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1.1 CHE COS’E’ LA DISUGUAGLIANZA: UN TENTATIVO DI DEFINIZIONE

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CAPITOLO I

QUALE RAPPORTO TRA DISUGUAGLIANZA E POVERTÁ:

ALCUNE QUESTIONI TEORICHE

1.1 CHE COS’E’ LA DISUGUAGLIANZA: UN TENTATIVO DI DEFINIZIONE

La disuguaglianza, così come la povertà, sono concetti utilizzati, nell’ambito delle scienze sociali, fin dalle loro origini, ma tutt’oggi cimentarsi con una definizione puntuale costituisce una operazione ardua a causa della loro natura relativa, multidimensionale e dinamica. Il legame tra disuguaglianza e povertà, anche se viene frequentemente utilizzato in forma associata nel dibattito contemporaneo, non è trattato, a livello teorico, con la dovuta attenzione.

Nel presente lavoro i concetti di disuguaglianza e povertà verranno utilizzati per sviluppare, alla luce di alcuni tra i più recenti approcci teorici al tema, una riflessione intorno ai meccanismi di lettura dei processi di impoverimento 1 . Ciò viene fatto nella convinzione che, proprio dalla loro visione integrata, possano nascere utili elementi di riflessione per l’interpretazione dei meccanismi alla base dei processi di impoverimento e per la pianificazione degli interventi più adeguati al loro fronteggiamento.

Prima ancora di passare alla trattazione degli elementi costitutivi di questi due concetti occorre interrogarsi anche sulla preliminare auspicabilità della costruzione di condizioni egualitarie, cercando di vedere se, e in che misura, esse contribuiscano al miglioramento del benessere degli individui. Si tratta di un tema di grande complessità che, in questa sede, osserveremo con riferimento ad un aspetto in

1

I fattori che hanno un ruolo attivo nella definizione della condizione di disuguaglianza sono molti e

di differente natura. Nel presente lavoro i richiami e gli approfondimenti relativi a questo concetto si

riferiscono alla sua dimensione economica. Più precisamente, si cerca di indagare modi diversi,

rispetto a quelli comunemente adottati dalle teorie classiche e neo-classiche dell’utilità, per definire

tale dimensione. Proprio assumendo questa posizione critica, infatti, ci si accorge che anche la

prospettiva economica della disuguaglianza non può prescindere dalla valutazione di aspetti di natura

sociale.

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particolare: il legame che può intercorrere tra promozione di margini sempre più elevati di uguaglianza e difesa della libertà. Ad una riflessione superficiale si potrebbe pensare che tra questi due concetti esista un insanabile conflitto, in realtà, come vedremo, il reale rapporto che intercorre tra di essi è legato dal significato che si attribuisce alla parola libertà e, soprattutto, alla natura dell’ideale egualitario.

L’operazione viene condotta attraverso una ricognizione di alcuni dei più importanti contributi sul tema offerti dalla letteratura, di natura economica e sociologica. Il quadro teorico così ricostruito ha l’obiettivo di porre le fondamenta per avviare l’esame del contributo apportato alla definizione delle dinamiche presenti, tra il manifestarsi della condizione di povertà e l’insorgenza di sviluppi tipici dei contesti caratterizzati da disuguaglianza sociale, partendo da una delle più autorevoli teorie sociali che si sono affermate negli ultimi anni: il Capability Approach. Tale paradigma teorico, inaugurato da Amartya Sen, insignito per tale ragione del premio Nobel per l’economia nel 1998, rappresenta un approccio interpretativo che va molto oltre la tradizionale impostazione di stampo economico, offrendo importanti elementi di riflessione di natura filosofica e sociologica.

Il concetto di disuguaglianza rinvia, quasi intuitivamente, a qualche cosa che ha a che fare con la diversa distribuzione delle risorse tra gli individui all’interno di un contesto sociale di riferimento. 2 Una volta che ci si sia accordati su questo elemento, rimangono, però, da individuare le dimensioni nell’ambito delle quali deve essere costruita l’uguaglianza: quali risorse debbano essere oggetto di tale suddivisione egualitaria, quali distribuzioni possano essere definite eque, e quali altre invece non lo siano.

La scelta delle dimensioni all’interno delle quali considerare auspicabile l’uguaglianza è un’operazione particolarmente controversa. A tale proposito, in letteratura, possiamo individuare due differenti spazi: quello delle condizioni materiali e quello delle opportunità.

Nella prima ipotesi si punta l’attenzione sui conseguimenti effettivi, mentre nella seconda si rinvia alle differenti posizioni di vantaggio e svantaggio di cui

2

Cfr. F. A. Cowell, Measurement of Inequality, in A. B. Atkinson, F. Bourguignon (a cura di),

Handbook of Income Distribution, North Holland, Amsterdam, 2000.

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possono godere gli individui al fine di perseguire con successo i propri interessi e trovare soddisfazione ai propri desideri.

Gli studi sulla disuguaglianza hanno trovato ampio spazio all’interno dell’economia, nell’ambito della quale si possono rintracciare approcci teorici profondamente diversi che, però, risultano accomunati dall’attribuzione di un ruolo determinante, anche se, in alcuni casi non esclusivo, alla dimensione economica del fenomeno; questi approcci utilizzano il reddito come proxy adeguata per giungere a stima. Si collocano in questa prospettiva le teorie che si sviluppano nell’economia classica, da Smith a Malthus e Ricardo, così come le teorie neoclassiche che si ricollegano all’utilitarismo e che costituiscono, ancora oggi, il paradigma dominante nell’analisi della disuguaglianza sociale e della povertà. Possiamo far rientrare in questo gruppo di teorie anche l’approccio offerto da Marx che, seppur arricchito di elementi di riflessione di stampo sociale, vede nella iniqua distribuzione delle risorse e dei salari la causa del costituirsi delle disuguaglianze sociali e della povertà.

Facendo un passo indietro e analizzando alcuni contributi provenienti dalla teoria classica dell’economia, troviamo che sono particolarmente utili per la nostra riflessione i lavori sull’analisi delle disuguaglianze che ci sono stati offerti dall’economista Ricardo. Ricardo avvia la sua riflessione a partire dalla definizione delle diverse tipologie di redditi presenti nel contesto economico e soffermandosi sulle loro caratteristiche; tale operazione permette allo studioso di giungere alla conclusione che la disuguaglianza costituisce un elemento non eliminabile della società, in quanto rispondente alle esigenze di equilibrio del mercato. Più precisamente, dopo aver evidenziato la tripartizione delle remunerazioni in salari, profitti e rendite, sottolinea come i salari debbano, necessariamente giungere ad assestarsi ad un livello di sussistenza, così da permettere un sano e duraturo sviluppo del sistema economico e sociale. Tale spiegazione è motivata rinviando alle leggi malthusiane che sono alla base dell’equilibrio tra numerosità della popolazione e risorse disponibili.

Il legame inscindibile tra ricchezza e povertà è più volte evidenziato anche

dal padre dell’economia moderna Adam Smith, il quale sottolinea come la ricchezza

sia intrinsecamente associata alla disuguaglianza: “ovunque c’è una grande proprietà

(4)

c’è una grande disuguaglianza […]. L’opulenza di pochi presuppone l’indigenza di molti”. 3 La ricchezza trova infatti fondamento in uno status di disuguaglianza e la sua distribuzione assume un ruolo centrale nella definizione degli assetti societari, perché essa determina le forme di allocazione del potere, dove con tale espressione ci si riferisce non tanto alla possibilità di comando nella sfera politica o militare, quanto, piuttosto, al controllo sulle risorse. La ricchezza è “il potere di comprare, cioè un certo comando su tutto il lavoro, ovvero su tutto il prodotto del lavoro, che si trova sul mercato”. 4

L’approccio attualmente dominante all’interno della prospettiva economica, prende avvio dai contributi dei fondatori della disciplina economica e si colloca all’interno della scuola neoclassica (marginalista) che si caratterizza per la presenza di una pluralità di contributi e sfumature teoriche; tale insieme di teorie risultano accomunate dall’aver effettuato una trasformazione radicale della teoria del valore. I beni non sono più dotati di un valore in sé stimabile in base alla quantità di lavoro impiegata per la loro realizzazione (come avveniva nell’economia classica o nei contributi di Marx), ma a partire dalla relazione che si instaura tra essi ed il fruitore.

