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Questa tradizione getterà le basi per un movimento letterario che si svilupperà successivamente, conosciuto come il Dolce stil novo

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Academic year: 2021

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Introduzione.

Il lavoro che presenterò nella pagine successive si concentra, inizialmente, sul periodo precedente rispetto a quello che ho affrontato più nel dettaglio.

A partire dai secoli XII e XIII, oltralpe si sviluppò un genere letterario che nasceva all'interno dell'ambiente cortese. L'amore, fulcro delle narrazioni cantate dai trovatori, si sviluppava seguendo un patto stipulato fra l'amante e la donna, verso la quale egli provava e manifestava una totale devozione. Questo sentimento, solitamente adultero, doveva rimanere celato per non essere preso di mira dai lauzengiers, dai maldicenti che frequentavano la stessa corte.

In Italia, questa tradizione trovò terreno fertile sul quale svilupparsi dapprima in Sicilia, e precisamente presso la corte di Federico II, che sarà iniziatore e promotore della nuova letteratura. Questa tradizione getterà le basi per un movimento letterario che si svilupperà successivamente, conosciuto come il Dolce stil novo.

Si tratta di una nozione spesso contestata e non accettata in maniera unanime, che venne creata da partire dalle celeberrime parole - pronunciate da Bonagiunta Orbicciani nel XXIV canto del Purgatorio dantesco - soggette a numerose ricostruzioni e congetture da parte degli studiosi e dei filologi. Questa corrente letteraria sarà rappresentata da numerosi esponenti fondamentali per la letteratura nazionale.

Prima di addentrarmi nella contestualizzazione e nell'analisi del XXVI canto, ho

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ripreso alcune tenzoni, componimenti in stile comico e giocoso, scambiate fra diversi autori quali Dante e Forese Donati, Bonagiunta e Guinizzelli o Cavalcanti, che si scagliò contro Guittone e Orlandi.

Infine, è nel settimo girone purgatoriale che si trovano coloro che sono qui puniti per il peccato di lussuria. A differenza dei dannati, trascinati da una bufera infernale insistente ed eterna, i penitenti bruciano nel fuoco e confidano nella loro purgazione. Fra queste anime una si volta verso il pellegrino e gli rivolge direttamente alcune parole; si tratta di Guido Guinizzelli, che Dante non esita ad etichettare come il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d'amore usar dolci e leggiadre. Quest'ultimo però, dopo un breve colloquio, indica un'altra anima, a suo avviso più degna di riconoscenza: si tratta del trovatore Arnaut Daniel.

La questione cruciale, alla quale ho cercato di dare una soluzione esaustiva e soddisfacente, è la seguente: come mai Dante ha deciso di punire - per un simile peccato - proprio due grandi autori, appartenenti sì a due tradizioni differenti, ma contemporaneamente somiglianti e affini. Cosa può aver suggerito una simile imputazione? A mio avviso, la causa principale, soprattutto in assenza di qualsiasi elemento biografico che potrebbe giustificarne l'accusa, è da rintracciare nei componimenti Chi vedesse a Lucia un var capuzzo e Lo ferm voler qu’el cor mi’ntra nei quali i due poeti si fanno portavoce di un amore sensuale, terreno e peccaminoso, che non rispetta i principi basilari delle rispettive tradizioni letterarie. Il desiderio di baciare il viso di Lucia e gli apprezzamenti rivolti alla sua persona, o il sentimento provato nei confronti della sorella dello zio, sono più che

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sufficienti per biasimare e rigettare questi componimenti e, di conseguenza, condannare i loro rispettivi autori.

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Dai trovatori ai siciliani: alle origini della nostra letteratura.

Secondo quanto affermato da Francesco De Sanctis nella sezione dedicata ai Siciliani,1 la cantilena o canzone di Cielo (nome talvolta mutato in Ciullo o Ciulo dal camo) di Alcamo può essere considerata uno dei più antichi documenti della nostra letteratura e con una canzone di Folcacchiero da Siena, rappresentano la manifestazione di una tradizione letteraria iniziata molto tempo prima e giunta al suo massimo splendore sotto Federico II.

Nella prima in particolare, tramandata dal canzoniere Vaticano, i due dialoganti Amante e Madonna - la cui schermaglia si svolge nell'arco di trentadue strofe - si scambiano delle battute espresse in una lingua acerba e incerta, costituita da un misto di voci dialettali, francesi e latine. Il testo forse destinato alla recitazione - o secondo alcuni - al canto, è collocabile tra il quarto e il quinto decennio del Duecento, informazione che si ricava direttamente dallo stesso, in quanto vengono menzionate le leggi melfitane del 1231 (termine a quo fondamentale per la datazione) e segue l'allusione a Federico II (termine ante quem, quindi in riferimento a un'epoca anteriore al 1250, anno di morte dell'imperatore).

Comunque sia, da questi scritti si poteva evincere il percorso seguito da una lingua scritta che muoveva i suoi primi passi e la teorizzazione di tematiche che diversi rimatori svilupperanno all'interno delle loro opere.

Dante, nel De vulgari eloquentia,2 cita il Contrasto di Cielo senza indicarne

1 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Milano, Giangiacomo Feltrinelli editore, 1960, pp. 15 sgg.

2 Dante De vulgari eloquentia, a c. di Mirko Tavoni, Milano, Mondadori, 2017. I XII 6.

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l'autore, ma sottolineando come la base linguistica di questo componimento possa essere siciliana, anche se di tipo mediocre, e non illustre e lodevole:

« […] si vulgare sicilianum accipere volumus secundum quod prodit a terrigenis mediocribus, […] prelationis honore minime dignum est, quia non sine quodam tempore profertur, ut puta ibi: Tragemi d'este focora se t'este a bolontate».

In realtà, oggi siamo a conoscenza di un numero di informazioni maggiori rispetto a quelle di cui poteva disporre De Sanctis e siamo in grado di correggere e riformulare questa ipotesi; infatti sono state trovate testimonianze appartenenti ad aeree geografiche differenti da quelle a cui si è soliti attribuire la nascita e lo sviluppo della nostra poesia e che anticiperebbero di alcuni anni le produzioni siciliane.

Si tratta di scritti lirici collocabili tra gli ultimi decenni del XII e i primi del XIII secolo: la canzone intitolata Quando eu stava, rinvenuta da Alfredo Stussi in un'antica pergamena ravennate e il frammento piacentino Oi bella scoperto da Claudio Vela.

La collocazione linguistica del primo testo è stata oggetto di numerose ipotesi da parte di diversi studiosi. Come riporta Vittorio Formentin, Alfredo Stussi:3

«[…] pur lasciando prudentemente molte porte aperte, si dimostra incline a riconoscere nella mescolanza di elementi settentrionali e mediani caratteristica della canzone, l'effetto di un ibridismo secondario, dovuto al fatto che il testo, ritenuto originario del Nord [...] avrebbe subito una 3 V. Formentin, A proposito di un libro recente sui più antichi testi lirici italiani, in «Lingua e Stile, Rivista di storia della lingua italiana», 1/2007, pp. 125-150, doi: 10.1417/24812.

