sarebbe piaciuto indugiare ancora per un istante nel ricordo della loro ultima notte in Cina, ma si rese conto che Theissen la guardava carico di aspettativa.

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Cem tornò da loro e insieme seguirono il capo della WindPro in una saletta al pianterreno.

«Accomodatevi». Theissen indicò il tavolo da conferenza. Chiuse la porta e posò la valigetta su una sedia. Prima di mettersi seduto, si slacciò la giacca. Neppure un grammo di grasso superfluo, constatò Pia, anche se doveva essere vicino alla

cinquantina. Molto probabilmente faceva jogging tutte le mattine, oppure era uno di quei fanatici della bicicletta che alle prime ore dell’alba pedalano su e giú per il Taunus in sella alle loro mountain-bike. Superato il primo shock, Theissen appariva leggermente piú rilassato e anche il suo viso stava riprendendo colore.

«Come posso aiutarvi?».

«Una delle sue impiegate ha trovato il cadavere del signor Grossmann stamattina»

esordí Pia, ripensando a come qualche istante prima Theissen avesse abbracciato la donna per confortarla. Un capo compassionevole. Un punto a suo favore.

«La signora Weidauer». Theissen confermò con un cenno del capo. «È la nostra contabile e viene al lavoro sempre molto presto».

«Ci ha detto che il signor Grossmann aveva un problema con l’alcol. È vero?».

Il direttore assentí con un sospiro.

«Sí, è cosí. Non beveva sempre, ma ogni tanto si ubriacava sul serio».

«In questo caso non rappresentava un rischio per la sua azienda come guardiano notturno?».

«In effetti». Stefan Theissen si passò una mano tra i capelli mentre cercava le parole giuste. «Rolf era un mio compagno di scuola».

Pia ne rimase sorpresa. O si era grossolanamente sbagliata a valutare l’età di Theissen, oppure la morte e la decomposizione avevano fatto sembrare Rolf Grossmann molto piú anziano di quanto non fosse.

«Ai tempi della scuola eravamo molto amici, poi ci perdemmo di vista. Quando partecipai a una rimpatriata qualche anno fa, rimasi scioccato. La moglie lo aveva lasciato, viveva in un dormitorio pubblico a Francoforte ed era disoccupato». Theissen si strinse nelle spalle con aria rattristata. «Mi fece pena, cosí lo assunsi. Come autista e poi, dopo che gli venne ritirata la patente, come guardiano notturno. In genere non c’erano problemi, era una persona affidabile e non beveva mai quando era in

servizio».

«In genere» osservò Cem. «Significa che non era sempre cosí?».

«Purtroppo no. Una volta l’ho sorpreso venendo qui in azienda a tarda ora di ritorno da un viaggio di lavoro. Era sdraiato in cucina privo di sensi e completamente ubriaco.

Dopo di allora rimase tre mesi ricoverato per disintossicarsi. Era piú di un anno che non succedevano incidenti e credevo che oramai si fosse lasciato il problema alle spalle».

Schietto. Onesto. Senza abbellimenti.

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«Secondo le analisi preliminari del medico legale, il signor Grossmann è deceduto sabato mattina intorno alle quattro» disse Pia. «Come è possibile che nessuno si sia accorto della sua assenza fino a oggi?».

«Grossmann viveva da solo. E nei fine settimana qui non c’è nessuno, a meno che non ci troviamo nella fase terminale di un progetto» spiegò Stefan Theissen. «A volte vengo in ufficio il sabato o la domenica, ma questo fine settimana ero via. Rolf… cioè il signor Grossmann… finisce il turno solitamente intorno alle sei per poi rientrare in servizio alle diciotto».

Le dichiarazioni di Theissen erano convincenti. Pia lo ringraziò delle informazioni che aveva fornito e tutti si alzarono. Proprio in quel momento il cellulare della

commissaria squillò. Era Henning.

«Ho trovato qualcosa di estremamente interessante» le annunciò laconico. «Vieni sulle scale. Meglio se subito».

