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Discrimen » Riscrivere il codice penale. Le pene

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Academic year: 2022

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Pacini

E d i t o r e Ricerca

Riscrivere il Codice Penale

LE PENE

a cura

dell’Unione delle Camere Penali Italiane Postfazione di

VALERIO SPIGARELLI

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Realizzazione editoriale

Via A. Gherardesca 56121 Ospedaletto (Pisa) Responsabile marketing Lisa Lorusso Responsabile di redazione Valentina Bàrberi

Fotolito e Stampa

Industrie Grafiche Pacini

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume /fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.

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INDICE

Prof. Massimo Pavarini

Ordinario di Diritto Penale, Università di Bologna

Relazione introduttiva ... 5 Sen. Pietro Marcenaro

Presidente Commissione Straordinaria per la Tutela e la Promozione Diritti Umani La tortura impunita, a venticinque anni dalla ratifica

della convenzione ONU ... 16 Prof. Silvia Larizza

Ordinario di Diritto penale, Università di Pavia

L’imputabilità e il trattamento del minore – profili giuridici ... 19 Prof. Avv. Adelmo Manna

Ordinario di Diritto Penale, Università di Foggia

L’imputabilità e il trattamento del non imputabile maggiorenne ... 25 Prof. Gianvittorio Pisapia

Associato di Criminologia, Università di Padova

La pericolosità sociale e il trattamento del delinquente pericoloso ... 32 Prof. Claudio Sarzotti

Ordinario di Filosofia del Diritto, Università di Torino

Il sociologo e la legittimazione a punire ... 42 Prof. Luciano Eusebi

Ordinario di Diritto Penale, Università Cattolica di Milano

Quale e quanto carcere ... 50 Dott.Ssa Antonia Menghini

Ricercatrice di Diritto Penale, Università di Trento

Profili di diritto comparato ... 55 Avv. Bruno Guazzaloca

Foro di Bologna

Le alternative alla pena detentiva ... 63

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Prof. Francesco Palazzo

Ordinario di Diritto Penale, Università di Firenze

La riforma del sistema sanzionatorio: le esperienze del passato

e le prospettive future ... 75 Avv. Valerio Spigarelli

Presidente Unione Camere Penali Italiane

Postfazione ... 84

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Prof. Massimo Pavarini

Ordinario di Diritto Penale, Università di Bologna

RELAZIONE INTRODUTTIVA

“Come punire: per un nuovo sistema sanzionatorio”: il tema è certamente di grande interesse ed è attuale da più di sessant’anni, cioè da quando esiste l’articolo 27 della Costituzione.

Tutti gli avvocati e in particolare quelli che come il sottoscritto fanno il cosiddetto penale carcerario avvertono la necessità che il sistema sanzionatorio e le sue modalità esecutive si conformino in modo sostanziale al dettato costi- tuzionale che prevede pene non contrarie al senso di umanità (penso al 41 bis) e sempre tese alla rieducazione del condannato. La necessità di un intervento radicale è davvero pressante perché la legge Gozzini, che è arrivata dopo quasi trent’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, quale doveroso e civilissimo adeguamento legislativo, è stata periodicamente fatta oggetto di tentativi di controriforma inaccettabili. I penalisti da barricata, come chi scrive, avvertono invece l’esigenza che la Gozzini sia potenziata e che tutti gli istituti in essa pre- visti siano messi in condizione di funzionare davvero, ad iniziare dal cosiddetto trattamento individualizzato del detenuto.

I quesiti che quotidianamente mi pongo sono molti.

Perché non cercare di rendere più facilmente concedibili i cosiddetti bene- fici penitenziari anche in via provvisoria, eliminando ad esempio il presupposto del grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione che rende di fatto inoperante la sospensione dell’esecuzione prevista nell’art. 47 l.354/75?

Perché non agevolare allo scopo la formulazione da parte del giudice di sorveglianza del giudizio prognostico favorevole al condannato che non può non basarsi, in assenza di impulsi irresistibili a delinquere del soggetto, anche sull’evidente interesse ad autodeterminarsi completamente, di chi sa che, se vuole, può saldare il proprio debito con la giustizia, senza far ingresso o rien- trare in istituto?

Ed ancora: perché non prevedere un reale automatismo dell’esecuzione do- miciliare delle pene brevi ricondotte ad un istituto unico, eliminando eventuali rinvii, anche impliciti ai criteri di accertamento della concedibilità dei benefici penitenziari ordinari che troppa discrezionalità lasciano al giudice?

Infine: perché non introdurre finalmente l’istituto della “messa alla prova”

abbandonando le ritrosie e i tentennamenti che finora ne hanno impedito l’ap- provazione?

Partirei da una prima osservazione che in qualche modo è stata già richia- mata. Ad esempio, le diverse questioni di teoria generale del reato, non del tutto coincidenti con la parte generale di un codice penale, da tempo, secondo me, invitano ad un’aspettativa di riforma della materia, almeno dal punto di vista scientifico. Intendo dire che si è grossomodo affermata una comunis opinio tra

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dogmatica dottrina dei professori e dogmatica della giurisprudenza sulle nume- rose questioni della teoria generale del reato e quindi si può confidare, non da un punto di vista politico, ma da un punto di vista tecnico e scientifico, anche in soluzioni condivise.