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ripatinatura opera di almeno un copista dell'Italia mediana».

mentre Arrigo Castellani si mostra più propenso ad affermare che si tratti di un ibridismo «primario o naturale, riconducibile a un'origine ravennate del testo e dell'amanuense».

Per quanto riguarda il ritrovamento di Vela, si tratta di un testo riportato sulla facciata di un bifolio pergamenaceo in origine autonomo, che successivamente venne riutilizzato per ricoprire una grammatica latina. Venne trascritto sotto ad alcuni versi latini e una serie di glosse da un copista il cui lavoro è databile entro il primo quarto del XIII secolo. Secondo alcune particolarità linguistiche si propende ad ipotizzare che il testo appartenente all'area centrale o meridionale, o - come dice il Vela - non settentrionale della penisola, fu oggetto di una migrazione in area padana.

A sua volta, anche Nello Bertoletti è stato autore di un ritrovamento significativo fra le carte di un manoscritto della Biblioteca Ambrosiana e ha pubblicato un nuovo testo lirico delle origini, in cui si fa riferimento all'alba, motivo poetico poco sviluppato in Italia ma molto conosciuto tra i trovatori. Al centro di una carta vi è la data Millesimo Ducentesimo Trigesimo nono cioè 1239, e in base agli studi effettuati è stato accertato che essa sia stata riportata in un momento successivo alla stesura del testo poetico. Questo costituisce quindi un sicuro termine ante quem, fondamentale per lo studio e la collocazione temporale del documento. Il dialetto utilizzato è settentrionale e precisamente piemontese, e questa costituisce una scoperta ancora più eclatante poiché non era stato trovato ancora alcun testo

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che testimoniasse la cultura poetica scritta in volgare in questa zona. In realtà non è un originale ma si tratta della traduzione dell'alba del trovatore Giraut de Borneil, indicato da Dante nel De vulgari eloquentia4 come esempio di rettitudine.

Il traduttore non si limitò a modificare tutte le parti del testo di Giraut ma decise autonomamente di lasciarne alcune invariate. Questa traduzione fu alla base delle produzioni di numerosi rimatori e autori.

Ma è attorno alla figura di Federico II che le cose iniziarono ad evolversi e assumere nuovi connotati inconfondibili. Egli accoglieva presso la sua corte numerosi artisti provenienti da tutta Italia che qui trovavano ambiente fertile per far affinare e sviluppare le proprie abilità poetiche. La sua corte era un vivace ambiente culturale in cui alcuni autori erano personaggi legati alla struttura giuridica e amministrativa del Regno meridionale. Essi decisero di trapiantare nel volgare di Sicilia i modelli della lirica cortese provenzale, mutandola profondamente nella forma e nei contenuti, attraverso l'eliminazione dei riferimenti a qualsiasi vicenda e alla cronaca della vita cortigiana o a fatti riconducibili a persone facilmente identificabili.

In quel periodo, in Italia vi erano due lingue che si contrapponevano e diversificavano: il latino, parlato dai più colti, dai chierici, dai litterati e il volgare, utilizzato dal resto della popolazione e nelle questioni quotidiane. Ma ben presto si formò una lingua diversa dal latino, meno raffinata ma comunque sorvegliata, attraverso la quale tuttavia si potevano esprimere i sentimenti e i pensieri più alti.

In Sicilia si poteva trovare un particolare volgare sia cantato che scritto che non

4 Dante De vulgari eloquentia, a c. M. Tavoni, Milano, Oscar classici Mondadori, 2017. II, II 7- 8, pp. 265-75.

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era più strettamente un dialetto ma nemmeno, ancora, la lingua italiana.

La lirica volgare del Duecento è giunta fino a noi attraverso canzonieri organizzati sempre a una certa distanza dal momento della composizione dei testi. Soltanto tre dei canzonieri che ci sono rimasti risalgono alla fine del Duecento e sono tutti di area toscana: il Vaticano Latino 3793, il Palatino (segnato ora Banco Rari 217 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze) e il Laurenziano Rediano 9 della Biblioteca Mediceo Laurenziana di Firenze. Questi manoscritti sono essenziali soprattutto per le testimonianze relative a tutti quei testi che hanno preceduto lo Stil novo. L'origine toscana di questi codici pone diversi problemi di interpretazione linguistica perché tutti, e soprattutto quelli più antichi siciliani, hanno subito una forte toscanizzazione, riconducibile non solo all'area di composizione ma anche al ruolo di lingua letteraria dominante che il toscano iniziava a ricoprire alla fine del Duecento. In questo caso si possono quindi avanzare solamente delle ipotesi circa la vera origine e struttura della lingua dei primi poeti d'amore.

Fu Dante, nel De vulgari eloquentia5, a dare una prima sistemazione della storia della lirica del Duecento, proponendo tre diversi momenti: inizialmente, la creazione di una lingua letteraria illustre - distinta dal dialetto corrente - da parte dei poeti siciliani della corte di Federico II; successivamente lo svolgimento di una poesia cortese in Toscana ma in forme stilisticamente poco definite e municipali e infine la ripresa di più adeguate forme illustri ben distinte dalle sopraccitate forme, nella poesia di Guido Guinizzelli e del gruppo composto da

5 Ibid., I, I3.

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Dante e dai suoi amici. 6

Il fulcro da cui questa nuova tradizione si irradierà e dal quale prenderà e modificherà delle tematiche è da identificarsi con la poesia dei trovatori provenzali.

Il primo trovatore a noi noto è Guglielmo IX duca d'Aquitania, che fu attivo nell'XI secolo mentre l'ultimo è considerato Guiraut Riquier, la cui ultima poesia è datata 1292. Con quest'ultimo si tende ad identificare anche la fine della stagione che ebbe come protagonisti principali i trovatori.

Essi erano di varia estrazione sociale e vivevano presso le corti feudali del sud della Francia, della Spagna e dell'Italia settentrionale e signori o mecenati sostenevano la loro attività. Il verbo trobar (trovare, inventare) da cui si genera il sostantivo trobador, significa comporre sia un testo che la melodia, e così la loro poesia accompagnata da uno strumento musicale era infatti destinata al canto e non alla lettura, per circolare principalmente per via orale. La lingua utilizzata è chiamata impropriamente provenzale; essi parlano una lingua romanza, volgare e opposta al latino.

La produzione in lingua volgare e non in latino muta profondamente anche il rapporto tra autore e pubblico, che non si identifica più in una cerchia ristretta e accessibile a pochi eletti, ma nel contatto diretto con un pubblico più vasto. Si ha a che fare con una poesia laica, rivolta a tutti coloro che sono in grado di comprendere e condividere l'esperienza d'amore vissuta e raccontata dal trovatore.

Vi sono numerosi elementi riconducibili all'ambiente e alla metafora feudale e fra questi troviamo un rapporto tra uomo e donna che rispecchia quello fra vassallo e

6 Ibid., I XII 2 sgg.

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signore, la stipula di un patto fra i due amanti e così via. La donna amata, figura angelicata che mantiene però la fisicità e la concretezza dell'oggetto del desiderio, è identificata come midons, superiore anche dal punto di vista sociale e l'amore provato per lei è perennemente ostacolato e impossibile da realizzare. Il tutto si svolge all'interno delle mura del castello affollato di estranei e persone ostili fra i quali si notano i lauzengiers, i maldicenti. La voce narrante non è da identificare totalmente con quella del trovatore, il quale si fa portavoce di un sentimento e di una sofferenza non strettamente soggettiva e in cui tutti si possono immedesimare.