La guardò in viso, lottando contro i sensi di colpa per non essere andato a trovarla tanto a lungo. Lei aveva gli occhi aperti, ma il suo sguardo fissava il nulla. Chissà se capiva ciò che lui le diceva, se avvertiva le sue carezze?

«Ieri sera è stato un successo incredibile». Le accarezzò la mano. «C’erano tutti, proprio tutti. Persino la cancelliera Merkel. E naturalmente la stampa. Oggi il libro è su tutti i giornali. Sono sicuro che ti sarebbe piaciuto, tesoro mio».

Dalla finestra socchiusa entravano i rumori della città: lo sferragliare del tram, colpi di clacson, rombo di motori. Dirk Eisenhut prese la mano della moglie e baciò le dita fredde. Tutte le volte che entrava nella sua camera e la trovava sdraiata a letto con gli occhi aperti, in lui si riaccendeva la speranza. C’erano stati casi di persone che si erano svegliate dal coma dopo diversi anni. Finora nessuno poteva dire con sicurezza che cosa succedeva nella mente di tali pazienti. Lui sapeva che lei lo sentiva. A volte sembrava addirittura reagire alla sua voce, ogni tanto ricambiava la stretta della sua mano e in qualche occasione gli era sembrato di vederla sorridere, quando le

raccontava del passato oppure la baciava.

Le riferí a voce bassa della presentazione del suo nuovo libro, avvenuta la sera precedente alla Deutsche Oper, con grande partecipazione dei media. Le elencò i nomi degli illustri ospiti del mondo politico, economico e culturale, le portò i saluti di

conoscenti e amici. Quando sentí bussare alla porta non si girò neppure.

«Ora purtroppo non potrò venire a trovarti per diverso tempo» bisbigliò. «Devo partire. Ma ti penso sempre, tesoro mio».

Ranka, l’efficiente caposala della casa di cura, era entrata nella camera. Lui aveva riconosciuto il suo inconfondibile profumo di lavanda e acqua di rose.

«Ah, abbiamo qui il professore. Era da molto tempo che non passava a trovarci».

Gli parve di cogliere una nota di disappunto nella voce, ma decise che non era il caso di giustificarsi.

«Buongiorno, Ranka» si limitò a rispondere. «Come sta mia moglie?». In genere lei era solita fornirgli un resoconto dettagliato della giornata di Bettina, raccontandogli di

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un’uscita sul balcone oppure di un minimo progresso nella fisioterapia. Oggi invece rimase taciturna.

«Bene» disse soltanto. «Bene. Come sempre».

Una brutta risposta. Dirk Eisenhut non voleva sentirsi dire che non era cambiato niente. La stasi significava regresso. In un primo momento la riabilitazione precoce aveva dato buoni risultati e le condizioni di Bettina erano migliorate lentamente ma in maniera costante grazie al trattamento di stimolazione basale, alla fisioterapia e alla logopedia. Aveva imparato di nuovo a deglutire da sola e cosí era stato possibile eliminare la cannula tracheale e in seguito la sonda gastrica. Esisteva un cinquanta percento di possibilità di recupero dalla sindrome apallica. Essendo uno scienziato, lui sapeva che non c’erano garanzie e che quel cinquanta percento significava in realtà che difficilmente sarebbe andato tutto bene. Se nel giro di un anno non fossero subentrati evidenti miglioramenti nelle facoltà fisiche e mentali e la paziente fosse rimasta incosciente, il trattamento sarebbe passato alla fase F. La cruda terminologia medica per questa fase riabilitativa era «trattamento riabilitativo intenso e continuo».

E stava a significare la fine di qualsiasi speranza di guarigione.

Salutò la moglie con un bacio, informò Ranka che si sarebbe assentato per un viaggio di lavoro di alcuni giorni e uscí dalla camera.