Altrettanto non può dirsi in tema di teoria generale della pena e in tema di sistema sanzionatorio. Qui dominano posizioni distinte, spesso distanti e confliggenti, che da un lato denunciano una sorta di smarrimento dell’idea stessa di sistema: in termini più abusati, si parla di collasso, disintegrazione, balcanizzazione (sono appunto i termini più usati per definire le macerie del sistema della pena); dall’altro un deficit di fantasia riformista che mostrerebbe una certa incapacità di costruire nuove strutture inerenti alla disciplina delle conseguenze giuridiche del reato. Bene, questo contrapporsi dall’atteggiamento fortemente ottimista ad uno fortemente pessimista, solo che si consideri i con- tenuti dogmatici (uso il termine dogmatico come argomentazione giuridica per principi) a seconda che si guardi il reato o che si guardi la pena secondo me è conseguenza di una duplice serie di fattori.

Il primo fattore consegue alla crisi della retribuzione. La crisi del modello retributivo che, sappiamo, e lo ribadirò più volte all’interno della mia relazione, è il solo criterio logicamente conseguente ad un modello del diritto penale del fatto e della colpevolezza, di derivazione ovviamente neokantiana e idealista.

Mentre, all’interno della teoria generale del reato, la prevalente dottrina italia- na, ma anche tedesca, spagnola, portoghese è tuttora ancorata ad una dogmati- ca di reato che si ispira al criterio della colpevolezza e del fatto.

A fronte di questa crisi, che poi esamineremo, c’è un altro elemento. Que- sto è dato da una serie di fattori che hanno determinato l’affermarsi, spesso a livello ideologico, ma anche con ricadute giurisprudenziali e pragmatiche, di un modello sanzionatorio di tipo utilitaristico o preventivo, per sua natura re- frattario a colloquiare con le categorie sistemiche di un diritto penale del fatto e della colpevolezza, ovvero con i principi elaborati dalla dogmatica del reato.

Vediamo di argomentare queste due proposizioni. Procedo per punti.

Sulla prima, crisi della retribuzione: il paradigma retributivo della pena si im- pone come logicamente conseguente ad un modello di diritto penale del fatto e della colpevolezza. Il vincolo indissolubile che unisce quel modello di reato a questo modello di sanzione è la categoria della meritevolezza di pena, che funge da equivalente, all’interno della teoria della pena, al riconoscimento della colpe- volezza, come questa si impone alla teoria generale del reato. Pertanto i giudizi di disvalore dell’evento, come di disvalore dell’intenzione, si convertono nella pena giusta come pena meritata, cioè proporzionata alla misura di quei disvalori.

Lo sappiamo e l’abbiamo più volte denunciato: è un’illusione ricorrente della scienza penale nella modernità e quindi diventa un sogno, non so quanto un incubo, quello di poter eguagliare, almeno nella fase commisurativa o della pena in concreto, la precisione contabile della pretesa risarcitoria derivante civilmente dal fatto illecito.

Così come quella privata retribuzione si misura sul valore economico del danno sofferto dalla vittima, quella pubblica del sistema penale ambirebbe di determinare una sorta di equivalenza sinallagmatica tra disvalore del fatto pe- nalmente rilevante e quantum di sofferenza della risposta sanzionatoria al me- desimo. Tutto questo ha senso ove si accetti, ed è culturalmente e storicamente

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RELAZIONE INTRODUTTIVA

necessario accettare, qualcosa che invece nel suo assunto è indimostrabile, cioè che il dolore e la sofferenza siano la sola o la prevalente moneta con la quale è possibile pagare la colpa.

Io credo che il nostro codice penale Rocco confidi nella possibilità di sod- disfare questa “virtù” retributiva, questa capacità di trovare l’equivalenza sinal- lagmatica tra disvalore del fatto e quantum della sofferenza. In questo senso l’art. 133, io credo al 90% prefigura, se vogliamo usare una metafora che era chiara ad un mio maestro, “una sola divinità sul margine del tempo”, un dio che guarda al passato, cioè all’illecito penale come fatto della storia e che giudica e soppesa il valore della condotta umana per quella che è stata e la compensa negativamente con una sofferenza legale equivalente.

La capacità a delinquere, certo, prefigurerebbe, invece, un giano bifronte capace di gettare anche uno sguardo al futuro ma è uno sguardo fugace, si- curamente strabico, una sorta di concessione obtorto collo alle necessità della difesa sociale. Insisto, l’impianto di fondo del nostro codice è ancora di tipo retributivo.

Da questo, ovviamente, discendono alcuni necessari corollari: come il prin- cipio dell’intangibilità del giudicato per quanto concerne la misura della pena inizialmente comminata e la indifferenziazione qualitativa del castigo nella sua fase esecutiva.

Il declino, irreversibile a mio modesto avviso, del modello retributivo si de- termina per plurime ragioni molte delle quali, almeno a mio parere, sono ester- ne al sistema del diritto penale stesso. Ma non credo sia questa l’occasione, per ritornare su questo profilo. Diciamo che grossomodo credo che il cambiamento sia riconducibile al passaggio da uno stato di diritto ad uno stato sociale. Con tutto quello che vuol dire di complicato.