Secondo il trovatore Giraut de Borneil, preso come esempio anche da Dante, importante per la teorizzazione di una nobiltà di animo che egli ritiene superiore a quella di sangue, l'amore puro deve essere desiderio inappagato e inappagabile, che affina l'amante e che non si misura nella conquista, perché al possesso dell'oggetto amato infatti seguirebbe la fine dell'amore stesso. I potenti cercherebbero nell'amore l'appagamento personale mentre la vera ricchezza è data dal sentimento puro e inattingibile.

Ma i tempi iniziano a cambiare ed evolversi e una prima differenza si può riscontrare nelle netta separazione fra le figure dei poeti e quelle dei musicisti, che non incarnano più la medesima persona e attività. Ci si concentra maggiormente sulla forma scritta dei testi, destinati a un vasto pubblico di lettori.

L'impegno maggiore si riscontra nell'elaborazione di forme metriche sempre più precise ed elaborate, e questa sperimentazione porta anche alla nascita di una nuova forma breve destinata a riscuotere un grande successo e divenire il componimento lirico per eccellenza: il sonetto.

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La tematica amorosa si trasferisce su un piano astratto e assume tratti nobili ed elevati.

La poesia adottata dai siciliani ha una funzione principalmente sociale; riprende la tematica trobadorica, ponendo al centro la donna, una nobile signora da rispettare e servire fedelmente e con dedizione, ma dove la vista e il vedere sono il mezzo principale attraverso il quale è permesso l'instaurarsi del rapporto con la donna.

L'onorarla e il soffrire per lei sono vissute dal poeta come azioni nobilitanti e fondamentali per la sua formazione personale e il suo ruolo sociale.

Per quanto riguarda la situazione linguistica riscontrabile nel Duecento, è con le parole di Michelangelo Picone7 che questo punto può essere descritto e chiarito perfettamente:

«Prima dell'italiano letterario c'è stato dunque il siciliano letterario: abbiamo cioè lo sforzo di un gruppo di poeti gravitanti attorno alla corte siciliana di Federico II di elaborare uno strumento linguistico con ambizioni supra- regionali, capace di rappresentare una realtà non locale ma nazionale, di descrivere un mondo legato non alla vita pratica ma a quella intellettuale e spirituale. […] Al posto più elevato nella scala linguistica duecentesca troviamo naturalmente il latino. […] Al polo opposto rispetto al latino si situa la lingua parlata del popolo, il volgare nelle sue molteplici e particolari realizzazioni regionali».

Ed è nella Sicilia di Federico II e del suo successore Manfredi che il quadro appena delineato troverà una forma ben precisa e definita.

Tra gli esempi proposti per testimoniare l'attività di questo periodo, vi è la canzone Madonna, dir vo voglio del Notaro8 Giacomo da Lentini, fondamentale

7 M. Picone, Percorsi della lirica duecentesca, Dai siciliani alla Vita Nova, Firenze, Edizioni Cadmo, 2003, pp.19 sgg.

8 Dante, La Divina Commedia, a c. di Natalino Sapegno, Scandicci, La nuova Italia editrice,

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sia per la posizione rilevante che essa copre all'interno del canzoniere Vaticano 3793 sia per il collegamento diretto che si pone con la lingua cosiddetta provenzale, in quanto si tratta, in parte, della riscrittura di una canso trobadorica di Folquet de Marselha. Questo sottolinea ancora una volta l'importanza che la lirica trobadorica ebbe per le produzioni successive.

Considerando la prima strofa di entrambe le canzoni, si nota la ripresa del tema dell'amore tormentato, provocato dall'imperfezione dell'amante e dall'impossibilità di raggiungere la donna amata, essere perfetto.

«A vos, midontç, voill rettrair' en cantan cosi·m destreign Amors e men' a fre vas l'arguogll gran, e no·m aguda re, qe·m mostras on plu merce vos deman,

oi lasso, lo meo core, mas tan mi son li consir e l'afan qu viu quant muer per amor finamen.

Donc muer e viu? Non, mas mos cors cocios

mor e reviu de cosir amoros a vos, dompna, c'ieu am tan coralmen;

sufretç ab gioi sa vid'al mort cuisen, per qe mal vi la gran beutat de vos» (vv.1-

12).

«Madonna, dir vi voglio, como l'amor m'ha priso inver' lo grande orgoglio che voi, bella, mostrate, e no m'aita,

oi lasso, lo meo core che 'n tante pene è miso

che vive quando more per bene amare, e teneselo a vita.

Donqua mor'u viv'eo?

No; ma lo core meo more più spesso e forte che no faria di morte – naturale,

per voi, donna, cui ama, più che se stesso brama, e voi pur lo sdegnate:

amor, vostr'amistate – vidi male»9 (vv. 1- 16).

2004, vol. II, Il Purgatorio, Canto XXIV, v. 55.

9 G. Contini, Poeti del duecento, Milano-Napoli, Ricciardi editore, 1960. Tomo I, p.51.

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La canso di Folchetto risulta essere più uniforme da un punto di vista metrico- stilistico, dove i versi sono delle medesima misura e raggruppati in un'unica stanza, mentre nella canzone di Giacomo da Lentini le rime cambiano di stanza in stanza si alternano versi endecasillabi e settenari, così come differiscono nel numero delle rime.

Ma analizziamo la canzone Madonna, dir vo voglio come un blocco a sé stante. Il tema principale è l'amore doloroso, un sentimento che non viene corrisposto dalla donna che anzi sottolinea il suo essere superiore rispetto all'amante. Vi è una dicotomia ideologica su cui ruota tutta la canzone: il poeta o per meglio dire, il suo cuore, vive grazie al profondo sentimento provato, ma muore ogni volta che la donna lo rifiuta e si dimostra sprezzante nei suoi confronti. Si introduce anche il tema dell'inesplicabilità dell'amore, in quanto le parole e la poesia nella sua totalità non sono in grado di dare espressione al sentire del poeta:

«Lo meo 'namoramento non po' parire in detto,

ma sì com'eo lo sento

cor no lo penseria né diria lingua».10

La metafora utilizzata nella descrizione della fenomenologia amorosa è strettamente laica e non religiosa, secondo una delle caratteristiche principali delle produzioni dei poeti siciliani e che si contrapponeva - per esempio - alle produzioni dantesche, dove l'elemento religioso e la dimensione divina sono il

10 Giacomo da Lentini, Madonna, dir vi voglio, vv. 17-20.

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fulcro attorno al quale si svolge l'intero percorso narrato nella Divina Commedia.

Ciò si identificherebbe con il passaggio dalla tematizzazione dell'amore come eros a quella religiosa di caritas.

Per quanto riguarda la scuola siciliana, un cambiamento profondo si verificò in seguito alla morte di Federico II e alla caduta della casa sveva, in quanto venne a mancare quella solida base grazie alla quale la scuola siciliana si era sviluppata. A questi ambienti si sostituirono come centri culturali le città toscane da una parte e quelle venete dall'altra; in Toscana si proseguì con la tradizione lirica in volgare mentre in Veneto si diede il via agli studi filologici e alla produzione letteraria in latino.

