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LUCI ED OMBRE DELLA INNOVAZIONE DELLA MEDIAZIONE CIVILE

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Academic year: 2022

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LUCI ED OMBRE DELLA INNOVAZIONE DELLA MEDIAZIONE CIVILE

Paolo Vinci

*

La lentezza, talvolta esasperante ed estenuante, che caratterizza il nostro processo civile è sicuramente ben nota anche ai non operatori del diritto.

Con lo sbandierato obiettivo di deflazionare il sistema giudiziario dall’enorme mole di arretrato che lo contraddistingue, dando sollecita definizione alle controversie civili è stato introdotto, anche per tentare di ridurre le censure della Corte Europea, l’istituto della mediazione civile e commerciale, approvato dal Consiglio dei Ministri con il noto decreto legislativo del 4 marzo 2010 n. 28 (pubblicato nella G.U. n. 53 del 5.03.2010), attuativo della riforma del processo civile ed entrato in vigore, in via obbligatoria, il 20 marzo 2011.

È oramai un dato acquisito che gli ordinamenti occidentali si indirizzino verso la c.d.

alternative dispute resolution rispetto al processo di cognizione davanti al giudice nazionale, sì che è superato ed obsoleto l’assunto secondo cui gli interessi dei soggetti assurgono a livello di diritto soggettivo solo ed esclusivamente quando interviene il riconoscimento e la tutela dell’ordinamento.

Nel panorama dottrinario e giurisprudenziale italiano e nello stesso scenario legislativo, l’avvento della mediazione conciliativa obbligatoria costituisce se non un vulnus, quanto meno un elemento di discontinuità rispetto al passato, specialmente in un contesto storicamente provinciale quale quello italiano. Adeguarsi al cambiamento rappresenta una necessità cogente per entrare nel DNA della nuova istituzione.

* Avvocato Foro di Milano, docente a.c. di Diritto Sanitario, Università Milano Bicocca

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Come ogni novità che si rispetti, questo muovo istituto ha visto una marcata divisione negli addetti ai lavori. Nel Paese dei guelfi e dei ghibellini, c’è stato chi, da una parte, ne ha denunciato l’inutilità di un istituto destinato a naufragare (sul modello del rito del lavoro) e chi, dall’altra parte, nutre profonde speranze nel raggiungimento degli ambiziosi obiettivi che animano il legislatore.

Personalmente, voglio essere positivo e sperare che il nuovo istituto porti conforto al difficile panorama del contenzioso italiano compromesso da una situazione che ha superato ogni livello di guardia.

È sempre più radicata, infatti, l’opinione che la società moderna necessiti di strade diverse – più celeri, semplici ed economiche - rispetto al tradizionale ius dicere statuale.

Già da lungo tempo si sono studiati ed analizzati i c.d. strumenti di composizione delle controversie, definiti “equivalenti del processo civile”, tramite i quali i privati rivendicano nei confronti dello Stato la loro sfera di libertà e di autonomia.

Col d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 è stato introdotto un articolato procedimento di

“mediazione” volto alla conciliazione di controversie in materia civile e commerciale, con obiettivi di deflazione dei processi e diffusione della cultura del ricorso a soluzioni alternative (ADR, dall’inglese “Alternative Dispute Resolution”).

Il provvedimento tende, infatti, ad introdurre nel nostro paese un istituto radicato nel diritto anglosassone (la mediation), incidendo profondamente su materie giuridiche di competenza sia dei Giudici di Pace che dei Tribunali e attribuendo le stesse in primis ad organismi conciliativi con il precipuo compito di individuare, sulla base della legge (ma soprattutto del buon senso!) una soluzione idonea a rispondere con prontezza alla continua domanda di giustizia civile.

La mediazione è lo strumento per addivenire alla conciliazione attraverso l’attività svolta da un soggetto terzo ed imparziale, indirizzata alla ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia (c.d. mediazione compositiva) o di una proposta per la sua risoluzione (c.d. mediazione propositiva).

Una simile tipologia di procedimento era già stata prevista a livello europeo dalla direttiva CEE del 2008 n. 52, la quale aveva dettato nuove disposizioni in relazione a

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determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale e aveva stabilito che “nulla dovrebbe vietare agli Stati membri di applicare tali disposizioni anche ai procedimenti di mediazione interni”.

Svolgono il ruolo di mediatori, innanzi tutto, i professionisti in possesso di determinati requisiti professionali (un titolo di studio non inferiore al diploma di laurea universitaria triennale ovvero devono essere iscritti a un ordine o collegio professionale) che abbiano conseguito il titolo di conciliatori frequentando corsi di formazione istituiti da enti pubblici o privati accreditati.

Tutti i mediatori e gli organismi di riferimento, sono soggetti al controllo del Ministero della Giustizia, presso cui è istituito un apposito registro nazionale dei mediatori e con lo scopo di garantire serietà, efficienza e, soprattutto, imparzialità e idoneità al corretto espletamento dell’incarico.

E’ notizia attuale che il Consiglio nazionale forense stia elaborando un supplemento del codice deontologico forense per disciplinare la condotta del legale che assuma le funzioni del conciliatore.

I coordinatori delle commissioni consultiva, deontologica, mediazione e conciliazione e gruppo di lavoro sull'attività giurisdizionale sono stati investiti venerdì 29 aprile dal plenum del Cnf di formulare una proposta di testo di un nuovo codice deontologico integrato che preveda un dovere di osservanza degli obblighi propri della nuova funzione e che contempli i profili delle possibili incompatibilità, conflitti di interessi, responsabilità in caso di proposta di conciliazione non conforme al diritto.