Da quella terribile notte di San Silvestro era tornato solo due volte nella villa di Potsdam, o meglio in ciò che ne rimaneva dopo l’incendio: con i periti della polizia e per recuperare i documenti conservati nello studio in gran parte rimasto intatto. Poi basta. Adesso occupava l’appartamento in centro che Bettina aveva tanto amato, a poca distanza dalla casa di cura in Rosenthaler Strasse. Non lo disturbava dover attraversare la città tutte le mattine per andare al lavoro, era il suo castigo. Rivolse un cenno di saluto al portiere e uscí sul marciapiede. Si fermò e fece qualche profondo respiro, mentre il frastuono e la frenesia della metropoli lo assalivano. Un’orda di turisti diretti agli Hackeschen Höfe gli passò davanti chiacchierando e sghignazzando, un tassista si fermò davanti a lui scoccandogli un’occhiata interrogativa, ma gli

rispose con un cenno del capo di non aver bisogno di un mezzo di trasporto. Dopo essere stato a trovare Bettina aveva sempre bisogno di una passeggiata e inoltre era a pochi passi di distanza da casa. Si mise in marcia, attraversò la strada e dopo qualche centinaio di metri imboccò Neue Schönhauser Strasse, dove si trovava il suo

appartamento.

Forse avrebbe sopportato meglio tutto quanto se non avesse potuto impedire la tragedia. Tornando a casa nel tardo pomeriggio dopo la festa all’istituto, aveva trovato la villa avvolta dalle fiamme. Il freddo intenso e ulteriori problemi all’autopompa avevano ritardato all’infinito l’intervento dei vigili del fuoco. Quando finalmente le fiamme erano state domate, Bettina era stata portata fori viva per miracolo. Il medico era riuscito a rianimarla, ma il cervello aveva subito gravi danni a causa della

prolungata mancanza di ossigeno dovuta all’intenso fumo sprigionato dall’incendio.

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Lui non aveva ancora superato lo shock ed era perfettamente consapevole di essere il responsabile di quanto accaduto. Aveva commesso un terribile sbaglio, uno sbaglio al quale non avrebbe mai piú potuto rimediare.

Oggi era la giornata che poteva risultare decisiva. Aveva raccolto informazioni per settimane, anzi mesi, valutandole e traducendole in un tedesco comprensibile a tutti per ottenere il maggior numero possibile di adesioni alla sua causa. I suoi sforzi erano stati coronati dal successo, l’iniziativa popolare «Niente pale eoliche nel Taunus»

contava piú di duecento partecipanti e dieci volte altrettanti simpatizzanti. Era stata sua l’idea di portare in televisione il tema poco prima dell’assemblea pubblica, si era occupato di ogni cosa e quel pomeriggio era il gran giorno. La posta in gioco era altissima! La controparte doveva comprendere che non si trovava di fronte una

manciata di fanatici, bensí centinaia di cittadini contrari al folle progetto della centrale eolica. Jannis Theodorakis uscí dalla doccia, prese la salvietta e si asciugò. Si passò una mano assorto sul mento non rasato. Quella barba di tre giorni in realtà gli piaceva, ma forse sarebbe stato meglio mostrarsi curato e serio alle telecamere. Dopo essersi rasato, andò in camera da letto e sottopose il guardaroba a un attento esame. Giacca e cravatta sarebbero stati esagerati? Erano passati anni dall’ultima volta che aveva indossato un abito formale per andare al lavoro, molto probabilmente quei capi non gli stavano nemmeno piú. Alla fine scelse un paio di jeans che abbinò a una camicia bianca e a una giacca sportiva. Da quando Nika si occupava della casa, gli armadi erano sempre pieni e i vestiti accuratamente stirati. Jannis posò camicia e jeans sul letto matrimoniale, la cui vista gli provocò un’involontaria diminuzione del buon umore. Ricky ormai dormiva sul divano in salotto oppure sul pavimento, adducendo come spiegazione che il mal di schiena non le permetteva di stare sdraiata a letto. Da molto tempo ormai era oberata dal lavoro che si andava accumulando, ma non lo avrebbe mai riconosciuto. Il negozio, il canile e la scuola di addestramento, le

incombenze domestiche e l’organizzazione dell’iniziativa di protesta le richiedevano piú tempo di quanto ne avesse a disposizione, e per la vita privata non c’era

praticamente piú spazio. Il risultato di questa frenesia erano dolori alla schiena sempre piú forti, che curava con sedute dal chiropratico e che le offrivano, questo era il parere di Jannis, un’ottima scusa per non concedersi piú a lui.

