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05-03-2021

II

IL FOGLIO

Cosa c'è da rivedere nel capitolo sul lavoro del Recovery plan

li analisti faticano a formulare li previsioni sulle prospettive del lavoro nei prossimi mesi. Si attende con apprensione il ritorno alla nor-malità, che segnerà anche la fine del blocco dei licenziamenti. Se nelle proiezioni più ottimistiche si coltiva la speranza che non si verifichi un vero e proprio "giorno del licenzia-mento", con migliaia di esuberi pronti a scattare non appena si scon-gelerà un mercato del lavoro tenuto in freezer per un tempo senza prece-denti, è pressoché unanime la previ-sione di una grave emorragia di po-sti di lavoro, depo-stinata a durare a lungo.

Dall'inizio della pandemia si sono già spesi venti miliardi di euro in cassa integrazione guadagni per mantenere in vita posti di lavoro il cui destino è incerto. E' ormai tra-scorso un anno dai primi provvedi-menti sulla cassa Covid. Un anno speso tutto in difesa passiva, aspet-tando che passasse la nottata. Nel frattempo, dall'Europa è arrivato il Next Generation Eu. Una iniezione di risorse, parzialmente a fondo per-duto, per sostenere l'uscita dalla cri-si attraverso investimenti strutturali per dare slancio alla transizione verso una nuova stagione di crescita digitale, verde e sostenibile. Nel Piano nazionale di ripresa e resi-lienza (Pnrr) presentato dal governo italiano compare anche, come ri-chiesto dalle indicazioni europee, un capitolo dedicato al lavoro e alle misure che il nostro paese intende intraprendere. Ma la vaghezza degli obbiettivi e, soprattutto, del percor-so finalizzato a conseguirli, suscita non pochi dubbi sulla sua idoneità a soddisfare le condizioni poste dalla Commissione europea per la conces-sione dei fondi. Perché quelle risor-se arriveranno solo risor-se avremo chia-rito per quali obbiettivi, attraverso quali strumenti e in quali tempi l'Italia intende spenderli. Per farlo occorre sciogliere alcuni nodi che, nella bozza di Pnrr, sono stati igno-rati o ne è stata trascurata l'impor-tanza.

Il conflitto tra stato e regioni Innanzitutto, per costruire una ri-forma efficace dei servizi per il lavo-ro occorre afflavo-rontare il nodo irrisol-to della governance istituzionale. Dopo il fallimento del referendum sul titolo V della Costituzione, non si è mai voluto affrontare seriamente la questione della competenza con-corrente tra stato e regioni in questa materia. Sulla carta, spetta allo stato la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, mentre alle regio-ni è riservata la gestione e l'eroga-zione dei servizi sul territorio. Ma,

nella realtà, si è sperimentato che questa ripartizione di compiti non è affatto così netta. Da un lato ogni re-gione si riserva la prerogativa di creare misure e strumenti a propria immagine e somiglianza, con il risul-tato di vanificare gli sforzi di armo-nizzazione degli standard, la realiz-zazione di economie di scala e la creazione di un unico ed efficiente sistema informativo in grado di mo-nitorare in tempo reale la situazione della domanda e dell'offerta di lavo-ro su tutto il territorio nazionale. Dall'altra parte lo stato ha provato maldestramente a scavalcare le competenze delle regioni con l'av-ventura "a tempo determinato" dei navigator, improvvidamente propo-sta da Anpal in occasione della fasi di avvio del reddito di cittadinanza, senza avere né il titolo né l'infra-struttura territoriale adeguata. La realtà è che non ci sarà nessun piano credibile sulle politiche attive del lavoro se stato e regioni non si siede-ranno attorno a un tavolo, con spiri-to di leale collaborazione, e non de-finiranno uno chiaro e condiviso si-stema di governance che individui con precisione i livelli decisionali e quelli gestionali e fissi gli obbiettivi ai quali dovranno essere vincolate ogni misura e ogni finanziamento. L'autogol e i limiti del Pnrr

