Battini Stefano L. 04-03-2009, n. 15 D.Lgs. 30-03-2001, n. 165
FONTE
Giornale Dir. Amm., 2009, 5, 461
Sommario: Premessa - La struttura del datore di lavoro pubblico nel disegno di riforma degli anni "90 - I fallimenti della riforma e le (possibili) spiegazioni - L'approccio (contraddittorio) della legge n. 15 del 2009 - Le norme sulla dirigenza: il rafforzamento del datore di lavoro
"amministrativo "? - La disciplina delle fonti: il ritorno alla regolazione del lavoro pubblico in sede politica?
Premessa
La legge 4 marzo 2009, n. 15, costituisce, come è noto, la più importante realizzazione di un più ampio "piano industriale ", elaborato e reso pubblico dal Ministro Brunetta fin dal maggio del 2008.
"L'imprenditore - si legge in tale documento - paga di persona. Lo stesso deve avvenire, in termini politico-amministrativi, per le amministrazioni pubbliche. [..]. Manca ancora, e noi vogliamo costruirla, la figura del datore di lavoro politico-amministrativo ".
Queste parole del cosiddetto "piano Brunetta " mettono bene in luce due fondamentali differenze che intercorrono fra il settore pubblico e quello privato, senza la consapevolezza delle quali nessun serio progetto di privatizzazione del lavoro pubblico potrebbe mai conseguire apprezzabili risultati.
Primo: il datore di lavoro privato c'è, quello pubblico va costruito. La legge, che regola l'uno, deve anche creare l'altro.
Secondo: il datore di lavoro privato è uno, quello pubblico bino. Nel settore privato c'è l'imprenditore; nel settore pubblico questa figura si sdoppia, perché occorre, come afferma il piano Brunetta, un datore di lavoro "politico-amministrativo ".
Se si mettono insieme questi due elementi, ci si può rendere conto di come l'esito di una riforma volta a "privatizzare " il pubblico impiego, cioè ad introdurre per davvero, anche nel lavoro pubblico, le dinamiche proprie del lavoro privato, dipenda, in misura significativa, dal modo in cui la legge configura il datore di lavoro pubblico e, più specificamente, dal modo in cui essa articola le relazioni fra le due componenti di quel datore di lavoro: la componente politica e quella amministrativa.
Quali sono, al riguardo, le scelte compiute dalla delega contenuta nella legge n. 15 del 2009? E, in attesa della sua attuazione, che giudizio se ne può dare? Per tentare una prima risposta, bisogna però prima, pur brevemente, ricordare come era stata articolata la struttura politico-amministrativa del datore di lavoro pubblico da parte della riforma avviata negli anni '90 e quali difetti quella costruzione ha poi mostrato in sede applicativa.
La struttura del datore di lavoro pubblico nel disegno di riforma degli anni "90
L'idea che ha ispirato il riformatore degli anni '90, nella sua opera di costruzione del datore di lavoro pubblico, è in fondo piuttosto semplice: applicare la distinzione fra indirizzo politico e
gestione amministrativa, che è principio di portata più generale, anche alle funzioni proprie del datore di lavoro, cioè quelle di regolazione e di gestione del personale.
Se, nel settore privato, l'imprenditore è pienamente legittimato, entro i limiti fissati dalle norme imperative di diritto del lavoro, a negoziare la disciplina del rapporto di lavoro dei suoi dipendenti e a gestire tali rapporti, nel settore pubblico, invece, tali funzioni non possono essere concentrate nelle mani di un unico soggetto. Alla luce del menzionato principio di distinzione, esse devono distribuirsi fra la componente politica e quella amministrativa del datore di lavoro. La riforma ha tentato di sottrarre agli organi politici, quali parlamento e governo, non solo il potere di disciplinare unilateralmente (con regole speciali fissate dalla legge o da fonti ad essa subordinate) il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, ma anche quello di negoziare direttamente tale disciplina con i sindacati: la politica può solo indirizzare il negoziatore pubblico, che però deve essere una agenzia amministrativa (l'Aran), mantenuta ad una distanza di sicurezza rispetto agli organi politici.