Jannis uscí dalla camera da letto ed entrò in cucina. I gatti acciambellati sulla panca e sulla sedia a godersi il sole scapparono fulminei sul terrazzo dalla gattaiola. Tutte quelle bestie che Ricky si portava a casa nel suo sconfinato amore per gli animali gli davano sui nervi. Poteva ancora accettare i due cani, ma i gatti, quegli arroganti esseri felpati che lasciavano peli dappertutto, lo ripugnavano. A loro volta, essi

ricambiavano il suo odio con fiero disprezzo e disdegnavano la sua compagnia quanto lui la loro.

La stanza era inondata dalla luce del sole che entrava dalla finestra. Era un

pomeriggio di inizio estate perfetto per le riprese previste per il pomeriggio. Jannis si preparò un caffè, spalmò con burro e marmellata di fragole uno dei panini fragranti e

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lo addentò con gusto. I suoi pensieri vagarono pigri su Nika, come gli capitava spesso negli ultimi tempi.

In un primo momento si era accorto solamente del suo aspetto esteriore: i vestiti grotteschi, la pettinatura impossibile, gli occhiali da gufo. Nika parlava poco ed era cosí riservata che spesso lui si dimenticava della sua presenza in casa. Non sapeva niente di lei e non aveva provato alcun interesse nei suoi confronti fino a un fatto accaduto tre settimane prima.

Jannis si sentí avvampare richiamando alla memoria l’evento che aveva cambiato tutto. Era sceso in cantina a prendere una bottiglia di vino per la cena e, proprio nel momento in cui tornava di sopra, Nika era uscita dal bagno completamente nuda, i capelli umidi pettinati all’indietro. Erano rimasti a guardarsi sbigottiti per qualche secondo, poi lui aveva proseguito frettolosamente verso le scale mormorando delle scuse. Nessuno di loro aveva piú parlato di quell’incontro, ma da allora la disinvoltura nel loro rapporto era svanita. L’immagine di Nika si era impressa indelebile nella sua mente. Jannis non faceva che pensare a lei quando era sdraiato a letto solo e Ricky dormiva russando sul pavimento; dopo ogni notte andata in bianco il desiderio per lei cresceva, ormai era diventata un’ossessione che lo tormentava e lo faceva infuriare. Se Ricky, gelosa com’era, avesse sospettato anche solo lontanamente, sarebbe scoppiato l’inferno. Nonostante questo lui non riusciva a scacciare dalla propria mente

l’immagine dei seni nudi di Nika.

«Nika» mormorò, gustando il tenero tormento che gli provocava pronunciare il suo nome. Il ricordo del loro incontro, che nelle sue fantasie sempre piú sfrenate ormai non si concludeva piú con la sua fuga in preda alla vergogna, lo fece eccitare suo malgrado. «Dannazione, Nika, dannazione a te».

Il commissario capo Oliver von Bodenstein era in piedi davanti allo specchio

dell’armadio e si annodava la cravatta contrariato. Che idea balzana sposarsi un lunedí mattina, costringendo cosí la parte della famiglia che lavorava a prendere un giorno di ferie! Si guardò con occhio critico di profilo. Anche tirando in dentro la pancia, questa continuava a sporgere sfacciata sopra la cintura dei pantaloni. La sera precedente, per la prima volta in vita sua, la lancetta della bilancia aveva superato la tacca dei novanta chili, provocandogli un autentico shock. Ancora nove chili e sarebbe arrivato al

quintale! Se non la smetteva subito di cenare tutte le sere con i suoi genitori e poi di concedersi una bottiglia di vino rosso insieme al padre, ben presto avrebbe dovuto valutare se voleva portare la pancia sopra oppure sotto la cintura.