Qui importa ricordare altro, di meno importante ma, comunque, necessa- rio. Il principio della retribuzione fallisce miseramente rispetto anche alla sua mission garantista che è propria di un diritto penale da stato di diritto: quella di indicare un limite al potere giudiziario nella determinazione della pena in concreto. E questo per delle ragioni oggi molto investigate dalla filosofia del diritto penale. L’equivalenza tra disvalore del fatto e severità del castigo, inteso spesso come lunghezza e intensità di dolore, è una pretesa illogica in quanto impossibile. Impossibilità che regna tanto nella fase edittale quanto nella fase commisurativa. A livello di criminalizzazione primaria, la cornice edittale della pena in astratto è frutto di una scelta, di una volontà politica non rispondente a soli, né prevalenti, canoni di razionalità. Infatti, domandiamoci: qual è razio- nalmente la pena giusta in quanto proporzionata al furto semplice, allo stupro, alla bancarotta fraudolenta?

A livello di criminalizzazione secondaria invece, il momento commisurativo della pena si apre su quell’abisso (di fatto inesplorato) del potere discrezionale del giudice. La ricchissima produzione empirica nel mondo anglo-parlante e dei sistemi di common law sul sentencing che è appunto la fase della commisura- zione della pena in un sistema bifasico, ma anche le pochissime investigazioni empiriche condotte ad esempio anche nel nostro Paese sul punto concordano, non possiamo negare la validità di questi dati: lo stesso campione di reati omo- genei per grado di offensività, per le modalità della condotta e dell’azione, per l’elemento soggettivo e anche per la pericolosità criminale dell’agente è nel

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medesimo sistema di giustizia penale diversamente punito. La pena in concreto è per sua natura disuguale nello spazio e nel tempo.

È stato detto e condivido “il 133 letto così non dice nulla” se non che la pena, lo sappiamo bene, non è una misura di prevenzione ante delictum quindi ovviamente seguirà temporalmente il reato commesso. Per il resto, esprime solo una serie di buone intenzioni: pena proporzionata al fatto, tendenzialmente uguale per reati uguali e quindi certa, prevedibile. Buone intenzioni che tali rimarranno perché abbiamo elementi sufficienti non tanto per dire che non le abbiamo mai realizzate, ma per dire che sono irrealizzabili.

Vale qui la pena di ricordare come il fine umorismo, accompagnato spes- so da una predilezione tipicamente nordica per la prima colazione mattutina, faccia dire ai penalisti, in Inghilterra e in America, nei loro manuali, con un’e- spressione felice, che la discrezionalità nel momento commisurativo della pena può essere chiamata breakfast discretionality: l’imputato al momento della con- danna può solo contare sul fatto che il giudice abbia consumato al mattino una buona colazione.

La determinazione della pena in concreto, peraltro nel nostro ordinamento tradizionalmente mai motivata, non sarà mai una pena uguale e certa. Non lo è stato neppure sotto i tentativi più radicali di ricondurre invece a questo modello o a questo augurio il sistema delle pene.

Penso agli anni Settanta-Ottanta in America, di fronte al movimento del Ju- stice Model che appunto si contrapponeva al Social Model della giustizia penale, (che era un insieme di persone che oggi diremmo animate spesso da atteggia- menti intransigenti riconducibili a modelli neoliberali, altre volte progressisti nel senso appunto che può essere nel mondo anglosassone un penalista) i quali in qualche modo invitarono fortemente a un regresso nostalgico alle teorie del- la desert, termine con il quale si designa nel mondo anglosassone la retribuzio- ne, la meritevolezza della pena. Essi invitarono a riscrivere, in un Paese senza codificazione, per molti stati codificazioni penali riformate e su modelli tariffari e addirittura, forse più interessante, al diffondersi negli Stati Uniti delle linee guida (guide lines) che operano il calcolo della pena, in concreto, attraverso la predeterminazione di un indice, ponderato su base numerica per una pluralità elevatissima di items ricavabile dal fatto e dall’autore. Bene, neppure in questi sistemi radicali alla ricerca di una pena uguale o tendenzialmente uguale è stato mai possibile ricavare o determinare una pena tendenzialmente uguale per reati uguali. Semmai una pena in concreto meno disuguale, però spesso pagando il prezzo di un elevamento della severità media dell’erogazione dei castighi.

È una piccola parentesi che faccio, inquietante, ma bisogna registrare anche le cose inquietanti. È possibile dimostrare che: tanto più si restringe la forbice edittale fino al limite di un sistema penale quasi tariffario (e quindi ovviamente si restringe il potere discrezionale nel sentencing) tanto più però nei fatti au- menta la severità delle pene. Quindi pene più certe alle quali si accompagna spesso nei fatti la pena più severa come se quasi si potesse dire che il potere discrezionale del giudice almeno nel momento commisurativo tendenzialmente favorisca scelte di mitezza. Chiusa la parentesi inquietante.