Il processo di allocazione delle risorse tra lavoratori e capitalisti è liberamente definito dal mercato, il quale diviene l’unico regolatore della distribuzione dei redditi e il solo in grado di effettuare tale operazione e mantenere così il sistema economico naturalmente in condizione di equilibrio, garantendo il pieno impiego dei suoi fattori produttivi, incluso il lavoro.

Nella prospettiva utilitaristica ciò che si è interessati a stimare è il beneficio che deriva al soggetto dall’utilizzo dei beni; quest’ultimo viene quantificato facendo ricorso alla quantità di benessere che da esso deriva e che, a sua volta, è stimato rinviando al concetto di utilità. Come vedremo nelle pagine successive, proprio il riferimento all’utilità costituisce uno degli elementi di maggiore criticità di queste teorie, e da esso hanno preso le mosse alcuni tra i più importanti contributi teorici di stampo egualitario affermatisi negli ultimi decenni. Il riferimento è alla teoria della giustizia sociale di John Rawls e al Capability Approach di Amartya Sen.

3

A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Isedi, Milano, 1973, cap V, II.

4

A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, cit. cap V, I.

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1.2 DISUGUAGLIANZA E POVERTÁ NELLA PROSPETTIVA UTILITARISTICA

Nell’analisi delle disuguaglianze, l’approccio dominante in ambito economico è rappresentato dalla prospettiva utilitaristica; essa attribuisce un ruolo centrale alle strategie attraverso le quali le risorse vengono allocate in maniera diversa tra gli individui. Più precisamente, ciò che viene considerato come rilevante è l’analisi dei processi attraverso i quali gli individui giungono a compiere le loro scelte. Tale aspetto viene trattato in via assiomatica e identificato con il criterio di razionalità. Gli individui sono esseri razionali che valutano le loro scelte sulla base di un complesso sistema di costi-benefici.

Altra trave portante di questo impianto teorico è costituita dal fatto che l’obiettivo degli economisti neoclassici non è la costruzione di condizioni di equità, bensì il raggiungimento della piena efficienza allocativa delle risorse (intesa come il miglioramento delle condizioni di tutti, oppure il miglioramento delle condizioni di alcuni, senza il peggioramento delle condizioni di altri). L’equità assume un significato di natura derivata con riferimento all’efficacia allocativa che viene valutata utilizzando come unità di misura l’utilità e la comparazione tra condizioni differenti.

Per la comprensione di una tale scelta appaiono determinanti le ragioni di

natura etica che sottostanno alla teoria utilitaristica. Sono eque quelle azioni che

permettono la massimizzazione dell’utilità sociale intesa come somma, o media

aritmetica, delle utilità individuali. Si ricorda a questo proposito l’enunciato, di

benthamiana memoria, in base al quale “una società è giusta quando assicura la

massima felicità al maggior numero di individui”. Da questo discende la possibile

coesistenza della condizione di piena efficienza e quella di iniquità: ciò che interessa

è che il risultato finale delle azioni dia il maggior benessere totale per la società,

indipendentemente dal modo attraverso il quale esso viene raggiunto.

(6)

Anche queste teorie però individuano una sfera all’interno della quale si promuovono regimi di uguaglianza: essa è costituita proprio dall’eguaglianza dell’utilità (a volte definita come felicità, benessere o welfare). La scelta della massimizzazione dell’utilità complessiva ha una natura intrinsecamente soggettiva e, allo stesso tempo, non permette la realizzazione di confronti interpersonali, in modo da paragonare i gradi di utilità di persone diverse e vedere se essi siano uguali o disuguali. 5 La massimizzazione dell’utilità collettiva non coincide necessariamente con l’uguaglianza dell’utilità dei singoli. 6

Attraverso la teoria dell’utilità marginale decrescente dei redditi, coniata da Cournot, si inglobano elementi che rinviano ad una maggiore rilevanza della dimensione egualitaria, anche se essa continua a non essere l’elemento centrale nella valutazione della opportunità o meno delle scelte. Tale operazione viene realizzata legando il principio della massimizzazione dell’utilità collettiva ad una tendenza verso l’eguaglianza delle risorse, in base al principio dell’utilità marginale 7 decrescente. Quest’ultima, infatti, decresce con l’aumentare del consumo delle risorse e permette di ipotizzare che la massimizzazione dell’utilità complessiva conduca inevitabilmente verso l’eguaglianza delle risorse. Un dato incremento del reddito di un individuo povero deve essere preferito ad un uguale incremento del reddito di un individuo ricco, posto che le loro produttività e le loro preferenze relative, tra beni e tempo libero, siano eguali. Tale teoria ha assunto rilevante interesse nel dibattito sulle politiche redistributive, anche per le ripercussioni che essa ha nella definizione delle funzioni attribuite allo stato nella promozione di una maggiore equidistribuzione delle risorse.

Un ulteriore segno di interesse verso la dimensione egualitaria è rintracciabile anche nei lavori di Richard Arneson 8 che propone uno spostamento di attenzione dai livelli di utilità (o benessere) raggiunti, a quelli che le persone hanno l’opportunità di

5

Cfr. I. Carter (a cura di), L’idea di uguaglianza, Feltrinelli, Milano, 2001, p.8.

6

Proprio da questo aspetto prenderà avvio la critica mossa a questa prospettiva da parte di John Rawls secondo il quale l’utilitarismo non prende sul serio le distinzioni esistenti tra le persone.

7

Con il termine utilità marginale ci si riferisce alla quantità di utilità in più che il soggetto riesce ad ottenere attraverso l’utilizzo di una unità aggiuntiva di risorsa.

8

R. J. Arneson, Equality of Opportunità for Welfare Defended and Recanted, in «Journal of Political

Philosophy», n. 7, 1999, pp. 491-493.

(7)

raggiungere. Lo studioso accetta l’idea che i ricchi necessitano di maggiori risorse (a causa di un tasso di conversione delle risorse in benessere più basso) per raggiungere il livello di benessere dei poveri che sono rassegnati alla loro condizione di miseria;

allo stesso tempo egli sostiene che, è altrettanto corretto affermare che se i ricchi avessero le stesse opportunità dei poveri di adattare le loro preferenze e raggiungere lo stesso livello di felicità (ma con meno risorse), la loro maggiore ricchezza non sarebbe giustificata da un punto di vista egualitario. 9

Degna di nota è anche la versione etica del liberalismo proposta da Ronald Myles Dworkin 10 ; in essa si riconoscono agli individui una serie di diritti in nome della dignità umana e dell’uguaglianza politica. Le persone sono autorizzate a farli valere nei confronti dello stato permettendo a quest’ultimo di svolgere a pieno la sua funzione di promozione del bene comune.

Lo stato deve considerare gli individui con il medesimo equal concern and respect, 11 nel senso che deve attribuire ad ogni individuo uguale considerazione. Da questo discende un diverso modo di intendere la disuguaglianza, che si esplica nel campo delle risorse e delle opportunità, che non prende in analisi il semplice benessere dell’individuo. L’idea che si possa arrivare ad avere un modello di benessere uguale per tutti costituisce una chimera irraggiungibile e, per taluni aspetti, non opportuna. Lo stato può invece cimentarsi con successo nella garanzia di uguali risorse e opportunità, a condizione che permanga il rispetto dei diritti legittimi degli altri individui.