S’infilò la giacca. L’abito mascherava la maggior parte dell’adipe, ma lui si sentiva lo stesso a disagio. E non dipendeva soltanto dall’imminente banchetto di nozze e dal suo aumento di peso. Per piú di vent’anni la sua vita aveva seguito binari prevedibili e ordinati, ma dopo la separazione da Cosima sei mesi prima, era scoppiato il caos, e non solo nelle sue abitudini alimentari. Si era accorto ben presto di aver commesso un errore a farsi coinvolgere in una storia con Heidi Brückner, conosciuta nel novembre precedente durante un’indagine. Si erano incontrati quando la sua vita era stata

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sconvolta fino alle fondamenta dal tradimento di Cosima e lei lo aveva aiutato a superare il dolore iniziale, ma lui non era ancora pronto a buttarsi in una nuova relazione stabile. Dopo qualche telefonata, aveva smesso di chiamarla e la cosa era finita da sola, senza discussioni e senza il minimo turbamento da parte sua.

Tuttavia, il vero motivo per cui adesso avrebbe preferito trovarsi con i colleghi accanto a un cadavere invece di essere diretto al municipio di Kelkheim, era Cosima.

Da quando lo aveva messo di fronte al fatto compiuto sei mesi prima ed era partita poco dopo per una crociera intorno al mondo con il suo amante russo, lui non le aveva piú parlato. Ce l’aveva ancora con lei, perché aveva distrutto la famiglia e la sua vita per puro egoismo. La relazione segreta con quell’avventuriero di Alexander Gavrilov era andata avanti per mesi, senza che lui avesse nutrito neppure il minimo sospetto. Si era presa gioco di lui, coprendolo di ridicolo, e ancora una volta non gli era rimasta altra scelta se non di accettare le decisioni prese da lei, se non altro per il bene dei figli. Lorenz e Rosalie erano ormai adulti e potevano cavarsela da soli, ma Sophia aveva solo due anni e mezzo. Aveva diritto a un padre e a una madre, qualunque cosa fosse successa tra Cosima e lui. Bodenstein gettò un’ultima occhiata rassegnata allo specchio. Aveva deciso di utilizzare il ritrovamento del cadavere come scusa per lasciare i festeggiamenti subito dopo la cerimonia nuziale, nel caso che Cosima fosse tanto spudorata da venire in compagnia di quel Gavrilov. In cuor suo sperava quasi che lo facesse.

Vide le due auto parcheggiate in cortile già da lontano e intuí ciò che lo aspettava.

Ludwig Hirtreiter non era persona da evitare i conflitti, cosí continuò a camminare e aprí il cancello del giardino. Tell corse verso i due uomini e cominciò ad abbaiare.

«Tell!» lo richiamò lui. «A cuccia!».

Il cane ubbidí prontamente.

«Che cosa volete?» ringhiò Hirtreiter. Era ancora molto nervoso a causa dell’azione illegale dei taglialegna nel bosco. I suoi figli non avrebbero potuto trovare un

momento peggiore per fargli visita.

«Buongiorno, papà» lo salutò Matthias, il piú giovane, con un sorriso. «Hai tempo per prendere un caffè con noi?».

Che manovra assolutamente prevedibile.

«Se ricominciate con la storia del Pfaffenwiese, no». Sapeva benissimo che erano venuti apposta per questo. Avevano interrotto qualsiasi contatto per anni, tranne l’anonimo biglietto di auguri per Natale e la telefonata d’obbligo per il suo

compleanno, e per lui andava benissimo cosí. Guardò i figli e inarcò le sopracciglia.

Se ne stavano lí abbacchiati e impacciati, con i loro abiti eleganti, le loro macchine costose.

«Papà, per favore» lo implorò Gregor in un tono sottomesso che gli si addiceva poco quanto l’assurda auto sportiva. «Non è possibile che desideri davvero che perdiamo tutto ciò che ci siamo costruiti».

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«Perché dovrebbe interessarmi?». Ludwig Hirtreiter si tolse il fucile di spalla, lo posò in terra e ci si appoggiò. «Voi non vi siete mai interessati a me, quindi perché adesso io dovrei farlo con voi?».