Primo punto di sintesi. Un diritto penale del fatto e della colpevolezza, nel sistema occidentale, impone un modello retributivo, almeno con riguardo alla commisurazione o determinazione della pena in concreto. Di più, sono disposto

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RELAZIONE INTRODUTTIVA

a sostenere che mai si sarebbe potuto sviluppare e progredire verso un modello di diritto penale del fatto e della colpevolezza al di fuori o in assenza della dog- matica della pena giusta in quanto retributiva. Tutto vero, ma a una condizione storica, culturale di nodale importanza, a cui non poniamo attenzione perché sembra ovvia, ma ovvia non è: la dogmatica della retribuzione legale come peraltro il diritto penale del fatto e della colpevolezza hanno inteso e nel con- tempo imposto la pena solo in un senso o accezione negativa. Come un male consistente nella negazione o nella riduzione dei diritti fondamentali o di legit- time aspettative in capo all’autore. Insomma, una concezione che vede il rece- pimento dell’idea di un sistema di giustizia penale come dispensatore pubblico di sofferenza, come irrogatore di dolore o, se preferite, usando un linguaggio più moderno e sociologico, come produttore e distributore di handicap sociali.

Ergo, se la pena è solo male, è ovvio che possa essere legittimata solo se il male del reato è perlomeno equivalente. La pena come sofferenze inflitta in- tenzionalmente può essere soltanto retributiva perché questo è uno dei pochi punti fermi della dogmatica della pena moderna, ma detto questo, nel con- tempo, siamo consapevoli dell’impossibilità di determinare retributivamente il quantum di male da infliggere all’agente del delitto.

Reato e pena rimarranno, dunque, al di là di ogni sforzo contrario e gli sfor- zi sono stati fatti e con quale estrema eccellenza filosofica, realtà disomogenee, non potranno mai essere tra loro comparabili.

Se pertanto la retribuzione non riesce più effettivamente ad operare come limite del potere punitivo (si legga ancora nei manuali: “Il Principe non mi può punire oltre il limite della mia colpa” cioè oltre il limite della pena giusta, come pena da me meritata), se non può fare neanche questo, la retribuzione finisce per non soddisfare le esigenze minime del garantismo penale. La pena come male senza scopo dispensa e socialmente alloca una sofferenza inaccettabile perché comunque fuori controllo razionale, incapace com’è di sottostare a cri- teri certi di autolimitazione sistemica. La pena retributiva si converte così in una pena scandalosa perché svela un potere punitivo comunque incontrollabile e pertanto insensato. Io credo che nessuno meglio del grande Kafka de Nella colonia penale sia riuscito a rappresentare questa grottesca follia della retribu- zione, la macchina retributiva che impazzisce.

Andiamo al secondo punto, che è quello dell’imporsi progressivamente nel tempo della pena utile cioè preventiva. Anche qui procedo per sintesi quasi rapsodica.

La pena preventiva, è stato detto, adeguatamente incarna lo stato avanzato di laicizzazione del diritto di punire. In termini storici, tra Ottocento e Nove- cento, il diritto penale non riesce più a soddisfare la promessa per cui fu così inteso dal pensiero classico: di limite alla politica criminale. Il diritto penale si svela e si converte, ahimè, in strumento di politica criminale. Certo mantiene le sue specificità ma sempre meno. Già solo accennare ad un diritto penale fina- listicamente orientato significa interrogarsi sull’utile sociale e proporre quindi per la pena anche una sua natura positiva.

La pena diventa sempre più azione di governo, modalità di disciplina di conflitto. Certo, la pena può essere ancora sofferenza ma una sofferenza pa- radossalmente a fin di bene, perché attraverso il dolore ci si menda, perché attraverso la minaccia del dolore ci si astiene dal delinquere, ma anche perché

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la risposta al delitto nel modello preventivo può essere altro dalla sofferenza, può essere altro dal dolore inflitto intenzionalmente: può essere aiuto, ascolto, soccorso, servizio, mediazione, conciliazione…

Ovviamente, gli scopi manifesti del potere punitivo sono gli stessi dagli albo- ri della civiltà occidentale ed albergano nella riflessione greca: scopi di preven- zione generale, scopi di prevenzione speciale, contrasto di determinate condotte illecite, limite alla reiterazione delle medesime da parte degli stessi autori. Non dice nulla questo però della funzione latente del potere punitivo, evidentemente ad altri scopi orientata che non a quelli di prevenzione. Così si avanzano tesi, da parte dell’opinione revisionista, che dicono che il sistema delle pene è un ten- tativo insieme a tanti altri, certo inadeguato, però un tentativo di conservazione della realtà sociale disuguale attraverso la verticalizzazione dei rapporti sociali.

Certo, questa valutazione concerne all’essere della pena legale e non al suo dover essere. Su questo l’amico Ferraioli sicuramente mi rimprovererebbe però mi scappa di dirlo. Comunque non è casuale che il diritto penale moderno nasca in esplicita opposizione al potere punitivo, con l’intento preciso di con- tenere quello che la modernità chiamò: “potere di fatto” o “potere di polizia”.

Solo che con l’avvento dello stato sociale di diritto, il volto sempre più materno di uno stato benefattore consentì ideologicamente di proporre un diritto pena- le ormai soltanto in una logica funzionalistica, come strumento di una polizia criminale sempre più dolce e soft. Anche questo secondo punto consente una sintesi in due affermazioni:

1) Se la pena è un male, come dicevamo prima, il diritto penale moderno può legittimarlo solo come retribuzione, cioè come sofferenza uguale, certa e prevedibile nei termini del sinallagma;

2) Se la pena è un bene, il diritto penale contemporaneo lo legittima ai fini di prevenzione: un intervento duttile, flessibile, disuguale, incerto, imprevedi- bile. Sono i termini propri della politica criminale. Ma non soltanto un utile in chiave preventiva, la pena che si piega ad esempio a valutazioni premiali non persegue intenti di prevenzione criminale, ma di economia processuale car- ceraria, di spinta motivazionale per adesione a scelte terapeutiche, a pratiche collaborative particolarmente apprezzate. Soprattutto una pena utile non può sottrarsi al calcolo dell’utile, la pena deve valer la pena anche economicamente.

