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FERRUCCIO AULETTA
Equilibrio del bilancio e amministrazione della giustizia (*)
Il Governo Renzi è il primo nominato nell’esercizio finanziario che, per la legge cost. n.
1/2012, inaugura l’applicazione della regola costituzionale di “equilibrio” nei bilanci dello Stato, degli altri enti costitutivi della Repubblica e delle pubbliche amministrazioni (artt. 81, 97, 114, 119). Ed è il primo, perciò, che dovrà verificarne l’impatto anche sull’amministrazione della giustizia, dove -‐non meno che in altri settori-‐ l‘obiettivo “non può essere limitato al pareggio formale della spesa e dell’ entrata” (Corte cost. n. 250/13). Si tratta, in realtà, di un più articolato obiettivo normativo di “medio termine” (l. 243/12) che, nell’avvicendarsi di rules vs discretion, nel breve periodo appare destinato a far leva su scelte politiche molto discrezionali a fronte del costringimento progressivo indotto dalla regola costituzionale. L’ampiezza di spettro delle misure legislative, in materia di giustizia, sembra elevata, non soltanto per la riserva di legge che ampiamente la permea. Ma anche perché la materia è caratterizzata da veri e propri opponenti concettuali del più recente principio di equilibrio di bilancio, quale la tendenziale inesauribilità delle risorse: si pensi all’obbligo dell’esercizio dell’ azione penale che logicamente sconta la diseconomia di un’ insopprimibile quota di esercizio non seguìto dall’ affermazione di responsabilità per cui quel potere di azione è concepito; oppure all’ universalità del servizio giudiziario quando pur ammette tutele sostitutive di quelle esigibili dall’ “amministrazione della giustizia”, ma, così, sostenendo una capillarità nell’offerta del servizio che poi nemmeno dev’essere esclusivo. E invece, da oggi, la misura della risorsa giudiziaria può venire essa pure rapportata ai “livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali” (l. 243/12), mentre le ulteriori “attività di interesse generale” che vi sono connesse possono spettare, in molti sensi, a quei “cittadini, singoli e associati” sulla cui “iniziativa” confida il “principio di sussidiarietà” (art. 118 Cost.). Ed ecco il punto: ciò che non può consentirsi allo Stato è che “ogni giurisdizione” mantenga costanti le attuali funzioni perché rispetto all’
equilibrio di bilancio e al suo “saldo strutturale” ciò si giustifica soltanto continuando a esternalizzare la quota di costo inefficiente. La loro sopportazione da parte dei “cittadini” -‐che, per un’ amministrazione condotta “in nome del popolo”, in molte figure partecipano di tale
“attività di interesse generale”-‐ è certo un fattore che sempre di più deve concorrere al
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raggiungimento dell’ obiettivo di medio termine, e però senza andare disgiunto da una capacità di
“iniziativa”. Allora, fissati i livelli essenziali delle prestazioni giudiziarie che valgono “sempre” e per “tutti” (alimentati di massima dalla fiscalità generale), a queste va commisurato il necessario
“concorso dello Stato”, mentre a livelli ulteriori devono senz’altro concorrere i soli “cittadini”
contestualmente dotati di veri poteri di iniziativa, cioè di scelta. In assenza di ogni potere di iniziativa, com’è tipico dell’azione pubblica alla quale ciascuno è semplicemente assoggettato, a nessuno in particolare dovrebbe far carico il costo del suo inefficiente (pur quando legittimo) esercizio, mentre questo è l’unico modo, lasciando così le cose, di mantenere in equilibrio la spesa inefficiente (per es.) dell’ azione penale senza condanna dell’ imputato (è il modello, del resto, dell’art. 18 d.l. 67/1997 conv. l. 135/97, che prevede il rimborso delle spese di patrocinio legale dei dipendenti pubblici mandati assolti). E così, chiunque in particolare ricerca in appello la vittoria che assume negata ingiustamente dovrebbe accollarsi (l’anticipazione de-‐) i maggiori costi di tale impugnazione, laddove non integri alcun “livell[o] essenzial[e]”, altrimenti dovendo contentarsi dell’ unico altro grado di giudizio costituzionalmente dovuto (quello di Cassazione, sul modello dell’ art. 311, 2 c., c.p.p.). Com’è intuibile, un discorso del genere implica forti asimmetrie da apportare nell’odierno quadro fiscale del processo (per ridare una prospettiva anche alla crisi quasi irreversibile delle corti d’appello) e avrebbe bisogno della massima modulazione consentita del doppio grado, ora con accesso pieno a quello di legittimità ora no (come auspicato dalla Bicamerale “D’Alema”), ma può intanto svolgersi oltre. Per es., per ridurre i casi di impiego della risorsa giudiziaria dove questa non ha necessità di impegnarsi perché non si tratta della “tutela [di] diritti e interessi”: i casi in cui, dice Giovanni Verde, già adesso si “vuole la garanzia del giudice ma [non] del processo”, e che vanno bel al di là della giurisdizione non contenziosa. E si può spingere fino alla massima déjudiciarisation che -‐la Francia insegna e Christiane Taubira, la Guardasigilli, ha praticato al principio dell’anno col progetto di divorce sans juge -‐ sembra ampiamente sperimentabile anche per l’esecuzione forzata. In sintesi, in tutti gli ambiti non per forza riservati all’ordine giudiziario le relative “attività di interesse generale”
possono svolgersi “sulla base del principio di sussidiarietà”, inteso come capacità di agire anche del singolo per promuovere o assicurare giustizia sociale. Verrà poi il tempo di verificare l’adeguatezza di quanti saranno destinati a questa più pura “funzione giurisdizionale”: numero, reclutamento e carriera di costoro andranno senz’altro conformati ai nuovi bisogni, primo dei
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quali è di riguadagnare le garanzie di un giudice e di un processo (magari meno estese, ma) più effettive.
(*) A margine della presentazione del libro di GIOVANNI VERDE, Questione giustizia, Giappichelli, 2013, nel corso del IX° Congresso giuridico-‐forense: Roma 22 marzo 2014, Complesso Monumentale S. Spirito in Sassia.