Per fare questo il governo dovrebbe impegnarsi in due direzioni:

- adottare leggi e politiche in grado di evitare che il destino degli individui sia vincolato da aspetti di natura economica, biologica e così via;

- fare in modo che il destino delle persone sia legato alle scelte che essi hanno compiuto.

Proprio con riferimento a quest’ultimo aspetto viene proposta la distinzione tra “sorte bruta” e “sorte opzionale”. La prima indica i guadagni e le perdite

9

Cfr. I. Carter (a cura di), L’idea di uguaglianza, cit., p. 11.

10

Cfr. R. Dworkin, Taking Rights Seriously, Duckworth, London, 1977.

11

Cfr. R. Dworkin, What is equality?, in «Philosophy and Public Affairs», n. 10, 1981.

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subite dal soggetto a causa di eventi non controllabili; la seconda si riferisce ai guadagni e alle perdite legati ai rischi liberamente scelti dal soggetto. La promozione dell’uguaglianza deve passare attraverso l’impedimento degli svantaggi derivanti dalla sorte bruta, ma, allo stesso tempo, non deve, in alcun modo, occuparsi delle conseguenze legate alla sorte opzionale.

1.3 LA POVERTÁ: UN CONCETTO DI NATURA

PREVALENTEMENTE ECONOMICA?

1.3.1 ALLE ORIGINI DEL CONCETTO

I primi interessi nei confronti della povertà iniziano quando nasce la necessità di misurare l’incidenza del fenomeno, con riferimento a ragioni di ordine pubblico;

siamo nella delicata fase di transizione verso la modernità, a cui succederà la rivoluzione industriale. In questo periodo storico le ragioni dello studio del fenomeno erano determinate, in prevalenza, da mere esigenze di monitoraggio e contenimento del fenomeno, per i suoi potenziali effetti disgregativi del tessuto sociale, mentre mancava un reale interessamento verso la comprensione dei processi che lo avevano generato, da un punto di vista sia economico, sia sociale. Dimensioni queste ultime che hanno poi subito un progressivo e reciproco allontanamento, al punto da dare vita a due differenti filoni di studio, che solo in rari casi si sono dimostrati in grado di dialogare, almeno fino ai tempi più recenti. Se l’economia si è dimostrata particolarmente sensibile alla dimensione monetaria del fenomeno povertà evidenziandone le radici e le manifestazioni, la sociologia ha cercato da sempre di sottolinearne la multidimensionalità, cercando di studiare le relazioni esistenti al suo interno. Particolare attenzione è stata attribuita al tema della stratificazione sociale e alla stigmatizzazione del povero.

L’interesse nei confronti della disuguaglianza e della povertà è rintracciabile

nella sociologia già a partire dai suoi autori classici, sia all’interno della prospettiva

olistica, tipica dello strutturalismo di Marx, del funzionalismo, e della tradizione

individualista come nel caso delle opere di Simmel.

(9)

Troviamo riferimenti al concetto di povertà già nell’ambito degli studi empirici pionieristici di Emile Durkheim. Nell’opera Il suicidio, si possono trovare alcuni interessanti spunti di analisi sulla natura societaria del fenomeno della povertà.

Il suicidio, visto come effetto di specifiche conformazioni del contesto sociale, viene infatti definito come una forma di povertà assoluta, perché in esso viene a mancare la risorsa fondamentale, cioè la vita. 12 L’esito estremo del suicidio è quello di una forma di deprivazione che si colloca non tanto nella sfera materiale, ma in quella della morale, nella rottura cioè dei legami tra gli individui e, più precisamente, tra l’individuo ed il suo gruppo di appartenenza. La condizione di povertà è quindi frutto della mancata integrazione all’interno dei gruppi e della frammentazione della relazionalità sociale.

Sulla scia di Durkheim troviamo anche alcuni contributi di Robert K.

Merton. L’autore si interroga soprattutto sulle ragioni che conducono un soggetto a trovarsi in condizioni di povertà, individua tali ragioni nel ripetuto mancato raggiungimento degli obiettivi programmati, a causa della ostilità del contesto sociale di appartenenza, e a causa dell’incapacità di esprimere le proprie potenzialità; si trova in questo la ragione del nascere e del fossilizzarsi di un atteggiamento di rinuncia e disinteresse nei confronti delle mete istituzionali e dei mezzi stabiliti dalla società per il loro raggiungimento 13 .

Muovendosi nella prospettiva struttural-funzionalista troviamo i lavori di T.

Parsons, che colloca la povertà all’interno degli aspetti di devianza, e la descrive come una forma di cultura: è povero colui che si adatta alla condizione strutturale di deprivazione. Tale tendenza può essere mitigata attraverso un miglioramento del funzionamento dei processi di socializzazione e del controllo sociale 14 .

Sulla scia di questi autori classici, successivamente, nasce il filone di studi che, a partire dagli anni settanta, ha sviluppato il concetto di “cultura della povertà” e che ha evidenziato come i meccanismi di impoverimento si riproducano e si trasmettano attraverso la socializzazione. Citando Lewis, “Il sistema di vita che viene

12

Cfr. cit. in G. Sarpellon, Rapporto sulla povertà in Italia, Franco Angeli, Milano, 1983, p.32.

13

Cfr. R.T. Merton, (1949), Teoria e struttura sociale, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1959, p. 334.

14

Cfr. T. Parsons (1951), Il sistema sociale, trad. it. Comunità, Milano, 1965.

(10)

a determinarsi, tra alcuni dei poveri, in queste condizioni è la cultura della povertà.” 15

Un’altra corrente di studi rilevante è quella riconducibile all’interazionismo simbolico e all’etnometodologia. I contributi che si collocano in questa prospettiva criticano le potenzialità esplicative derivanti dall’osservazione delle dimensioni strutturali della società, come le istituzioni, gli status e i ruoli attribuendo importanza alla dimensione della fluidità del fenomeno. Per quanto riguarda il tema della povertà, il riferimento per eccellenza è costituito dai lavori di Simmel, che definiscono la povertà ed il povero all’interno di una prospettiva di tipo relazionale.

Una attenzione a parte meritano infine i contributi che nascono all’interno delle teorie egualitariste, di estrazione prevalentemente, ma non esclusivamente, filosofica; in queste teorie i rimandi alla lettura della povertà e della disuguaglianza costituiscono aspetti di primaria importanza nella proposta di uguaglianza auspicata.

Nelle pagine seguenti vengono presentati approfondimenti su tre autori appartenenti ai differenti approcci sopra citati e considerati particolarmente significativi nella lettura del rapporto tra disuguaglianza e povertà in chiave non monetaria, così come verrà declinata nel resto del lavoro. Ci si riferirà al pensiero di Marx per quanto riguarda la prospettiva economica, ai lavori di Simmel con riferimento all’approccio interazionistico di natura sociologica e al contributo offerto da Rawls nell’ambito della filosofia morale e politica.

1.3.2 LA POVERTÀ COME FORMA DI ESCLUSIONE SOCIALE IN MARX

L’impostazione teorica di Marx al tema della disuguaglianza e della povertà prende avvio da una lettura critica della scuola economica classica; più precisamente, partendo dal riconoscimento della ripartizione in classi della società, effettua una dicotomizzazione, distinguendo tra possessori dei mezzi di produzione (capitalisti) e detentori della forza lavoro (lavoratori).

15

O. Lewis, La cultura della povertà e altri saggi di antropologia, Il Mulino, Bologna, 1973, p. 87.

(11)

Tale ripartizione è frutto dell’originaria espropriazione delle terre e dei beni dei contadini compiuta dalla emergente classe borghese. Questi ultimi, come viene ampiamente descritto nell’opera Il capitale, si trasformano in una massa indistinta di mendicanti e vagabondi che hanno davanti a sé l’unica opportunità di offrire la propria forza lavoro in cambio di un salario minimo per garantirsi la sussistenza 16 .