Come già detto, è negli anni Cinquanta e Sessanta che la lirica volgare trova terreno fertile - nel quale svilupparsi e ramificarsi - nell'Italia comunale e in particolare in Toscana. Il pubblico è borghese, le tematiche affrontate divengono più varie e a livello linguistico si dà più spazio alle forme dialettali toscane, provenzali e latine, senza che venga però seguito un ordine rigido e ordinato.

L'esponente più importante di questa nuova poesia toscana è Guittone d'Arezzo di cui si hanno poche notizie biografiche. Il manoscritto Laurenziano Rediano 9 (siglato L), uno dei tra grandi canzonieri che ci hanno tramandato la poesia lirica del Duecento, include tutta la produzione poetica e in prosa di Guittone. Al suo interno si distinguono le rime morali da quelle d'amore, quindi quelle scritte rispettivamente prima e dopo la sua conversione, attraverso i titoli che distinguono frate Guittone d'Aresso da Guittone d'Aresso e indicano il passaggio da un'esistenza dedita agli interessi terreni ad una rivolta al culto delle attività morali.

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È come se costituisse un filo conduttore, l'esempio dell'evoluzione che avviene fra la precedenze produzione siciliana e la nuova toscana dello stil novo.

Si sa per certo che intorno al 1265 entrò come laico nel nuovo ordine dei Milites Beatae Virginis Mariae o dei Frati Gaudenti, che si ponevano l'obiettivo di una vita religiosa serena e gioiosa, concentrata nel culto di Maria e sull'accettazione della realtà sociale e dei suoi valori dominanti. A differenza dei siciliani, il suo argomentare punta su un linguaggio artificioso e prezioso, che si manifesta attraverso tematiche civili e morali, con l'intento di raggiungere ed esprimere un buon senso morale e una giusta dignità sociale, anche se non manca, alla base di alcuni componimenti, la tematica amorosa.

L'io del canzoniere guittoniano non è soltanto l'amante il cui unico scopo è la vana e perenne ricerca dell'amata, ma è anche il protagonista principale di una ricerca spirituale che lo accompagnerà nella riscoperta dei valori morali e di se stesso.

Una peculiarità propria anche dell'io dantesco, protagonista sia dell'avventura amorosa sia della purificazione spirituale.

Michelangelo Picone afferma che:

«[…] La conseguenza che va invece rilevata a proposito dell'eredità lasciata da Guittone è che il suo canzoniere rappresenta l'archetipo da cui discendono sia la Vita Nova sia i Rerum vulgarium fragmenta»11.

sottolineando quindi la fondamentale importanza che la sua produzione poetica ebbe nei confronti dei suoi successori.

11 M. Picone, Percorsi della lirica duecentesca, Dai siciliani alla Vita Nova, Firenze, Edizioni Cadmo, 2003. p. 108.

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Infatti, anche nella Vita Nova si intrecciano elementi autobiografici spirituali e letterari. Dall'amore per una donna terrena si passa all'amore per una donna celeste, Beatrice glorificata mentre i Rerum vulgarium fragmenta si avvicinano al canzoniere per la bipartizione dell'opera e in contrasto fra eros e caritas. Guittone supererà questa dicotomia con la propria conversione invece Petrarca non riuscirà mai ad abbandonarla definitivamente.

Un passaggio fondamentale nella poetica di Guittone è rintracciabile nella canzone XLIX dedicata alle donne:

«Altra fiata aggio già, donne, parlato a defensione vostra e a piacere;

e ancoi 'n disamore aggio tacere, ove dir possa cosa in vostro grato?

Ché tropp'ho di voi, lasso, indebitato, non vostro merto già, ma mia mattezza!

ch'eo conto ont'e gravezza onor tutto e piacer che di voi presi».12

La canzone in defensione è Ahi, lasso, che li boni e li malvagi. Tratta di una nuova situazione priva di sentimento amoroso rispetto a una situazione sentimentale precedente (altra fiata). Egli si chiede se in questa fase della vita in cui è assente l'amore cortese, sia comunque opportuno comporre una canzone come quella precedente, composta in gioventù e quindi vorrebbe scrivere una canzone per le

12 Guittone d'Arezzo, Altra fiata aggio già, donne, parlato, vv. 1-8.

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donne, non in prospettiva cortese ma cristiana. La nuova canzone sarà ad educazione morale delle donne. Il peccato commesso in passato viene ora confessato per poter rimediare attraverso una nuova composizione di carattere strettamente morale. Inoltre, egli attacca anche il trobar clus che aveva caratterizzato parte della sua produzione poetica.

Il cruccio di Guittone è il seguente: egli teme che le ristrettezze formali imposte dalla lirica possano nuocere al suo discorso, in quanto la piccola dimensione potrebbe far sembrare di poco conto anche il discorso. Il passo fondamentale sarà compiuto da Dante che sceglierà nella Vita Nova la forma della prosa per spiegare la poesia, fondendo così le due dimensioni che fino ad allora erano rimaste spesso separate.

Nella chiusa del componimento sopraccitato, si sottolinea come la complessità tecnica del linguaggio utilizzato sia da giustificare con quella del messaggio trasmesso.

È sulla base di queste esperienze e dei profondi mutamenti linguistici e sociali che nascerà e si svilupperà un nuovo movimento letterario di grande importanza e prestigio: il Dolce stil novo.

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Il Dolce stil novo: peculiarità e protagonisti.

Considerare il Dolce stil novo una corrente letteraria rientra in quel tipo di questioni particolarmente insidiose e spinose e come queste è stato oggetto di numerose discussioni fra gli studiosi. Infatti, nel corso degli anni si sono susseguite numerose tesi e ipotesi relative all'eventuale denominazione da dare al gruppo di poeti che condividevano tematiche e forme stilistiche, ma considerata la complessità ricostruttiva e interpretativa delle celeberrime parole pronunciate da Bonagiunta Orbicciani nel XXIV canto del Purgatorio, furono e sono tuttora congetture che lasciano un varco sempre aperto a nuove opinioni e suggestioni.

Ancora oggi, la domanda che ci si pone maggiormente è: il Dolce stil novo è veramente esistito o questa nozione è esclusivamente il frutto di una ricostruzione storiografica che testimonia l'esigenza di etichettare e raggruppare una cerchia di poeti affini per tematiche e caratteristiche espressive?

In base a quanto è stato affermato precedentemente, si tratta di una domanda che non otterrà mai una risposta unica e definitiva.

Dante alluderebbe - all'interno di alcune sue opere - a un determinato gruppo di poeti di cui lui stesso fa parte, legati da un sentimento e una cultura simili. La testimonianza cronologicamente più antica e che qui deve essere considerata è quella contenuta all'interno del sonetto Guido, i' vorrei dove Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Dante sono protagonisti di un esclusivo sogno di evasione, forse dalla realtà comunale che si era affermata in quegli anni, e comunque di un

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viaggio all'insegna della spensieratezza, che si colloca su uno sfondo su cui prevale il valore dato all'amicizia. Si auspica che i tre siano accompagnati dalle rispettive donne amate, perseguendo così la tematica dell'amore cortese e riprendendo lo schema del plazer provenzale, secondo il quale in un componimento vengono elencate dall'autore le situazioni più piacevoli o i desideri che si vorrebbero realizzare, o del souhait, riguardante desideri talvolta difficilmente realizzabili, secondo l'opinione di altri studiosi.

«Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento, e messi in un vasel ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio,

sì che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento,

di stare insieme crescesse 'l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi Con quella ch’è sul numer de le trenta

con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore, e ciascuno di lor fosse contenta, sì come i’ credo che saremmo noi».

È importante sottolineare come in questo componimento la donna citata da Dante

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non è - come si potrebbe credere in un primo momento - Beatrice, la quale occupa il nono posto nella categoria delle sessanta donne più belle di Firenze stilata da Dante,13 ma un'altra donna che probabilmente ricopre il ruolo della donna schermo, secondo il procedimento che caratterizzò la prima produzione lirica dantesca.

Ben altra importanza in questo senso hanno invece alcuni luoghi del De vulgari eloquentia in cui Dante considera - ormai con distacco di teorico - la sua esperienza poetica e quella dei suoi amici. Fra tutti emerge il passo in cui all'interno del gruppo dei toscani, considerati ottusi nel loro turpiloquio, vengono isolati i quattro poeti che soli hanno conosciuto l'eccellenza del volgare illustre:

«sed quamquam fere omnes Tusci in suo turpiloquio sint obtusi, nonnullos vulgari excellentiam cognovisse sentimus, scilicet Guidonem, Lapum et unum alium, Florentinos, et Cynum Pistoriensem, quem nunc indigne postponimus, non indigne coacti».14

considerati non in base al legame di amicizia che li accomunava, ma esclusivamente su base linguistica, secondo quanto veniva richiesto dal tema sviluppato nel trattato latino.

Solo che nel canto XXVI del Purgatorio, nonostante venga sottolineata ancora una volta la contrapposizione fra Guittone e la schiera composta da Dante e dai suoi amici, avviene un cambiamento clamoroso. Guido Guinizzelli, al quale all'interno del De vulgari eloquentia era riservato un ruolo parallelo a quello degli altri poeti, viene ora indicato dal poeta come il padre / mio e de li altri miei miglior che mai /

13 Dante Alighieri, Vita Nova, a c. di Stefano Carrai, Milano, Bur, 2016, p. 51.

14 Dante, De vulgari eloquentia, I XIII 2-6.

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rime d'amore usar dolci e leggiadre15, rivestendo un ruolo di prestigio e superiorità assoluti. Affronterò successivamente la questione relativa alla sua figura e alla sua collocazione come penitente all'interno della schiera dei lussuriosi.

Proseguendo nell'analisi dello Stil novo, nel Quattrocento si iniziò a considerare questo come un fenomeno letterario dotato di caratteri propri. In particolare, Lorenzo il Magnifico seguito da altri poeti del suo cerchio, cominciava verso il 1476-77 a contaminare il petrarchismo che aveva caratterizzato le sue produzioni giovanili di evidenti e consapevoli reminiscenze stilnovistiche. È appunto per ispirazione e volere di Lorenzo che verso tale data venne composta la cosiddetta Raccolta aragonese, la quale non solo concede agli stilnovisti larghissimo spazio ma li raggruppa con maggiore organicità. Che questa larga scelta e questa raccolta corrispondano ad un gusto e un criterio ben consapevoli, è dimostrato chiaramente dalla epistola dedicatoria riportata di seguito in parte, scritta - come pare certo - dal Poliziano, con la collaborazione o con l'approvazione di Lorenzo stesso:

«[…] Il primo adunque, che dei nostri a ritrarre la vaga immagine del novello stile pose la mano, fu l'aretino Guittone, ed in quella medesima età il famoso bolognese Guido Guinizelli, l'uno e l'altro di filosofia ornatissimi, gravi e sentenziosi; ma quel primo alquanto ruvido e severo, né d'alcuno lume d'eloquentia acceso; l'altro tanto di lui più lucido, più suave e più ornato, che non dubita il nostro onorato Dante, padre appellarlo suo e degli altri suoi “miglior, che mai rime d'amore usar dolci e leggiadre”.

Costui certamente fu il primo, da cui la bella forma del nostro idioma fu dolcemente colorita, quale appena da quel rozzo aretino era stata adombrata.

Riluce dietro a costoro il delicato Guido Cavalcanti fiorentino, sottilissimo dialettico e filosofo del suo secolo prestantissimo. Costui per certo, come del corpo di bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo, così ne' suoi scritti non so che più che gli altri bello, gentile e peregrino rassembra, e nelle 15 Purg. XXVI, vv. 97-99.

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invenzioni acutissimo, magnifico, ammirabile, gravissimo nelle sentenzie, copioso e rilevato nell'ordine, composto, saggio e avveduto, le quali tutte sue beate virtù d'un vago, dolce e peregrino stile, come di preziosa veste, adorne […]. Né si deve il lucchese Bonagiunta e il notaro da Lentino con silenzio trapassare: l'uno e l'altro grave e sentenzioso, ma in modo d'oni fiore di leggiadria spogliati, che contenti doverebbono stare se fra questa bella masnada di sì onorati uomini li riceviamo. E costoro e Piero delle Vigne nella età di Guittone furono celebrati, il quale ancora esso, non senza gravità e dottrina, alcune, avvenga che piccole, opere compose [...] risplendono dopo costoro quelli dui mirabili soli, che questa lingua hanno illuminata:

Dante, e non molto drieto ad esso Francesco Petrarca […] Il bolognese Onesto e li siciliani, che già i primi furono, come di questi dui sono più antichi, così della loro lima averebbono bisogno, avvenga che né ingegno né volontà ad alcuno di loro si vede essere mancato. Assai bene alla sua nominanza risponde Cino da Pistoia […] il quale primo, cominciò l'antico rozzore in tutto a schifare. […] Segue costoro di poi più lunga gregge di novelli scrittori, i quali tutti di lungo intervallo si sono da quella bella coppia allontanati [...]».16

Viene qui proposto brevemente l'iter intrapreso e seguito dai poeti che precedettero o concretizzarono l'evolversi del nuovo modo di far poesia. A partire dai siciliani e passando per Guittone, ritenuto nel suo poetare ruvido e severo, si giunge a Guinizzelli, considerato precursore del nuovo stile. Segue la descrizione di Guido Cavalcanti, lodato per il suo stile leggiadro e delicato e sullo sfondo vengono collocati tutti gli altri autori che contribuirono ad arricchire e sviluppare lo stile e la lirica. Infine vengono citati Dante e Petrarca che sono considerati i due soli, i massimi esponenti della poesia, mentre a Cino viene qui attribuito, per la prima volta, il merito di aver cominciato a schifare per primo in tutto l'antico rozzore.

