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APPUNTI SUL COMMERCIO ELETTRONICO

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Academic year: 2022

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APPUNTI SUL COMMERCIO ELETTRONICO

La presente guida, ralizzata dal Prof. Enzo Maria Tripodi e dal Dott. Massimiliano Granieri dell'Università LUISS-Guido Carli di Roma, è stata presentata a San Benedetto del Tronto nell'ambito di un Convegno sul Commercio Elettronico organizzato dalla CCIAA di Ascoli Piceno.

Data ultima revisione 14/11/2001

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INDICE - SOMMARIO

INTRODUZIONE

Una nuova frontiera per il diritto: le regole giuridiche per il commercio elettronico 1. I "confini" del commercio elettronico

2. Un campionario delle problematiche del commercio elettronico 3. La legge applicabile al commercio elettronico

4. Segue: i conflitti di legislazione

5. Il bene da tutelare: l'affidamento delle parti 6. La tutela della riservatezza

PARTE I

Profili giuridici del commercio elettronico tra imprese e consumatori 1. La definizione giuridica di commercio elettronico

2. La tutela dei consumatori: il D.Lgs. n. 50/92

3. Il D.Lgs. 185/1999 sulla protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza

4. Le altre regole che riguardano i consumatori: le clausole vessatorie 5. La pubblicità ingannevole

6. Alcune regole generali previste dal codice civile

PARTE II

La tutela dei nomi di dominio 1. Premessa

2. I nomi di dominio

3. Segue: le indicazioni della giurisprudenza 4. Cenni bibliografici

PARTE III

La privacy in rete 1. Introduzione

2. Il versante pubblicistico

3. Segue: le applicazioni al commercio elettronico

PARTE IV

Gli aspetti amministrativi del commercio elettronico 1. Il presupposto: la registrazione di un sito 2. Le indicazioni del D.Lgs. n. 114/1999

3. Un modello di comunicazione per il commercio elettronico 4. Il valore e gli effetti della comunicazione

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NOTA BIBLIOGRAFICA

GLI AUTORI

APPENDICE

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INTRODUZIONE

UNA NUOVA FRONTIERA PER IL DIRITTO: LE REGOLE GIURIDICHE PER IL COMMERCIO ELETTRONICO

1. I "confini" del commercio elettronico

L'espressione, entrata nel linguaggio comune, di "commercio elettronico" ha più o meno implicitamente condizionato l'inquadramento del fenomeno, inducendo a pensare, proprio perché si parla di commercio e per la capil1arità dello stesso, che le uniche transazioni interessate siano quelle che si svolgono sotto forma di operazioni di massa. Da qui a chiamare in causa il consumatore, il passo è breve. Ma, così facendo, si trascura probabilmente una porzione consistente del tema e dei problemi ad esso connessi, quale quelli dei rapporti tra imprenditori.

Quello della terminologia è, evidentemente, solo un falso problema. Parlare di commercio elettronico, piuttosto che di commercio telematico e di scambi in rete, di e-comm, e- trade o e-business è questione meramente stipulatoria.

Quel che conta, invece, è prendere coscienza del fatto che la possibilità di realizzare transazioni avvalendosi degli strumenti offerti dalle moderne tecnologie costituisce un risvolto dell'avvento delle stesse, destinate a influenzare comparti ben più ampi di quelli che la semplice idea dello scambio lascerebbe immaginare. Non si deve dimenticare, infatti, che la ragione per la quale e a partire dalla quale si è iniziato a riflettere intorno all'e-commerce è stata l'adozione della normativa italiana in materia di firma digitale e di documento informatico. Normativa, si badi, di matrice apertamente ed innegabilmente amministrativistica, collocata com'era all'interno del disegno, perseguito dalla legislazione Bassanini, di ristrutturare la pubblica amministrazione.

In ragione dei molteplici ambiti nei quali le tecniche informatiche possono incidere, come di fatto incidono, occorre prendere atto che il tema non è univoco; esso, al contrario, appare frastagliato, ed ogni suo aspetto chiama in causa settori diversi del diritto. Così, se è vero che i rapporti business to business o business to consumers mettono capo sicuramente e pressoché esclusivamente al sistema normativo del diritto privato, non altrettanto può dirsi dei rapporti tra P.A. e imprese, almeno quando l'amministrazione non agisce jure privatorum; mentre è certo che il rapporto tra amministrazione e cittadini risente prevalentemente della normativa amministrativistica.

Sulla scorta delle superiori premesse, ogni serio discorso intorno al commercio elettronico dovrebbe prendere le mosse dall'idea che il fenomeno non ha caratteri stabili ed omogenei per tutte le sue manifestazioni. In questa chiave, va affrontato il tema della fattibilità e delle garanzie del commercio elettronico business to business (d'ora in avanti B2B), non tanto enfatizzando sulle grandi opportunità offerte alle imprese da questa nuova forma di penetrazione del mercato, quanto tentando di giuridicizzare il discorso, partendo dai presupposti di un intervento di tipo regolatorio.

2. Un campionario delle problematiche del commercio elettronico

L'argomento del commercio elettronico solleva una coltre densa di questioni giuridiche che sono state sino ad ora semplicemente elencate, talora giustapposte. Di (talune di) esse occorre dar brevemente conto, poiché esse rappresentano anche dei fattori di criticità per lo sviluppo.

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Per darsi ragione dei problemi posti dal commercio elettronico B2B, e dall'e-comm in genere, occorre muovere da quelle caratteristiche che sembrano condensare la particolarità dello scambio in rete.

In primo luogo, la transnazionalità, legata alla struttura stessa di Internet, che limita fortemente le attitudini regolatorie di interventi normativi di tipo municipale.

In secondo luogo, la velocità dello scambio, che rende desueto ogni intervento non in grado di rivolgersi agli aspetti indefettibili del fenomeno.

Terzo, la non fisicità, che rende lo scambio assolutamente privo di ogni forma di contatto, dal momento della negoziazione a quello della conclusione ed esecuzione.

Attorno a siffatte tre indefettibili caratteristiche ruotano i problemi del commercio elettronico B2B, primo tra tutti, in ogni caso - anche in considerazione delle ricadute economiche dello sviluppo del commercio elettronico - è quello dell'accesso alla rete, che mette capo ad una questione di non poco momento, quale quello della concorrenza nel settore latamente inteso delle comunicazioni. Di questa ricaduta, tuttavia, pur registrando la sua importanza, non mette conto occuparsi in questa sede, trattandosi di un argomento attratto e trattato, ratione materiae, dalla disciplina antitrust.

Ma a parte quello da ultimo considerato, i problemi ulteriori e ben più pregnanti possono essere così individuati.

a. La legge applicabile alle transazioni commerciali effettuate tra soggetti distanti, anche non appartenenti allo stesso Stato, anche non appartenenti alla Unione europea. All'interno di questa problematica, rivesta una sua autonoma importanza il problema della giurisdizione competente a conoscere delle eventuali controversie che possono sorgere in relazione alla formazione ed esecuzione dei contratti stipulati via Internet.

b. L'efficacia ed opponibilità degli strumenti di autoregolamentazione, sviluppati dagli operatori che promuovono la contrattazione telematica e offrono beni e servizi attraverso il World Wide Web. In particolare, si tratta di verificare le modalità giuridiche di estensione dell'efficacia delle norme autoregolamentari ai soggetti coinvolti nelle transazioni.

c. La tutela dell'affidamento delle imprese e dei consumatori che decidono di acquistare beni e richiedere servizi attraverso Internet.

d. La tutela della privacy delle parti coinvolte nelle transazioni e sicurezza dei dati personali richiesti al fine di eseguire le varie operazioni negoziali, nel rispetto delle normative applicabili sul consenso informato per la circolazione dei dati personali.

e. La disciplina della sicurezza nelle operazioni di money transfer, ove previste, e dei pagamenti effettuati via Internet.

f. La tutela dei marchi e dei segni distintivi di cui siano titolari le aziende che offrono beni e servizi in via telematica; tutela dei domain names notori, impiegati dalle stesse aziende; tutela della proprietà industriale quando viene fatta oggetto di transazioni sulla rete.

g. I profili fiscali delle operazioni delle cessioni di beni e prestazioni di servizi svolte tramite Internet, problematica - va da sé - destinata ad essere sicuramente influenzata dalla qualificazione civilistica delle operazioni di scambio.

Non è possibile occuparsi di tutte le problematiche appena sollevate, saranno affrontate unicamente quelle più rilevanti per un primo approccio alla tematica.

