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CAPITOLO 3: RICERCA QUALITATIVA E METODO DI INDAGINE

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CAPITOLO 3: RICERCA QUALITATIVA E

METODO DI INDAGINE

In questa mia ricerca ho deciso di adottare come metodo di indagine delle interviste semi – strutturate, per cercare di capire a quali dei sei caratteri dei beni voluttuari i consumatori associano maggiormente il vino, effettuando una distinzione tra situazioni di consumo individuali e sociali. Allo stesso tempo, ho effettuato la stessa indagine sul cioccolato, che per le sue caratteristiche è sicuramente il bene voluttuario con cui è più facile effettuare un paragone col vino. Prima di scendere nello specifico del metodo di indagine, effettuerò una panoramica di quella che è, ad oggi, la ricerca qualitativa, soffermandomi in particolar modo sui metodi più usati nella ricerca qualitativa odierna e sulle critiche da essa ricevuta.

3.1 – LA RICERCA QUALITATIVA

La ricerca qualitativa è una branca della ricerca empirica, quindi è consigliabile innanzi tutto analizzare la struttura e le caratteristiche di essa, utilizzando dei parametri di riferimento proposti dal Ricolfi (Ricolfi, La ricerca qualitativa, 1997).

La ricerca empirica si distingue da altri tipi di indagine perché:

1. Produce asserti o stabilisce nessi fra asserti; 2. Li giustifica su base empirica;

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Questa tecnica di ricerca si caratterizza per il suo carattere normativo e al tempo stesso pragmatico: la maggior parte delle riflessioni metodologiche nasce da una rielaborazione astratta di pratiche di ricerca effettive le quali subiscono un processo di codificazione. L’ astrazione consente l’applicabilità del metodo in contesti e situazioni distinte, ampliandone le potenzialità operative. Per quanto attiene la struttura dell’indagine, è possibile individuare cinque livelli, o famiglie di operazioni, non sempre e non necessariamente organizzate in fasi successive:

1. Il disegno della ricerca  in questa fase vengono messi a fuoco gli interrogativi che guidano la ricerca, nonché le linee lungo le quali la ricerca stessa cercherà di costruire le sue risposte;

2. La costruzione della base empirica  in questa fase si intende la definizione e la costruzione della base di informazioni su cui poggia la ricerca; ciò comporta perlopiù una delimitazione del campo della ricerca, delle sue fonti o, quando le informazioni non preesistono alla ricerca ma vanno raccolte nel corso di essa, delle sue procedure di rilevazione;

3. L’organizzazione dei dati  è il processo attraverso cui le informazioni che costituiscono la base empirica vengono trasformate in dati e immerse in strutture più o meno rigide e più o meno complesse; è evidente infatti che la mera registrazione di osservazioni o “risposte” non equivale affatto alla produzione di dati. Senza un osservatore che “legge” le osservazioni e le colloca entro una schema, senza un’attività di framing, i dati non sono ancora dati;

4. L’analisi dei dati  è l’insieme di procedure, formali ed informali, attraverso cui i dati stessi, indipendentemente dal loro

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grado di organizzazione, vengono analizzati per stabilire asserti e nessi fra asserti, ossia proprio quel tipo di preposizioni che costituiranno l’ossatura del “discorso” con cui si renderà conto della ricerca;

5. L’esposizione dei risultati  costituisce l’ultimo livello e, di norma, anche l’ultima fase di una ricerca empirica. In genere ha almeno tre compiti:

 Rendere il più trasparente possibile l’itinerario di una ricerca;

 Comunicare i risultati più importanti ottenuti in sede di analisi;

 Stabilire un raccordo con la letteratura precedente ed, eventualmente, suggerire nuove linee di ricerca.

Naturalmente la ricerca non presenta una struttura rigida e meramente sequenziale. Per quanto attiene in particolare le tre operazioni centrali, ovvero la costruzione della base empirica, l’organizzazione e l’analisi dei dati, i confini tra essi possono essere attraversati più volte nell’ambito del medesimo progetto.