La disuguaglianza viene descritta come una caratteristica intrinseca alla natura della società capitalistica ed esito dello sfruttamento di una classe da parte dell’altra. Se il valore di un bene è pari alla quantità di lavoro in esso contenuto (prodotta dal lavorare), allo stesso tempo è anche vero che il capitalista trattiene per sé parte di tale ammontare (plusvalore), e riconosce al lavoratore una retribuzione utile solo al suo sostentamento.

“Quando il capitale si è sviluppato in forma sufficiente il lavoro viene trattato come una merce e sfruttato al punto di produrre, tramite il gioco della domanda e dell’offerta di manodopera, altra povertà. La pauperizzabilità degli uni si correlerà al pauperismo degli altri.” 17

Oltre alla povertà del proletariato attivo (di coloro che lavorano nelle fabbriche), Marx individua una differente tipologia di povero costituita da quella parte di popolazione che non risulta occupata (sovrappopolazione operaia).

Tale quadro viene ulteriormente aggravato dalle conseguenze legate agli effetti delle crisi di sovrapproduzione che si verificano periodicamente nel sistema economico e che determinano crolli dell’occupazione (legati anche alla progressiva introduzione dei macchinari e al conseguente incremento del capitale fisso degli investimenti dei capitalisti); tutto ciò porta anche alla formazione di quello che Marx definisce “esercito industriale di riserva” funzionale al contenimento delle rivendicazioni da parte dei lavoratori, che risultano così imbavagliati dalla implacabile legge della domanda e dell’offerta.

Quando aumenta la produttività del lavoro necessario, aumenta pure il lavoro eccedente relativo, nelle due forme di produzione eccedente (o plusvalore) e di

16

Cfr. K. Marx, (1865), Il Capitale. Critica dell’economia politica, I, trad. it., Editori Riuniti, Roma, 1974.

17

A. Carbonaro, Povertà e classi sociali, Franco Angeli, Milano, 1979, p. 13.

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popolazione eccedente (lavoro liberato e impoverimento) 18 . Per questa ragione Marx arriva ad affermare che il capitale produce contemporaneamente ricchezza e povertà.

La massa di disoccupati che va ad incrementare le file dei poveri non è altro che una delle tante manifestazioni di funzionalità della società capitalistica che necessita di strumenti per assicurarsi la conservazione dei salari al livello di sussistenza e il progressivo ampliamento dei capitali da parte dei capitalisti.

La povertà si presenta quindi sotto duplice forma: da un lato nelle vesti del lavoratore salariato (potenzialmente povero), dall’altro nella sovrappopolazione relativa, che è realmente povera, sia perché non ha mezzi di sostentamento, sia perché posta nell’impossibilità di appropriarsi di tali mezzi di sussistenza mediante il lavoro. 19

E’ proprio all’interno degli strati più bassi della sovrappopolazione relativa che Marx colloca il fenomeno del pauperismo. L’ingrossarsi delle file in questo strato della popolazione viene visto da Marx come la prova tangibile della propensione, da parte del sistema capitalistico, alla produzione di margini sempre più ampi di povertà. 20 Tale condizione, caratterizzandosi per una situazione di vagabondaggio e mendicità, viene descritta come scarsamente funzionale alla realizzazione del progetto dell’abolizione della società di classe, proprio perché oramai priva di qualsiasi forma di motivazione al cambiamento 21 .

Marx affronta il tema della povertà anche all’interno dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 22 , nell’ambito della definizione dei processi di alienazione. Attraverso la perdita del controllo sul proprio lavoro (in quanto ingranaggio sostituibile di un processo di produzione impersonale), il proletario perde la capacità di gestire autonomamente la propria vita. L’idea di povertà utilizzata da Marx in questa sede rinvia solo in parte alla povertà materiale e concentra l’attenzione sulla possibilità/impossibilità di promuovere l’autonomia

18

Ivi, p. 14.

19

Ibidem.

20

K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica , cit., p. 793.

21

K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, cit., p. 805.

22

Cfr. K. Marx (1844), Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it., in Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma, 1974.

(13)

personale. Marx afferma che ciò che determina la condizione di povertà non è tanto il consumo di merci, ma la progressiva perdita di capacità di auto-determinazione e auto-realizzazione. Un tenore di vita elevato, quindi, non è frutto di elevati livelli di consumo di beni, ma, al contrario, è definibile come la possibilità di dare adeguato sviluppo alle proprie emozioni, la possibilità di essere vicini alle altre persone, avere una buona istruzione e così via. In questo senso, la povertà non viene considerata alla luce di quello che l’individuo può fare con le risorse che ha a disposizione; ciò che egli considera come elemento valutativo è cosa quel soggetto potrebbe fare qualora lo volesse, con particolare attenzione alla capacità di sentirsi vivi, informati e per questo capaci di controllare il corso del proprio destino. Quest’ultimo aspetto si ricollega con il concetto di autodeterminazione dei lavoratori in base al quale si afferma la necessità che il proletariato cessi di essere oggetto passivo della storia e diventi creatore attivo del proprio destino.

1.3.3 IL RUOLO DEL POVERO NEL PENSIERO DI SIMMEL

Simmel si è occupato della povertà nella sua trattazione dei “tipi sociali”, con i quali definisce alcuni profili di figure presenti nella società alla luce delle relazioni e delle aspettative specifiche degli altri individui, inserendola in una prospettiva relazionale e relativistica.

Si deve al sociologo l’introduzione del concetto di relazione reciproca e di

“sociologia del due”, intesa non tanto come dualismo, ma come capacità di reciprocità e di differenziazione. Per Simmel, infatti, nulla è singolare, mentre tutto è complessità, frutto di rapporti di reciprocità che si sviluppano nell’associazione e nella relazione di socialità. La sociologia di Simmel intende la realtà come una “rete di relazioni di influenza reciproca tra una pluralità di elementi”, 23 nella quale l’interazione rappresenta il fulcro della formazione dell’individuo in quanto essere sociale. Nei suoi studi, il concetto di relazione costituisce l’elemento saliente nell’esistenza, sia dell’individuo, sia della società.

23

G. Simmel, (1908), Sociologia, trad. it., Comunità, Torino, 1989, p. 32.

(14)

Lo studioso oltre a compiere una lettura della realtà basata sulla reciprocità (come rete di relazioni di influenza reciproca tra più elementi), vede ogni fenomeno in connessione con altri all’interno di un sistema complesso di causazioni, azioni e retroazioni, introducendo anche la distinzione tra socievolezza e sociazione.

Proprio tali concetti si dimostrano particolarmente utili per la lettura di alcuni elementi esplicativi della prospettiva delle capacità, che verranno approfonditi nelle pagine successive. La socievolezza viene identificata come la dimensione giocosa del vivere sociale, un esempio può essere rappresentato da una conversazione tra amici.

La sociazione, invece, rappresenta una specifica dimensione del vivere sociale e viene utilizzata per indicare il processo mediante il quale le forme di azione reciproca si consolidano nel tempo; essa è il risultato di una sedimentazione delle azioni reciproche che si instaurano tra di individui. 24

L’opera di Simmel affronta direttamente anche il tema della povertà. Nel saggio “Il povero”, la povertà si configura come una particolare forma di disarmonia sociale che limita le capacità del singolo soggetto nello svolgere le sue funzioni in relazione all’insieme sociale al quale appartiene 25 . Da questa impostazione si comprende che il povero, pur non essendo inserito organicamente all’interno del gruppo, è sempre considerato un appartenente ad esso. Più precisamente, il povero si trova posto di fronte al gruppo, ovvero in relazione con esso, facendone una specifica unità del tutto.