Peraltro, ve ne sono alcune che assumono rilievo preponderante e la cui trattazione dovrebbe dare delle indicazioni, anche de jure condendo, sia nel senso della fattibilità, che nel senso delle garanzie del commercio elettronico.

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3. La legge applicabile al commercio elettronico

Problema assolutamente predominante e pregiudiziale alla soluzione di tutto il resto è quello della legge applicabile. Esso non è solo quella della scelta di un ordinamento giuridico, tra i vari astrattamente destinati a disciplinare una fattispecie a vocazione transnazionale. Non è, in altre parole, solo un problema di diritto internazionale privato.

Legge applicabile è anche la questione di quale diritto applicare ad un determinato rapporto, se, cioè, norme convenzionali o eteronormative, di tipo legislativo, regolamentare o altro. Da questo punto di vista, l'ovvia constatazione è nel senso che il commercio elettronico come fenomeno complessivamente considerato non ha una disciplina propria e il dibattito è ancora aperto sull'opportunità di istituire una disciplina ad hoc.

Il problema della scelta di legificare in materia non è - come intuibile - solo una questione accademica. In un contesto globale, improntato alla diversità di linguaggi e di discipline giuridiche e caratterizzato dall'intreccio con le tecnologie telematiche ed informatiche, la regolamentazione significa garanzia per gli operatori economici, seppur vada accuratamente soppesato il rischio di determinare un freno legislativo al progresso della tecnologia applicata al commercio.

Un esempio potrà offrire un quadro illuminante.

Su Internet sono presenti alcuni siti che propongono - al ribasso - l'acquisto di biglietti di treno, aereo, ed altro, iniziativa che consente alle imprese di trovare un acquirente (anzi, l'acquirente) di un prodotto o servizio che altrimenti resterebbe invenduto. Orbene, l'art.

18, comma 5, del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (recante la riforma della disciplina del commercio) prevede il divieto di vendita all'asta per mezzo della televisione o di altri sistemi di comunicazione, introducendo un divieto non previsto nella previgente disciplina. Come si vede, l'introduzione di un divieto (pensato, forse, per le aste televisive), finisce per riverberare consistenti effetti sulla nascita di nuovi mercati e nuove ipotesi di marketing.

Al di là di questi esempi - che però la dicono lunga sulle complicanze di una normazione "a cuor leggero", le ragioni che militano in favore di un intervento normativo muovono da un'ipotesi semplificante, che in questa sede deve essere verificata. Il commercio elettronico rappresenta uno strumento che, per capillarità, dovrebbe consentire una più agevole contrattazione sia tra imprese e consumatori che nei rapporti business to business.

Nel considerare, dal punto di vista dell'analisi economica, l'opportunità di intervenire normativamente, il problema che si pone è quello del confronto tra i costi individuali dei contraenti nel regolare autonomamente il loro rapporto - arrivando a negoziare ogni minimo aspetto - e i costi di un'attività legislativa che si risolva a beneficio di tutte le possibili e-parties.

È sin troppo evidente che, a fronte delle molte variabili e delle molte incertezza connesse con l'e-comm, un "diritto dei contratti in rete" assolva a quella stessa funzione di bene pubblico che il tradizionale diritto dei contrati svolge in favore dell'autonomia privata nelle forme di contrattazione sino ad oggi impiegate. L'alternativa tra default sì, default no, anche in questo caso, risulta pesantemente sbilanciata verso la prima opzione.

Quello di un buon diritto dei contratti appare, allora, un problema non nuovo che potrebbe pregiudicare lo sviluppo degli scambi in rete, qualora divenisse un "cattivo" diritto.

Anche qui, può individuarsi con immediatezza un rischio come quello di imporre sempre, per tutte le contrattazioni, l'impiego della firma digitale.

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Ma, anziché partire aprioristicamente dall'assunto che legiferare sia una necessità imprescindibile e che ciò debba essere fatto indistintamente per tutte le forme di negoziazione, pare più ragionevole partire dagli interessi che, attraverso la normazione, vorrebbero essere tutelati. Da siffatto punto di vista, la situazione appare piuttosto frastagliata e se l'esigenza di una disciplina che assicuri uno standard minimo di chiarezza e sicurezza dei traffici risultava indistintamente ed omogeneamente avvertita, quando si inizia a considerare separatamente il commercio con i consumatori e quello con le imprese la risposta non può essere la stessa. Non nel senso che una medesima norma non possa valere per lo stesso tipo di transazioni, ma nel senso che renderla imperativa, o non, ha riflessi diversi sulle due realtà. In breve, occorre iniziare a pensare che se una regola per il commercio in rete serve, essa non necessariamente potrà essere la stessa per i consumatori e per le aziende.

Per i contratti conclusi in rete dai consumatori, la scelta comunitaria è stata quella della direttiva sulle vendite a distanza, che però, a dire delle associazioni dei consumatori, ha deluso molte aspettative. Comunque, la direttiva, che pure ha la ridotta funzione di un intervento armonizzante, mira all'introduzione di norme che, a mente dell'art. 12, non potranno essere derogate. Uno dei cardini normativi della disciplina comunitaria risiede, ancora una volta, nella previsione dello jus poenitendi, retaggio e prodotto dell'estensione, nel commercio elettronico, di quanto già previsto dall'art. 9 del D.lgs.

50/92.

Sempre nell'ottica della tutela dei consumatori - ma con considerazioni che in questo caso possono estendersi al commercio elettronico B2B -, è da segnalare come molte legislazioni nazionali abbiano individuato le guidelines per lo sviluppo. Il limite della norma, tuttavia, è in re ipsa, se si pensa che essa è contenuta in una legge nazionale mentre si è alle prese con uno strumento che - come detto - è transnazionale per definizione.

Molti tuttavia confidano nella self-regulation, la quale può essere vista, per certi aspetti, come una forma sperimentale di regolamentazione del fenomeno, in vista dell'adozione di strumenti di tipo normativo in senso stretto (si v. l'art, 21 del citato D.Lgs. n. 114/98).

D'altra parte, è vero anche che l'autoregolamentazione è probabilmente l'unico strumento in grado di muoversi alla stessa velocità di evoluzione di Internet.

4. Segue: i conflitti di legislazione

Il problema del diritto applicabile, in assenza di una norma che lo individui imperativamente, è rappresentato sostanzialmente dalla scelta tra diritto del paese di destinazione dell'offerta e diritto di origine dell'offerta. È stato detto che l'adozione della country of destination rule crea maggiori problemi soprattutto dal punto di vista delle PMI impegnate nel commercio in rete.

Si tratterebbe, infatti, di fronteggiare tanti sistemi normativi quanti sono i clienti transfrontalieri. Ciò potrebbe significare la necessità di dover predisporre diversi siti Web, ciascuno conforme alle disposizioni del paese dell'accettante. Non solo; l'onerosità di siffatta scelta costringerebbe molte aziende a non intraprendere la scelta di offrire i propri prodotti in rete, determinando un decremento della concorrenza, Gli stessi inconvenienti non si verificherebbero rispetto alla country of origin rule. È vero che, in un contesto giuridico omogeneo, quale quello della Unione Europea, l'opera di armonizzazione del diritto dovrebbe costituire una facilitazione, nel senso di non costringere la piccola o media impresa ad adeguarsi ad una molteplicità di sistemi giuridici.

Dal punto di vista della tutela del consumatore, la country of destination rule rappresenta la massima forma di protezione; dal punto di vista della PMI, essa rappresenta una circostanza in grado di aumentare i costi transativi. Siffatta situazione appare insoddisfacente e viene vista da molti come la conferma all'idea che

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l'autoregolamentazione sia la via migliore per un corretto ed efficiente sviluppo del commercio elettronico B2B.

Anche a voler ammettere che la soluzione, definitiva o transitoria, al problema della regolamentazione dell'e-comm siano i codici di autoregolamentazione, occorrerebbe, in un contesto transnazionale, assicurare delle forme di controllo efficiente, che accertino l'equità delle regole sancite e la loro cogenza.

Una soluzione tutta interna, e per ciò stesso limitata, potrebbe essere quella di recepire i codici di autoregolamentazione all'interno di atti aventi natura regolamentare, adottati dalle autorità indipendenti di settore (l'AIPA o il Garante delle telecomunicazioni), magari previo controllo di equità, sulla scorta di quanto dovrebbe avvenire nel mercato, a mente dell'art. 2 della legge n. 580/93, di riforma del sistema delle Camere di commercio (che già svolgono siffatto compito, per es., sul fronte delle clausole vessatorie).