La struttura precedentemente delineata, così come i suoi tratti distintivi sono comuni a qualsiasi ricerca empirica, di carattere quantitativo o qualitativo. Nella prima categoria si fanno rientrare, di solito, la maggior parte delle ricerche che fanno ampio ricorso alla statistica: dall’analisi ecologica (impiego di tecniche di analisi dei dati su unità di tipo territoriale), alla ricerca survey (l’inchiesta su campioni medi o grandi con questionario a domande prevalentemente chiuse), i disegni sperimentali. Nella seconda si fanno rientrare le principali forme di ricerca sul campo, tutte più o meno dipendenti

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dall’osservazione partecipante e dalle interviste: le indagini etnografiche, case study, lo studio fenomenologico etc. I due approcci, quello qualitativo e quello quantitativo, differiscono per le scelte che vengono compiute in ciascuno dei tre livelli chiave, che si interpongono tra progetto ed esposizione, fra

design e display.

Se infatti le ricerche della famiglia quantitativa si qualificano, di norma, per l’utilizzo di matrice dati e per la presenza di definizioni operative dei modi della matrice, all’opposto le ricerche più tipicamente ascritte alla famiglia qualitativa si caratterizzano per la non ispezionabilità della base empirica (intesa in senso relativo) e per il carattere (relativamente) informale delle procedure di analisi dei dati. In realtà la distinzione fra le due non è così netta, perché tra esse sussistono numerose zone grigie. Sono abbastanza numerose, infatti, le situazioni di ricerca in cui l’analisi viene condotta utilizzando tecniche quantitative, i dati vengono organizzati in matrice, ma manca del tutto, o è altamente controversa, la definizione operativa delle proprietà, dell’unità o di entrambe.

Una ricerca qualitativa è quella in grado di fornire informazioni qualitative, che sono informazioni che non hanno la possibilità di essere generalizzate su una quantità di soggetti più ampia di quella da cui sono stati raccolti i dati stessi, ed i cui dati non sono numeri a testi, immagini, composizioni, disegni, ecc.

Il dato qualitativo è un dato ricco, in grado di cogliere molteplici aspetti del fenomeno indagato e caratterizzato dai seguenti attributi:

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 Ampiezza;  Unicità;

 Subliminarietà.

Nel mondo della ricerca qualitativa, definito non dall’assenza della statistica ma dal carattere informale delle procedure di analisi, occorre distinguere fra ricerca con base empirica non ispezionabile, ricerca etnografica latu sensu e ricerca con base empirica ispezionabile, ovvero ricerca TXT. La non ispezionabilità della base empirica è, per così dire, inerente alle caratteristiche intrinseche della ricerca sul campo, la quale richiede il raggiungimento di un equilibrio tra osservazione e partecipazione al fenomeno sociale oggetto di studio. Il forte coinvolgimento del ricercatore, la sua “osservazione partecipata”, comporta la necessità che egli veda “con i propri occhi”, partecipi in prima persona al gioco sociale che vuole capire, si esponga al rischio del rifiuto e della incomprensione. Ciò rende il suo rapporto con gli oggetti della ricerca meno verticale, meno distaccato rispetto, ad esempio, al tipo di rapporto che, di solito, si viene ad instaurare nel corso di una

survey. Nello stesso tempo, però, lo mette nella condizione di

essere l’unico e integrale depositario, della base empirica su cui fonderà la propria analisi e trarrà le conclusioni. Benché l’autore raccolga le sue impressioni in note, utilizzi documenti, foto e video a sostegno delle proprie tesi la base della sua ricerca resta in gran parte non ispezionabile, ossia invisibile ai destinatari della ricerca. Lettori, studiosi, comunità scientifica in generale possono solo fidarsi, dichiarare la ricerca adeguata, o rifiutarla in toto in quanto ritenuta non affidabile.

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La distinzione fra ricerca con base empirica non ispezionabile o ricerca ETN (etnografica latu sensu), e ricerca con base empirica ispezionabile, o ricerca TXT, è importante non solo perché permette di articolare il quadro della ricerca qualitativa ma anche perché suggerisce una possibile lettura di alcune fra le sue più recenti tendenze.

E’ difficile proporre una definizione univoca ed esaustiva del concetto di ricerca qualitativa in quanto tale termine è stato usato in contesti differenziati con significati diversi. Numerose correnti di pensiero e singole ideologie hanno basato il loro sviluppo su di essa (dal costruttivismo agli studi culturali, dal femminismo al marxismo) tuttavia ognuna di esse ha elaborato un proprio modo di interpretarne il ruolo e le funzioni, per cui, se intervistati, esponenti di diverse correnti filosofiche e sociologiche fornirebbero in merito opinioni contrastanti.