Il Consiglio ha rilevato che “In attesa e indipendentemente dagli sviluppi giurisdizionali e politici sulla mediazione la messa a punto deontologica appare passaggio urgente e ineludibile, nella scia della linea d'azione generale del Consiglio che se, da una parte, è impegnato a contrastare ed a far superare le criticità della mediazione così come disciplinata dalla attuale normativa, dall'altra non può e non deve sottrarsi alla responsabilità di fornire il dovuto e doveroso supporto ai Consigli degli Ordini per il governo dell'istituto anche nei suoi aspetti deontologici e nelle sue ricadute disciplinari”.

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Il Consiglio ha ritenuto necessario adottare simili provvedimenti tenendo conto del fatto che la violazione da parte dell'avvocato - mediatore civile degli obblighi propri fissati dalla normativa attualmente in vigore determina per lui conseguenze sul piano disciplinare valutabili dal Consiglio dell'Ordine “sia se si ritenga che l'esercizio dell'attività di mediatore civile da parte di un avvocato rappresenta una manifestazione di attività professionale, sia se si ritenga il contrario”.

Le materie per le quali è necessario esperire il tentativo di conciliazione sono state accuratamente selezionate. Esse comprendono, quei rapporti che conoscono una diffusione di massa rilevante e rappresentano una fetta sostanziosa del contenzioso in Italia e che, per motivazioni di natura oggettiva, sono destinate a protrarsi nel tempo.

Inizialmente, in base alle direttive del nuovo decreto, il ricorso al conciliatore sarebbe dovuto divenire obbligatorio per una pluralità di materie specificamente elencate (condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari), rimanendo facoltativo per tutti gli altri casi, con natura

“giudiziale” allorquando sia lo stesso giudice a sollecitare le parti alla definizione mediativa della controversia.

Con la conversione in legge del decreto milleproroghe (D.L. 225/2010 convertito in legge dalla L. 10/2011) è stato previsto il rinvio di un anno dell’entrata in vigore dell’articolo 5, comma 1, del D. Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, limitatamente alle sole controversie in materia di condominio e di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti.

Ai sensi dell’art. 5, I comma, “l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto a pena di decadenza o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza. Il giudice, ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’art.6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita assegnando

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contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione”.

La verifica dell’omesso espletamento del tentativo di conciliazione impone, quindi, al giudice non la declaratoria di improcedibilità della domanda, ma esclusivamente il rinvio della udienza ad una data successiva rispetto al termine fissato dall’art. 6 per la durata della mediazione, senza che ciò possa avere ulteriori ripercussioni sull’iter processuale. Nelle materie di cui al comma I la mediazione sollecitata dal giudice non è impedita o vietata dal fallimento della mediazione obbligatoria.

La condizione di procedibilità (e non di proponibilità della domanda giudiziale) si pone perfettamente in linea con gli obiettivi della legge-delega, laddove stabilisce che la mediazione non può ostacolare l’accesso alla giustizia, ma solo realizzare l’equilibrio tra diritto di azione ex art. 24 Cost. e interessi alla celere definizione delle controversie.

Tuttavia, è necessario sottolineare che l’art. 111 Cost. ha introdotto sia il principio del giusto processo sia il principio della sua ragionevole durata. Nello stesso senso si esprime l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che riconosce ad ogni persona il diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale.

A tale riguardo, va segnalata la “Mozione sulla mediazione” espressa nel XXX Congresso Nazionale Forense tenutosi a Genova nel novembre 2010.

Il Congresso dell’Avvocatura, con specifico riferimento all’ipotesi di mediazione obbligatoria quale condizione di procedibilità, ha valutato la normativa contenuta nel d.lgs. n. 28/2010 in violazione dei principi del giusto processo e del diritto di accesso del cittadino alla giustizia. Se, infatti, l’introduzione del procedimento di mediazione ha tra i suoi nobili obiettivi quello di debellare la crisi della giustizia, esso non deve in alcun modo nuocere o compromettere il diritto del cittadino al giusto processo.

Nella mozione testualmente si legge “Preso atto che secondo il Governo la finalità del D.Lgs. 28/2010 sarebbe quella di decongestionare gli uffici rispetto al carico dei processi, con riferimento sia ai giudizi pendenti che a quelli da introdurre, rileva come l’Avvocatura non intenda avallare un approccio che comprometta il diritto del cittadino

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al giusto processo. Difatti, la crisi della giustizia non si risolve con provvedimenti tampone o con l’introduzione a forza di sistemi obbligatori di a.d.r. ma necessita di interventi strutturali a livello legislativo e organizzativo, e l’istituto della mediazione così come concepito, appare non corrispondente alle direttive europee in merito, nonché in palese contrasto con i principi costituzionali del nostro ordinamento”.

L’Avvocatura ha di conseguenza chiesto formalmente “Agli organi istituzionali e politici dell’avvocatura, ciascuno secondo le sue competenze, di adoperarsi presso ogni sede per l’abrogazione dell’ obbligatorietà del ricorso alla mediazione quale condizione di procedibilità dell’azione e, nelle more, il differimento dell’entrata in vigore del D. Lvo.

28/2010 in attesa delle modifiche che sommariamente vengono formulate nei seguenti termini: 1) abrogazione della previsione di annullabilità del mandato per omessa comunicazione preventiva al cliente della possibilità della conciliazione; 2) Obbligatorietà della difesa tecnica; 3) Previsione di un periodo di sperimentazione per valutarne i vantaggi e problematiche; 4) Abrogazione della previsione di una proposta del mediatore in assenza di una congiunta richiesta dalle parti; 5) Abrogazione di tutte le disposizioni che stabiliscono un collegamento tra la condotta delle parti nel procedimento di mediazione e il processo; 6) Previsione della competenza territoriale per gli organismi di conciliazione in correlazione a quella del giudice competente per legge”.