5. Il bene da tutelare: l'affidamento delle parti

Una volta individuata, in un modo o nell'altro, la norma applicabile, si pone, in maniera forse più problematica il problema di individuare dei contenuti capaci di tutelare adeguatamente le parti coinvolte. Da questo punto di vista il valore meritevole di protezione è l'affidamento.

Il problema dell'affidamento gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo dell'e-comm.

Esso, tuttavia, si atteggia in maniera differente nel B2B e nel B2C. Nel primo caso, infatti, i contatti tra imprenditori possono non essere occasionali, nel senso che essi possono aver deciso, sulla base di una precedente conoscenza reciproca, di svolgere dei rapporti economici in rete. Nei singoli contratti, l'unico, e distinto, problema che si pone non è quello di tutelare l'affidamento, ma di dare regole certe sulle modalità di conclusione e di esecuzione del contratto.

All'interno dei rapporti interimprenditivi, il contatto può anche essere occasionale. Solo in questo caso, quando non vi sono pre-conoscenze, vi è un'esigenza fondamentale di tutela dell'affidamento. Siffatta possibile caratteristica diviene, nello scambio B2C, una costante perché il rapporto con il consumatore è, per definizione, "one-shot", occasionale e per esso le tre caratteristiche dell'e-comm (transnazionalità, velocità ed impalpabilità) divengono i rispettivi risvolti della medaglia.

Il problema della tutela dell'affidamento affligge, quindi, tutte le relazioni B2C ed una parte soltanto, verosimilmente nemmeno troppo cospicua, di quelle B2B, caratterizzate, per l'appunto, dall'occasionalità.

Il problema di tutelare l'affidamento delle e-parties si pone - e nello stesso tempo può essere risolto - a livello precontrattuale; si deve cercare, cioè, di evitare il coinvolgimento in negoziazioni che possono risultare invalide, inefficaci o insoddisfacenti. Se alle transazioni via Internet fosse applicabile il diritto italiano tout-court, si potrebbe o dovrebbe dire che spetti, ancora una volta, alla buona fede il compito di ovviare a tutti i possibili inconvenienti, oppure immaginare che, all'interno di un contesto globale, sia applicabile una clausola generale di buona fede. L'assunto appare irrealistico e, comunque, pregiudicato dal problema della legge applicabile.

Un passo indietro: qual è il problema? Non si tratta, a ben vedere, di un problema di diritto, ma di un problema per il diritto, nel senso che la questione è una vera quaestio facti: lo scambio avviene senza contati, senza guardare in faccia il contraente e senza poter toccare con mano il bene compravenduto. In altre parole, la caratteristica dello scambio in rete è quella che in termini economici si chiamerebbe un'asimmetria informativa.

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Buona parte delle soluzioni concepibili dal punto di vista giuridico per offrire una regolamentazione del fenomeno passa per lo snodo dell'informazione.

A tale ultimo proposito, occorre ricordare che il marchio, soprattutto se di qualità, può contribuire a rimuovere, in parte, l'asimmetria informativa, segnalando al contraente la serietà del prodotto e l'affidabilità del negozio virtuale rappresentato dalla pagina Web. Ma la soluzione è pregiudicata dal fatto che la proprietà intellettuale ed industriale nel mercato telematico è sottoposta a problemi non meno seri della tutela dell'affidamento.

La questione, immaginando che si possa risolvere indirettamente attraverso il marchio di qualità del prodotto o del servizio offerto, non viene eliminata, ma si sposta semplicemente su di un piano diverso. D'altra parte, essa potrebbe apparire l'uovo di colombo solo per la grande impresa, che dispone di un brand affermato e di una linea di prodotti qualificati.

Se, al contrario, si devono individuare strumenti capaci di promuovere la trasparenza e tutelare l'affidamento, a valenza generale, non si può ricorrere a misure costose o complesse che la piccola e media impresa non può permettersi.

Se si esclude la virtù informativa dei marchi di qualità, per il resto, da un punto di vista economico, l'e-market non ha qualità redimenti, nel senso che non è in grado di colmare autonomamente il gap informativo che caratterizza la negoziazione. La transnazionalità e l'elevato numero di contraenti rappresentano fattori di esasperazione dei costi transattivi tra i quali, in maniera perniciosamente pervasiva, quelli informativi. L'ipotesi di partenza, dalla quale si erano prese le mosse, subisce, a questo punto una parziale smentita, perché se da una parte l'e-comm esalta le potenzialità di penetrazione del mercato, dall'altra costringe all'individuazione di meccanismi alquanto costosi che rendano affidabile la contrattazione.

Se tutto ciò è vero, l'unico rimedio possibile risulta essere un intervento ab extra, di tipo regolatorio, per mezzo del quale un terzo super partes immetta conoscenza all'interno del mercato.

La soluzione che si profila, alla luce delle superiori premesse, appare essere quella della certificazione dei siti, talvolta non ufficialmente praticata, di modo che il contraente, sia esso un consumatore o un'impresa, riceva un segnale sulla qualità del sito e del suo dealer. Si può immaginare che il sito riceva dei crediti, così come avviene per l'impianto turistico o il ristorante del tal posto, presso il quale il turista straniero debba recarsi.

La certificazione del sito dovrebbe, ancora una volta, svolgersi ad opera di soggetti indipendenti, quali possono essere le autorità di settore - anche in cooperazione con quelle di altri Paesi - o le Camere di commercio, sempre secondo degli standard riconosciuti a livello internazionale (il riferimento va, ovviamente, agli standard ISO).

Una volta rimosso il gap, e ristabilito l'equilibrio informativo, la criticità torna ad essere limitata, risolvendosi ai problemi tipici della negoziazione B2B tra soggetti conosciuti.

6. La tutela della riservatezza

Un ultima garanzia, di cui mette conto di occuparsi in questa sede, è quella della riservatezza.

La garanzia della privacy nelle transazioni in rete appare, oltre che un obiettivo dal punto di vista giuridico, delle varie normative, un presupposto per lo sviluppo del commercio elettronico.

Le normative nazionali, comunitaria e internazionale a tutela della riservatezza dei soggetti sono variamente sensibili all'esigenza di assicurare la tutela anche nel corso delle

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frequentazioni in Internet. Esse, tuttavia, non appaiono sufficienti né, isolatamente considerate, garantiscono gli obiettivi prefissi.

Si pone, innanzitutto, rispetto ad un fenomeno per definizione delocalizzato, il problema di individuare di volta in volta la disciplina applicabile. Come si vede, tuttavia, è questo un problema che, pur sollevato dalle caratteristiche intrinseche del fenomeno, non inerisce direttamente la tutela della privacy, mettendo capo invece al problema della legge applicabile.

L'evoluzione di Internet rende la normativa statale, anche da questo punto di vista, pericolosamente in ritardo rispetto alla velocità di cambiamento dell'esistente e alle innovazioni tecnologiche sopravvenienti.

Una normativa statuale che intendesse dare una risposta ai problemi sollevati non dovrebbe essere dettagliata o legata ad un modello preordinato di disciplina, Altre esperienze normative, come quella tedesca, si sono affidate ad un nucleo minimo di principi.

Dei problemi che emergono per la tutela della riservatezza delle persone si è occupato il Garante per la protezione dei dati personali, sostenendo che alla disciplina normativa si deve affiancare, su di un piano paritario dal punto di vista funzionale, quella "nascente dal basso", contenuta in codici di deontologia e di buona condotta. Sempre nell'ottica del Garante, la tutela dei dati passa anche attraverso la predisposizione di tecnologie in grado di trattare in maniera selettiva le informazioni a carattere personale reperibili in rete, e meccanismi di classificazione dei siti in base alle garanzie offerte agli utenti.

Ancora una volta, la soluzione del problema passa per la individuazione di regole certe ad opera dei soggetti che sovrintendono ai settori di volta in volta interessati.

PARTE I

PROFILI GIURIDICI DEL COMMERCIO ELETTRONICO TRA IMPRESE E CONSUMATORI

1. La definizione giuridica di commercio elettronico

Non è facile definire giuridicamente un concetto di "commercio elettronico", il nostro ordinamento, infatti, ne fa parola solo all'art. 21 del D.Lgs. n. 114/98 (recante - com'è noto - la riforma della disciplina del commercio), laddove prevede, a carico del Ministero dell'Industria, il compimento di azioni volte a promuovere "(...) l'introduzione e l'uso del commercio elettronico (...)", senza, però, che sia data alcuna altra indicazione circa i confini giuridici di questa forma di commercio o sulle disposizioni ad esso applicabili.

Anche l'art. 18 del collegato alla manovra finanziaria del 2000 - rubricato "agevolazioni per il commercio elettronico e il collegamento telematico" - omette di fornire una precisa indicazione, con l'intento di evitare che una definizione finisca per frenare lo sviluppo di un mercato non ancora del tutto stabilizzato.