Luca Ricolfi afferma al riguardo: “L’espressione ricerca qualitativa, a seconda dei contesti e degli ambiti disciplinari…per alcuni…significa semplicemente ricerca senza la statistica. Per altri, sociologi e psicologi in particolare, significa un particolare tipo di ricerca che non fa uso della statistica: comprendendo in essa qualsiasi ricerca che assuma come base empirica un corpus di interviste discorsive (colloqui in profondità, storie di vita, interviste non direttive ecc.). Per altri ancora, economisti e antropologi ad esempio, l’espressione. può risultare, sia pure per ragioni opposte, alquanto inconsueta: agli economisti perché, di norma, non fanno ricerche qualitative, agli altri (antropologi) perché essi preferiscono condurre solo ricerche qualitative.”

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La scarsa conoscenza della materia ha contribuito a consolidare l’idea, peraltro errata, che la ricerca qualitativa sia una ricerca empirica priva di inferenze statistiche e pertanto si configuri come più semplice di quella quantitativa. L’idea che la statistica e l’analisi dei dati siano le uniche tecniche rigorose e impersonali è ampiamente diffusa anche all’interno degli stessi ambienti accademici. In realtà esse sono solo alcune delle molte famiglie di procedimenti impersonali in uso nelle scienze sociali.

Accanto a tali tecniche, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, si sono sviluppate diverse altre famiglie di procedimenti altrettanto impersonali, primi fra tutti i modelli logici e le tecniche di simulazione, altrettanto rigorosi e codificati, che richiedono un livello di competenza superiore rispetto a quelli più frequentemente utilizzati nelle scienze sociali (correlazione, regressione, analisi della varianza, analisi fattoriale).

E’ evidente che alla subordinazione delle tecniche qualitative a quelle quantitative è sotteso un altro grave errore di valutazione. Esso consiste nell’idea che la difficoltà principale di una ricerca empirica stia nella capacità di padroneggiare le fasi più tecniche e impersonali del processo di ricerca. In realtà la qualità della ricerca dipende in maggior misura dalla capacità di “prendere le decisioni giuste o di intuire le strade più promettenti, in tutti gli snodi fondamentali del processo di ricerca”. Tali capacità derivano da una lunga esperienza sul campo e da requisiti altamente personali che fanno del ricercatore l’elemento chiave per il successo del progetto d’indagine. A differenza della padronanza delle fasi tecniche l’immaginazione, la capacità di sintesi e selezione, la flessibilità, non possono essere acquisite sui libri ma richiedono tempi di maturazioni molto più lunghi.

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Paradossalmente, come sottolineato dal Ricolfi, è proprio l’assenza della statistica a rendere l’indagine qualitativa più complessa, in quanto richiede un maggior ricorso all’ intuizione e all’esperienza: “Tutto ciò significa, in buona sostanza, che nella maggior parte dei casi una ricerca qualitativa è più difficile di una ricerca quantitativa.... Le tecniche impersonali, e quelle statistiche in particolare, non hanno solo la funzione di rendere controllabili e intersoggettivamente condivisi i risultati di una ricerca ma anche quella di surrogare e coadiuvare l’intuizione. Un minor ricorso alle tecniche statistiche implica dunque un maggior utilizzo dell’esperienza e dell’intuizione, sia nelle fasi di esplorazione della base empirica, sia nella fase di formulazione e controllo delle ipotesi.”

Tuttavia, non esiste una ricerca buona ed una cattiva. La scelta fra i due diversi approcci dipende da ciò che si vuole studiare. Per esempio se si vuole conoscere la spesa media mensile degli italiani in prodotti cosmetici, la scelta più appropriata è sicuramente un’indagine di tipo quantitativo, mentre se si vuole approfondire, come nel nostro caso, l’aspetto esperienziale del consumo voluttuario, un disegno qualitativo consente di raccogliere informazioni più utili per colmare il nostro fabbisogno informativo.

Possiamo definire la ricerca qualitativa come un approccio multi - focalizzato, di natura marcatamente interpretivista, a un determinato fenomeno oggetto di studio. L’analisi va pertanto sviluppata all’interno del contesto nel quale il fatto o il processo sociale si colloca, e va finalizzata allo studio dei significati che i soggetti attribuiscono a momenti di vita quotidiana o ed eventi di particolare importanza.