Nell'esegesi dantesca deve essere riservato un ruolo non indifferente a una nota di commento di Alessandro Vellutello - relativa ai versi 52-57 del canto XXIV del

16 Lorenzo de’ Medici, Opere, a cura di A. Simioni, volume I, Bari, Laterza, 1939, pp. 3-8.

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Purgatorio - il quale affermò che:

«[…] per le quali parole, Bonagiunta mostra accorgersi de la cagione, che 'l Notaio, Guittone d'Arezzo, ed egli, che similmente d'amore aveano cantato, non usaro quel dolce e nuovo stile, ch'egli udiva essere stato tratto fuori, la qual cagione si è che essi non aveano scritto per essere spirati d'amore, come avea fatto Dante, Guido Cavalcanti e Guido Guisinelli […] ma solamente aveano scritto a caso […] ».17

Egli con queste parole vuole sottolineare e focalizzare l'attenzione su una peculiarità che porta a separare Dante e i due Guidi dagli altri poeti, in quanto essi si distinguerebbero da coloro che li avevano preceduti per aver riportato per iscritto e fedelmente ciò che era il volere di Amore, attraverso uno stile molto attento e ricercato.

Comunque sia nel Cinquecento non sono stati notati progressi significativi in questo campo ma anzi si assiste a un certo affievolirsi dell'interesse per la poesia stilnovistica, fenomeno facilmente comprensibile se si considera che il culto esclusivo di Petrarca, inteso come modello di concinnitas spirituale e stilistica, non poteva autorizzare di certo una valutazione e un interesse letterario che privilegiasse i suoi immediati predecessori. In una pagina del II libro delle Prose infatti Bembo indica il Petrarca come “nel quale uno tutte le grazie della volgar poesia raccolte si veggono”.

Una più metodica attenzione si nota indubbiamente nei rappresentanti della nuova cultura arcadica i quali, mentre da un lato continuano la raccolta e la pubblicazione dei componimenti dei primi secoli, dall'altro dedicano biografie agli

17 Alessandro Vellutello, La 'Comedia' di Dante Aligieri con la nova esposizione, a c. di D.

Pirovano, Roma, Salerno editrice, 2006, pp. 1090-91.

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autori più noti e tentano di creare classificazioni e raggruppamenti. È in questo momento che viene accolta e fissata la separazione fra i siciliani e i poeti bolognesi e toscani, lodati per una maggiore nobiltà di stile e per una più profonda serietà di pensiero e di sentimento. Nella stessa cultura romantica tuttavia, a differenza di ciò che ci si potrebbe attendere, solo lentamente e con fatica si fa strada una comprensione più approfondita e positiva della lirica stilnovistica. Se infatti nel Settecento tale consapevolezza è soprattutto ostacolata dal concetto razionalistico pregnante dell'epoca, ora invece è la mancanza di spontaneità sentimentale e di immediato e diretto vigore umano l'attitudine che si rimprovera agli antichi rimatori italiani.

Adesso mi concentrerò principalmente sulla genesi della formula qui analizzata e sulle teorie avanzate nel corso degli anni.

Secondo quanto affermato da Donato Pirovano18, l'espressione dolce stil novo venne utilizzata nel 1870 - e per la prima volta nella storiografia letteraria - da Francesco de Sanctis per definire un gruppo di poeti caratterizzati da una più chiara sensibilità artistica: «Di questo dolce stil nuovo il precursore fu Guinicelli, il fabbro fu Cino, il poeta fu Cavalcanti»19. Secondo quanto già dichiarato, la nuova scuola toscana si distingue dalle precedenti per una coscienza stilistica più chiara e sviluppata.

È inevitabile e doveroso affermare che le scelte di De Sanctis vennero riprese e accettate da numerosi studiosi e storiografi. Secondo Emilio Bigi, il primo a usare la formula dolce stil novo dopo il De Sanctis fu il d'Ancona nella Prefazione a Le

18 D.Pirovano, Il Dolce stil novo, Roma, Salerno editrice, 2014.

19 Ibid., p. 15.

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antiche rime volgari secondo la lezione del codice vaticano 3793, dove affermò che: «È da ritenere, [...] che la lirica antica italiana, quella almeno che antecede il dolce stil nuovo iniziato dal Guinicelli, e perfezionato dai migliori fiorentini e massimamente da Dante è pallido reflesso della poesia provenzale».20 In seguito la nozione venne ripresa anche nelle note di commento al Purgatorio, come si può notare in quella di Tommaso Casini, secondo il quale alla scuola siciliana e a quella dottrinale - in Italia - ne segue una terza che altro non è se non quella fiorentina, detta del dolce stil nuovo, alla quale appartennero Dante, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e molti altri, poeti che:

«[…] alla profondità e novità dei concepimenti seppero far corrispondere uno stile più franco e perspicuo, una lingua più naturale e efficace e forme metriche meglio determinate (canzone e sonetto) o raccolte dalla poesia del popolo (ballata)».21

Alla fine del XIX secolo questa nozione risultava ben acquisita sia dalla storiografia che dalla critica ma non mancarono ulteriori voci contrastanti. Una di queste fu quella di Francesco Torraca, allievo di De Sanctis, che affermava che:

«Oggi, non senz'abuso, si suol chiamare “scuola del dolce stil novo” tutto un gruppo di poeti toscani, Dante, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia […] Ma Bonagiunta, cioè Dante, attesta ben chiaramente che le “nuove rime” e il dolce stil novo cominciarono con la canzone Donne che avete, la quale veramente, per altezza d'ispirazione e perfezione di forma, si lasciò di gran tratto addietro tutto ciò, che, fino allora, la lirica amorosa aveva prodotto in Italia».22

20 Le antiche rime volgari secondo la lezione del codice vaticano 3793, a c. di A. d'Ancona e D.

Comparetti, vol.I, Bologna, Gaetano Romagnoli, 1875. XIII.

21 Cito la nota 16 a p. 22 da Il Dolce stilnovo, a c. di Donato Pirovano. Divina Commedia, in T.

Casini, Manuale di letteratura italiana ad uso dei licei, Firenze, Sansoni, vol. II, 1989, Purg., XXIV, 50, p. 437.

22 F.Torraca, Commento alla Divina Commedia, a cura di V. Marucci, Roma, Salerno editrice,

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Ma anche secondo altri critici quella era un'etichetta errata, con la quale si era soliti definire una determinata corrente poetica. Altri ancora invece proponevano delle letture totalmente differenti e antitetiche, che si opponevano, per esempio, a quella sostenuta da Mario Marti il quale riteneva opportuno e legittimo utilizzare quella formula per designare e differenziare un gruppo di poeti, legati da rapporti di amicizia e medesime preferenze e strutture poetiche, dagli altri. Infatti egli sostiene che:

«[…] Certo, cose ovvie, risapute, e già ripetute tante volte. Ma abbiam voluto e dovuto ricordarle per giungere ad una semplice considerazione, sulla quale non tutti i critici sono d'accordo. […] che lo Stil nuovo non può essere considerato una scuola artificiosamente creata dai posteri; e che i suoi confini, culturali e ideologici, ben lungi dal dissolversi nella prospettiva della tradizione letteraria e della storia, sembrano essere validamente tracciati dai coevi oppositori stessi negli argomenti, nei modi e nei toni della loro polemica. D'altra parte gli stilnovisti si dimostrano ben consapevoli della novità della loro poetica».23

Totalmente opposta risulta essere l'opinione di Guido Favati che afferma la propria idea in merito alla questione nell'Inchiesta sul Dolce stil novo, sostenendo, rigidamente, la mancata esistenza di uno stil novo, in favore di una nuova visione che riconosce il ruolo assunto da quei poeti:

«[…] un certo numero di rilevanti personalità, vissute press'a poco in uno stesso momento, […] tanto rilevanti, che hanno suscitato uno stuolo d'imitatori o comunque di gente che li riconosceva come maestri pur ingegnandosi di non rinunciare ad una propria personalità, e che ha risentito profondamente di loro».24

2008, Purg XXIV 55-57, vol II, p. 254.