Analogamente, la riforma ha provato a sottrarre all'organo politico la funzione di gestione del personale: il ministro indica gli obiettivi e distribuisce le risorse, ma spetta poi al manager pubblico, cioè al dirigente, esercitare il potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro nei confronti dei dipendenti, assegnare loro le mansioni, gestirne la carriera, disporne, se del caso, il licenziamento.
Neppure è difficile scorgere le ragioni più profonde che hanno suggerito al legislatore degli anni
"90 di articolare nel modo indicato le funzioni del datore di lavoro pubblico. Alla radice di quella scelta vi era la consapevolezza, maturata nel corso di decenni di regolazione e gestione del personale da parte della politica, della inidoneità di quest'ultima ad assumere il ruolo di autentica controparte dei dipendenti, che sono anche cittadini che essa rappresenta. Quello "politico " è un datore di lavoro che, nel lungo periodo antecedente la riforma degli anni '90, si era dimostrato debole; esposto alla cattura sindacale; incline a concedere privilegi a questa o quella categoria di dipendenti pubblici, attraverso una incessante pratica di micro-legislazione, i cui effetti tuttora pesano sugli equilibri di finanza pubblica; restio ad esercitare, nei confronti dei dipendenti e nell'interesse dei contribuenti e degli utenti dei servizi pubblici, tutti i poteri e tutta l'autorità che pure le norme gli avrebbero attribuito. Donde appunto l'idea di allocare sul versante amministrativo la funzione di negoziazione e gestione del rapporto di lavoro pubblico, riservando agli organi politici il compito - certo non poco significativo - di indirizzarne e controllarne l'esercizio.
I fallimenti della riforma e le (possibili) spiegazioni
Quell'idea - inutile negarlo - non ha funzionato bene: il datore di lavoro pubblico, costruito negli anni '90, si è rivelato altrettanto debole di quello che esso era chiamato a sostituire.
Gli effetti di tale debolezza, cui la legge n. 15 del 2009 si propone ora di rimediare, meriterebbero una illustrazione ben più ampia di quanto sia consentito nell'economia di questo breve commento.
In estrema sintesi, quanto alla regolazione del rapporto di lavoro, l'assenza di una autentica controparte pubblica ha reso di fatto la contrattazione collettiva, soprattutto a livello decentrato, una sorta di fonte sindacale del diritto del lavoro pubblico: attraverso di essa i sindacati hanno di fatto potuto disciplinare non solo le relazioni di lavoro ma anche l'organizzazione degli uffici; hanno potuto utilizzare quasi tutte le risorse disponibili per finanziare le progressioni professionali degli interni anziché i concorsi aperti a tutti i cittadini; hanno potuto trasformare la parte variabile della retribuzione, teoricamente collegata alla produttività individuale e collettiva, in una componente fissa del trattamento economico; hanno potuto determinare, per effetto della contrattazione integrativa, una consistente crescita delle cosiddette retribuzioni di fatto, superiore all'inflazione programmata e a quella del settore privato. Sul piano della gestione del rapporto di lavoro, in sintesi
ancor più estrema, è in larga misura accaduto che la dirigenza, non valutata, non ha a sua volta valutato: non ha punito e, soprattutto, non ha premiato.
Quanto alle cause, e ai possibili rimedi, possono affacciarsi almeno due letture.
Si può pensare che la componente amministrativa del datore di lavoro pubblico sia strutturalmente più debole di quella politica. La scelta compiuta negli anni '90, in tal caso, sarebbe stata, almeno dal punto di vista dell'interesse del pubblico, un errore: Aran e dirigenti, nel contrapporsi al sindacato, hanno meno forza di parlamento, governo, ministri, assemblee elettive locali e relative giunte, etc.
Per restituire equilibrio ad un rapporto di lavoro divenuto paritario, ma anche sbilanciato (a favore del lavoratore!), occorrerebbe allora una marcia indietro. Bisognerebbe tornare a concentrare in capo agli organi politici sia la funzione di disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici (preferibilmente in via unilaterale anziché negoziale), sia la funzione di gestione del personale amministrativo.