Bene, l’ingresso della pena utile anche sull’altare del principio sancito dall’art.

27 della Carta costituzionale, impone il rovesciamento dei paradigmi classici della penalità: dall’inflessibilità della pena alla massima flessibilizzazione della stessa; dalla pena giudizialmente determinata alla relativa indeterminatezza del- la pena in concreto; da un sistema sanzionatorio tendenzialmente monistico – pena limitativa di libertà, un po’ di pena pecuniaria – funzionale per sottostare ad un apprezzamento sulle differenze quantitative, a un sistema sanzionatorio pluralista che sappiamo è funzionale per un apprezzamento sulle differenze qualitative. E ancora da un sistema sanzionatorio relativamente indifferenziato in fase esecutiva – se si vuole in ossequio al principio classico dell’uguaglian- za – alla riproposizione (ecco quando io parlo di rifeudalizzazione) della pena differenziata e quindi disuguale a seconda del profilo personologico del punito nel rispetto del principio dell’individualizzazione della pena. Su questa rasse- gna si potrebbe continuare a lungo.

Per il penalista dogmaticamente formato questo rovesciamento paradigma-

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RELAZIONE INTRODUTTIVA

tico è di immediata comprensione. Una pena che sia una pena utile è sempre più simile alla misura di sicurezza, anzi a ben vedere è una misura di sicurezza.

E anche questo mi sembra lapallissiano, banale, scontato. E allora mi domando:

quale stupore, quale meraviglia, quale sgomento per gridare al collasso, alla disintegrazione, alla balcanizzazione dell’attuale sistema sanzionatorio?

Il problema è un altro e sta in un’altra e diversa questione, peraltro è una questione nodale che non possiamo fuggire. È pesante dirlo tra penalisti: un sistema sanzionatorio realmente preventivo e utilitaristicamente orientato non può che invocare un modello particolare di diritto penale: quello della peri- colosità. O meglio solo all’interno di un sistema penale della pericolosità si giustifica e si comprende un sistema di pene utili. Lo confesso, è un boccone difficile da digerire per i penalisti, che voglio presumere attenti ad un sistema di garanzie proprie del diritto penale del fatto e della colpevolezza. Insomma, sciolto il nodo della retribuzione, la pena si è progressivamente allontanata dal porto protetto del diritto penale del fatto e della colpa per affrontare in mare aperto e farsi poi sospingere nella sua nuova veste di pena utile sempre più ver- so i lidi di un diritto penale della pericolosità. Certo, nessun collasso, nessuna disintegrazione o balcanizzazione del sistema sanzionatorio, solo tante antino- mie tra dogmatica del reato – prevalentemente ancora legata al vecchio stampo liberale – e dogmatica della pena, sempre più sensibile alla ragione dell’essere, alle necessità impellenti della politica criminale, sempre più contigua ai proble- mi dell’utile sociale, come si addice ad una pena che si legittima in quanto utile.

Vedo almeno tre o quattro punti forieri di grandi contraddizioni.

La questione stessa della necessità di infliggere una pena a chi è ritenuto responsabile di un fatto illecito. Pensateci, la necessità di pena è un attributo imprescindibile di una pena giusta cioè della pena retributiva, ma è contesta- bile radicalmente dalla pena utile, la responsabilità penale accertata. L’autore del reato potrà eventualmente essere punito se e ove si pensi, si ritenga utile procedere in questi termini. Questo è il livello più intransigente di autonomia della pena dal reato e molte potrebbero essere le ipotesi di fuga dalla pena in concreto perché nel caso concreto si può dimostrare inutile, nocivo, disecono- mico castigare.

Nel nostro ordinamento penale in presenza del dominio assoluto della pena carceraria la rinuncia a punire è declinata prevalentemente dalla fuga dalla pena detentiva che in assenza di altre pene, al carcere realmente sostitutive, per con- tenuto disciplinare, si è convertita a volte in semplice impunità. Guardate che le dimensioni del fenomeno sono significative. Nell’Italia del Novecento solo attraverso la sospensione condizionale della pena, priva com’è di contenuto, si è rinunciato a punire da un terzo alla metà dei condannati. Nello stesso arco di tempo, attraverso i procedimenti clemenziali degli indulti e amnistie, non si è data esecuzione alla pena detentiva o a questa si è data esecuzione, in termini diversi o abbreviati, circa a un quarto dei condannati. E che dire poi degli effetti di premialità sul quantum delle pene inflitte in ragione dell’adesione al rito spe- ciale, secondo quanto previsto dal nuovo codice processuale degli anni Ottanta.

Mediamente negli ultimi anni, su 500.000 azioni penali esperite all’anno si arriva a sentenze di condanna nel 50% dei casi. 250.000 sentenze di condanna che investono circa 400.000 persone. Circa 400.000 imputati vengono definiti-

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vamente condannati ogni anno, ma sempre a base annua, non più di 130.000 entrano dallo stato di libertà in carcere o vengono avviati ad un percorso di alternatività dallo stato di libertà. La rinuncia a punire concerne quindi molto più della metà dei condannati. La pena utile e il suo naturale rinvio al diritto penale della pericolosità non è necessariamente aperta solo ad esiti di più estesa o intensa repressione, mentre lo è ahimè quasi sempre nell’accentuare la disuguaglianza sociale nel processo di criminalizzazione secondario.