La stessa Unione Europea, del resto, nella Comunicazione "Un'iniziativa europea in materia di commercio elettronico" [COM (97) 157], definisce il "commercio elettronico" come "lo svolgimento di attività commerciali e di transazioni per via elettronica e comprende attività diverse quali: la commercializzazione di beni e servizi per via elettronica; la distribuzione on-line di contenuti digitali; l'effettuazione per via elettronica di operazioni finanziarie e di borsa; gli appalti pubblici per via elettronica ed altre procedure di tipo transattivo delle Pubbliche Amministrazioni".

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Definizione di ampiezza tale da finire per essere nulla più che uno "slogan" di politica comunitaria, come risulta anche dai problemi di approvazione (avvenuta nei primi giorni di dicembre) di una proposta modificata di direttiva relativa "a taluni aspetti giuridici del commercio elettronico nel mercato interno" [COM (1999) 427 def.], che inserisce il commercio elettronico nell'alveo dei "servizi della società dell'informazione", di cui alla direttiva 98/34/CE del 22 giugno 1998.

In definitiva, attualmente, il commercio elettronico è qualunque forma di contatto tra impresa e consumatore (compresa, pertanto, anche la fase di distribuzione), realizzata mediante strumenti informatici (c.d. acquisiti off-line) e telematici (c.d. acquisti on-line).

Il commercio elettronico riguarda anche le ipotesi di acquisti compiuti dalla pubblica amministrazione a differenza della concezione di "commercio" consegnata dalla nostra tradizione che fa riferimento unicamente al rapporto intercorrente tra una impresa ed un'altra impresa (commercio all'ingrosso) ovvero tra un'impresa ed un consumatore finale (commercio al dettaglio).

Il dato è però denso di significati, allorquando le influenze di matrice pubblicistica - in specie, quelli riguardanti la semplificazione amministrativa - finiscono per generare una meccanismo, come quello della firma digitale, in grado di riverberare dirompenti effetti anche nel campo privatistico.

Il profilo da ultimo toccato è di estrema rilevanza, poiché vede il nostro paese tra i primi al mondo a disporre di una completa legislazione in materia di documento informatico e di firma digitale (D.P.R. n. 513/97, attuato con il D.P.C.M. 8 febbraio 1999), con la possibilità di contrarre - pleno iure - anche su Internet, sebbene sia necessario ricordare che il commercio elettronico - soprattutto quello di minuta incidenza - non abbisogna di un meccanismo così sofisticato ma, anzitutto, della piena coscienza generale (da parte delle imprese e poi dei consumatori) dell'incidenza che potrà avere, in tempi brevi, l'impiego di Internet.

2. La tutela dei consumatori: il D.Lgs. n. 50/92

Specificatamente dedicato alla contrattazione a distanza (anche con mezzi informatici) è l'art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 50/92 che, trattando di alcune forme speciali di vendita (offerta televisiva o altri mezzi audiovisivi), estende la portata della tutela anche ai

"contratti conclusi mediante l'uso di strumenti informatici e telematici".

Questa previsione - introdotta in maniera lungimirante dal nostro legislatore poiché non prevista nella direttiva cui il Decreto ha dato attuazione - estende a questa modalità di contrattazione il principio base del "diritto di ripensamento", proprio delle c.d. "vendite aggressive" effettuate fuori dei locali commerciali, sul presupposto che il consumatore, in queste ipotesi, non abbia (presuntivamente) potuto avere il giusto tempo per ponderare la decisione di concludere il contratto.

Non è un caso che a detto decreto faccia riferimento anche l'art. 11 del citato D.P.R. n.

513/1997, che, al comma 1, afferma che "I contratti stipulati con strumenti informatici o per via telematica mediante l'uso della firma digitale (...) sono validi e rilevanti", se rispettano le disposizioni contenute nel decreto e, nel comma seguente, conclude stabilendo che a detti contratti "si applicano le disposizioni previste dal D.Lgs. 15 gennaio 1992, n. 50".

È il caso, dunque, di illustrare nei tratti salienti questo decreto, con attinenza alla contrattazione su Internet.

Innanzitutto, secondo quanto prevede l'art. 5, l'operatore commerciale deve informare il consumatore, per iscritto:

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a. dell'esistenza a suo vantaggio del diritto di recesso;

b. dei termini, modalità ed altre condizioni per il suo esercizio.

Nel caso di contrattazione via Internet, il venditore potrà fornire queste indicazioni nella pagina ove è presente la proposta di contratto o, al più tardi, nel momento immediatamente precedente alla possibilità per l'interessato di completare l'ordine, anche prevedendo dei "rinvii" ad altre indicazioni previste in altre pagine di livello inferiore.

L'operatore è tenuto inoltre ad indicare il nominativo e l'indirizzo del soggetto nei confronti del quale si può comunicare la decisione di avvalersi del diritto di recesso, nonché il soggetto, se diverso dal precedente, al quale deve essere restituito il bene.

Nel caso di contrattazione su Internet, l'indicazione dell'indirizzo elettronico può considerarsi sufficiente per la comunicazione del recesso (e anche per la restituzione dei prodotti, se immateriali).

Quanto ai termini per esercitare il diritto di recesso, il decreto stabilisce in 7 giorni a decorrere dal ricevimento della merce. La comunicazione può avvenire in varie forme, raccomandata con ricevuta di ritorno, telegramma, telex, telefax (in questi ultimi casi, deve seguire una conferma mediante raccomandata con avviso di ricevimento entro le successive 48 ore) nonché, avvalendosi della firma digitale, anche con un documento informatico inviato, per e-mail all'indirizzo elettronico indicato dall'operatore.

In quest'ultimo caso non si ritiene necessaria alcuna altra formalità (per es. una successiva conferma), stante l'equiparazione del documento informatico al documento scritto. Servirà, al contrario una conferma con altro mezzo, qualora per e-mail si invii esclusivamente una comunicazione informatica priva di sottoscrizione digitale.

Con la comunicazione del recesso, secondo le formalità previste nel decreto, il consumatore è sciolto dal vincolo assunto con il venditore.

Sono inoltre dettate le seguenti regole:

a. se è avvenuta la consegna del bene, il consumatore deve restituire la merce entro i termini previsti. In tal caso fa fede l'accettazione dell'ufficio postale o dello spedizioniere. Le spese sono a carico del consumatore;

b. il professionista, entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione di recesso, deve rimborsare al consumatore le somme già eventualmente corrisposte, ivi comprese quelle imputate a spese accessorie se non escluse nella nota d'ordine o nella nota informativa, e quelle versate a titolo di caparra. Il rispetto dei termini per il rimborso è determinato dalla data di spedizione o riaccredito. Se il pagamento è stato eseguito con effetti cambiari, ove non ancora presentati all'incasso, il rimborso si effettua tramite loro restituzione;

c. sono nulle le clausole contrattuali volte a limitare il rimborso nei confronti del consumatore a seguito dell'esercizio del diritto di recesso. La previsione vale ad escludere forme onerose di recesso, nelle quali l'onere possa essere rappresentato dalla perdita di somme già versate a titolo di corrispettivo.

Si considerai, infine, che il D.Lgs. 50/92 non trova applicazione:

a. ai contratti assicurativi e quelli relativi a valori mobiliari, disciplinati da legislazione speciale;

b. ai contratti aventi ad oggetto beni immobili, ivi comprendendosi quelli relativi alla costruzione, alla vendita, alla manutenzione e alla riparazione;

c. ai contratti il cui valore, a prescindere dal bene o servizio contrattato, non è superiore a lire cinquantamila.

(13)

Per assicurare il rispetto delle disposizioni contenute nel decreto, gli inadempimenti del professionista relativi all'obbligo di informazione e alle restituzioni conseguenti l'esercizio del diritto di recesso sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria che può arrivare a dieci milioni e può essere raddoppiata in casi di particolare gravità o recidiva.

3. Il D.Lgs 185/1999 sulla protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza

Maggiormente incentrata sugli obblighi di informazione sul reale contenuto del contratto, quale idoneo mezzo di tutela preventiva del consumatore, è la recente emanazione del D.Lgs. 22 maggio 1999, n. 185, con il quale è stata recepita la direttiva comunitaria n.

97/4/CE del 20 maggio 1997, riguardante la protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza.