Vi è però una seconda possibile lettura, più complessa, ma forse più plausibile della prima. Il datore di lavoro "amministrativo " non è strutturalmente più debole di quello "politico ". Esso è stato reso debole dall'insufficiente autonomia concessagli nell'esercizio dei poteri negoziali e gestionali che pure la riforma voleva riservargli. L'Aran non è un negoziatore debole a causa della sua natura tecnica, ma è un negoziatore che oggi non negozia, perché la contrattazione vera, sulle risorse come sui contenuti, la fa il governo direttamente con i sindacati, oppure si svolge in sede decentrata, da cui l'Aran è stata esclusa. Anche la debolezza della dirigenza, più che un dato strutturale, costituisce il prodotto della sua fidelizzazione politica: un dirigente la cui permanenza nell'incarico dipende dal gradimento politico, anche a prescindere dai risultati gestionali della struttura cui è preposto, non è indotto a fare uso di tutti gli strumenti che la riforma gli avrebbe messo a disposizione per migliorare le prestazioni del personale subalterno, giacché egli sa che non è da quelle prestazioni che, in fondo, dipende il suo successo. Se questa seconda diagnosi fosse corretta, allora la terapia non dovrebbe consistere in un ritorno alla regolazione e gestione politica del personale amministrativo, ma, al contrario, nel perfezionamento, e soprattutto nel più puntuale rispetto, della scelta operata negli anni '90: rafforzare la componente amministrativa del datore di lavoro pubblico, rendendola effettivamente autonoma rispetto a quella politica, dalla quale non è riuscita - sinora - ad emanciparsi.
L'approccio (contraddittorio) della legge n. 15 del 2009
La legge n. 15 del 2009 vuole senza dubbio rafforzare la posizione del datore di lavoro pubblico.
L'intento è condivisibile. L'approccio prescelto meno. Esso appare contraddittorio: la legge delega pare ispirarsi, contemporaneamente, alle due letture alternative che si sono in precedenza esposte.
Sul piano della funzione di regolazione, la legge n. 15 del 2009 sposa la prima lettura, invitando il legislatore delegato a ripristinare un assetto delle fonti di disciplina del lavoro pubblico che consegni maggiore spazio alla decisione politica unilaterale. Rispetto alla riforma degli anni '90, si tratterebbe di un clamoroso e dannoso ripensamento.
Sul piano della funzione di gestione, invece, la legge delega opta per la seconda lettura, affidando al legislatore delegato il compito di rivisitare la disciplina della dirigenza pubblica secondo criteri volti ad assicurarne l'imparzialità e l'autonomia rispetto agli organi politici. Rispetto alla riforma degli anni '90, si tratterebbe di un importante e utile perfezionamento.
Le norme sulla dirigenza: il rafforzamento del datore di lavoro "amministrativo "?
L'esercizio della delega in materia di dirigenza pubblica è disciplinato dall'art. 6 della legge n. 15 del 2009, il cui secondo comma fissa i princìpi e criteri direttivi.
Il primo di essi - sub lett. a - chiarisce subito la scelta di fondo compiuta in sede di delega:
"affermare la piena autonomia e responsabilità del dirigente, in qualità di soggetto che esercita i poteri del datore di lavoro pubblico ". La gestione del personale è dunque funzione del datore di lavoro che, nel settore pubblico, va allocata sul versante amministrativo. Essa spetta alla dirigenza, di cui occorre rafforzare l'autonomia, anche sul piano delle incompatibilità (v. lett. m), sia rispetto ai sindacati, sia rispetto all'autorità politica. Nulla di nuovo, per la verità. Si tratta di principi già abbondantemente affermati nell'ordinamento vigente. Ma si tratta anche di principi altrettanto abbondantemente sconfessati da una disciplina degli incarichi dirigenziali che, a partire dal 1997- 98, ha conosciuto variae figurae di spoils system che, se talvolta prevedono la decadenza automatica dall'incarico per effetto di avvicendamenti di maggioranze politiche, più spesso consentono una libera decisione dell'organo politico circa il rinnovo di incarichi dirigenziali a termine. La combinazione di questi e di altri meccanismi ha prodotto quella fidelizzazione politica che, come detto, ha indebolito la dirigenza e, quindi, ben giustifica, ora, un nuovo intervento legislativo, volto a (ri)affermarne l'autonomia.