Un secondo nodo che include un’infinità di antinomie tra diritto penale del fatto e della colpevolezza e sistema sanzionatorio preventivo, riguarda l’amplia- mento della gamma sanzionatoria oltre la pena detentiva e pecuniaria. In effetti, l’alternatività sanzionatoria può dilatarsi ormai nel vasto spazio di limitazione di alcuni diritti: includendo sanzioni interdittive, inabilitative, neutralizzanti o a contenuto terapeutico, correzionalistiche, compensatorie, mediatorie. Insomma, la nuova penalità si estende entro due sponde, due margini:

– il primo che è contiguo alla vecchia penalità, pertanto è molto simile ad essa;

– il secondo che lambisce i territori propri delle misure di disciplina sociale welfarista dove il contenuto della pena classica cioè dare sof- ferenza è praticamente assente. È possibile che la nuova penalità non sia più socialmente sofferta come patimento, cioè che sia solo una pena dal punto di vista nominalistico. Pensiamo al nostro sistema, ad alcune sospensioni del processo e messa alla prova del sistema penale minorile, ovvero a programmi di lavoro sostitutivo di pubblica utilità ma ancor più ad alcuni affidi terapeutici in stato di libertà ad esempio di tipo non comunitario. Cos’hanno di pene? Cos’hanno invece di mo- dalità disciplinari welfaristiche? Aiuto, ascolto, soccorso.

Gli ampi territori di una penalità non nominale hanno posto e ancora oggi pongono la questione anche questa nodale: se effettivamente, cioè nei fatti, siano almeno alternative alla pena o siano almeno misure che si accostano alla pena per controllare attori sociali che altrimenti risulterebbero tanto impuniti quanto non tenuti sotto controllo. È un tema classico della scienza penalistica norda- mericana che rinvia alla felice immagine delle alternative come possibile nuova rete di controllo sociale: come dire “attenti, aumentano i soggetti controllati, non diminuiranno mai quelli puniti in senso proprio con una pena come sofferenza”.

Poi un terzo livello di fruizione: tra diritto penale della colpevolezza e pena utile. È dato dalla pena giudizialmente determinata che tende sempre più a offrirsi come virtuale nei confronti della pena poi effettivamente eseguita. Di più, l’ampia flessibilizzazione della pena in fase esecutiva non conosce solo una deriva indulgenziale ma anche mutamenti in peius e tutto ciò in ragione di valutazioni utilitaristiche di pericolosità. Non c’è più limite legale alla flessibi- lizzazione e differenziazione delle pene, tutte le pene definitive possono essere rinegoziate, inclusa la pena dell’ergastolo, per ragioni che non attengono al pas- sato del reo, o al presente o a valutazioni prognostiche sul futuro del reo. Così anche nel nostro ordinamento, non ce ne siamo accorti. La pena in concreto si fa pena indeterminata, si fa pena non fissa come nel modello anglosassone.

Così da un lato, fuga dalla pena meritata, apertura a una penalità soft sempre

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RELAZIONE INTRODUTTIVA

meno limitativa dei diritti del condannato e sempre più eleggibile perché confu- sa con il servizio offerto dallo stato sociale al bisogno, al disagio. L’emergenza infine di una pena indeterminata perché tutta o in parte rinegoziabile in fase esecutiva e dall’altro lato sperimentazioni in favore di differenziazioni esecutive per finalità neutralizzanti capacitanti: messo insieme unitariamente tutto ciò de- finisce un nuovo territorio della penalità, sovente segnata da profili rinneganti:

quelli di una dogmatica del fatto e della colpa. La nuova penalità è quindi cre- sciuta a prescindere ed anche contro la dogmatica del reato ed oggi è in grado di esprimere una dogmatica e una teoria della pena assoluta.

Bene, arriviamo al dunque. Quale riforma del sistema sanzionatorio in Ita- lia? Certo al vecchio sistema retributivo, lo dico con molta chiarezza, non mi sembra possibile e neppure auspicabile fare ritorno. Lo sappiamo, le tendenze neo-retribuzioniste hanno fallito un po’ ovunque e hanno celato, e male, un solo intento che è quello di una volontà patibolare in favore di un aumento della sua repressione e nulla più.

Dall’altro lato il governo politico della penalità utilitaristica impone oggi una pena sempre più incerta, disuguale, indeterminata, flessibile, negoziabile, diffe- renziata. Certo, ad alcuni non può piacere, ma credo che ci si debba arrendere ad una realtà che non conosce smentite. Una volta accettato questo, poi nel dettaglio si può e si deve intervenire, e vedremo come, per armonizzare quanto spesso, uso la vecchia immagine, in maniera caotica è cresciuto sul versante della pena.