Autorevoli voci hanno sostenuto che la propensione legislativa ad incentivare la conciliazione obbligatoria in funzione deflattiva del contenzioso civile possa porsi in contrasto dell’art. 24, comma 1, Cost., che garantisce il diritto di accesso alla tutela giurisdizionale dei propri diritti, pregiudicando chi ha subito un torto e vorrebbe ottenere giustizia dallo Stato.

L’autorità statale stessa, imponendo la mediazione all’attore, lo costringe a rinunciare a un normale procedimento davanti all’autorità giudiziaria. Il “leitmotiv” dei dissensi in realtà appare essere collegato alla presunta limitazione del diritto di azione da parte della conciliazione “forzata”.

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In tal alveo si inserisce la proposta della Associazione fiorentina “Avvocatura indipendente”, impegnata da mesi nella campagna “GIU’ LE MANI DALLA GIURISDIZIONE” contro la normativa sulla conciliazione.

L’Associazione ha chiesto al Presidente dell'Ordine degli avvocati di Firenze chiarimenti sulla possibilità per l'attore di allegare alla domanda di mediazione un’apposita dichiarazione con la quale si evidenzia che non si intende aderire al procedimento.

La proposta dell'associazione forense, che pur aveva incontrato molti sostenitori è stata bocciata dal Presidente dell'Ordine degli Avvocati di Firenze specificando che la condizione di procedibilità ex art. 5 del Dlgs 28/2010 può esser soddisfatta solo se l'istante interviene ''alla prima riunione per dichiarare la sua indisponibilità a svolgere il tentativo di conciliazione''. Il Presidente ricorda inoltre l'impegno profuso dal Consiglio dell'Ordine con la costituzione dell'Organismo di Conciliazione Forense e con l'adozione da parte di quest'ultimo del regolamento per la gestione delle procedure di mediazione sulla base di regole che prevedono oltre alla assistenza tecnica obbligatoria delle parti il divieto per il mediatore della proposta conciliativa in assenza del consenso di tutte le parti.

Già in passato la Corte Costituzionale aveva affermato che la “giurisdizione condizionata” giustificata dall’interesse della salvaguardia della funzione giurisdizionale, va osservata e valutata con riferimento alle finalità di tale filtro rispetto alla tutela giurisdizionale.La giurisprudenza della Corte costituzionale è costante nell'affermare che il rigore con cui è tutelato il diritto di azione non comporta l'assoluta immediatezza del suo esperimento. Se alcune limitazioni tendono, infatti, ad evitare l'abuso del diritto alla tutela giurisdizionale, nondimeno l'adempimento di un onere, lungi dal costituire uno svantaggio per il titolare della pretesa sostanziale, rappresenta il modo di soddisfazione della posizione sostanziale più efficace e meno dispendioso. Ovviare “all’uso e all’abuso” della giurisdizione, per tutelate un interesse della funzione giurisdizionale stessa, è stata spesso la ratio manifestata attraverso la giurisdizione condizionata.

L’art. 24 Cost. non prescrive in alcun modo che il cittadino possa e debba ottenere la propria tutela giurisdizionale sempre nel medesimo modo e con i medesimi effetti, e non

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vieta, di conseguenza, che la legge possa condizionare l’esercizio dei diritti ad alcune condizioni, a meno che non vengano imposte regole e condizioni tali da rendere estremamente difficoltoso l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale. Ne consegue che non è ravvisabile alcun pregiudizio nel caso in cui il mero differimento dell’esercizio dell’attività giudiziale favorisca il soddisfacimento rapido dell’interesse da tutelare.

Il Tribunale di Prato con decreto datato 30.03.2011 ha, tra l’altro, ribadito che non può esistere processo senza mediazione statuendo che: “L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, con la precisazione che la improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. A prescindere dalla qualificazione normativa in termini di “improcedibilità” della sanzione processuale correlata al mancato esperimento della procedura di mediazione, sotto un profilo sostanziale non vi è luogo ad emettere un formale provvedimento di improcedibilità, dovendosi invece assegnare un termine per l’inizio del procedimento di mediazione, con contestuale fissazione dell’udienza”.

Il Ministero della Giustizia con la circolare 4.04.2011 in merito all'applicazione del decreto ha ricordato che non soddisfa la condizione di procedibilità la previsione nel regolamento di procedura dell'organismo, secondo cui ove l’incontro fissato del responsabile dell’organismo non abbia avuto luogo perché la parte invitata non abbia tempestivamente espresso la propria adesione ovvero abbia comunicato espressamente di non volere aderire e l’istante abbia dichiarato di non volere comunque dare corso alla mediazione, la segreteria dell’organismo possa rilasciare, in data successiva a quella inizialmente fissata, una dichiarazione di conclusione del procedimento per mancata adesione della parte invitata. Si tratta di previsione che, ove non limitata alle sole fattispecie di mediazione volontaria, contrasta con l'operatività della condizione di procedibilitàdi cui all’art. 5 del d.lgs.28/2010.

Secondo il Ministero una tale previsione nel regolamento di procedura di un organismo di mediazione contrasta con l'art. 5 del d.lgs. 28/2010, “…… che postula che si

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compaia effettivamente dinanzi al mediatore designato, il quale solo può constatare la mancata comparizione della parte invitata e redigere il verbale negativo del tentativo di conciliazione”, in quanto la mediazione obbligatoria è tale proprio in quanto deve essere esperita anche in caso di mancata adesione della parte invitata; diversamente opinando si produrrebbe l’effetto, non consentito, di un “aggiramento della previsione che ha imposto l’operatività della condizione di procedibilità per talune materie”.