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Per raggiungere tale finalità, la ricerca qualitativa fa uso di una gran varietà di metodi e strumenti di raccolta dei dati - casi di studio, esperienze personali, interviste, osservazioni, testi audio e video -, i quali possono essere interpretati come attrezzi attraverso cui il ricercatore individua delle soluzioni a problemi concreti.

L’analisi qualitativa del consumo prende diverse forme perché interessa gli studiosi di differenti discipline: storici, economisti, antropologi, sociologi e psicologi. La storia dei metodi di ricerca qualitativi si sviluppa in due diversi contesti principali. Il primo si ha quando i metodi qualitativi sono applicati al mercato tramite le ricerche di marketing. Inoltre, il personale accademico è stato portato a sviluppare teorie sulla natura del marketing con delle ricerche al suo interno.

Nonostante i secoli di attività di marketing, il Journal of

Marketing è stato pubblicato per la prima volta solo nel 1922; e,

nonostante tutto il lavoro svolto durante la Seconda Guerra Mondiale sui consumatori e la comunicazione, il Journal of

Marketing Research è arrivato solo nel 1964, e il Journal of Consumer Research dieci anni dopo (Belk, 2006, p. 7).

Precedentemente, gli studiosi si erano accorti che i dati demografici non erano sempre sufficienti o soddisfacenti. Qualche volta non c’erano differenze significative tra gruppi di utenti nella loro età, sesso, o guadagni, così queste caratteristiche non apparivano importanti per i loro diversi comportamenti di consumo. Spesso, inoltre, diversi gruppi di utenti davano le stesse motivazioni per diverse preferenze di marchio, mostrando che vi erano delle discrepanze tra ciò che le persone dicevano e quello che effettivamente pensavano. Le motivazioni che le

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persone davano probabilmente non erano complete e magari essi non erano capaci di spiegare i loro stessi comportamenti di consumo.

Poiché l’usuale questionario strutturato risultava spesso insufficientemente informativo, i ricercatori trovarono utile sviluppare interviste più conversative. Talvolta queste interviste erano svolte da personale psichiatrico o psicologico ed erano comparate con una sessione di associazione libera connessa con la terapia psicoanalitica. Per questo, tali interviste vennero chiamate “interviste in profondità”.

Nonostante lo sviluppo di queste tecniche, i metodi di ricerca qualitativi non furono immediatamente accettati nei dipartimenti di marketing accademico, nonostante ormai venissero usati costantemente per la storia, l’antropologia e la sociologia.

L’eccitazione per i metodi di scienza comportamentale ed i metodi di ricerca qualitativi raggiunsero la loro massima diffusione a metà degli anni 50, collegando i comportamenti di consumo nel mercato con dei tratti della personalità, esplorando le motivazioni dei consumatori ed analizzando le percezioni su prodotti e marchi.

Negli anni 60 e 70, il loro sviluppo si moderò e l’entusiasmo attorno a queste tecniche scemò. L’attenzione si spostò sulla misurazione sistematica, che fu aiutata dalla nascita dei computer. Nuove promesse vennero fuori dagli esperimenti di psicologia cognitiva e non dalla psicologia in profondità. Le ricerche motivazionali furono dichiarate morte.

In realtà questa branca della ricerca empirica non venne mai del tutto abbandonata, e tornò con alla ribalta con prepotenza negli

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anni 70, con la nascita dei focus group. I focus group rappresentano uno strumento di ricerca ampiamente utilizzato nell’ambito delle ricerche di marketing per che consiste in un particolare metodo di intervista in cui un moderatore rivolge in modo informale e apparentemente destrutturato alcune domande ad un piccolo gruppo di soggetti informati dei fatti e disposti a collaborare, invitandoli a condividere e a confrontare le proprie opinioni su un insieme prestabilito di argomenti.

Lo scopo principale di un focus group è quello di raccogliere idee, considerazioni e suggerimenti espressi da individui appartenenti al target appropriato, invitati a discutere in modo libero e spontaneo una selezione di temi rilevanti ai fini della ricerca. A differenze di altre tecniche di intervista, i focus group non prevedono un’interazione esclusiva tra l’intervistatore e il singolo rispondente e neppure che l’intervista proceda in modo rigidamente codificato, come accade, invece, seguendo l’iter stabilito dalla successione delle domande di un questionario. Il successo di questo metodo è legato, da un lato, all’attivazione delle dinamiche di gruppo, vale a dire alla capacità dei partecipanti di dar luogo ad un intenso dibattito interattivo e, dall’altro, all’abilità del moderatore di condurre la discussione, facendo in modo che essa proceda in modo ordinato e completo, senza divagazioni rispetto agli obiettivi della ricerca.