Attraverso il lavoro di tipizzazione, l’autore conia una vera e propria definizione sociologica del fenomeno della povertà attraverso l’individuazione di due dimensioni fondamentali: da una parte viene analizzato ciò che una società fa in favore dei poveri, dall’altra si osservano le caratteristiche del gruppo dei poveri, con particolare attenzione alle dinamiche passive e negative.

Con riferimento al primo aspetto, la figura del povero si definisce solo nel momento in cui la società “riconosce” la povertà, attribuendo al povero uno status particolare. Da questo deriva che saranno inserite in questa categoria solo tipologie di persone che hanno specifiche caratteristiche, come quella del chiedere aiuto

24

Cfr. P. Jedlowski (a cura di), La metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma, 2001, pp.13-14.

25

G. Simmel, Sociologia, cit , pp. 396-398.

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economico. Lo studio e la rilevazione degli attributi della povertà hanno luogo, di norma, su un gruppo particolare di persone appositamente definite come tali, ma non necessariamente coincidenti con il fatto di trovarsi in una reale condizione di povertà.

Povertà individuale e sociale possono quindi non coincidere. Simmel ricorda che “il fatto che qualcuno sia povero non significa che appartiene alla specifica categoria del “povero”; […] è soltanto nel momento in cui viene assistito […] che comincia a far parte di un gruppo caratterizzato dalla povertà. […]. La povertà non può essere definita per sé stessa come una situazione oggettiva di tipo quantitativo, giacché essa è soltanto la risposta sociale a una situazione particolare.” 26

Allo stesso modo il fenomeno della povertà non è comprensibile in maniera adeguata attraverso il semplice riferimento alla dimensione materiale della sua esistenza, alla quantità di risorse di cui dispone e al benessere che da esse ne discende. “Il povero, come categoria sociologica, non nasce da una determinata misura di mancanza e di deprivazione, ma dal fatto che egli riceve un’assistenza, o dovrebbe riceverla, in base a norme sociali.” 27

La definizione individualistica di povertà, come indisponibilità di mezzi sufficienti per raggiungere i propri scopi, viene, di volta in volta, modificata e ciò a causa della modificazione dell’insieme dei bisogni considerati come rilevanti, facendo in modo che non sia possibile individuare una misura precisa.

Interrogarsi sulla povertà, quindi, trascende la definizione quantitativa del numero dei poveri o la constatazione della condizione di deprivazione di alcuni individui; essa deve essere osservata con riferimento alla relazione sociale che intercorre tra quest’ultimi e il resto del contesto sociale.

“La funzione di membro che il povero svolge nella società esistente, non è data con il fatto che esso è povero; soltanto in quanto la società, la collettività o i singoli individui, reagisce con soccorsi a questo stato, egli assume il suo specifico ruolo sociale.” 28

26

R. Jarrel, Pictures from an Istitution, A. A. Knopf, New York, 1954, p.110, in A. de Simpne, Il migrante, lo straniero e il povero in Georg Simmel, in «Oltre Povertà», n. 8, 2005.

27

Simmel, Sociologia, cit., p. 432.

28

Ivi, p. 424.

(16)

1.3.4 LA TEORIA DELLA GIUSTIZIA SOCIALE DI RAWLS

John Rawls, collocandosi nell’etica contrattualistica moderna, propone una ridefinizione dei concetti di disuguaglianza ed equità e prende le distanze da quella presentata nell’ambito della dottrina dell’utilitarismo basata sull’idea del benessere maggiore per il maggior numero. Se nella teoria utilitaristica si pone l’attenzione sulla massimizzazione del bene, nella prospettiva di Rawls la scelta degli aspetti degni di essere perseguiti deve essere effettuata non ricorrendo ad un singolo principio definito a priori, ma attraverso il preliminare accordo della comunità circa i principi di giustizia che devono regolare la società. 29

L’impostazione teorica di Rawls ripropone, come elemento centrale della riflessione, il ruolo e i bisogni delle minoranze della società, spesso troppo poco considerate all’interno dell’utilitarismo 30 . Anche la domanda di uguaglianza proposta da Rawls si colloca nella sfera del possesso delle risorse (e per questo, vedremo, sarà oggetto di critica da parte di Sen, che, pur rifacendosi in parte al pensiero dello studioso, ne prenderà le distanze con riferimento ad alcuni aspetti sostanziali). Rawls ipotizza la necessità di una distribuzione egualitaria di alcuni beni, che egli definisce beni sociali primari. Il presupposto etico alla base di tale scelta è però più articolato rispetto alla mera ripartizione delle risorse in parti uguali. Esso consiste nell’affermare che la distribuzione deve essere egualitaria solo nella misura in cui questa apporti benefici ai più svantaggiati. 31 Allo stesso modo, una giustizia redistributiva equa deve abbattere le disuguaglianze immeritate; da questo deriva che la disuguaglianza è accettata solo nella misura in cui permette, ai membri più svantaggiati della società, di accrescere nel lungo periodo le proprie opportunità.

La teoria della Giustizia di Rawls si basa sullo strumento del contratto sociale tipico del giusnaturalismo, attraverso il quale si giunge alla definizione dei principi di giustizia.

Nella posizione originaria, pre-sociale, ogni individuo, nel caso in cui fosse invitato a stabilire i requisiti di giustizia da attuare in un futuro sistema sociale, del

29

Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1982, pp. 26-28.

30

Ivi, p. 31.

31

Ivi, p. 37.

(17)

quale egli sarebbe destinato a far parte, sarebbe propenso ad optare per un contesto caratterizzato da elevati margini di uguaglianza. Tale ragione risiede nel semplice fatto che egli, non conoscendo quale sarà la sua specifica dotazione di risorse, sarà guidato nella scelta dal timore di trovarsi in una condizione di svantaggio.

Particolarmente significativo è il ruolo che Rawls attribuisce al concetto di libertà, che si discosta radicalmente dalla visione utilitaristica, in base alla quale si teorizza “a ciascuno il massimo sistema delle libertà compatibile con il massimo sistema delle libertà di ciascun altro”, visione ampiamente argomentata da John Stuart Mill.

La libertà non si trova in conflitto con l’uguaglianza ma, al contrario, l’equità distributiva svolge una funzione fondamentale nel rendere eguale il diseguale valore delle uguali libertà. 32 In altre parole, due persone che dispongono delle medesime libertà possono trovarsi in condizioni molto disuguali e il principio di uguaglianza permette di riequilibrare tale situazione; in questo senso si ha una critica anche nei confronti dell’eguaglianza delle opportunità, tipica dell’approccio liberale.

Particolarmente significativo è anche il rifiuto del principio di efficienza allocativa, sostituito da quello di differenza, in base al quale, nella allocazione delle risorse, occorre dare la precedenza a coloro che si trovano in condizioni di svantaggio.

Alla luce di tutti questi aspetti risulta coerente il fatto che, per quanto riguarda le funzioni da attribuire allo stato, si abbia una forte sottolineatura della centralità delle istituzioni pubbliche nella promozione dei principi di libertà e differenza. Le istituzioni assumono quindi il delicato compito di governare le ineguaglianze economiche e sociali.

In questo senso il contributo di Rawls si differenzia fortemente da quello offerto da Nozick 33 , che, con la sua Teoria del titolo valido, afferma che una distribuzione può essere definita come giusta nella misura in cui essa è il frutto di un libero accordo, definito in via preliminare tra i soggetti interessati e basato su principi di equità. Pur partendo dall’ipotesi di una iniziale equità nella distribuzione

32

Ivi, pp. 248-254.

33

Cfr. R. Nozick , (1974), Anarchia, stato e utopia, trad. it., Le Monnier, Firenze, 1982.