Opportunamente, dunque, la delega - v. sub lett. h e i - riguarda anche i "criteri di conferimento, mutamento e revoca degli incarichi dirigenziali ", in ordine ai quali essa sembra prefigurare un assetto più equilibrato di quello attuale, più coerente con il principio di distinzione fra politica e amministrazione, meno esposto ai rischi di politicizzazione della dirigenza. Diversi elementi suggeriscono questa conclusione. Innanzitutto, la disciplina degli incarichi dirigenziali deve essere adeguata ai "princìpi di trasparenza e pubblicità ", che paiono imporre procedure aperte e comparative per il conferimento di incarichi, nonché decisioni partecipate e motivate per la loro revoca. In secondo luogo, la delega impone il rispetto dei principi "desumibili dalla giurisprudenza costituzionale ", la quale, a partire dalle sentenze n. 103 e 104 del 2007, ha preso a dichiarare illegittime le forme di rimozione dalla funzione che si producono automaticamente, in assenza di contraddittorio e in mancanza di adeguata motivazione: lo spoils system e, più in generale, la relazione fiduciaria fra politica e amministrazione contrasta, secondo la Corte costituzionale, con l'art. 97 Cost. (v., più recentemente, anche le sentenze nn. 161, 351 e 390 del 2008). Infine, la legge n. 15 del 2009 sembra voler ancorare le decisioni di mancata conferma nell'incarico, fin qui assunte dall'organo politico con ampia discrezionalità, al dato oggettivo della valutazione dei risultati conseguiti dal dirigente: da un lato, la conferma del dirigente va esclusa "in caso di mancato raggiungimento dei risultati valutati sulla base dei criteri e degli obiettivi indicati al momento del conferimento dell'incarico, secondo i sistemi di valutazione adottati dall'amministrazione ";
dall'altro lato, il Comitato dei garanti deve verificare "l'effettiva adozione ed utilizzo dei sistemi di valutazione al fine del conferimento o della mancata conferma degli incarichi ". Dall'insieme di questi elementi potrebbe trarsi un principio di fondo: il dirigente pubblico non deve essere inamovibile, né precario, ma sempre soggetto a valutazione, dal cui esito devono dipendere tanto le decisioni di rimozione dall'incarico (revoca prima del termine o mancato rinnovo alla scadenza), quanto quelle di conferma nell'incarico.
Se il legislatore delegato applicasse correttamente questo principio - ciò che non si può dare purtroppo per scontato - l'obiettivo di rafforzare il datore di lavoro nella gestione del personale amministrativo potrebbe finalmente avvicinarsi. Un dirigente che, ai fini della permanenza in carica, fosse costantemente e obiettivamente valutato in base ai risultati conseguiti, e solo in base ad essi, sarebbe finalmente indotto ad esercitare tutti quei poteri del privato datore di lavoro che la stessa legge delega, con altri criteri direttivi, pretende che egli eserciti: valutare il personale e riconoscere gli incentivi alla produttività (art. 6, c. 2, lett. a.2); utilizzare la mobilità individuale anche nell'interesse dell'amministrazione (art. 6, c. 2, lett. a.3); vigilare sulla effettiva produttività
delle risorse umane (art. 6, c. 2, lett. b); avviare i procedimenti disciplinari nei casi dovuti (art. 6, c.
2, lett. c, d, e); etc.
Incentivi e sanzioni non sono fini in sé, ma strumenti in vista di un risultato. Se il dirigente verrà ad essere interessato al conseguimento di tale risultato, allora quegli strumenti si riveleranno utili;
diversamente, essi non saranno utilizzati o, peggio, serviranno a premiare gli amici e punire i nemici.
La disciplina delle fonti: il ritorno alla regolazione del lavoro pubblico in sede politica?
Si è già detto delle ragioni che, nei primi anni '90, hanno convinto il legislatore ad interrompere una secolare tradizione, sottraendo la disciplina del lavoro pubblico alla regolazione unilaterale degli organi politici, per affidarla ad una dialettica negoziale, secondo schemi privatistici, fra i sindacati e una agenzia amministrativa che opera in base a direttive politiche.