L’idea alla base di questo metodo è che le considerazioni o le valutazioni espresse da ciascuno dei partecipanti suscitano reazioni, commenti e riflessioni da parte degli altri, innescando una discussione spontanea e intensa che porta alla condivisione di ulteriori e più approfondite considerazioni.

La figura del moderatore svolge un ruolo fondamentale all’interno dei focus group: deve possedere particolari abilità e

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competenze per quanto riguarda la capacità di comunicazione interpersonale e la gestione delle relazioni. Egli, infatti, ha il compito di «tirare fuori» da ogni partecipante le idee migliori e più originali a proposito del tema oggetto dell’incontro. Il suo compito consiste nel riconoscere le osservazioni e le opinioni più interessanti espresse dai membri del gruppo e stimolare i partecipanti a commentarle, dando luogo ad un’ampia discussione libera e interattiva

Altri metodi di ricerca qualitativa fra i più utilizzati sono le interviste individuali, l’osservazione e le tecniche proiettive. Le interviste individuali (o in profondità) possono essere libere o semi – strutturate. In quelle libere si decide solo l’argomento da trattare ed il punto di partenza dell’intervista, e dopo si lascia che il dialogo col rispondente e le successive domande sorgano spontaneamente. In quelle semi – strutturate, invece, ci sono poche domande che sono decise prima dell’intervista mentre il rimanente, mentre la restante parte è aggiunta man mano che si procede con essa. I vantaggi delle interviste vanno ricercati principalmente nel fatto che si riescono ad approfondire bene i temi da investigare ed inoltre c’è la possibilità che emergano aree latenti, mentre i punti a suo sfavore sono che per essere efficaci devono essere condotte da intervistatori professionisti con conseguenti costi elevati.

L’osservazione prevede l’interazione con il fenomeno soggetto dell’indagine, che viene osservato nel momento in cui si manifesta e non raccontato da chi lo ha vissuto. A seconda del grado di interazione con l’osservatore si possono distinguere le seguenti tipologie di osservazione:

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 Partecipante a tutti gli effetti  l’osservatore partecipa completamente al fenomeno senza svelare la sua identità di osservatore;

 Partecipante osservatore  l’osservatore svela la propria identità ed i propri obiettivi;

 Osservatore partecipante  non si verifica l’interazione sociale con i soggetti coinvolti nel fenomeno;

 Osservazione pura  viene a mancare del tutto la partecipazione, da parte dell’osservatore, al fenomeno o al contesto.

Le tecniche proiettive sono impiegate nella ricerca di marketing per raccogliere indicazioni quando l’oggetto dell’analisi verte su argomenti rispetto ai quali gli individui intervistati potrebbero essere riluttanti o incapaci di esporre le loro opinioni o i loro pensieri attraverso modalità di intervista di tipo tradizionale.

Fanno parte delle «tecniche proiettive» alcuni strumenti di ricerca utilizzati quando lo studio verte su questioni che potrebbero suscitare imbarazzo oppure richiede l’acquisizione di dati sensibili e l’approfondimento di aspetti del comportamento di cui gli intervistati potrebbero non essere del tutto consapevoli. Le tecniche proiettive permettono di affrontare argomenti personali e imbarazzanti limitando il senso di disagio che gli intervistati proverebbero se venissero impiegati metodi di acquisizione delle informazioni più diretti, basati sulla presenza di un intervistatore che rivolge domande esplicite.

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I soggetti di fronte a domande ritenute indiscrete oppure offensive adottano comportamenti difensivi ed elusivi con evidenti conseguenze negative sull’attendibilità dei risultati della ricerca: le risposte, infatti, potrebbero contenere indicazioni parziali, non veritiere oppure emendate dai filtri razionali della persona intervistata. Attraverso l’impiego delle tecniche proiettive, tali inconvenienti risultano sensibilmente ridotti perché è maggiore la disponibilità degli intervistati a rispondere sinceramente e per questo sono strumenti adatti ad esplorare le esperienze, le sensazioni e le convinzioni più intime degli individui.