23 M. Marti, Poeti del Dolce stil nuovo, Firenze, Le Monnier, 1969, Introduzione, p. 7.

24 G. Favati, Inchiesta sul Dolce stil novo, Firenze, Le Monnier, 1975, p. 340.

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A partire da queste ipotesi contrapposte si dà il via alle successive ramificazioni divergenti, ma il concetto di dolce stil novo resterà immutato.

Gli studiosi si sono domandati se le parole pronunciate nel canto XXIV del Purgatorio siano da considerare limitate alla figura di Dante poeta o siano da estendere effettivamente alla cerchia di tutti coloro che avevano coltivato le medesime passioni e avevano mostrato l'intenzione di perseguire lo stesso obiettivo.

Fra tutti, è peculiare il contributo espresso da Domenico De Robertis25 secondo il quale ciò di cui Dante parla è esclusivamente relativo agli aspetti della sua poetica, facendo riferimento - in particolare - alla Vita Nuova, quindi a quelle nuove rime della lode sopraelevate rispetto alla passioni e agli affetti, più elaborate e mature:

«Ma Dante ci aveva dato prima che una sua teoria dei rapporti fra ispirazione e espressione, l'indicazione dei testi dove essa è realizzata. È dunque alla Vita Nuova e ai capitoli 17-19 nei quali è annunziato l'avvento delle “nove rime”, che dobbiamo rifarci. Nel rapporto dall'uno all'altro testo vive e si tende la storia di quel motivo».

e ancora:

«[…] Qui è la novità. Le “nove rime” sono quelle della lode, non toccate dalla passione e dalla guerra degli affetti. E il vecchio stile sono le rime del

“gabbo” e dell'impossibilità di “sostenere la presenza” di madonna» […] la poesia della situazione angosciosa e “dell'intollerabile beatitudine”, della

“battaglia dei sospiri” e dei “pensamenti”, della distruzione e cacciata degli

“spiriti”, del “mirabile tremore”, della “trasfigurazione” e “scolorimento”

della persona, “dell'amorosa erranza”, fino al disperar partito di chiamar

25 D. De Robertis, Definizione dello stil novo, in «L'approdo», Torino, ERI, I, 1954. pp. 59-64.

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Pietà e mettersi nelle sue braccia»26.

Per concludere affermando che:

«Lo stil novo è dunque la Vita Nuova; è la poesia della Vita Nuova, più precisamente delle “nove rime” […] come storia di uno stile, […] di un modo di poesia e diciamo pure di un modo di conoscenza, che prende figura di storia d'un amore». 27

Si tratta tuttora di un dibattito aperto e irrisolto, in cui si contrappongono voci che sostengono la teoria della cerchia ristretta di intellettuali con passioni e stile in comune e il solo riferimento alla figura e allo stile dantesco.

Comunque sia, dalla poesia precedente questi poeti ripresero, nelle loro produzioni, due motivi fondamentali che vennero comunque rinnovati e modificati: il concetto della superiorità e perfezione della donna e quello dell'amore-nobiltà. Il primo, che delineava la donna come una creatura sovrana piena di ogni perfezione, era stato elaborato in clima nobiliare-feudale da Guglielmo IX duca d'Aquitania, conte di Poitiers, che concepì il concetto dell'amore inteso come forma di vassallaggio dell'uomo nei confronti della donna- signora, alla quale l'amante chiedeva la suprema mercé di esser fatto suo pari.

Per quanto concerne quest'ultima condizione infatti è necessario sottolineare che non si può pensare di poterla realizzare se in primo luogo il soggetto verso il quale si tende non è di per sé colmo di ogni merito e grandezza, ed è appunto sulle lodi di questa grandezza che si esercitò la poesia successiva.

26 Ibid., p. 60.

27 Ibid., p. 61.

(29)

È a partire dalla condizione della superiorità della donna che per essi si crea la peculiarità nobilitante dell'amore, aspirazione magnanima a un ideale supremo di merito che si configura nel desiderio stesso di raggiungere uno stato di parità con un personaggio di tanto valore quale lei risultava essere.

Nei poeti di questo periodo l'amore è per lo più esperienza intima, privata e strettamente personale. Non ci sono più attorno - come avveniva nella poesia trobadorica - rivali e malelingue che vivono e si diffondono all'interno della corte, ma sulla scena sono presenti solamente l'innamorato e la donna, accompagnati talvolta da poche persone elette e scelte con cura.

Le donne che ispirano questi componimenti lirici hanno una loro precisa identità e pertanto vengono chiamate per nome; di alcune i poeti rivelano particolari biografici, e ciò facilita una loro più precisa collocazione e delineazione nell'ambiente che costituisce lo sfondo di questo nuovo sentimento, mentre di altre non si conosce alcun dettaglio, e ciò non permette di dare agli scritti maggiore fede e veridicità. Inoltre esse non sono descritte esteticamente o fisicamente, ma viene riferito principalmente l'effetto che la loro potenza ha sull'animo del poeta.

Per esempio, riporto alcuni estratti lirici28: per Guinizzelli29, la donna ha «Viso de neve colorato in grana, / occhi lucenti, gai e pien' d'amore»; per Dante30, Beatrice

«Color di perle à quasi, in forma quale / conven a donna aver, non for misura» o ancora nella descrizione di Selvaggia eseguita da Cino31 emergono numerosi tratti fisici della donna:

28 Poesie dello Stilnovo, a c. di Marco Berisso, Milano, Bur, 2015.

29 Poeti del Dolce stil novo, a c. di Gianfranco Contini, Milano, Oscar Mondadori, 1991.

Guinizzelli, VII, vv. 5-6, p. 33.

30 Poesie dello Stilnovo, a c. di Marco Berisso; Dante Alighieri, Donne ch'avete intelletto d'amore, vv. 47-48, p. 115.

31 Ibid., Cino da Pistoia, LIV, vv. 1-9, p. 308.

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«Oimè lasso, quelle trezze bionde […] / oimè, la bella cera e le dolci onde, / che nel cor mi fediéno, / di quei begli occhi al ben segnato giorno; / oimè, 'l fresco ed adorno / e rilucente viso, / oimè lo dolce riso».

Cavalcanti invece, nei suoi componimenti, non fa trapelare nulla sull'aspetto fisico di Giovanna, anche se la sua bellezza era ben conosciuta in quel tempo.