Il decreto qualifica come "contratto a distanza": il contratto, stipulato tra un fornitore (la cui definizione è identica a quella del "professionista" di cui è parola nelle altre direttive riguardanti i consumatori) e un consumatore, nell'ambito di un sistema di vendita o di prestazione di servizi a distanza organizzato dal fornitore di beni o servizi, interamente negoziato con mezzi di comunicazione a distanza.

Per "tecnica di comunicazione a distanza", si intende qualunque mezzo che, senza la presenza fisica e simultanea del fornitore e del consumatore, possa impiegarsi per la conclusione del contratto.

In questo tipo di contrattazioni, il consumatore deve ricevere, prima della conclusione del contratto, ai sensi dell'art. 4 del decreto, le seguenti informazioni:

· identità e indirizzo del fornitore;

· caratteristiche essenziali del bene o del servizio oggetto del contratto;

· il prezzo (comprensivo di tutte le tasse, imposte);

· le modalità di pagamento, della consegna e di ogni altra forma di esecuzione del contratto;

· le spese di consegna;

· la durata della validità dell'offerta e del prezzo;

· la durata minima del contratto in caso questo riguardi la fornitura di prodotti o di servizi in modo periodico o continuativo;

· l'esistenza del diritto di recesso o la sua esclusione secondo quanto previsto dall'art.

5, comma 3;

· le modalità e tempi di restituzione o di ritiro del bene in caso dell'esercizio del diritto di recesso;

· il costo relativo all'impiego della tecnica di comunicazione impiegata, se la tariffa è calcolata su una base diversa da quella ordinaria.

Dette informazioni, collegate in modo chiaro all'intenzione di proporre un contratto, devono essere fomite, secondo i principi di lealtà commerciale, con il mezzo più idoneo secondo la tecnica di comunicazione impiegata dal fornitore.

In particolare, nel caso di comunicazione telefonica, l'identità del fornitore e lo scopo commerciale del contatto sono condizione primaria - a pena di nullità - per l'avvio delle eventuali trattative.

Inoltre, delle informazioni, alle quali si è appena fatto cenno, il consumatore deve ricevere conferma per iscritto, o, a sua scelta, su altro supporto duraturo a sua disposizione, in tempo utile per potersi avvalere dei diritti.

(14)

Oltre a queste indicazioni, il consumatore deve ricevere - in tempo utile, ossia prima o al momento di esecuzione del contratto - anche le seguenti informazioni:

a. le condizioni e modalità del recesso;

b. l'indirizzo geografico delle sede del fornitore presso il quale poter presentare eventuali reclami;

c. le informazioni sui servizi di assistenza e sulle garanzie commerciali esistenti;

d. le condizioni del recesso dal contratto in caso in cui non sia stata previsto un termine finale ovvero questo sia superiore ad un anno.

Il consumatore nei contratti a distanza ha 10 giorni (lavorativi) di tempo per esercitare il diritto di recesso. Non è tenuto a fornire alcuna spiegazione al fornitore né può essere soggetto ad alcuna penalità.

Il termine indicato inizia a decorrere:

se sono state fornite le informazioni dovute ai sensi dell'art. 4, per i beni, dal giorno del ricevimento degli stessi da parte del consumatore, mentre, per i servizi, dal giorno della conclusione del contratto. Se non sono state fornite le informazioni, sia che si tratti di beni o di servizi, il termine inizia a decorrere dal giorno in cui tale obbligo è stato soddisfatto (e ciò deve avvenire non oltre i tre mesi dalla conclusione del contratto).

Qualora il fornitore non abbia adempiuto agli obblighi di informazione, il diritto di recesso può essere esercitato nei tre mesi successivi al ricevimento dei beni, ovvero dal giorno di conclusione del contratto se questo riguarda una prestazione di servizi.

Quanto alle modalità di esercizio, il recesso si esercita con l'invio di una comunicazione scritta all'indirizzo geografico del fornitore mediante raccomandata con avviso di ricevimento, ovvero mediante telex o fax, seguito, nelle 48 ore successive, da una raccomandata di conferma. Questa regola analoga a quella prevista dal D.Lgs n. 50/92 - non rende possibile l'invio di una e-mail (neanche se questa sia firmata con firma digitale), poiché l'"indirizzo geografico" del fornitore non è assimilato a quello informatico.

Nel caso l'acquisto riguardi un bene e questo sia stato consegnato, il consumatore è tenuto alla restituzione in un termine (stabilito dal fornitore) non inferiore a 10 giorni lavorativi decorrenti dal ricevimento del bene. Il consumatore può adempiere all'obbligo di restituzione anche ponendo a disposizione del fornitore (o di chi per lui) il bene secondo quanto previsto nel contratto.

Non debbono essere previste spese per il consumatore, ad eccezione di quelle dirette di restituzione del bene, se previsto espressamente dal contratto. Il fornitore è invece tenuto al rimborso delle somme versate dal consumatore. Tale rimborso deve avvenire - gratuitamente - nel minor tempo possibile e, comunque, non oltre 30 giorni dalla data in cui il fornitore è venuto a conoscenza dell'esercizio del recesso.

Il diritto di recesso è escluso - salvo diverso accordo tra le parti - nel caso:

1. di fornitura di servizi la cui esecuzione - d'accordo il consumatore - sia iniziata prima dei dieci giorni previsti per l'esercizio del diritto di recesso (il testo parla

"della scadenza del termine di sette giorni previsto dal comma 1", ma si tratta di un'evidente svista, poi, infatti, corretta con un avviso di rettifica apparso sulla G.U.);

2. di fornitura di beni o servizi il cui prezzo è legato a fluttuazioni dei tassi del mercato finanziario non controllabili dal fornitore;

3. di fornitura di beni confezionati su misura o chiaramente personalizzati o che, per loro natura, non possono essere rispediti o rischiano di deteriorarsi o alterarsi rapidamente;

(15)

4. la fornitura di prodotti audiovisivi o di software sigillati, aperti dal consumatore;

5. di fornitura di giornali, periodici e riviste;

6. di servizi di scommesse e lotterie.

Il decreto disciplina anche i termini per l'esecuzione del contratto da parte del fornitore che sono fissati in trenta giorni a decorrere dal giorno successivo a quello di trasmissione dell'ordinazione da parte del consumatore. È ammesso diverso accordo tra le parti.

In caso di mancata esecuzione, per indisponibilità del bene richiesto, il fornitore deve informare il consumatore ai sensi dell'art. 4 nonché procedere al rimborso. Non è ammesso da parte del fornitore - salvo assenso del consumatore dichiarato prima o al momento della conclusione del contratto - adempiere al contratto eseguendo una fornitura diversa da quella pattuita, anche se il valore e la qualità dei beni siano equivalenti o superiori.

Anche il D.Lgs. n. 185/99 prevede delle limitazioni. Questo, infatti, non si applica qualora si tratti di contratti:

a. relativi a servizi finanziari;

b. conclusi tramite distributori automatici;

c. conclusi con gli operatori delle telecomunicazioni impiegando telefoni pubblici;

d. conclusi per la costruzione, la vendita o altri diritti relativi a beni immobili, ad esclusione della locazione;

e. conclusi in occasione di vendite all'asta.

Inoltre, non trovano applicazione le disposizioni relative alle informazioni dovute al consumatore (art. 3 e 4), al diritto di recesso (art. 5) e al termine di esecuzione del contratto (art. 6, comma 1), per i contratti relativi:

a. alla fornitura di generi alimentari, di bevande o altri beni d'uso domestico forniti al domicilio del consumatore (ovvero al suo luogo di residenza o di lavoro), da distributori che effettuano giri frequenti e regolari;

b. alla fornitura di servizi relativi all'alloggio, ai trasporti, alla ristorazione, al tempo libero, quando, all'atto della conclusione del contratto, il fornitore si impegna a fornire tali prestazioni ad una data o ad un periodo prestabilito.

Il decreto prevede anche una serie di divieti:

· È vietata la fornitura di beni o servizi non richiesti. La fornitura non previamente ordinata non obbliga il consumatore ad alcuna prestazione corrispettiva né ad alcuna dichiarazione in tal senso. La mancata risposta non equivale ad assenso.

· I diritti garantiti al consumatore sono irrinunciabili ed è nulla ogni pattuizione in contrasto con quanto previsto dal decreto.

· Qualora le parti abbiano convenuto di regolamentare il contratto sulla base di una legge diversa da quella italiana, il consumatore non può essere comunque privato della tutela prevista dal decreto.