Sulla base di questo percorso di analisi sono state sviluppate numerose tecniche quali il noto test di Rorschach o delle macchie in cui si assume che i soggetti rivelino gli aspetti più profondi della loro personalità descrivendo che cosa rappresentano o quali significati attribuiscono alle immagini evocate nella loro mente dalle forme indefinite e ambigue di un insieme di macchie di inchiostro. Il soggetto, in pratica, riferendo le proprie convinzioni e sensazioni ad altri (persone, immagini oppure oggetti) «spersonalizza» le risposte (Kinnear e Taylor, 1991), esprimendosi in modo spontaneo e sincero (Day, 1989) perché, in realtà, quando l’intervistato descrive un comportamento oppure riporta sensazioni o opinioni riferendole ad altri, esprime inconsapevolmente le proprie convinzioni e descrive aspetti legati al suo comportamento (Day, 1989; Gordon e Langmaid, 1988).

Le tecniche proiettive sono versatili e possono essere impiegate in molte situazioni in cui è richiesto lo svolgimento di ricerche di marketing, anche nei casi in cui lo scopo dell’indagine non è quello di scoprire aspetti della personalità degli individui di

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particolare “profondità”. Utilizzando le tecniche proiettive, i ricercatori hanno la possibilità di penetrare la sfera personale dei soggetti e di mettere in evidenza il «perché» di determinati comportamenti, ottenendo risultati sensibilmente migliori rispetto a quelli consentiti dalle tecniche di acquisizione dei dati di tipo tradizionale.

In particolare, tali tecniche possono essere classificate in funzione dei tipi di risposta o delle attività richieste ai soggetti intervistati, le più utilizzate nelle ricerche di marketing sono rispettivamente:

 Associazioni  In questo test lo stimolo è costituito da un elenco di parole (parole stimolo) che, a seconda delle caratteristiche della ricerca, può essere formato da poche decine, fino a circa un centinaio di termini. Nell’elenco vengono inserite a caso alcune parole neutre, estranee all’oggetto della ricerca, il cui scopo è impedire che l’intervistato intuisca lo scopo della ricerca per neutralizzare atteggiamenti potenzialmente distorsivi o impedire comportamenti elusivi;

 Completamenti  I rispondenti vengono invitati a scrivere la conclusione di alcune frasi incomplete. Ogni frase è formata da parole collegate al tema oggetto della ricerca oppure da parole neutre, seguite dallo spazio per inserire la risposta. Lo scopo è fare in modo che gli intervistati completando le frasi rivelino le loro opinioni e convinzioni personali, relative all’argomento oggetto della ricerca;

 T. A. T.  Il test di appercezione tematica o Thematic Apperception Test (T.A.T.) è un metodo di intervista completamente destrutturato e non palese, in cui ai partecipanti

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viene mostrata una sequenza di immagini, una alla volta, e successivamente viene chiesto loro di scrivere una storia relativa a ciascuna di esse. I racconti, quindi, vengono interpretati per stabilire la personalità del rispondente;

 Picture test  Al rispondente viene mostrata un’immagine che illustra una particolare situazione e gli viene chiesto di descrivere le reazioni che prova, scrivendo un breve racconto ispirato all’immagine stessa. I ricercatori interpretano il contenuto del racconto per identificare le sensazioni (positive, negative o neutrali), le reazioni oppure le preoccupazioni suscitate dal disegno. Questo metodo è utilizzato nelle agenzie di pubblicità e dagli esperti in comunicazione per verificare l’impatto di immagini o di illustrazioni collocate sul packaging del prodotto, sulle pubblicità a stampa e sulle brochures oppure per verificare la comprensione di un nuovo «logo»;

 Balloon test  In questo caso gli stimoli sono costituiti da disegni stilizzati o fumetti (strip), in cui uno o due personaggi sono rappresentati in una specifica situazione che, secondo i casi, può essere esplicitata nei dettagli oppure presentata in modo ambiguo. In genere, i personaggi sono disegnati in modo approssimativo e senza particolari espressioni, per assicurarsi che agli intervistati non venga trasmessa nessuna indicazione in grado di influenzare la loro reazione o suggerire la risposta. In corrispondenza di uno o di entrambi i personaggi rappresentati nella vignetta viene collocato un fumetto vuoto e gli intervistati sono invitati a riempire gli spazi con parole e/o frasi che rispecchiano i pensieri o le affermazioni ritenute più plausibili e/o pertinenti nella situazione rappresentata;