(18)

delle risorse, collocandoci in questa prospettiva, si compie una vera e propria giustificazione delle disuguaglianze. Più precisamente, non ci si cura delle iniquità che si vanno a costituire tra gli individui nella fase di contrattazione e che sono frutto delle capacità e delle preferenze sociali degli stessi. Inoltre in tale condizione, lo stato assume nuovamente, in termini redistributivi, un ruolo passivo limitandosi a vigilare sul rispetto dei diritti e delle proprietà individuali.

1.4 L’INTRECCIO TRA DISUGUAGLIANZA E POVERTÀ NELLA RIFLESSIONE DI SEN

Una prospettiva particolarmente interessante, rispetto al concetto di uguaglianza sviluppatasi negli ultimi anni, è rappresentata dall’approccio delle Capabilities, inaugurato da Armartya Sen e che si colloca a cavallo tra la filosofia, l’economia e la sociologia. I lavori di Sen prendono avvio da una attenta analisi del concetto di uguaglianza, attraverso lo studio critico dei differenti approcci teorici presenti in letteratura. Mediante tale operazione egli arriva ad affermare che questo concetto non è monopolio di alcune prospettive, e non è osteggiato da altre ma, al contrario, qualsiasi teoria sociale normativa richiede l’uguaglianza di qualche cosa;

perfino le teorie inegualitarie, come quella di Nozick e di Buchanan, finiscono per includere degli elementi di egualitarismo rispetto ad alcune dimensioni; da questo discende la necessità di superare la tradizionale domanda che è alla base degli studi sulla disuguaglianza, volta a capire se sia auspicabile, o meno, promuovere l’uguaglianza (perché l’eguaglianza?) e chiedersi, invece, che cosa sia opportuno rendere egualitario (uguaglianza di che cosa?) 34 .

Secondo l’autore il primo quesito non è privo di interesse, ma, allo stesso tempo, egli sottolinea come “non si può pensare di difendere o criticare l’uguaglianza

34

Cfr. A. Sen, Equality of What?, in S. McMurrin, (a cura di), Tanner Lectures on Human Valus,

Cambridge University Press, Cambridge, 1980, p. 6.

(19)

senza sapere quale sia l’oggetto del contendere, cioè quali siano le caratteristiche da eguagliare (ad esempio redditi, ricchezze, opportunità, risultati, libertà e diritti)” 35 .

Il problema reale intorno a questo tema non è la necessità, o meno, di prevedere forme di uguaglianza all’interno del contesto societario ma la scelta delle variabili da considerare come focali (lo spazio valutativo) e in relazione alle quali costruire dei principi di uguaglianza. “Interrogarsi sull’uguaglianza significa dunque innanzitutto interrogarsi su quali siano gli aspetti della vita umana che debbono essere eguali”. 36

Tale operazione si prospetta come particolarmente complessa perché la ricerca dell’eguaglianza in una dimensione determina l’accettazione della disuguaglianza all’interno di altri spazi. Gli uomini, inoltre, si caratterizzano per una intrinseca eterogeneità, che deve necessariamente essere inglobata all’interno della riflessione sulla definizione del concetto stesso.

Se ci si vuole interrogare sull’opportunità dell’uguaglianza, occorre liberarsi dell’assunto costruito a livello astratto e in base al quale si afferma che tutti gli uomini nascono uguali. Per Sen, gli uomini nella costruzione di un giudizio sulla disuguaglianza, sono molto diversi tra di loro, per almeno due ragioni di fondamentale importanza:

- gli esseri umani sono differenti per caratteristiche personali (sesso, età, abilità fisiche e mentali e così via); da questo deriva la diversità delle relazioni esistenti tra le risorse disponibili e le capacità di perseguire i fini preposti e il fatto che, quindi, non tutti riescano a trarre lo stesso beneficio dal medesimo bene posseduto;

- gli esseri umani sono dotati di caratteristiche esterne differenti:

possono fare affidamento su dotazioni diverse di ricchezza e vivono in contesti ambientali e sociali profondamente differenti, che offrono opportunità diverse.

Se gli individui fossero tutti uguali tra di loro, la condizione di eguaglianza in una sfera (ad esempio in quella del reddito) tenderebbe a portare eguaglianza degli

35

A. Sen, La disuguaglianza. Un riesame critico, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 29.

36

Ivi, p. 38.

(20)

effetti in altre sfere (ad esempio la salute e lo star bene). 37 In realtà l’eguaglianza in riferimento ad una variabile può non coincidere con l’eguaglianza sulla scala di un’altra. Il fatto di avere caratteristiche personali diverse e provenire da società che offrono opportunità diverse, così come il disporre di risorse materiali in quantità differente, sono aspetti che non possono essere trascurati nel giudicare la disuguaglianza.

Attraverso l’attribuzione al concetto di uguaglianza di un tale livello di estensione, Sen costruisce la sua critica alla teoria della giustizia distributiva che deriva dall’economia neoclassica ed è basata sul benesserismo utilitarista.

La massimizzazione dell’utilità collettiva ipotizzata in questa prospettiva, infatti, limita la sua attenzione ai livelli dei guadagni e delle perdite complessive di utilità, senza curarsi della composizione interna di tali livelli. In questo senso tale principio, in taluni casi, potrebbe configurarsi come profondamente antidemocratico, in quanto promotore di una redistribuzione dei beni, a favore di coloro che ne percepiscono una maggiore utilità, che non necessariamente sono coloro che ne avvertono il bisogno con maggiore urgenza.

Questo è vero per due ragioni fondamentali:

- perché la massimizzazione dell’utilità della collettività non coincide con la massimizzazione di quella dei singoli. Ad esempio, davanti a due differenti situazioni che coinvolgono i soggetti A e B, nel primo caso, A possiede un’utilità pari a 10 e B ne possiede una quantità pari a 1, mentre nella seconda ipotesi, i soggetti A e B possiedono entrambi un’utilità pari a 5.

Secondo il principio utilitarista della massima felicità per il maggior numero, dovremmo considerare come preferibile la prima situazione, in cui l’utilità complessiva è pari a 11, rispetto al secondo caso in cui è pari a 10.

- per il fenomeno delle preferenze adattive, in base al quale un soggetto che si trova in condizioni svantaggiose (es. povertà) adatta le sue preferenze alla situazione di svantaggio, cercando così di non desiderare ciò che gli è impossibile ottenere. In questa condizione, nel caso in cui si decida di adottare la concezione utilitaristica, attraverso la promozione

37

Cfr. Ivi, pp. 38-43.

(21)

dell’eguaglianza delle utilità, potremmo essere portati a sostenere che non si è in presenza di una condizione di inegualitarismo, nella misura in cui i più poveri riescono ad adattare le loro preferenze alla condizione di povertà che li affligge.

Questi aspetti sottolineano nuovamente come l’uguaglianza delle utilità non coincida necessariamente con l’eguaglianza distributiva.

In altri termini, le impostazioni teoriche e metodologiche tradizionalmente impiegate, provenienti dalla teoria utilitarista, tendono a trascurare la multidimensionalità del panorama relativo alla disuguaglianza, considerando la ricchezza, espressa attraverso il livello dei redditi, una variabile proxy sufficientemente adeguata a stimare correttamente il fenomeno.

Anche la riflessione di Sen sulla povertà si trova collocata all’interno di un disegno teorico di più vasta portata, che si sostanzia in una critica sistematica alla tradizionale concezione di benessere di stampo utilitarista. Più precisamente, l’autore avverte la necessità di andare oltre l’analisi delle preferenze individuali (che si concretizzano nell’appagamento dei desideri e bisogni), per aprire l’indagine ad altre dimensioni della persona, ritenute particolarmente significative nella definizione del benessere.