Le donne a cui i poeti rivolgono il loro sentimento sono dotate di peculiarità fondamentali: sono belle, perfette, portatrici di alti valori e soprattutto di virtù salvifica. Viene qui ripreso il topos della donna angelo ben radicato nella tradizione trobadorica e che giunse agli stilnovisti attraverso le opere dei poeti del Duecento. La differenza fra la tradizione che si afferma in questi anni e quella precedente è che la donna assume un valore di tipo ontologico, ovvero non è bella come un angelo, ma incarna la figura angelica mandata sulla terra a miracol mostrare32.

Un'altra attitudine di questi poeti è il voler sottolineare l'identità tra amore e nobiltà d'animo e ciò si può comprendere meglio a partire da quanto affermato da Dante stesso all'interno della Vita Nuova: «Amore e 'l cor gentil sono una cosa, sì come il saggio in su' dittare pone»33. Il saggio a cui Dante si rifà potrebbe essere lo stesso Guinizzelli e più precisamente il componimento Al cor gentil rempaira sempre amore, nel quale il rapporto fra i due elementi sopraccitati costituisce il fulcro della canzone. Dolce e sottile sono i due tratti caratterizzanti la poesia stilnovista; secondo quanto dichiarato da Donato Pirovano:

32 Ibid., Dante Alighieri, Tanto gentile e tanto onesta pare, v. 8, p. 123.

33 Ibid., Amore e' l cor gentil sono una cosa, vv. 1-2, p. 117.

(31)

«La dolcezza indica, infatti, anche la ricchezza del sentimento e la pienezza interiore: dunque Amore parla nel cuore nobile in modo tanto più intellettualmente raffinato (sottile) quanto più ricche, profonde ed eccelse (dolce) sono la spiritualità e la cultura del poeta».34

Ciò che conta è quindi la purezza del sentimento e dell'animo, il saper ascoltare e comprenderne i moti e saper prendersi cura del cuore che è sede naturale di Amore, mentre non è necessario quindi, secondo quanto richiesto nella tradizione precedente, occupare un ruolo sociale elevato o di prestigio né appartenere a una cerchia di pubblico selezionata.

Infine, il poeta rispetto ad Amore deve assumere un ruolo fondamentale; egli è suo scriba, riporta e mette in versi il suo volere, che per questo motivo è supremo e indiscutibile. Questo trova un primo riscontro nei versi del XXIV canto del Purgatorio, dove Dante, dopo aver incontrato Bonagiunta Orbicciani, intraprende con lui un breve colloquio. Il rimatore lucchese vuole sapere se il suo interlocutore sia proprio l'inventore di un nuovo stile poetico con la canzone Donne ch'avete e a questa domanda Dante risponde con umiltà, esponendo tutte le caratteristiche del suo stile. Egli insiste particolarmente sulla natura trascendente dell'ispirazione poetica e descrive tutti i poeti nella loro funzione di fedeli di Amore e nei loro compiti di accogliere ed esprimere, con assoluta fedeltà, ciò che egli comunica loro:

«E io a lui: «I' mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch' e' ditta dentro vo significando».35

34 D. Pirovano, Il Dolce stil novo, pp. 222-23.

35 Purg., XXIV, vv. 52-53.

(32)

Innanzitutto, è doveroso soffermarsi sulla canzone dantesca alla quale viene qui attribuita una grande importanza. D'altronde, è lo stesso poeta a sottolinearne la peculiarità all'interno della Vita Nova, in cui introducendo il gruppo dei componimenti della lode di Beatrice affermava che convenne ripigliare una matera nuova e più nobile che la passata.

Riprendendo le parole pronunciate durante il colloquio con Bonagiunta, Dante afferma di essere uno di quei poeti che prende nota delle parole dettate da Amore e cerca di esprimerne il significato e il valore con assoluta fedeltà e devozione nei suoi confronti. Sostenendo di non essere il solo ma uno fra tanti, egli declina ogni merito personale e sottrae la sua esperienza ogni carattere di unicità e grandiosità.

A questa prima affermazione segue la descrizione dell'ispirazione e della funzione che hanno tutti coloro che ascoltano e riportano per iscritto il volere di Amore.

Natalino Sapegno, nella nota relativa al verso 52, riporta le seguenti parole:

«[…] Colgono con esattezza la sfumatura di umiltà che impronta tutta la frase dantesca, quei commentatori antichi (Lana, Anonimo fiorentino) che la parafrasano, con letterale aderenza al testo, così: «Amore è mio dittatore, e io suo scrivano». Così intesa, l'espressione può esser riportata ad un modulo comune della lirica cortese (già il Cavalcanti aveva detto, in un sonetto a Guido Orlandi: «Amore ha fabbricato ciò ch'io limo»; e prima ancora Arnaldo Daniello: «Obre e lim motz de valor ab art d'Amor»).36

È questa la novità che viene risaltata ora, l'essere portatori di un volere superiore, assoluto e nobilitante. E infatti subito dopo Bonagiunta dichiara che è evidente quale sia la differenza tra la tradizione di cui lui stesso fece parte e quella stilnovista, facendo sempre riferimento a una pluralità di poeti e non solo a Dante

36 Dante Alighieri, La Divina Commedia, a c. di Natalino Sapegno, Purgatorio, XXIV, v. 52, p.

257.

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stesso:

«O frate, issa vegg'io» diss'elli «il nodo / che 'l Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch'i' odo! / Io veggio ben come le vostre penne / di retro al dittator sen vanno strette, / che de le nostre certo non avvenne; / e qual più a gradire oltre si mette, / non vede più da l'uno e l'altro stilo»; e, quasi contentato, si tacette». 37

Riprendendo il discorso relativo al dettato d'Amore e mantenendoci sul piano della critica letteraria dantesca, merita di essere citata parte della nota di commento già citata di Alessandro Vellutello, relativa alla risposta che Dante dà a Bonagiunta, che delineano ancora una volta con esattezza la funzione e gli elementi alla base dei poeti stilnovisti:

«Risponde Dante egli esser uno, il quale, quando amore spira, cioè quando ditta ne la mente, nota e va significando, e va scrivendo e mostrando di fuori a quel modo ch'esso amore ditta dentro in essa mente. Per le quali parole, Bonagiunta mostra accorgersi de la cagione, che 'l Notaio, Guittone d'Arezzo, ed egli, che similmente d'amore aveano cantato, non usaro quel dolce e nuovo stile, ch'egli essere spirati d'amore, come avea fatto Dante, Guido Cavalcanti, e Guido Guisinelli, da' quali fu molto elimato questo modo di dir in versi e rime volgari, ma solamente aveano scritto a caso; onde dice: o frate, o fratello, issa, ora vegg'io il nodo che ritenne il Notaio, Guittone, e me di qua dal dolce e nuovo stile ch'i' odo, che ora s'usa, come vuol inferire».38

Gli stilnovisti rimano esclusivamente d'amore - e di per sé non è questo il tratto innovativo, in quanto la tematica amorosa ha radice molto profonde - ma il modo in cui si investiga e si delinea la figura stessa di Amore, definito sia da Dante che da Cavalcanti come accidente. Si veda il paragrafo xxv della Vita Nova:

37 Purg., XXIV, vv. 55-63.

38 A. Vellutello, La Comedia di Dante Aligieri con la nova esposizione, a cura di D. Pirovano, Roma, Salerno editrice, 2006, Purg, XXIV, 52-57, Vol.II, pp. 1090-91.

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