Gli avevano telefonato per la prima volta un paio di settimane addietro. Per fargli un saluto, avevano detto. Lui si era subito insospettito, e a ragione, come era emerso ben presto. Ludwig Hirtreiter continuava a ignorare come avessero fatto i figli a venire a sapere dell’offerta della WindPro, ma era stata proprio questa l’unica ragione che aveva riacceso quell’improvviso amore filiale. Dovevano essere davvero disperati per farsi vedere da lui dopo tutto quel tempo. Era stato Matthias a parlare per primo del Pfaffenwiese. Alla fase delle cortesie era succeduta quella delle suppliche, annidate nella timida rivelazione delle loro precarie condizioni finanziarie. Quando neppure questo approccio aveva dato i frutti sperati, si erano appellati al senso di responsabilità paterno. Praticamente erano in bancarotta, l’uno paventava l’arrivo del commissario giudiziale, l’altro dell’ufficiale giudiziario. Entrambi avevano urgente bisogno di denaro, entrambi temevano le malignità e la derisione di quelli che avevano abbagliato per anni con la loro vita lussuosa in prestito.

«Avete finito?». Hirtreiter squadrò i due uomini che gli erano ormai indifferenti.

Non provava piú alcun sentimento verso di loro, né buono, né cattivo. «Ho da fare».

Imbracciò il fucile e fece per andarsene.

«Aspetta, papà, per favore!». Matthias fece un passo verso di lui. Nel suo sguardo non c’era piú traccia di superiorità, soltanto pura disperazione. «Non riusciamo a capire perché ti opponi cosí alla vendita di quel pascolo. Non vogliono mica costruirti un’autostrada sotto il naso. Al massimo avrai qualche settimana di disagi durante i lavori, ma poi capiterà solo saltuariamente qualche tecnico per la manutenzione».

Non aveva tutti i torti. Era davvero assurdo rifiutare l’offerta della WindPro, soprattutto adesso che avevano rilanciato di un altro milione. Ma poi, come diavolo avrebbe fatto a presentarsi di fronte agli altri, che si fidavano di lui e della sua integrità? Heinrich non gli avrebbe piú rivolto la parola! Se vendeva il pascolo, non sarebbe piú stato possibile impedire la creazione del parco eolico e tutto sarebbe diventato inutile.

Matthias interpretò il silenzio paterno come segnale positivo.

«Siamo davvero addolorati per quanto successo all’epoca» proseguí. «Abbiamo detto molte stupidaggini e ti abbiamo offeso. Non possiamo piú rimediare, ma forse potremmo provare a ricominciare daccapo. Come famiglia. Ai tuoi nipoti farebbe piacere frequentare piú spesso il loro nonno».

Che rozzo tentativo di manipolazione.

«È davvero un gesto apprezzabile da parte tua» ribatté Ludwig Hirtreiter. Vide la speranza accendersi nello sguardo del figlio e allora la distrusse con gioia maligna.

«Purtroppo però arriva troppo tardi. Voi non mi interessate piú. Nessuno dei due.

Lasciatemi in pace, come avete fatto per vent’anni».

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«Ma papà» si umiliò Gregor in un ultimo, disperato tentativo. «Siamo pur sempre i tuoi figli e…».

«Siete stati un episodio della mia vita, nient’altro» lo interruppe brusco Ludwig Hirtreiter. «Non venderò il prato. Fine della discussione. E adesso sloggiate dalla mia proprietà».

Gli agenti della scientifica avevano assunto il comando sotto la direzione del

commissario capo Christian Kröger. Infilati nelle loro tute bianche con cappuccio e mascherina, conclusero gli accertamenti sulla scena del crimine in maniera rapida e precisa, prelevando e catalogando tutte le prove che in un secondo tempo avrebbero potuto rivelarsi decisive. Un lavoro meticoloso ed estenuante, per il quale Pia non avrebbe mai avuto la pazienza necessaria. Due agenti erano impegnati a cospargere il corrimano in acciaio inossidabile della scala fino al terzo piano di polvere nera per rilevare le impronte digitali. Pia lo trovava perfettamente inutile, dato che ogni giorno dozzine di persone posavano la mano sulla balaustra, ma tenne quest’opinione per sé, per non attirarsi l’antipatia di Kröger fin dal primo giorno dopo il rientro dalle ferie.