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 Interviste role - playing  In questo tipo di interviste i partecipanti sono invitati ad assumere l’identità di una terza persona, ad esempio, un vicino di casa o di un amico, impegnata ad affrontare o a reagire ad una determinata situazione o invitata ad esprimere il proprio punto di vista in merito ad un particolare problema. All’intervistato, in buona sostanza, viene chiesto di esprimere in via indiretta il proprio parere e di descrivere come si comporterebbe nella circostanza prospettata senza però essere chiamato direttamente in causa.

In molti testi di metodologia orientati quantitativamente, la ricerca qualitativa viene spesso trattata come un metodo minore. Come tale, ci suggerisce di prenderla in considerazione solo all’inizio di uno studio o nella fase esplorativa (Silverman, 2002, p. 49). Vista da questa prospettiva, la ricerca qualitativa può essere impiegata per familiarizzarci con un ambiente prima di cominciare il campionamento ed il conteggio serio.

Queste riserve hanno un fondamento poiché la ricerca qualitativa è, per definizione, più forte sulle narrative descrittive che sulle tabelle statistiche. Sorge allora il problema di come un ricercatore qualitativo categorizzi gli eventi o le attività descritte. Talvolta questo aspetto è conosciuto come il problema dell’attendibilità. L’attendibilità “si riferisce al grado di coerenza con cui gli eventi sono assegnati alla stessa categoria da osservatori diversi o dallo stesso osservatore in occasioni differenti” (Hammersley, 1996, p. 67).

La questione della coerenza nasce dal fatto che per mancanza di spazio molti studi qualitativi forniscono ai loro lettori poco più che brevi e convincenti estratti dei loro dati. Inoltre anche quando le attività delle persone sono registrate e trascritte,

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l’attendibilità dell’interpretazione delle trascrizioni può essere gravemente se ci si dimentica di registrare le sovrapposizioni e le pause, ad esempio, aspetti apparentemente insignificanti ma spesso cruciali.

Una seconda critica alla ricerca qualitativa si riferisce alla fondatezza della spiegazione che offre. Questo problema è anche conosciuto come il problema dell’aneddotismo, che si manifesta nella modalità tipica dei rapporti di ricerca di richiamare pochi esempi efficaci di alcuni fenomeni, senza tentare di analizzare dati più ambigui o addirittura contraddittori. Questa accusa di

aneddotismo mette in discussione la validità di molta ricerca

qualitativa.

3.2 – IL METODO DI INDAGINE

E’ stato quindi deciso di effettuare un indagine di tipo qualitativo, indagine che coinvolge principalmente il vino. Fra i beni voluttuari è stato scelto il vino perché presenta alcune caratteristiche che lo rendono un bene abbastanza unico nella categoria. Innanzi tutto l’ampio range di prezzo: come abbiamo visto nel capitolo appositamente dedicato, le categorie di vini vanno da fasce di prezzo inferiori a 3 €, ed arrivano ad avere bottiglie che costano anche migliaia di euro. Ad ogni modo, i vini considerati di qualità partono da fasce di prezzo molto più abbordabili, che si aggirano già intorno ai 30 – 40 €. Quindi nonostante vengano considerati vini di qualità, sono prodotti che chiunque potrebbe permettersi, è questo fa sì che siano particolarmente adatti alla nostra indagine.

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Inoltre, il vino è un prodotto popolare: anche un individuo che non beve vino è capace di nominare almeno un paio di marchi famosi, consuetudine maggiormente accentuata nel nostro paese dove questa tendenza potrebbe essere influenzata anche dalla vicinanza geografica ad una zona dove si produce vino.

Il vino ha oltretutto una valenza sociale che invece non viene riscontrata in altri beni voluttuari, come ad esempio il benessere personale e gli accessori di lusso. Spesso il bere vino viene associato ad una situazione intima e collettiva (bere vino con gli amici), tendenza accentuata soprattutto tra i giovani, mentre i consumatori di vecchia data restano più ancorati all’idea del vino come bevanda da pasto. Questa componente sociale ha portato anche ad una riallocazione qualitativa del vino, che viene maggiormente valorizzato sul piano sensoriale ed esperienziale, il che porta ad un maggior consumo dei cosiddetti vini di qualità.