Per quanto riguarda il regime sanzionatorio, fatta salva l'applicazione della legge penale, il fornitore è punito con una sanzione amministrativa da 1 a 10 milioni qualora:

· contravviene agli artt. 3 (informazioni al consumatore), 4 (Conferma scritta delle informazioni), 6 (Esecuzione del contratto), 9 (fornitura non richiesta) e 10 (Limiti all'impiego di talune tecniche di comunicazione a distanza);

· ostacola l'esercizio del diritto di recesso, ex art. 5;

· contravviene all'obbligo di rimborsare al consumatore le somme eventualmente pagate.

Nei casi di particolare gravità o di recidiva i limiti suddetti delle sanzioni sono raddoppiati.

(16)

4. Le altre regole che riguardano i consumatori: le clausole vessatorie

Deve infine ricordarsi che ai contratti stipulati da un "consumatore" ed un "professionista"

si applicano anche le regole previste negli artt. da 1469-bis a 1469-sexies cod. civ., sulle clausole vessatorie nei contratti, quali introdotti dalla legge 6 febbraio 1996, n. 52.

Queste regole, sulle quali sarebbe necessario uno spazio maggiore di quello disponibile in questa sede, valgono anche per la contrattazione in rete, dove è normale che l'impresa venditrice predisponga dei modelli (quindi delle condizioni generali) ai quali il consumatore deve aderire.

È però possibile - anche con la contrattazione per via telematica - dimostrare che le clausole vessatorie siano state oggetto di specifica negoziazione, elidendo l'automatica valutazione negativa contenuta nell'elencazione di cui all'art. 1469bis, comma 3.

5. La pubblicità ingannevole

Un'altra serie di disposizioni, relative alla pubblicità ingannevole, devono essere brevemente illustrate, poiché hanno rilevanza anche per lo svolgimento delle attività di commercio elettronico.

La disciplina sulla pubblicità ingannevole è contenuta nel D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74/92 che prevede, quale finalità, di tutelare la collettività:

a. dalla pubblicità ingannevole;

b. dalle sue conseguenze sleali.

Già la scansione accennata dà conto dell'ampiezza dei destinatari che sono individuati negli imprenditori (coloro che esercitano un'attività commerciale, industriale, artigianale o professionale), nei consumatori e, infine, nel pubblico dei fruitori di messaggi pubblicitari.

Con il termine "pubblicità" - chiarisce il decreto - s'intende un messaggio, in qualsiasi forma, che sia diffuso nell'esercizio di una qualsiasi attività economica (la disposizione fa infatti riferimento all'attività commerciale, industriale, artigianale e professionale) con lo scopo di:

a. promuovere la vendita di beni mobili o immobili (sono quindi esclusi i diritti);

b. la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi sui beni di cui alla lett. a);

c. la prestazione di opere o di servizi.

Per essere legittima la pubblicità deve essere "palese, veritiera e corretta", intendendosi con tali termini un messaggio chiaramente individuabile e riconoscibile come pubblicità, non menzognero e rispettoso delle regole di lealtà nei confronti dei concorrenti e dei consumatori.

Si consideri, peraltro, che la veridicità del messaggio non esclude una giudizio sulla sua ingannevolezza, posto che una pubblicità solo parzialmente veritiera può, per ciò stesso, indurre in inganno, pur se le indicazioni fornite siano assolutamente vere.

La pubblicità è considerata ingannevole quando "in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico, ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente".

(17)

L'ingannevolezza - come si può rilevare - risulta essere un requisito di giudizio di margini molto più ampi rispetto a quello basato sulla semplice veridicità del messaggio pubblicitario: anche informazioni di per sé vere, in un particolare contesto visivo o logico, possono infatti ingenerare una falsa rappresentazione della realtà e quindi compromettere (anche potenzialmente) il comportamento economico dei soggetti raggiunti dalla rèclame.

Si considera ricompresa nella pubblicità ingannevole anche quella "reticente" e quella

"suggestiva" mentre, per la liceità della pubblicità iperbolica, occorre che l'esagerazione sia talmente evidente da elidere qualsiasi possibilità decettiva.

Dal testo della disposizione è possibile trarre i referenti per compiere un giudizio sulla ingannevolezza della pubblicità.

Il messaggio pubblicitario è ingannevole:

· quando ha la capacità di indurre in errore i soggetti che vengono raggiunti dallo stesso. Si parla di "soggetti" e non di "consumatori" poiché la pubblicità non riguarda solo questi ultimi ma qualsiasi operatore che può - in qualunque fase della distribuzione dei prodotti e/o dei servizi - essere influenzato e condizionato dalla pubblicità, in relazione alla fase che lo individua quale interlocutore dell'operazione promozionale;

· quando, (e qui si tratta di una tautologia) a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il comportamento economico delle persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta;

· quando lede o possa ledere un concorrente. Il riferimento alle imprese concorrenti, posto che la disposizione può essere attivata da qualsiasi soggetto (indipendentemente quindi dal rapporto concorrenziale e dalla ricorrenza della qualità di impresa), può essere considerato un elemento che concorre ad arricchire il contenuto delle possibilità offerte dall'art. 2598 cod. civ.

L'art. 3 del D.Lgs. 74/1992 indica, in via meramente esemplificativa, alcuni elementi per la valutazione dell'ingannevolezza della pubblicità:

· le caratteristiche strutturali dei beni o dei servizi (la loro disponibilità, la natura, l'esecuzione, la composizione, il metodo e la data di fabbricazione, la quantità, la descrizione, l'origine geografica o commerciale);

· le caratteristiche funzionali dei beni o dei servizi (l'inidoneità agli scopi ed agli usi cui sono destinati);

· i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove o controlli effettuati sui beni o sui servizi;

· gli aspetti economici, ossia il prezzo indicato e le modalità usate per calcolarlo, nonché le altre condizioni (sconti, rateizzazioni, permute, ecc.) in base alle quali i beni e servizi vengono forniti;

· l'uso dei termini "garanzia", "garantito" e simili senza la precisazione del contenuto e delle modalità della garanzia offerta (art. 4, comma 2);

· le qualità dell'impresa pubblicitaria e di quella pubblicizzata, in relazione all'identità, al patrimonio, a qualifiche e riconoscimenti, a diritti di proprietà industriale o intellettuale.

La pubblicità diventa ingannevole - e quindi soggetta alle conseguenze contenute nel decreto - quando, trattandosi di prodotti "suscettibili di porre in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori", se:

a. omette di offrire la giusta informativa;

b. induce i consumatori ignari "a trascurare le normali regole di prudenza e vigilanza".

(18)

Ne consegue che la sola omissione di informazioni non è sufficiente ad integrare il comportamento illecito se il prodotto, di per sé, rende evidente l'impiego di normali cautele, ovvero non si induce comunque all'inosservanza delle cautele del caso.

Spostando ora l'ottica sulle esigenze concrete per i consumatori, risulta utile analizzare brevemente quali siano le conseguenze disciplinari della pubblicità nella stipulazione di contratti di acquisto.

Sotto il profilo dell'incidenza della pubblicità sulla formazione del contratto, il D.Lgs.

74/1992 inserisce degli elementi ulteriori di informazione sia rispetto a quanto prevede l'art. 1336 cod. civ., sull'offerta al pubblico (ove si parla solo degli "estremi essenziali del contratto"), che riguardo ai semplici inviti ad offrire.

Tradizionalmente si riteneva potersi distinguere nettamente tra l'attività pubblicitaria, la fase precontrattuale e il regolamento contrattuale, in forza di una successione temporale in cui la pubblicità assume solo una funzione di tipo promozionale (persuasiva). Con la maggiore accentuazione del ruolo informativo anche le relative regole tendono sempre più a confluire nell'area segnata dal rispetto del canone della buona fede precontrattuale.

Ne consegue una oggettiva rilevanza della pubblicità ingannevole qualora possa alterare la formazione del contratto.

La pubblicità diffusa su Internet soggiace alle regole sopra illustrate, come dichiarato espressamente anche dall'Autorità antitrust (Provv. 22 maggio 1997, n. 5015, rinvenibile nel sito dell'Authority, http://www.acgm.it/), seppur siano necessari degli "aggiustamenti"

normativi rispetto ad alcune tipologie di marketing aggressivo.

Per es. una modalità piuttosto diffusa di promozione consiste nell'invio di messaggi pubblicitari sulla casella di posta elettronica dei potenziali interessati. Non esistendo un espresso divieto di invio di materiale pubblicitario indesiderato, non è possibile rifarsi al citato D.Lgs. n. 74/92 ma occorrerà trovare un'altra fonte di tutela. Questa può essere individuata nella legge n. 675/96 - c.d. legge sulla privacy - che, all'art. 13, comma 1, lett.

e), prevede, in capo all'interessato, "(. . .) il diritto di opporsi, in tutto o in parte, al trattamento di dati personali che lo riguardano, previsto a fini di informazione commerciale o di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta ovvero per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale interattiva".