La circolare precisa infine che la mancata comparizione anche del solo istante, dinanzi al mediatore, impedisce di ritenere correttamente iniziato e proseguito il procedimento di mediazione.

Le diatribe e le contestazioni tra le varie parti coinvolte in questo cambiamento così risolutivo sono, però, solo all’inizio.

Come è noto l’organismo di rappresentanza politica dell’avvocatura, OUA, insieme a diversi consigli degli Ordini e Associazioni forensi ha presentato ricorso al TAR Lazio contro il regolamento attuativo sulla media-conciliazione obbligatoria.

Con ordinanza del 12.04.2011 n. 3202 il TAR Lazio-Roma, sez. I, ha dichiarato che

“Non è manifestamente infondata, in relazione agli artt. 24 e 77 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, comma 1, primo periodo (che introduce a carico di chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa alle controversie nelle materie espressamente elencate l’obbligo del previo esperimento del procedimento di mediazione), secondo periodo (che prevede che l’esperimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale), terzo periodo (che dispone che l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice). Non è manifestamente infondata, in relazione agli artt. 24 e77 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 del d.lgs. n.

28 del 2010, comma 1, laddove dispone che abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione sono gli enti pubblici e privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza”.

Il Tribunale Amministrativo ha disposto la sospensione del giudizio ordinando la immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale; il Tar ha ritenuto non

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manifestamente infondate le questioni di legittimità relative alla l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, la sua configurazione come condizione di procedibilità e la previsione di requisiti di “serietà ed efficienza”, e non anche di professionalità e competenza che debbono possedere gli organismi di conciliazione.

La pronuncia del Tar del Lazio non ha, però, sospeso il regolamento attuativo della mediazione civile. Il Ministero della Giustizia ha, infatti precisato che “il giudice amministrativo ha rimesso la questione dell'obbligatorietà della mediazione alla Corte costituzionale perchè si pronunci come nelle sue prerogative, ma significativamente non ha sospeso, come pure avrebbe potuto, il regolamento attuativo impugnato che, al pari della corrispondente disciplina legislativa, resta vigente e operante, come in ogni altro dei molti casi in cui pende una questione di legittimità su norme processuali''.

L’art. 16, comma I stabilisce che “ gli enti pubblici o privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza, sono abilitati a costituire organismi deputati su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione nelle materie di cui all’art.2 del presente decreto. Gli organismi devono essere iscritti nel registro”.

L’art. 18 stabilisce che i consigli degli organi forensi possono costituire organismi presso ciascun tribunale, avvalendosi di proprio personale e dei locali messi a disposizione dal presidente del Tribunale. Gli organismi presso i tribunali sono iscritti al registro a semplice domanda, subordinata comunque alla verifica, da parte della amministrazione che detiene il registro, di alcuni requisiti minimi che consentano all’organismo l’effettivo svolgimento dell’attività. Indubbiamente tali organismi sembrano essere i più qualificati enti di gestione delle procedure di conciliazione poiché usufruiranno delle conoscenze e delle “strategie” adottate dagli avvocati in sede di procedura giudiziale. A riguardo la dottrina non ha, però, mancato di osservare che la disposizione mal si concilia con il principio di separazione dei ruoli, poiché uno è il compito dell’avvocato, altro quello del giudice o di chi svolge funzioni conferenti con la giurisdizione.

L’art 14 del citato decreto stabilisce che“al mediatore e ad i suoi ausiliari è fatto divieto di assumere diritti o obblighi connessi, direttamente o indirettamente, con gli affari trattati fatta eccezione per quelli strettamente inerenti alla prestazione dell’opera o del

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servizio; è fatto loro divieto di percepire compensi direttamente dalle parti.” Inoltre, il mediatore deve tempestivamente informare l’organismo e le parti di eventuali motivazioni che pregiudicano l’imparzialità nello svolgimento dell’attività e corrispondere immediatamente a ogni richiesta organizzativa del responsabile dell’organismo. Quest’ultimo, su istanza di parte provvede alla eventuale sostituzione del mediatore; in materia non sono, però, previsti né casi specifici, né, tantomeno, termini perentori entro i quali la sostituzione può essere richiesta o disposta, minando in tale maniera l’autorevolezza della figura del mediatore, la cui legittimazione a svolgere la sua funzione risulta condizionata all’assenza di richieste di sostituzione che provengano anche solo da una delle parti.

I mediatori saranno tenuti al rispetto dell’obbligo di riservatezza in merito alle dichiarazioni rese dalle parti ed alle informazioni apprese nell’esercizio della loro funzione; le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non potranno essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto, iniziato a seguito dell’insuccesso della mediazione.

L’art. 3 del decreto dispone inoltre che “al procedimento di mediazione si applica il regolamento dell’organismo scelto dalle parti. Il regolamento deve in ogni caso garantire la riservatezza del procedimento ai sensi dell’art. 9, nonché le modalità di nomina del mediatore che ne assicurano l’imparzialità e l’idoneità al corretto e sollecito espletamento dell’incarico”.

Tutta la procedura conciliativa è, di conseguenza, disciplinata prevalentemente dal regolamento privato di cui ciascun singolo organismo si deve dotare e che deve essere depositato presso il Ministero della Giustizia all’atto della iscrizione al registro.

Non è prevista alcuna disposizione relativa alla durata in carica dei mediatori, né alcun criterio per determinare la competenza del mediatore da scegliersi. Ciò significa che l’attore è libero di prediligere l’organismo territorialmente più adatto e funzionale, ma anche quello più apprezzato.

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Qualora l’attore scelga un determinato organismo di mediazione con l’evidente obiettivo di rendere problematico e faticoso il raggiungimento della mediazione, sarà chiaro che in capo al soggetto non esiste alcuna volontà conciliativa.