Nella presente relazione non voglio entrare nel dettaglio però, certo, ci sono orizzonti di riforme ragionevoli e auspicabili, che sintetizzo: superamento del doppio binario, definitiva abrogazione delle misure di sicurezza personali in modo particolare di quelle di natura detentiva riservata agli imputabili, che sono prive di alcuna funzione di difesa sociale. Per quanto riguarda la sempre più imbarazzante sopravvivenza dell’OPG per i prosciolti infermi di mente, una volta che non si voglia più praticare la vecchia strada maestra applicata da un vecchio progetto che imitava il codice del ’65 svedese di un’abrogazione della categoria della non imputabilità, qualsiasi soluzione riformatrice dovrà essere indicata e condivisa dal sistema sanitario nazionale in ragione delle sue risorse e quelle che saranno in grado di mettere in gioco i servizi di salute mentale a livello territoriale. Al momento, è la traccia indicata dal progetto di riforma elaborata dalla Regione Toscana ed Emilia Romagna che sembra godere dei pronostici riformistici, cioè una progressiva presa in carico della maggioran- za degli internati degli OPG, ai servizi della psichiatria territoriali di tipo non manicomiale, mentre per il ridotto o sempre più ridotto gruppo resistente nei cui confronti valutazioni di pericolosità sconsigliano un’immediata soluzione di deistituzionalizzazione manicomiale, essi troverebbero un momentaneo ricove- ro in strutture psichiatriche a custodia attenuata.

Ancora, l’esperienza della sospensione, è stato accennato, con la messa alla prova del minorile, credo che a breve (anche questo governo tecnico l’aveva pensato) trasmigrerà dal minorile al settore degli adulti, introducendo finalmen- te nel nostro ordinamento una prima ipotesi di diversificazione processuale:

una recente avvertita giurisprudenza di legittimità ha già indicato le necessarie precauzioni tecniche da adottare per non confliggere apertamente con il tabù dell’obbligatorietà dell’azione penale.

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Ancora oggi internazionalmente sappiamo che il principio compensatorio, come si suol dire, gode di grande se non entusiastico favore, anche come un alternativa tanto della pena retributiva che della pena preventiva, una specie di nuovo astro su cui orientare teleologicamente il sistema che è stato sospinto dal vento che spira forte in favore della vittima e in favore della reprivatizzazione delle pratiche di controllo. Personalmente nutro molte fondate perplessità, so- prattutto se, come pare, la mediazione penale dovesse giocare il ruolo modesto ed equivoco di modalità esecutiva alternativa e non invece quello di diversione rispetto al sistema di giustizia penale stesso. Ove fosse possibile applicare que- sta più radicale opzione, l’esperienza di altri Paesi ci invita ad atteggiamenti prudenti ma relativamente ottimistici.

Ma ancora, è improcrastinabile la riforma delle pene pecuniarie ed è a tutti chiaro che esse possono essere la vera alternativa alle pene detentive brevi o all’impunità di fatto, uno dei tanti scandali italiani. Lo Stato italiano attualmente incassa meno del 10% dei propri crediti da pene pecuniarie, soprattutto nei con- fronti degli illeciti contravvenzionali e mi sembra anche che esista un consenso generale verso l’esperienza del modello tedesco per quanto riguarda la riforma delle pene pecuniarie.

Bene, se in futuro si metterà mano alla riforma della parte speciale un con- siglio noi penitenziaristi o che ci occupiamo della pena lo possiamo dare, un consiglio tecnico che ci suggerisce di prediligere, ove possibile, la scelta della sola indicazione del massimo della pena. Semmai statisticamente parametrato, sulla pena media oggi giudizialmente comminata.

È da lungo tempo ormai che la dottrina invoca un significativo cambio di gerarchia delle pene accessorie, in particolare di quelle di natura interdittiva, inabilitativa, a ruoli di pena principale per determinate tipologie di illecito pe- nale ed effettivamente questa sarebbe una riforma a costo zero e forse farebbe risparmiare anche qualche soldo.

E poi, ultimo punto, a cui tengo molto: fronteggiare i rischi ricorrenti di vio- lazione del principio costituzionale di umanizzazione delle pene che conseguono alle emergenze carcerarie di sovraffollamento è ormai improcrastinabile. Pertanto occorre una definitiva presa di coscienza politica che il tasso di carcerizzazione nel tempo e nello spazio non è in ragione dei tassi di delittuosità ma di altre variabili che direttamente inviano a scelte e responsabilità politiche di chi è al governo effettivo della penalità. Quindi si deve sbarrare la strada a sconsiderate politiche di nuova edilizia penitenziaria attraverso quella che all’estero viene pra- ticata con le politiche moratorie e dall’altro lato si deve affermare a livello legale il principio deducibile nel nostro ordinamento dal valore costituzionale e oltre un indice, tassativamente determinato, istituto per istituto carcerario, la detenzione costituisce sempre una violazione dei diritti fondamentali. Pertanto la pretesa pu- nitiva dello Stato è obbligata a cedere di fronte a necessarie sospensioni obbliga- torie di esecuzione o automatiche conversioni in detenzioni e arresti domiciliari.

Peraltro la recente giurisprudenza cede in merito a questo: alcune giurisdizioni di merito e di sorveglianza hanno denunciato questa situazione carceraria e hanno profilato obblighi risarcitori da parte dello Stato.