6. Alcune regole generali previste dal codice civile

Le indicazioni che abbiamo appena illustrato non esauriscono il ventaglio di regole presenti nel nostro ordinamento e che trovano applicazione qualunque sia lo status di uno dei contraenti.

In particolare anche nel nostro codice civile sono presenti tutta una serie di disposizioni che - con i dovuti adattamenti - possono fornire delle soluzioni.

Per es., sul tempo di conclusione del contratto, l'art. 1326 cod. civ., stabilisce che il contratto si conclude nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell'accettazione dell'altra parte.

Proposta ed accettazione producono i loro effetti dal momento in cui vengono a conoscenza del relativo destinatario (art. 1334 cod. civ.). Il nostro ordinamento prevede poi una presunzione semplice di conoscenza (e, dunque, di efficacia) dell'accettazione che avviene, giusta l'art. 1335 cod. civ., nel momento in cui giunge all'indirizzo del destinatario, a meno che questi non provi di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di prenderne conoscenza.

(19)

Queste regole trovano applicazione anche nell'ipotesi di contrattazione su Internet.

Nel caso di contratto concluso per mezzo della posta elettronica questo si conclude quando l'accettazione giunge all'indirizzo del preponente. L'indirizzo del proponente è l'indirizzo elettronico (cioè quello di posta elettronica) dichiarato o eletto dal destinatario.

In questo senso, la casella postale, resa disponibile da un provider costituisce l'indirizzo elettronico cui fare riferimento per l'applicazione della presunzione di cui all'art. 1335 cod.

civ.

Sempre in materia di contratto, l'art. 1328 cod. civ. prevede la revocabilità della proposta contrattuale "sino a che il contratto non sia concluso", mentre l'accettazione può essere revocata solo se detta revoca giunge "a conoscenza del proponente prima dell'accettazione".

La proposta inviata per e-mail potrà essere revocata sino a che il destinatario non abbia inviato l'accettazione al provider del proponente. La data e l'ora della comunicazione saranno, al riguardo, fondamentali per stabilire se il contratto si sia o meno concluso prima della revoca.

In relazione invece al luogo di conclusione - fondamentale per individuare quale sia la legge da applicare al rapporto sorto tra i contraenti - nel silenzio della legge (l'art. 1326 cod. civ. si riferisce solo al momento di conclusione del contratto) la dottrina e la giurisprudenza più accreditate ritengono che un contratto si conclude nel luogo in cui si trova il proponente al momento in cui ha notizia dell'accettazione.

Applicando questo criterio ai contratti conclusi per e-mail, occorrerà verificare quale sia il luogo dal quale il soggetto "scarica" dal provider la comunicazione contenente l'accettazione della sua proposta contrattuale. Secondo una opinione, qualora il luogo non possa essere identificato (per es. nel caso di accesso alla rete da un treno in corsa), il contratto sarà concluso all'indirizzo elettronico, cioè presso la sede legale dove l'impresa ha la propria sede.

Comprensibilmente, le indicazioni che precedono sono a puro titolo esemplificativo potendosi applicare alla contrattazione telematica anche le regole che concernono i vizi della volontà, le regole di concorrenza, etc.

PARTE II

APPUNTI SULLA TUTELA DEI NOMI DI DOMINIO

1. Premessa

Com'è ormai risaputo, il domain name (nome di dominio) è il sistema mediante il quale viene identificato ogni computer collegato alla rete Internet. In realtà, l'indirizzo basato sul protocollo Internet (ossia, quello che la "Rete" riconosce) è composto da quattro serie di numeri (da 0 a 255), separati da un punto (del tipo: 000.000.000.000). A questo codice numerico, corrisponde l'indirizzo alfanumerico - il nome di dominio, per l'appunto - mediante il quale è più semplice accedere ai vari siti (sulle questioni tecniche, si rinvia, per tutti, a quello che ormai è un testo classico, M. CALVO, F. ClOTTl, G. RONCAGLlA, M.A.

ZELA, Internet 2000, Bari, 1999, p. 434 ss.).

I nomi di dominio, sono formati, partendo da sinistra, da una serie di caratteri alfanumerici scelti dal soggetto interessato (Second Level Domain Name), cui segue una stringa

"standard" (Top Level Domain Name) che, al momento, sono le seguenti: ".com"

(20)

(organizzazioni o imprese commerciali), ".net" (organizzazioni di supporto e/o gestione della rete), ".org" (organizzazioni di diritto privato, come associazioni, enti non profit, etc.), ".int (organizzazioni internazionali), ".edu" (università ed enti di ricerca), ".gov" (enti governativi), ".mil" (enti militari), nonchè il Country Code Top-level Domain il quale indica, con due lettere, ogni nazione, secondo la codifica internazionale ISO 03166 (per es., ".it", per contrassegnare l'Italia).

I nomi di dominio vengono assegnati sulla base di una procedura gestita ora dall'ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers) da parte di appositi organismi nazionali (detti Registration Authorities) [v., sul punto, ampiamente, G. PASCUZZI, Da IANA a ICANN: un nuovo regime per l'attribuzione dei nomi di dominio su Internet, in Foro it., 1999, IV, 415 ss.].

L'assegnazione degli indirizzi numerici è curata dal NIS (Network lnformation Service), un organismo internazionale che delega a sua volta la gestione degli indirizzi ad enti nazionali dei vari Paesi. In Italia, l'ente nazionale cosi delegato è il GARR-NIS, un servizio dell'ente GARR (Gruppo di armonizzazione delle Reti di Ricerca), facente capo al MURST, con sede presso il CNUCE del CNR di PISA. La gestione del DNS (Domain Names Service) è svolta oggi da un gruppo autonomo di tecnici del Reparto Applicazioni Telematiche dell'Istituto IAT, nel rispetto del Regolamento ITA-PE, emanato dalla Naming Authority italiana (per il quale si rinvia al sito http://www.nic.it/).

2. I nomi di dominio

Con lo sviluppo delle potenzialità commerciali di Internet (si consideri, infatti, che agli origini era una rete militare e, successivamente, una rete di enti universitari), sono sorte tutta una serie di problematiche legate all'utilizzo da parte delle imprese del proprio marchio come segno distintivo anche sulla rete e delle regole di assegnazione dei nomi di dominio che non prevedono la verifica, rispetto al medesimo, della legittimazione del richiedente.

Per avere un'idea degli effetti, si pensi ai casi eclatanti costituiti dai siti www.armani.it (di una impresa - la soc. Luca Armani - che vende timbri), www.nike.it (della soc. Nike di Schio che produce bulbi per illuminazione), www.martini.it (della soc. Martini Illuminazione), www.motta.it (che contraddistingue gli spedizionieri Motta).

Risulta quindi evidente un potenziale conflitto tra diversi soggetti rispetto alla loro identificazione su Internet, resa vieppiù complessa dalla non definita natura giuridica del domain name. Secondo alcuni, infatti, questo altro non sarebbe che la versione "leggibile"

dell'indirizzo Internet secondo il protocollo numerico, più sopra richiamato, che identifica informaticamente il sito e non l'impresa né tantomeno il suo marchio non essendo richiesta alcuna capacità distintiva (cfr. L. PEYRON, Nomi a dominio e proprietà intellettuale: un tentativo di conciliazione, in Giur. it., 1997, I, 2, 700 ss.).

In questa direzione si è espresso il Tribunale di Bari, secondo il quale "il domain name [è solo] un semplice codice d'accesso ai servizi telematici [con la] funzione di identificare dei gruppi di oggetti e non anche l'entità che utilizza il dominio" (Trib. Bari, ord. 24 luglio 1996, Soc. Teseo c. Soc. Teseo Internet Provider, in Foro it., 1997, 2515 ss.).

Tuttavia la scelta di un dominio in luogo di un altro non è privo di conseguenze rispetto all'esercizio dell'attività commerciale: chi digita www.armani.it, evidentemente cerca il sito del noto stilista e non una impresa che vende timbri benché questa, nel suo ambiente (anche territorialmente inteso), possa essere, nota almeno quanto Giorgio Armani.