Venendo al merito dei contenuti delle misure per il lavoro previste dal Pnrr, una misura tutta da chiari-re è il cosiddetto "Gol" (Garanzia di occupabilità dei lavoratori), peral-tro già anticipato nelle sue linee es-senziali in legge di bilancio per il 2021. Ma già dal titolo si intuisce un problema. Evidentemente, forse spaventato dalla prospettiva di do-ver rispondere del successo o dell'insuccesso della misura attra-verso la verifica dei crudi dati nu-merici, il governo ha preferito ripie-gare sul meno stringente obbiettivo della occupabilità anziché della oc-cupazione. Dunque il "gol" non è quello di portare i disoccupati a un lavoro, ma di sottoporli a una serie di "trattamenti" che dovrebbero au-mentarne l'occupabilità. Intendia-moci, migliorare la "spendibilità" dei disoccupati nel mercato del la-voro è attività utile e meritoria. Se-nonché le misure di rafforzamento della occupabilità previste dal "Gol" sono il larga misura attività già da molto tempo previste dalla di-sciplina in materia: presa in carico del disoccupato da parte dei centri per l'impiego, bilancio delle compe-tenze, orientamento professionale, avviamento a percorsi formativi. In sostanza, si è trasformato in obbiet-tivo una serie di attività già presenti

nell'ordinaria routine dei servizi per l'impiego e che, purtroppo, si so-no dimostrare poco efficaci in termi-ni di risultati occupazionali. Così impostato, il "Gol" rischia di rivelar-si un pesrivelar-simo segnale per la Com-missione europa, che non finanzia le spese per le attività correnti e che da tempo ci chiede di innovare le politiche attive e di incentivare le misure legate agli inserimenti lavo-rativi effettivi. Come è stato, nel 2017, con l'assegno di ricollocazione, ucciso nella culla per fare spazio al reddito di cittadinanza. La buona notizia è che, parallelamente al Gol, il Pnrr resuscita proprio l'assegno di ricollocazione in favore di tutti i di-soccupati che hanno perso il lavoro. Ma allora, se volgiamo convincere l'Europa, è su questo strumento che dovremmo investire in termini di ri-sorse e nuova progettualità, andan-do a correggere i difetti emersi nella prima fase di sperimentazione.

Altro aspetto da chiarire è la defi-nizione dei processi organizzativi, troppo spesso confusi con le proce-dure amministrative. In sostanza, si deve passare da una impostazione per adempimenti burocratici a un approccio manageriale che segua la catena del valore dei servizi ai citta-dini. Si prenda, ad esempio il cru-ciale raccordo tra le attività di tuto-raggio del disoccupato e l'indirizza-mento a precorsi formativi coerenti alla domanda delle imprese. Pur-troppo, nell'attuale bozza del Pnrr, siamo fermi alle enunciazioni di principio e alla ripetizione ossessi-va di parole come "formazione","up-skilling" e "re"formazione","up-skilling", senza che se ne chiarisca il significato né gli stru-menti per trasformare quelle parole in corsi di formazione finalizzati all'inserimento lavorativo. E' noto quanto in Italia la formazione pro-fessionale sia una galassia che, at-torno ad alcuni soggetti di solida tra-dizione e di comprovata eccellenza, aggrega una miriade di micro enti, i cui prodotti formativi non vengono sottoposti a verifica né sotto il profi-lo della qualità né della efficacia. Occorre quindi stabilire criteri rigo-rosi per la selezione dei soggetti del-la formazione, rivedendo i meccani-smi di accreditamento e vincolando i finanziamenti a sistemi oggettivi e trasparenti di valutazione di impat-to. Nel Pnrr si sono inopinatamente rispolverati i Centri provinciali per l'istruzione degli adulti. Bene preoc-cuparsi della povertà educativa che ancora affligge parte della popola-zione adulta italiana, ma cosa c'en-tra con la non più rinviabile necessi-tà di allineare la formazione profes-sionale alle competenze tecniche

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vano ricercate dalle imprese, che spesso si vedono costrette a rivolger-si all'estero?

Oltre al "come" manca il "quando" Un ultimo, ma decisivo, nodo da sciogliere è quello relativo ai tempi di realizzazione del piano. Nella bozza attuale non si indicano né le priorità né un "tableau de bord" strutturato in modo da consentire un costante controllo sullo stato di avanzamento delle attività. Una mancanza che riflette la cattiva abi-tudine italiana di legare i destini delle riforme alla sola parte regola-toria, trascurando la fase di esecu-zione. L'Italia ha la non felice fama di gestire i fondi europei rimandan-do al termine ultimo di scadenza la rendicontazione degli impegni di spesa e delle spese effettivamente sostenute, trovandosi non di rado nella condizione di sprecare prezio-se risorprezio-se economiche. Con il Pnrr non ci sarà concesso. Il governo do-vrà mettere a punto un programma capace di convincere in anticipo le istituzioni europee non soltanto del-la coerenza delle nostre misure con le indicazioni contenute nel Next Generation EU, ma anche della ca-pacità di tutte le amministrazioni coinvolte di rispettare i tempi della loro implementazione.

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