Il giudice potrà valutare se formulare invito in relazione allo stato del processo, alla natura della causa e al comportamento delle parti allo scopo di non favorire dilazioni.

Sugli avvocati incombe l’obbligo di informare i propri assistiti della opportunità di fare ricorso a tale strumento conciliativo durante il primo colloquio; le informazioni devono essere rese in modo chiaro e per iscritto e devono riguardare anche i casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, oltre a quella relativa alle agevolazioni fiscali di cui la parte in mediazione può usufruire.

La sanzione per la omessa informativa è l’annullabilità del contratto concluso con l’assistito oltre a sanzioni disciplinari da parte dell’ordine di appartenenza.

Il documento che contiene l’informazione è sottoscritto dall’assistito e deve essere allegato all’atto introduttivo dell’eventuale giudizio.

Non è, però, escluso che il difensore possa supplire alla mancata allegazione all'atto introduttivo in un momento successivo, depositando alla prima udienza l'informativa sottoscritta, evitando così che il giudice convochi la parte e valendo ciò anche come convalida ex art. 1444 c.c. ove l'informativa sia stata sottoscritta in un momento successivo all'atto di conferimento dell'incarico.

Il Tribunale di Varese con ordinanza pronunciata in data 1.03.2011 ha esaminato con attenzione il tema dell'informativa sotto il peculiare profilo degli effetti rivenienti da una sua omissione. Dal tenore letterale della norma deve ritenersi che l'obbligo di informativa gravi tanto sulla parte attrice quanto sulla parte convenuta.

La conseguenza sull'attività processuale della mancata allegazione è prevista dall'art. 4, comma 3, ultimo periodo, che precisa che ove il giudice verifichi la mancata allegazione del documento, se non provvede ad invitare le parti a procedere alla mediazione, informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione.

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Come rilevato dal Tribunale di Varese nell'ordinanza in commento, la sanzione della annullabilità del contratto di patrocinio comporta l'applicazione del'art. 1441, comma 1 c.c., per il quale “l'annullamento del contratto può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse é stabilito dalla legge”.

Pertanto la violazione degli obblighi informativi può essere sollevata dal solo assistito e non anche dalla controparte, in quanto solo la parte nel cui interesse é stabilita può fare valere l'annullabilità del contratto, che afferisce al solo rapporto avvocato – cliente.

L'applicazione del medesimo principio deve far escludere anche la rilevabilità d'ufficio.

Sia la relazione illustrativa sia i primi commentatori concordano nel riconoscere che la sanzione dell'annullabilità non influisce sulla validità della procura alle liti e degli atti processuali compiuti dal difensore in virtù di essa, non incidendo sullo ius postulandi dell'avvocato.

Infatti il legislatore ha inteso sanzionare più severamente l'omissione degli obblighi informativi, rafforzando la tutela della parte coinvolta come precisato nella relazione di accompagnamento al d.lgs. 28/2010, l'omissione de qua costituisce vizio che non si riverbera sulla validità della procura, in linea con gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, la procura alle liti, come atto interamente disciplinato dalla legge processuale, è insensibile alla sorte del contratto di patrocinio la cui invalidità non toglie quindi al difensore lo ius postulandi attribuito con la procura, così evitandosi una sorta di improcedibilità della domanda medesima, che sarebbe andata a danno della stessa parte a favore della quale è introdotta la previsione.

L’applicazione della procedura in esame è stata, come era inevitabile che fosse, foriera di necessarie prese di posizione e puntualizzazioni.

In particolare sempre il Tribunale di Varese, con decreto del 21.04.2011 si è espresso in materia di consulenza tecnica preventiva, specificando che non è applicabile la disciplina della mediazione poiché l'istituto si pone come uno strumento alternativo di risoluzione dei conflitti, non già come strumento cautelare di costituzione preventiva di un mezzo di prova. Il Giudice ha ritenuto di sottolineare la natura giuridica dell'istituto,

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inserendolo tra le forme di ADR e sottolineandone la funzione conciliativa, stabilendo che in caso di CTU preventiva non sussistono le condizioni diprocedibilità di cui all’art.

5, comma I, d.lgs. 28/2010 e il difensore non è obbligato alla comunicazione di cui all’art. 4, comma III, del medesimo decreto legislativo.

Nel decreto testualmente si legge “Ritenuto che consulenza tecnica preventiva 696 bis c.p.c.) e mediazione (d.lgs. 28/2010) perseguono la medesima finalità, introducendo entrambi gli istituti un procedimento finalizzato alla composizione bonaria della lite, così da apparire tra loro alternativi e, quindi, apparendo le norme di cui al d.lgs 28/2010 incompatibili logicamente e, quindi, non applicabili dove la parte proponga una domanda giudiziale per una CTU preventiva; Ritenuto, quindi, che in caso di CTU preventiva, non sussistono le condizioni di procedibilità di cui all’art.5, comma I, d.lgs 28/2010 2 il difensore non sia obbligato alla comunicazione di cui all’art.4, comma III, d.lgs.28/2010…”.

Autorevoli esponenti della dottrina sostengono, infatti, che la c.t.u. ex art. 696-bis c.p.c.

si differenzia dell'a.t.p. perché pare configurare una prova “in luogo del processo” e non

“prima del processo” o “in vista del processo”; tale tipologia non è, pertanto,

«strumentale» al successivo giudizio di merito, ma è essa stessa «strumento base» da cui partire per trovare una soluzione conciliativa tra le parti, tale appunto da evitare il giudizio di merito e dunque si tratta di diretto strumento di tutela del diritto sostanziale leso.