Un simile progetto di de-politicizzazione della disciplina del lavoro pubblico è stato perseguito su due fronti: la contrattualizzazione e la privatizzazione. Entrambe queste scelte paiono contraddette dalla legge n. 15 del 2009, che, pertanto, sembra annunciare, su questo versante, una controriforma del lavoro pubblico, diretta a ri-politicizzarne (e ripubblicizzarne) la disciplina.
Il primo fronte è (era) la contrattualizzazione. La disciplina vigente riserva alla legge solo l'organizzazione degli uffici, mentre ammette l'intervento dei contratti collettivi su ogni aspetto del rapporto di lavoro; ciò non significa che vi sia "riserva " di contrattazione, ma solo che, come accade nel settore privato, l'autonomia delle parti incontra esclusivamente il limite esterno del rispetto delle norme legislative imperative. Ma l'art. 3, c. 2, lett. a della legge delega scardina questo assetto. Tale disposizione, contraddicendo il criterio della "convergenza " fra lavoro pubblico e privato, da essa stessa peraltro ribadito (art. 2, c. 1, lett. a), torna invece a differenziare il lavoro pubblico da quello privato. Al legislatore delegato viene infatti affidato il compito di precisare "gli ambiti della disciplina del rapporto di lavoro pubblico riservati rispettivamente alla contrattazione collettiva e alla legge ": dunque, non ogni aspetto del rapporto di lavoro può essere regolato dai contratti (entro il limite delle norme imperative), perché vi sono ambiti, o materie, su cui la contrattazione non potrà (più) entrare. La scelta di tornare alla logica del riparto di materie (interno al rapporto di lavoro) può avere solo due prevedibili effetti. Il primo è di togliere spazio alla negoziazione, cioè all'Aran, per restituirlo alla disciplina unilaterale, cioè agli organi politici. Il secondo è di aumentare la confusione, come insegna l'esperienza applicativa delle legge quadro del 1983 che, imperniata anch'essa sul riparto di materie fra legge e contratti, ha conosciuto una invasione continua di materie riservate alla legge da parte dei contratti e viceversa. Di tale incertezza, del resto, rischia di essere la prima vittima lo stesso legislatore delegato, chiamato a risolvere un piccolo mistero: quali sono i diritti e gli obblighi "direttamente pertinenti al rapporto di lavoro ", che vanno riservati alla contrattazione (art. 3, c. 2, lett. a)? E come si distinguono dagli altri diritti e obblighi relativi (ma non direttamente pertinenti) al rapporto di lavoro, che devono presumersi riservati (o riservabili) alla legge?
Il secondo fronte è (era) la privatizzazione della disciplina legislativa imperativa, che si impone alle parti. La riforma degli anni '90, al di là di alcune specifiche "deviazioni " o "modificazioni ", espressamente indicate nella stessa disciplina riformatrice, ha inteso limitare la legislazione
"speciale " del lavoro pubblico, abrogando quella passata e introducendo una presunzione di derogabilità a carico di quella futura. La derogabilità della futura legislazione speciale, cioè applicabile ai soli dipendenti pubblici, costituiva, in particolare, un elemento imprescindibile della cosiddetta privatizzazione, perché, con essa, il legislatore intendeva assicurare la durata nel tempo della propria scelta riformatrice. Quella norma serviva a proteggere la privatizzazione, nonché gli
spazi di contrattazione collettiva, dalla progressiva rilegificazione, altrimenti inevitabilmente prodotta da successivi interventi del legislatore. L'art. 1 della legge n. 15 del 2009, tuttavia, capovolge ora il senso della norma anti-rilegificazione, trasformandola nel suo opposto, cioè una presunzione di inderogabilità della futura legislazione speciale. È facile prevederne le conseguenze.
La giungla di regole speciali sul pubblico impiego, che il legislatore della privatizzazione si era illuso di abbattere, da domani ricomincerà a crescere. Progressivamente, tornerà ad occupare il campo che si voleva preservare per la contrattazione, sovrapponendosi a quest'ultima, con un effetto di ri-pubblicizzazione e ri-politicizzazione della disciplina del lavoro pubblico.
Diverse sembravano le intenzioni manifestate nel "piano Brunetta ". Ma tali saranno, se il legislatore delegato non correggesse il delegante, le "unintended consequences " di quel piano.