La folla di impiegati sopraggiunti nel frattempo era stata sospinta all’esterno e anche la signora Weidauer era sparita. Regnava un silenzio quasi religioso, interrotto solo dagli scatti delle macchine fotografiche.

«Ciao, Christian». Pia salutò il capo della scientifica. Lui e Henning erano

inginocchiati sul pianerottolo accanto al cadavere, incuranti del fetore e del nugolo di mosche ronzanti.

«Ciao, Pia» rispose Kröger senza alzare la testa. «Guarda che cosa ha trovato il medico legale».

Pia e Cem Altunay si avvicinarono. Il dottor Henning Kirchhoff e Christian Kröger lavoravano insieme da anni e si erano incontrati tantissime volte sul luogo di morti accidentali e premeditate, ma tra di loro non c’era alcuna simpatia, piuttosto il contrario: nutrivano loro malgrado il dovuto rispetto per le reciproche competenze professionali, ma per il resto non si potevano soffrire.

«Ecco». Henning afferrò la mano destra della vittima, stretta a pugno, e tirò le dita per aprirla. «Se non mi sbaglio, quello che tiene in mano è il frammento di un guanto in lattice».

«E allora?». Pia scosse il capo perplessa. «Che cosa dovrebbe significare?».

«Naturalmente esiste la possibilità che il nostro uomo compisse il suo giro di ronda notturna stringendo in mano un pezzo di guanto in lattice, magari come una specie di feticcio» ribatté Henning con quel tono paternalistico che mandava su tutte le furie Pia. «Ne ho già viste tante di cose strane. Ti ricordi quel direttore di banca qualche anno fa, che si era impiccato nel suo ufficio? Quello del reggiseno di sua madre…».

«Me lo ricordo» lo interruppe Pia spazientita. «Che cosa c’entra con questo morto?».

«Niente» rispose serafico Henning. «Il guanto in lattice può essere irrilevante, ma che cosa mi dite di questa?».

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Si alzò e fece segno a Pia e Cem di seguirlo su per le scale. Si fermò sul quinto gradino e indicò una macchia grossa quanto il palmo di una mano in una chiazza di sangue secco sul granito grigio.

«Questa» disse, «è indubbiamente l’impronta parziale di una scarpa. Ma non della scarpa di Grossmann».

Pia si chinò a esaminare la misteriosa macchia. Poteva rappresentare la prova che Grossmann era stato ucciso?

Al pianterreno Stefan Theissen era appoggiato al bancone nell’atrio e parlava al telefono a voce bassa, seguendo con attenzione l’attività sulla scala, ma senza manifestare alcuna emozione.

«Capo!». Un collega della scientifica si sporse dalla balaustra del terzo piano.

«Venga su!».

Christian Kröger salí le scale tenendosi sulla sinistra, per non rischiare di inquinare le prove.

«Con il cadavere abbiamo finito. Puoi farlo portare via» disse Henning a Pia togliendosi la tuta e ripiegandola con cura.

«Bene. Lo faccio portare da te. L’autorizzazione all’autopsia dovrebbe essere una pura formalità».

«Speriamo. Alla procura diventano sempre piú esigenti». Henning chiuse la valigetta e s’infilò la giacca. «La vacanza ti ha fatto bene. Hai l’aria piú riposata».

«Grazie» rispose Pia, stupita e insieme lusingata da questa affermazione quasi distratta, che sulla bocca di Henning assumeva il significato di un vero e proprio

complimento. Se si fosse limitato a quello, sarebbe stata una delle rare occasioni in cui l’incontro con l’ex marito le avrebbe lasciato un ricordo piacevole. Ma Henning, che possedeva una perspicacia notevole sul lavoro, ma non nei rapporti con il prossimo, rovinò completamente quell’impressione.

«Sono contento per te, che tu abbia trovato qualcuno in grado di offrirti un po’ di piú di quanto potessi fare io».

Pia non se la sarebbe presa a male per questa osservazione, se non fosse stata pronunciata con tanta condiscendenza.

«Non ci voleva certo un miracolo» rispose piccata. «A ben vedere, tu non mi hai offerto mai niente».