La consulenza tecnica preventiva tra l’altro, oltre ad essere categorizzata tra gli strumenti di conciliazione, riconosce alle parti il diritto di precostituire una prova prima e al di fuori del processo di merito, “a prescindere” dalla ricorrenza dei presupposti del fumus e del periculum.

Sulla base della relazione predisposta dal CTU in qualità di soggetto terzo e imparziale, le parti potrebbero essere indotte a valutare una soluzione transattiva, traendo una indicazione dalle probabili soluzioni e rimedi prospettati dal consulente stesso.

Anche il Tribunale di Varese, che si è espresso nel provvedimento in epigrafe, ha colto tale opzione interpretativa, affermando espressamente che «l’istituto non ha natura

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cautelare» e che «la prevalente giurisprudenza di merito (...) aderisce vuoi implicitamente vuoi esplicitamente alla tesi dottrinaria che inscrive l’istituto nell’alveo delle alternative dispute resolution, valorizzando la tensione della norma verso la composizione della lite, l’intervento di un terzo neutrale e le agevolazioni fiscali».

Tuttavia, le differenze ontologiche tra l'istituto dell’art. 696 bis c.p.c. e la mediazione sono degne di nota, soprattutto sotto il profilo del ruolo svolto da CTU e da mediatore.

Nella mediazione interviene un soggetto terzo, imparziale, indipendente, senza alcun potere decisorio sui fatti di lite (non è infatti giudice né arbitro), il quale mantiene la riservatezza su quanto gli viene comunicato dalle parti, anche nell’eventuale futuro processo. L'art. 10 D.lgs. 28/2010 prescrive, infatti, l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese o delle informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione, nelle ipotesi di giudizio, avente il medesimo oggetto, anche parziale, che sia iniziato, riassunto o proseguito dopo l'insuccesso della mediazione.

Al contrario, nel procedimento ex art.696 bis “la consulenza tecnica potrà essere

"acquisita agli atti del successivo giudizio di merito", così realizzandosi l'effetto di parziale anticipazione dell'istruzione probatoria del procedimento ordinario” (Trib. Torino, 31 marzo 2008).

Nel caso in cui si adisce (per libera scelta o obbligatoriamente nelle materie indicate nel decreto) un ente di conciliazione sarà necessario presentare un’istanza indicante l’organismo, le parti, il petitum e la causa petendi. Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale (art.5, sesto comma).

Inizierà, quindi, un procedimento che non potrà mai avere una durata superiore ai quattro mesi, sia che si concluda con la definizione della controversia, sia che questa venga successivamente incardinata dinanzi all’Autorità Giudiziaria competente e, pertanto, il primo elemento che contraddistingue questa singolare procedura e che non può non catturare subito l’attenzione, è la sua brevissima e singolare durata rispetto ai contenziosi civili.

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L’art. 6 individua, però, quale dies a quo per la decorrenza del termine massimo della durata del processo la data di deposito della domanda di mediazione; in tal modo gli effetti della domanda di mediazione sono collegati al mero deposito della relativa istanza, diversamente da quanto stabilito dall’art. 5 sesto comma che ricollega la rilevanza della domanda alla comunicazione alle parti. E’, inoltre, rilevante sottolineare che il termine massimo fissato dal legislatore in quattro mesi, nonostante rappresenti lo sforzo legislativo di contenere i tempi per la definizione, risulta solo ipoteticamente ed astrattamente adeguato, poiché non si può prescindere dalla “soggettività” e complessità di ogni singola procedura mediativa.

Il legislatore ha, quindi, apposto un termine alla durata del procedimento, ma non ha previsto quali conseguenze derivino dall’inosservanza del termine stesso.

Cosa succede, allora, una volta decorso inutilmente tale periodo?

Trascorsi i quattro mesi senza che si sia pervenuti alla conclusione del procedimento, le parti possono proporre domanda giudiziale che, nelle ipotesi di mediazione facoltativa, potrebbe essere in teoria proposta in ogni momento dalle parti. Qualche perplessità suscita invece l’opinione, che se accolta tende a svuotare di significato la norma, la quale permette alle parti (nella mediazioneobbligatoria) di proseguire il procedimento di mediazione anche oltre i quattro mesi, o parallelamente al processo ordinario.

Il responsabile dell’organismo di conciliazione sarà tenuto a fissare il primo incontro tra le parti non oltre quindici giorni dal deposito della domanda, nominando il mediatore che avrà cura di esaminare la diatriba e che cercherà (fase “facilitativa”) di mediare tra i desiderata dei contendenti e di suggerire (nella c.d. fase aggiudicativa) una proposta risolutiva avvalendosi, ove si renda necessario, dell’ausilio di esperti iscritti nell’albo dei consulenti presso i tribunali.

In caso di accordo (raggiunto spontaneamente dalle parti o su proposta di conciliazione formulata dal mediatore stesso), il mediatore redigerà un processo verbale sottoscritto dalle parti.

Ai sensi dell’art. 11, sembrerebbe che il mediatore, al termine della mediazione, debba sempre fare una proposta di conciliazione. Posto sotto la lente di ingrandimento, però,

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l’articolo non brilla certo per coerenza, poiché mentre il comma 1 stabilisce che il mediatore può formulare l’accordo qualora quest’ultimo non sia stato raggiunto, il comma 4 prevede che se la conciliazione non ha buon esito il mediatore forma processo verbale con l’indicazione della proposta. Il testo sembra contrapporre il termine accordo al termine conciliazione, considerando l’accordo alla stregua di una conciliazione fatta dalle parti senza l’aiuto del mediatore, e la conciliazione come l’accordo delle parti raggiunto grazie all’aiuto del mediatore.