I propositi di quest’indagine sono vari:

 Indagare su come il consumo voluttuario di vino viene considerato in diversi contesti: saranno infatti indagate diverse situazioni di consumo (sociale ed individuale, domestico ed extradomestico);

 Scoprire a quale dei sei marker del consumo voluttuario viene maggiormente associato il vino. Ricordiamo i marker, che sono tre con valenza positiva (aristocrazia, lusso, edonismo) e tre con valenza negativa (spreco, conspicuousness, moralità);

 Scoperta di altri aspetti interessanti, non precedentemente concordati, scaturenti dal metodo di indagine.

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Inoltre la stessa indagine verrà effettuata sul cioccolato, con le stesse modalità, essendo il bene voluttuario che probabilmente per caratteristiche e per categoria è quello più somigliante al vino, in modo da poter effettuare poi un paragone. Il cioccolato ha sicuramente un range di prezzo più ristretto rispetto al vino, ma per il resto è sicuramente il bene più significativo per un confronto.

Per effettuare quest’indagine è stato quindi deciso di usare delle interviste semi – strutturate. L’intervista consiste in cinque domande decise preliminarmente, ma non si riserva di approfondire altri argomenti interessanti che potrebbero emergere nel corso della conversazione. Le interviste cominciano descrivendo delle situazioni di consumo voluttuario. Per quanto riguarda il vino, le situazioni descrivono il consumo di una bottiglia di Brunello di Montalcino da 45 €, in quattro diverse situazioni: un uomo da solo a casa, un uomo da solo al ristorante, un gruppo di amici in casa ed un gruppo di amici al ristorante. Lo stesso per il cioccolato, dove è stata scelta una tavoletta Lindt Excellence dal costo di 12 € per descrivere le situazioni che presentano le stesse modalità di quelle del vino, solo che al posto del ristorante è stato scelto un bar.

Entrambe le marche sono state scelte per conoscenza popolare ed anche comunque per una rinomata qualità dei loro prodotti ed entrambe rappresentano delle situazioni di consumo voluttuario, poiché hanno un prezzo superiore alla media, sono beni di una certa qualità, ma hanno comunque un prezzo accessibile praticamente a tutti.

Una volta descritta la situazione, si comincia l’intervista domandando cosa stesse pensando l’uomo o gli uomini descritti

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nella situazione e come l’intervistato valutasse la sua scelta di consumo.

Sono poste volutamente domande abbastanza discorsive, di modo che l’intervistato possa parlare liberamente e spaziare su vari argomenti, senza che venga bloccato a meno che non andasse completamente fuori tema. Il nostro scopo infatti è che si concentri in particolare sul prezzo del bene e sulla situazione in cui viene consumato e non, per esempio, su quanto faccia male alla linea mangiare una tavoletta di cioccolato.

Il passo successivo è quello di chiedere all’intervistato che tipo di emozioni gli provochi quella situazione di consumo, e se è in grado di descriverle. Viene chiesto un giudizio più diretto, utile soprattutto per capire a quale marker possa essere associata quella situazione.

Successivamente, viene chiesto all’intervistato come si immagina i protagonisti della situazione descritta dal punto di vista demografico, familiare ed economico, per avere un’idea di quello che potrebbe essere un consumatore tipo di beni voluttuari, ed infine viene chiesto quale opinione ha l’intervistato dell’attore o degli attori della situazione, sempre per cercare di cogliere l’opinione positiva o negativa dell’intervistato.

Come detto in precedenza, questa è solamente una serie di domande pre – determinate, le interviste non sono state svolte necessariamente seguendo in maniera lineare le domande e più volte è capitato di approfondire spunti interessanti che forniva l’intervistato.

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Nello scegliere il target per effettuare le interviste è stato deciso innanzi tutto di intervistare solamente uomini: il vino è un prodotto tipicamente maschile e di solito la scelta su quale bottiglia bere viene presa dagli uomini. Inoltre tutti gli intervistati dovevano essere percettori di reddito. Si è deciso, infine, di effettuare delle distinzioni per fasce di età (25 – 39, 40 – 59, +60) ed anche, per quanto possibile, per categorie di reddito.

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