Per valutare il livello di well-being di un individuo occorre quindi muoversi non solo nello spazio del perseguimento razionale degli interessi personali, ma si rende necessario, da un lato, dedicare maggiore attenzione ai reali livelli di circolazione delle informazioni sulla base delle quali gli individui effettuano le loro scelte e, dall’altro, andare ad osservare quali sono le realizzazioni oggettive (definite funzionamenti) che rappresentano quello che le persone, concretamente, riescono a fare e a essere. Tale operazione è possibile attraverso il ricorso all’idea di funzionamenti e di capacità.

Si comprende quindi come questa prospettiva si allontani da tutte quelle posizioni benesseriste che si collocano nell’ambito dell’utilitarismo e che valutano il benessere, determinato da una azione, in base all’utilità che ad essa è associata.

Sen, nella costruzione della sua prospettiva teorica, dedica una particolare

attenzione critica al ruolo e alle implicazioni associate al concetto di utilità. Per

(22)

prima cosa occorre ricordare che l’atteggiamento nei confronti di questo metro di valutazione non è di totale rifiuto, semplicemente si sottolinea la necessità di andare oltre la sua valutazione esclusiva: “la difficoltà non deriva dal fatto che l’utilità di una persona sia indipendente dai sui affetti, legami, piani attività ecc.. La questione non è semplicemente se queste cose sono rilevanti, ma anche quanto rilevanti e perché. L’utilitarismo le considera del tutto prive di valore intrinseco, e valutabili solo nella misura in cui hanno effetti sull’utilità.” 38

Anche ipotizzando che una risorsa abbia valore, in quanto desiderata dal soggetto, rimane da definire se:

- l’utilità costituisca l’unità di stima più appropriata. Ci sono rilevanti differenze tra il considerare l’utilità come condizione necessaria, perché qualche cosa sia valutabile, e considerare la rilevanza di qualche cosa con desiderio di essa. L’utilitarismo, riconoscendo un ruolo maggiore al primo aspetto, finisce per attribuire maggiore importanza alle attività che riguardano in prima persona l’individuo (preferenze personali), mentre trascura quelle che riguardano gli altri (preferenze esterne).

- ci possono essere beni che hanno valore, anche se non sono desiderati da nessuno, per ragioni legate a facoltà mentali, esperienze personali e condizionamenti sociali. A questo proposito Sen ricorda il caso di una persona che, vivendo in un regime autoritario, non ha più la forza di desiderare la libertà. Ciò non toglie che la libertà costituisca un valore di per sé. 39

Uno dei limiti avvertiti come più rilevanti, quindi, riguarda proprio il fatto che l’utilità è in grado di effettuare le sue valutazioni a partire da un punto di vista soggettivo e, per di più, essa rimane fortemente sbilanciata sull’attribuzione di importanza alla osservazione del perseguimento degli interessi egoistici, mentre risultano considerati in misura inferiore quelli altruistici.

Da questo non discende un rifiuto del principio di utilità ma, al contrario, una sua diversa interpretazione alla luce di uno scenario più ampio e articolato.

38

A. Sen, B. Williams, Utilitarismo e oltre, Il Saggiatore, Milano, 2002, p. 11.

39

Ibidem.

(23)

Il benessere, pur essendo legato alla utilità individuale, è frutto di una pluralità di aspetti (funzionamenti), tra i quali l’utilità ne rappresenta solamente uno.

In altri termini, il benessere di un individuo è il frutto di un insieme di funzionamenti e l’utilità individuale va a costituire uno di essi.

Questa differente prospettiva necessita una ridefinizione del significato e del ruolo attribuito al possesso dei beni, nella definizione dei livelli di benessere. In generale possono essere individuati quattro aspetti fondamentali dei beni:

- il bene come oggetto d’uso (es. la bicicletta);

- le caratteristiche del bene (mobilità);

- il funzionamento relativo al bene (possibilità di spostarsi rapidamente da un luogo ad un altro);

- l’utilità derivante dal bene (reazione psicologica derivante dal funzionamento).

Nell’approccio utilitarista tutta l’attenzione viene concentrata sull’ultimo aspetto (l’utilità). Altre prospettive teoriche, come quella dei diritti personali proposta da Nozick, esulano da tutte le dimensioni menzionate, concentrandosi sulle procedure che conducono al possesso di beni; Rawls, nel suo approccio dei beni primari, si concentra soprattutto sui beni intesi come oggetti d’uso. Allo stesso tempo, uno degli aspetti che accomuna tutte queste prospettive è l’aver definito il benessere come un qualche cosa legato al vantaggio personale derivante dal possesso individuale di beni. Proprio in questo elemento risiede uno degli aspetti di maggiore critica da parte di Sen.

Secondo la prospettiva delle capabilities, per definire la condizione di

benessere occorre fare un passo indietro rispetto agli impianti teorici sopra

evidenziati e andare ad osservare i meccanismi attraverso i quali l’individuo riesce ad

usufruire di beni posseduti. Da qui la necessità di prendere in esame, oltre alla

presenza dei beni in quanto tali e all’utilità, anche le dimensioni intermedie legate

alle caratteristiche dei beni e ai funzionamenti che da essi derivano, nella

convinzione che proprio a questo livello di analisi si incardinino i fattori generativi

della condizione di disuguaglianza e povertà.

(24)

Scorrendo la definizione del rapporto esistente tra individuo e merci, si sente riecheggiare l’impostazione marxiana, al punto da mettere in guardia dal rischio di cadere nel “feticismo delle merci”, vale a dire in una condizione nella quale si attribuisce valore alle merci prese di per sé, trascurando la relazione che intercorre tra esse e l’individuo. In questo senso, quindi, può essere definito feticista ogni tentativo teorico di valutare il vantaggio di una persona in termini di beni posseduti, senza fare riferimento alle abilità del soggetto di utilizzare le proprietà associate a quel bene (funzionamenti). La soluzione proposta per eludere tale rischio si sostanzia nella necessità di realizzare un rovesciamento della prospettiva logica dell’analisi: il vantaggio personale non è stimabile dal possesso dei beni, ma dal possesso delle abilità personali di utilizzazione del bene stesso. Il benessere, in questa prospettiva diventa, quindi, il risultato delle capacità possedute dal soggetto di raggiungere conseguimenti attraverso l’utilizzo delle caratteristiche dei beni posseduti.

All’interno della prospettiva delle capabilities, la disuguaglianza acquista una importanza centrale nella definizione dei livelli di benessere degli individui e del concetto di povertà. La ricerca dell’eguaglianza, all’interno dello spazio delle capacità costituisce un elemento imprescindibile e in tal senso si differenzia dagli approcci tradizionali basati sull’utilità, per il fatto di tralasciare il valore attribuito alla felicità (che diventa solo uno dei possibili funzionamenti), o alla sola realizzazione dei desideri, che costituisce una prova utile ma incompleta del fatto di disporre dello stile di vita al quale la persona attribuisce valore. Esso si distingue anche da altri approcci non utilitaristici, come quello dei beni primari di Rawls, nel quale i beni assumono un ruolo eccessivamente strumentale nella fondamentale operazione di promozione delle capacità.

L’uguaglianza viene valutata definendo il vantaggio individuale come

capacità, ovvero all’interno di un differente spazio della vita del soggetto: le

opportunità ed i successi individuali. In termini pragmatici, questa distinzione si

sostanzia nello spostamento dell’analisi dallo spazio del reddito a quello delle

capacità, all’interno del quale la povertà diventa una dimensione assoluta, non

definibile a partire dal confronto con individui che detengono un ammontare

maggiore di risorse.

(25)

1.5 LEGGERE LA POVERTÀ ALLA LUCE DEL CONCETTO DI DISUGUAGLIANZA

Il tema formazione e riproduzione delle disuguaglianze e della povertà è stato affrontato da molte discipline, nell’ambito delle scienze sociali, facendo riferimento soprattutto alla dimensione economica: divisione del lavoro, appropriazione dei mezzi di produzione, utilità derivante dall’utilizzo dei beni e così via.