A questo punto l’esito che può avere il procedimento è tripartito:

a) le parti raggiungono un accordo senza l’intervento del mediatore; il mediatore redigerà allora processo verbale sottoscritto dalle parti.

b) le parti raggiungono la conciliazione facendo istanza di proposta della stessa al mediatore, e dovranno comunicarne entro sette giorni per iscritto l’accettazione. Il mediatore redigerà anche in questo caso processo verbale sottoscritto dalle parti.

c) la conciliazione non ha esito positivo, in tal caso si avrà comunque la redazione del processo verbale che dovrà contenere, ove formulata, l’indicazione della proposta di conciliazione.

Ai sensi dell’art.12 del decreto in esame, il verbale di accordo è omologato su istanza di parte, dal presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo ovvero, nell’ipotesi di esecuzione transfrontaliera, nel cui circondario l’accordo deve essere eseguito. Prima dell’omologazione dovrà, comunque, essere verificata la mancanza di ogni contrasto con l’ordine pubblico e le norme imperative, poiché anche in materia di diritti disponibili tali principi debbono essere rispettati. L’omologazione avviene con decreto: esso non deve necessariamente essere motivato, a meno che non sia di diniego e quindi, dovrà indicare i motivi di contrarietà alle norme imperative e all’ordine pubblico. Esso deve essere rilasciato dalla cancelleria del Tribunale in copia conforma, con la formula esecutiva di cui all’art. 475 c.p.c., per poter procedere all’esecuzione.

Infatti, al verbale omologato, notificato a cura della parte istante alla controparte, sarà attribuita la stessa valenza di una sentenza definitiva e vincolante, avente efficacia

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esecutiva per l’espropriazione forzata e per l’esecuzione in forma specifica e costituente titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.

Per procedere alla intimazione dell’atto di precetto è necessario che il titolo esecutivo sia stato già notificato alla parte personalmente oppure che venga notificato unitamente all’atto di precetto.

L’efficacia esecutiva del verbale di conciliazione serve a garantire l’espansione del ricorso alla mediazione, poiché consente di evitare che esso venga considerato una alternativa meno utile e sicura rispetto al procedimento giudiziario. Niente, però, è detto sul se, entro quali termini e con quali modalità il verbale omologato possa essere impugnato innanzi all’autorità giudiziaria.

Non è, infatti, prevista alcuna disciplina procedimentale per la omologazione, tranne la competenza funzionale riconosciuta al presidente del Tribunale.

Nell’ipotesi di mancato accordo, le parti potranno liberamente rivolgersi alla Giustizia Ordinaria accettandone le relative prerogative (formalità, aggravio di oneri economici ed allungamento dei tempi) ed accollandosi il rischio di dovere sostenere il peso delle spese processuali, qualora la sentenza ricalchi la proposta finale a suo tempo prospettata dal conciliatore. La parte che ha rifiutato la proposta di conciliazione, anche se vittoriosa, può vedersi addossare le conseguenze economiche del processo in palese eccezione rispetto al principio della soccombenza.

Stabilisce l’art. 13 comma 1 che “quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa e la condanna la rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto”.

La disciplina relativa alle spese processuali viene, pertanto, intesa quale deterrente alla strumentalizzazione sia della mediazione che del processo vero e proprio, poiché il medesimo risultato era già stato raggiunto in tempi più rapidi e meno dispendiosi.

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Si può, quindi, sottolineare come, nel complesso universo giuridico italiano, sia stata introdotta un’alternativa non solo più semplice e celere rispetto al giudizio ordinario, ma caratterizzata ancheda un chiaro risparmio economico.

Ogni organismo di conciliazione dovrà dotarsi di tariffe chiare e intelligibili (stabilite nei minimi e nei massimi) allo scopo di permettere alle parti di preventivare con precisione i costi della procedura ed il compenso che spetterà al conciliatore.

I contendenti, infatti, saranno tenuti a pagare in egual misura un’indennità di inizio a favore dell’organismo di conciliazione e, quindi, un ulteriore importo proporzionato al valore della causa, tranne nelle ipotesi in cui il ricorso al mediatore civile rientri nelle fattispecie obbligatorie e le parti abbiano i requisiti per ricorrere al gratuito patrocinio.

Sono previste, altresì, consistenti agevolazioni sotto il profilo fiscale. L’art. 17, comma 2, stabilisce che “tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al provvedimento di mediazione sono esenti dall'imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura. Il verbale di accordo è esente dall’imposta di registro entro il limite di valore di 50.000 euro, altrimenti l’imposta è dovuta per la parte eccedente”.

Il ricorso al procedimento di mediazione dovrebbe determinare notevoli risparmi per le casse delle compagnie di assicurazione, le quali vedrebbero ridursi l’entità degli importi che sono costrette a sostenere annualmente per difendersi nei “tradizionali” contenziosi.

In tale ottica, non è da escludere l’ipotesi che le Compagnie e le Aziende Sanitarie possano in un prossimo futuro stipulare delle convenzioni con organismi di conciliazione ai quali demandare il compito di evitare inutili controversie giudiziarie ed i relativi costi ad esse connessi.

Le caratteristiche dell’istituto della conciliazione (inteso quale procedimento fondato sulla libera ed esclusiva volontà delle parti) implicano, però, il concreto rischio che la parte più debole seduta al tavolo negoziale, in mancanza di opportune tutele, possa subire l’imposizione di un contratto vessatorio o iniquo che si discosta in modo significativo dalle situazioni giuridiche delle parti. In un siffatto contesto, la potenziale perdita di garanzie derivante dall’assenza nel corso della conciliazione di un organo giudicante nonché di mezzi di impugnazione potrebbe ragionevolmente essere

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compensata dall’intervento di una difesa tecnica (avvocati) in grado di reintrodurre nella metodologia consensuale uno strumento di tutela degli interessi dei contendenti.