«Ma dai! Una bella casa, un’auto di lusso, i cavalli e una quantità di competenze forensi che piú di un collega ti invidia». Henning la guardò con le sopracciglia alzate.

«Non lo definirei propriamente niente».

«Ognuno si aggiusta le cose come meglio può» sibilò Pia, assalita di colpo dal ricordo del suo prestigioso appartamento di Francoforte, raffinato ma privo di vita, dove aveva trascorso tante ore di solitudine mentre Henning si dedicava al suo lavoro, senza preoccuparsi minimamente di lei. Aveva sopportato quella situazione fin troppo a lungo, fino al giorno in cui lui, senza neppure informarla, era partito per la scena di un crimine sulle Alpi austriache. Lei aveva fatto i bagagli e se n’era andata. Per non

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smentirsi, lui se n’era accorto solo due settimane piú tardi. Pia avrebbe voluto aggiungere qualcosa al riguardo, ma fu interrotta dallo squillo del cellulare. Era Kröger.

«Venite su nell’ufficio del capo. Terzo piano, ultima porta a sinistra» le disse soltanto, poi riagganciò.

«Ciao. Salutami Miriam» disse Pia in tono brusco all’ex marito, poi fece segno a Cem Altunay, che aveva appena organizzato telefonicamente la rimozione del cadavere, di seguirla.

L’ufficio di Theissen era l’ultimo del corridoio. Era spazioso e arredato con molto gusto. Pia apprezzò il contrasto creato dal parquet sul pavimento con la vetrata a tutta altezza, i mobili di cristallo e legno scuro. Si guardò intorno e arricciò il naso. L’odore di decomposizione era penetrato fin lassú. Non c’era da sorprendersi, dal momento che la porta sul corridoio era rimasta aperta e l’aria calda tendeva a salire. Tuttavia l’intensità del puzzo la sorprese.

«Che cosa c’è?» domandò.

«Ah». Christian Kröger, chino sulla scrivania, si voltò. «Venite a dare un’occhiata qui».

L’odore dolciastro e nauseabondo diventò soffocante. Com’era possibile? Pia si annusò in maniera discreta dentro l’orlo della maglietta, che sapeva leggermente di sudore e conservava una traccia di detersivo. Si fermarono davanti alla scrivania e lei trattenne il fiato per il puzzo. In mezzo al piano di cristallo perfettamente lucidato, c’era un batuffolo di pelliccia bruno e bianco. Poi Pia notò i vermi. Erano centinaia, bianchi, che strisciavano sulla scrivania dopo essersi saziati dal piccolo cadavere.

«Un criceto morto». Cem Altunay fece una smorfia. «Che cosa significa?».

«Credo che sia il caso di chiederlo al signor Theissen» rispose Pia. Due minuti dopo il capo della WindPro usciva dall’ascensore. Non era particolarmente entusiasta

dell’occupazione della sua azienda, ma non se ne lamentò.

«Che cosa c’è?» si informò.

«Venga». Pia lo condusse nel suo ufficio e gli indicò la scrivania. Theissen notò il criceto morto e sobbalzò all’indietro.

«Saprebbe darci una spiegazione e dirci che cosa significa?» gli chiese Pia.

«No, non ne ho idea» borbottò lui nauseato. Pia notò un tic nervoso sul suo viso pallido e in quel momento la sua mente scattò d’impulso dall’ozioso stand-by delle ferie alla massima concentrazione professionale. Il suo istinto era all’erta. Theissen sapeva benissimo che cosa stava a significare il criceto morto sulla sua scrivania. La sua ultima affermazione era una bugia pura e semplice.

Al negozio era tornata la calma dopo un breve affollamento. Frauke aveva finito con i primi appuntamenti di quel lunedí mattina, occupandosi del recalcitrante airedale terrier di una cliente di Kronberg e dei due yorkshire di una vedova di Johanniswald, che erano ospiti fissi ogni due settimane. Mentre Ricky consigliava i pochi clienti della mattinata dopo essere tornata dal giro di consegne, Nika e Frauke sistemarono

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