La giurisprudenza nostrana (sulla scia di quella d'oltreoceano) è concorde nell'attribuire al nome di dominio anche un carattere distintivo dell'impresa e/o dei suoi prodotti o servizi, in analogia con la funzione attrattiva svolta dal marchio e dall'insegna (Trib. Pescara, ord.,

(21)

9 gennaio 1997, in Dir. Inf. informat., 1997, p. 952 ss.; Trib. Milano, ord. 9 giugno 1997, ivi, p. 955 ss., seguite da una nota di L. LIGUORI, ivi, p. 962 ss. Quest'ultima decisione è pubblicata anche in Giur. it., 1997, I, 2, 697 ss., con la cit. nota di PEYRON e in Foro it., 1998, I, 923, con nota di N. COSENTINO; Trib. Roma, ord., 2 agosto 1997, ivi).

Questa soluzione, indispensabile per trovare un termine normativo di riferimento nell'ambito della legge marchi (Legge 21 giugno 142, n. 929, come integrata e modificata dal D.Lgs. 4 dicembre 1 992, n. 480) non ha però risolto tutti i problemi che vedremo nella breve rassegna che segue.

3. Segue: le indicazioni della giurisprudenza

Nella citata decisione Teseo, una società (per l'appunto la Teseo S.p.A.) contestava l'uso del domain "teseo.it" da parte della Teseo Internet Provider S.r.l., ravvisando gli estremi della contraffazione di marchio e della condotta concorrenzialmente scorretta. Il Tribunale di Bari respingeva la richiesta di provvedimento d'urgenza, osservando che: a) le attività delle due imprese non erano confondibili e b) il nome di dominio non assurge a carattere distintivo dei soggetti che lo impiegano; occorre verificare cosa contengano le rispettive pagine web.

Nel caso "Amadeus", la capacità distintiva del nome di dominio è stata, invece, affermata con chiarezza. Nella fattispecie, la società spagnola attiva nel settore turistico Amadeus Marketing SA (e la sua controllata italiana Amadeus Marketing Italia), che impiegavano il dominio amadeus.net contestavano alla soc. Logica S.r.l., anch'essa attiva nel settore turistico, l'utilizzo su Internet del nome "amadeus.it", lamentando il rischio di confusione (tra l'altro "Amedeus" è un marchio registrato della società spagnola).

Il Tribunale di Milano, dopo aver riconosciuto - nel caso - carattere identificativo del dominio con le attività dell'impresa, in analogia con l'insegna, ha ritenuto opportuno concedere la richiesta inibitoria (Trib. Milano, ord., 9 giugno 1997, cit.).

La resistente ha però proposto reclamo avverso detta ordinanza, sostenendo che il suffisso

".it" poteva ritenersi sufficiente a distinguere le due imprese, argomento ritenuto dal collegio non probante, poiché la regolamentazione sovranazionale del servizio Internet non è legato alla teoria del marchio d'impresa e, in aggiunta, anche applicando la disciplina del marchio il "cuore del segno" è dato dalla parola "Amadeus" è non dal suffisso.

La resistente sosteneva inoltre che l'inibitoria a sua carico risultata troppo estesa, poiché svolgendo attività di provider, il suo sito conteneva anche altre pagine ed offerte non riferite al settore turistico. Questa obiezione veniva accolta, limitando il divieto all'utilizzo del nome di dominio contestato esclusivamente alle informazioni e servizi relative al settore turistico rispetto alle quali esisteva il rischio di confondibilità (Trib. Milano, ord., 22 luglio 1997, pubbl. sulle stesse riviste ove l'ordinanza precedente).

Anche nel caso "portaportese", la ricorrente lamentava l'uso del proprio marchio registrato (relativo alla nota pubblicazione) da parte di un'altra società che ne aveva avuto per prima l'assegnazione quale nome di dominio. Il Tribunale ha riconosciuto esistente il rischio di confusione e, quindi di concorrenza sleale, soprattutto per l'affinità di attività di entrambe le società, considerando del tutto irrilevante l'avvenuta assegnazione del dominio da parte della Naming Authority.

Detta assegnazione, osserva il Tribunale, non può limitare i diritti che la legge attribuisce ai soggetti. (Trib. Roma, ord., 2 agosto 1997, Sege s.r.l. c. Starnet s.r.l, in Foro it., 1998, I, 923 e in Disciplina del commercio, 1998, n. 3, p. 859 ss.; Pret. Valdagno, ord., 27 maggio 1998, sul caso "pegueot.it.", ivi, 1991, n. 1, p. 202 s. Per i rapporti tra domain name e diritti d'autore v. Trib. Modena, ord., 23 ottobre 1996, riguardante il noto caso "Foro.it", in Riv. dir. ind., 1997, II, p. 177, con nota di P.A.E. FRASSI, Internet e segni distintivi, che ha

(22)

inibito l'impiego - da parte di un soggetto non imprenditore - come dominio di un nome identico al titolo della nota pubblicazione giuridica, nonché, Trib. Milano, ordd. 13 febbraio 1997 e 24 marzo 1997, in Nuova giur. civ . comm., 1997, I, p. 895, con nota di R.

VALENTI; Trib. Cuneo, ord., 24 febbraio 1997 e 23 giugno 1997, in AIDA, 1997, p. 884 ss.

e p. 942 ss., annotate da S. LAVAGNINI; Trib. Padova, ord., 14 dicembre 1998, in Foro it., 1999, I, 3061.).

Sul tema della concorrenza nei rapporti di distribuzione è caso "Mario Cirino Pomicino". La fattispecie è sorta a seguito dell'impiego del nome di detta società da parte di un suo ex agente (e dei suoi segni distintivi all'interno del sito), dando ad intendere di essere ancora il legittimo intermediario della stessa.

Il Tribunale di Napoli, accogliendo la richiesta di inibitoria, ha stabilito che l'utilizzo di segni distintivi appartenenti ad altra azienda, mediante la diffusione di messaggi su Internet, può ingenerare nella clientela confusione sull'effettiva provenienza dei prodotti e sull'identità personale dell'imprenditore, determinando il rischio di una perdita economica dato l'evidente sviamento di clientela derivante dalla capillare diffusione della rete Internet (Trib. Napoli ord., 9 agosto 1997, in Dir. inf informat., 1997, p. 970 ss., con osservazioni di V. ZENO-ZENCONVlCH, in Resp. civ. prev., 1998, p. 173 ss., con nota di S. SANZO, in Giust. civ., 1998, I, p. 259 ss., con commento di L. ALBERTINI e, da ultimo, in Riv. dir.

ind., 1999, II, p. 38 ss., con nota di D. CAPRA, Concorrenza sleale in Internet).

Il Tribunale di Macerata, sulla scorta delle considerazioni che precedono, ha considerato illecita la registrazione del domain name "pagineutili.it", da parte di un soggetto diverso dal titolare del relativo marchio, configurandosi un contrasto con la legge sul diritto di autore, nonché una contraffazione di marchio.

La questione è sorta allorquando è stato assegnato il dominio "pagineutili.it" ad un soggetto diverso dal titolare del relativo marchio registrato (della nota pubblicazione) che aveva registrato il diverso dominio "pagineitalia.it". La società titolare del marchio ha adito il giudice chiedendo l'inibitoria all'impiego sul Internet da parte di altri. La parte resistente ha, dal canto suo, argomentato che potendosi registrare un solo nome di dominio, la società ricorrente avendo già registrato un diverso dominio, dimostrava di non aver interesse al dominio contestato.

Il giudice, rigettando questo argomento, ha stabilito che l'appropriazione come domain name dell'altrui marchio notorio è illecita a prescindere dalla circostanza che il titolare del marchio abbia già effettuato una registrazione a suo nome di un diverso domain name (esaurendo cosi della possibilità) dato che, la possibilità di confusione è fonte di danno e che nulla vieta al titolare di chiedere la cancellazione del vecchio nome di dominio per ottenere la registrazione di quello rivendicato (Trib. Macerata, ord., 2 dicembre 1998, in Dir. ind., 1999, p. 35 ss., con nota di C. QUARANTA, La registrazione abusiva del "domain name").

Questa decisione è particolarmente importante poiché il giudice ha ordinato alla Registration authority di procedere alla rimozione dell'intestazione della registrazione del nome di dominio rispetto al soggetto non titolare del diritto di marchio rivendicato.

Più di recente la giurisprudenza ha affrontato le seguenti tematiche: a) l'utilizzazione, come nome di dominio, di un marchio in corso di registrazione e b) la registrazione di un nome di dominio non per il suo impiego ma unicamente per la rivendita al soggetto titolare del relativo marchio registrato.

Per quanto riguarda la prima fattispecie, il Tribunale di Verona ha stabilito che deve essere inibita, in via d'urgenza, l'utilizzazione di un marchio in corso di registrazione quale domain name nell'indirizzo di un sito sulla rete Internet, nonché fissata una somma da corrispondere per ogni violazione successivamente constatata e per ogni giorno di ritardo

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