Sono all’incirca 600.000 le cause che dovrebbero poter essere interessate dal tentativo obbligatorio di mediazione; questa è la stima di massima fatta di recente dagli esperti del Ministero della Giustizia. Questa situazione permetterebbe ai privati cittadini, ma anche ad aziende e professionisti, di passare per le “vie della mediazione” prima di poter ricorrere al tribunale civile. Ciò sta a significare che, ai fini di una buona riuscita delle mediazioni e per assicurare la massima efficienza, serietà e professionalità degli enti (pubblici o privati) che gestiranno i tentativi di mediazione, il legislatore, dell’emanando regolamento, deve aver necessariamente previsto regole ferree e severe che impediscano agli operatori di potersi discostare dal controllo e dalle indicazioni del Ministero della Giustizia che, come per la conciliazione societaria (poi abrogato), sarà il Ministero che vigilerà il sistema della mediazione civile e commerciale.

Il provvedimento emanando, quindi, istituirà alcuni necessari paletti con l'obiettivo di garantire una prestazione efficace sia sul piano qualitativo che su quello quantitativo.

Per il primo aspetto, sembra che il regolamento stabilirà che il giudice che nega l'omologazione del verbale di conciliazione avvenuta tra le parti deve trasmettere al responsabile del registro dei mediatori e all'organismo che ha seguito la procedura di mediazione una copia del provvedimento di diniego. Inoltre, l’organismo di mediazione avrà l’obbligo di consegnare alle parti una scheda per la valutazione sulla bontà del servizio ricevuto, copia da trasmettere compilata al responsabile del registro.

Queste due indicazioni normative dovrebbero intervenire per tenere sotto controllo il livello delle prestazioni offerte, che dovranno avere standard qualitativi molto elevati.

Una ulteriore garanzia sarà data dalla norma che prevede un'esclusione dal registro per l'organismo di mediazione che non avrà svolto almeno dieci procedimenti di mediazione in due anni. In tal caso, dopo l’espulsione, il medesimo organismo non potrà ottenere una nuova iscrizione prima che sia trascorso un anno. Sul piano delle tariffe della mediazione, sembrerebbe che sarà ammessa una riduzione di un terzo degli importi quando nessuna delle controparti di quella che ha introdotto il tentativo di mediazione si

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presenti al tavolo delle trattative. Qualora invece la mediazione termini positivamente con un accordo delle parti (la c.d. conciliazione) le tariffe saranno innalzate di un quarto del compenso previsto. Lo stesso aumento sarà stabilito poi nei casi di particolare complessità. Sul versante della formazione, invece, i corsi di formazione dovrebbero poter continuare ad essere previsti per un massimo di trenta partecipanti ad edizione di corso, questo per assicurare il buon andamento generale del corso stesso e per assicurare un buon rapporto didattico tra aspiranti mediatori e docenti. Il corso di formazione potrebbe essere previsto per un numero minimo di 50 ore (quindi 10 di più del minimo previsto per la formazione del conciliatore societario), di oltre ad valutazione finale di 4 ore). Il numero minimo di docenti a disposizione dell’ente potrebbe essere di cinque unità. L’attività di docenza sarà affidata a professionisti preparati che dovranno poter attestare la loro competenza, producendo almeno tre pubblicazioni scientifiche in materia di mediazione e dimostrando altresì di avere già svolto attività di docenza in materia di mediazione presso ordini professionali, enti pubblici e università.

Verrà in tal modo scongiurato un ulteriore cedimento del nostro sistema giuridico?

Verranno eliminate le montagne di cause pendenti dinanzi ai nostri autorevoli giudici?

Sarà eliminato, o per lo meno, ridimensionato, il carico di arretrato che ammorba le nostre cancellerie?

La riforma apportata dal d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, è sicuramente positiva poiché rappresenta la chiara volontà del legislatore di cercare di snellire i procedimenti davanti all’autorità giudiziaria. Attraverso l’introduzione del nuovo istituto il legislatore ha vivamente sperato nel raggiungimento di un accordo veloce tra le parti e nella conseguente rinuncia ad adire l’autorità giudiziaria, con ulteriore dispendio di tempo e denaro.

Parallelamente è impossibile negare che tale “ revolution” porti con sé significative incognite ed interrogativi dal punto di vista applicativo e di garanzie costituzionale e che talvolta rischi di contraddire lo scopo stesso per cui è stato creato.

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Bisogna, ovviamente, concedere il beneficio del dubbio per un lasso temporale adeguato, prima di puntare un'altra volta il dito contro la normativa o avanzare nuovi interventi correttivi.

Non è, a mio modo di vedere, condivisibile l’ostracismo dell’ Avvocatura, la quale, proprio nei giorni scorsi, nel corso delle iniziative intraprese - scioperi ed astensionismi dalle udienze - ha ottenuto, da parte del guardasigilli Angiolino Alfano, l’apertura di un tavolo programmatico. I lavori sono iniziati il 10 maggio e l’Avvocatura ha ottenuto, sin dalla prima notte di dialogo, un eccellente risultato: l’introduzione della norma che prevede l’assistenza necessaria degli avvocati nei procedimenti di conciliazione obbligatoria.

In conclusione, l’auspicio è che, nel frattempo, si riesca a realizzare una forma di tutela concreta ed effettiva capace di attuare sul piano tecnico - procedurale l’ispirazione all’uguaglianza sostanziale e, soprattutto, la rapidità ed effettività della tutela giurisdizionale riconosciute, a livello formale, negli artt. 3 e 24 della nostra Costituzione.

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