Nella prospettiva economica la presenza di condizioni di non equità assume una valenza positiva, in quanto interpretata come esito del processo naturale di allocazione delle risorse compiuto dal mercato, che costituisce l’unico strumento in grado di garantire la migliore distribuzione delle risorse tra quelle possibili, così da massimizzare il benessere della collettività.

Utilizzando un approccio sociologico, l’attenzione degli studiosi si sposta sui meccanismi alla base della stratificazione sociale e della divisione in classi della società, dedicando particolare attenzione allo studio dei modelli di equità.

Questi due filoni di studio hanno dato origine ad una vastissima letteratura, dalla cui consultazione si avverte con chiarezza la scarsa capacità di confronto e integrazione. Quest’ultima operazione, al contrario, sembra particolarmente auspicabile, in quanto molte delle dinamiche che interessano i processi di impoverimento pongono le proprie radici all’interno dei meccanismi di disuguaglianza sociale, la quale si manifesta sia nella sua componente economica, sia con riferimento ad altre dimensioni di natura societaria: il fatto di disporre delle risorse necessarie per non incorrere in processi di impoverimento dipende in buona parte da come l’individuo si colloca in relazione alle “dimensioni” costitutive dei meccanismi che alimentano le disuguaglianze 40 .

Gli approcci teorici alla disuguaglianza e alla povertà pongono le loro radici in approcci molto diversi tra di loro, ognuno dei quali può contenere differenti contributi teorici. Nel presente lavoro ne abbiamo osservati tre, ognuno dei quali

40

Cfr. M. Paci, Le dimensioni della disuguaglianza, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 14.

(26)

propone una o più dimensioni da considerare come determinanti nella valutazione del fenomeno:

- la prospettiva utilitarista, che pone l’attenzione sulla misura dell’utilità e utilizza come dimensione da eguagliare l’utilità marginale;

- le teorie dei diritti, che sottolineano l’importanza di diritti negativi e del loro rispetto;

- gli approcci teorici che si rifanno all’egualitarismo e evidenziano l’importanza delle possibilità di promozione dei propri interessi da parte degli individui e considera, come dimensioni da eguagliare, sfere come quella del benessere, delle risorse, delle capacità e delle libertà.

Tab. 1. Riepilogo degli approcci teorici alla disuguaglianza

teorie della giustizia eguaglianza dimensioni da eguagliare

utilitarismo delle utilità utilità marginale

teorie dei diritti dei diritti negativi

rispetto per i diritti negativi

egualitarismo

nella rivendicazione dei propri interessi

benessere, risorse, capacità libertà

* Riadattamento della schematizzazione proposta da I. Carter (a cura di), L’idea di eguaglianza, cit., 2001, p. 15

Oltre ad uno studio integrato delle differenti discipline appare particolarmente

ricca di prospettive l’ipotesi che i concetti di uguaglianza e povertà siano letti in

maniera integrata. Collocare la povertà nel solco della disuguaglianza ci aiuta a

capire i meccanismi che stanno alla base dei processi di impoverimento. Un esempio

è costituito da quanto ci ricordava già Marx analizzando la società capitalista nel

primo periodo successivo alla rivoluzione industriale. La povertà può essere

considerata in termini assoluti e intesa come la misura di quanto un lavoratore può

permettersi di possedere: questo ci fornisce una immagine della deprivazione

materiale (che costituisce solo una parte della condizione di deprivazione che

attanaglia il povero); in caso alternativo ci si può collocare nell’ambito della

dimensione relativa del concetto. In questa seconda ipotesi ciò che si andrà ad

osservare è la misura di quello che i lavoratori guadagnano, in proporzione a quanto

(27)

accumulato dai datori di lavoro mediante l’incameramento del plus-valore. Proprio attraverso questa definizione, la povertà si arricchisce di una dimensione comparativa, in base alla quale davanti a due individui diversamente ricchi, un miglioramento delle condizioni economiche del soggetto meno abbiente non è necessariamente accompagnata dalla riduzione della povertà dello stesso; egli potrebbe aver visto peggiorata la propria situazione nella misura in cui l’altro individuo si sia arricchito in misura maggiore. Tale condizione determina squilibri in termini di potere e influenza politica, riducendo ulteriormente le libertà e le capacità del soggetto di uscire dalla condizione di povertà. Attraverso questa prospettiva il tema della povertà viene collocato a pieno titolo nell’ambito delle dinamiche di formazione e riproduzione delle disuguaglianze, rivelandosi di particolare interesse per l’interpretazione delle dinamiche di accumulazione della ricchezza e di impoverimento che caratterizzano le società contemporanee, sia che si rivolga l’attenzione a sistemi economici in via di sviluppo, sia che si guardi ad economie sviluppate.

Disuguaglianza e povertà si caratterizzano per essere concetti complessi, distinti e al tempo stesso fortemente integrati; possiamo vedere la povertà e la disuguaglianza come fenomeni interconnessi, che sono l’esito di una pluralità di fattori sociali, politici oltre che individuali. La povertà non è quindi individuabile nella scarsità di reddito o di servizi di base ma è collegata con i modelli di redistribuzione della ricchezza all’interno del contesto societario, la cui valutazione non è riducibile alla mera analisi delle disuguaglianze che si manifestano nella sfera economica, considerata come proxy adeguata alla valutazione del benessere individuale. L’approccio teorico che appare utile per un ampliamento della prospettiva e che costituisce l’oggetto principale del presente lavoro è costituito dalla prospettiva del Capability Approach.

Proprio in relazione al rapporto tra reddito e benessere Sen individua alcuni elementi di critica:

- l’ipotesi, sottostante la teoria utilitaristica, che il reddito si

traduca in benessere, non può essere considerata come scontata

nell’analisi economica;

(28)

- il well-being di un soggetto non è solo frutto dei livelli di reddito a disposizione di un individuo, ma risulta legato anche ad altri aspetti della sua vita sociale, come l’istruzione, la salute e così via. Il reddito non può quindi essere considerato come idoneo alla misurazione, né della disuguaglianza, né della povertà.

- L’insieme dei mezzi che sono in grado di produrre benessere interagiscono tra di loro, dando vita a risultati molto diversi, alla luce delle caratteristiche dell’individuo preso in esame. Ogni individuo ha una differente capacità di conversione delle risorse (e tra queste anche dello stesso reddito) in benessere.

Disuguaglianza e povertà sono quindi concetti che risultano costituiti da una pluralità di dimensioni, facendo nascere la necessità di trovare approcci teorici ed empirici in grado di superare i limiti sopra evidenziati.

Oltre alla esigenza di ampliare il ventaglio delle dimensioni oggetto di osservazione, può essere utile integrare le conoscenze acquisite con approcci teorici in grado di considerare il punto di vista delle persone interessate dal fenomeno, prese nella loro intera soggettività, dedicando attenzione al contesto nel quale si trovano e alle dinamiche che in esso si sviluppano.

Ricapitolando, la riflessione nell’ambito della povertà non può prescindere dall’analisi delle condizioni e dei meccanismi generativi delle disuguaglianze e, dall’altro lato, lo studio e la valutazione delle diverse allocazioni delle risorse, oltre che la natura delle risorse stesse, è opportuno che sia realizzato anche alla luce degli effetti che si generano in relazione al fenomeno della povertà (definibile come il livello di disuguaglianza, non accettabile, presente all’interno della società non accettabile).

A partire da questa convinzione, nasce l’esigenza di individuare approcci

teorici e empirici, che incardinino lo studio del fenomeno povertà nei meccanismi

costitutivi dei sistemi di disuguaglianza. Tradizionalmente, nell’ambito delle scienze

sociali troviamo due differenti approcci:

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