Bene. Da dire e da fare ne abbiamo finché vogliamo, ma rimane un pun- to, una questione che ancora resta aperta e di cui non ho voluto far cenno fin qui. Prima di lavorare di fino, dobbiamo porci la questione: se valga o meno la

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RELAZIONE INTRODUTTIVA

pena, in considerazione di tutto quello che ho esposto, di orientarci verso un radicale modello bifasico in cui a fronte di una giustizia criminale possa auto- nomamente determinarsi una giustizia della pena, cioè una giustizia penale in senso proprio. L’accertamento del fatto e della colpa non può infatti che seguire secondo me ancora oggi la dogmatica delle garanzie del diritto penale classico.

Certo, non confido che solo questo sia sufficiente per garantirmi una giustizia penale del cittadino mite e giusta e non una giustizia penale del suddito e del nemico; ma allo stato attuale del processo storico che è iniziato con la moder- nità, non riesco ad immaginare come si possa rinunciare a questi valori. In fin dei conti il sistema di giustizia capace, nel rispetto delle garanzie classiche, di imputare un fatto illecito ad un autore colpevole, in buona parte, se non forse completamente, già soddisfa la necessità di censura che forse è la principale se non la sola funzione sociologica anche empiricamente verificabile del sistema penale stesso.

Non riesco sul punto a non concordare col padre della sociologia penale Émile Durkheim ed è per questo che le posizioni dell’abolizionismo radicale non mi hanno mai completamente persuaso. Ma attenti, censurare un fatto so- cialmente riprovevole non significa necessariamente o solo punire nel senso proprio originale di fare volontariamente del male all’autore del fatto. Insomma se qualche via guida si deve alla fine individuare e confidare per convincerci a correre il rischio del cambiamento, io confido (e lo confesso) che nel tempo si sia allentato il nodo tra accertamento della responsabilità penale e determina- zione/esecuzione della pena e che in futuro questo nodo finirà per sciogliersi forse definitivamente.

Se così è, allora forse bisogna favorire questo processo progressivo sepa- rando anche funzionalmente un giudizio che accerta la responsabilità – secon- do i criteri di un diritto penale del fatto e della colpevolezza – da un giudizio che ormai autonomamente accerti se e come punire il colpevole secondo valu- tazioni di utilità e di convenienza.

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LA TORTURA IMPUNITA, A VENTICINQUE ANNI DALLA RATIFICA DELLA CONVENZIONE ONU

Prima di trattare dell’introduzione del reato di tortura nel nostro codice pe- nale, spenderò qualche parola sul contesto nel quale questa discussione si svolge.

La commissione straordinaria per i diritti umani del Senato, che presiedo, ha terminato poche settimane fa una lunga e accurata indagine sui diritti umani negli istituti penitenziari e negli altri luoghi di privazione della libertà. Il rapporto con- clusivo dell’indagine – che ha al centro la condizione dei detenuti – è stato discusso e approvato all’unanimità dalla commissione. Esso è stato esaminato con attenzio- ne sia a Ginevra, al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, sia a Strasburgo, al Consiglio d’Europa.

È noto che entrambe queste importanti istituzioni hanno da tempo sollevato nei confronti dell’Italia la questione della giustizia e in particolare quella della situazione nelle carceri.

E di particolare importanza è che la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia giudicato l’Italia responsabile di trattamenti inumani e degradanti e la abbia con- dannata per violazione dell’art. 3 della Convenzione. Il fatto che questa sentenza sia stata pronunciata dalla Grande Chambre ne aumenta il peso e il significato.

Il rapporto della commissione diritti umani del Senato opera un rovesciamento rispetto alla lettura corrente che identifica nel sovraffollamento la causa del de- grado della condizione carceraria: il sovraffollamento non è la causa ma la conse- guenza di una cultura e di una politica che identifica la pena con il carcere e che contemporaneamente cancella l’impegno costituzionale a fare della pena anche l’occasione per riaccompagnare ogni individuo dalla responsabilità alla libertà.

Ormai, non solo nel linguaggio comune ma nella stessa discussione specialisti- ca e nello stesso dibattito parlamentare quando si pronuncia la frase “certezza della pena” s’intende in realtà “certezza del carcere”.

Solo rovesciando, in primo luogo sul piano culturale, questa impostazione, solo considerando il carcere come extrema ratio, soluzione necessaria solo quando alternative non sono possibili, solo tornando al rispetto della Costituzione e delle leggi e degli obblighi interni e internazionali, il problema del sovraffollamento può trovare soluzioni strutturali.

Rispettare i diritti umani dei detenuti non è solo un principio etico ma un dovere imposto allo Stato dalla sua Costituzione, dalle leggi che ha promulgato e dagli obblighi internazionali che ha liberamente contratto: in parole povere si tratta di un obbligo non di un optional.

E se lo Stato non è in grado di garantire che la detenzione avvenga nel rispet- to di questi obblighi deve rinunciare – almeno temporaneamente – all’esecuzione della pena in carcere. Non si tratta di un principio velleitario ma del concreto orien- tamento che sta maturando nei paesi più civili, come dimostrano i pronunciamen- ti, cosi convergenti pur nella profonda diversità dei sistemi giuridici, della Corte

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LA TORTURA IMPUNITA, A VENTICINQUE ANNI DALLA RATIFICA DELLA CONVENZIONE ONU

costituzionale tedesca a e della Corte Suprema degli Stati Uniti contro lo Stato di California, che limitano, fino ad inibirle, le possibilità di carcerazione quando lo Stato non sia in grado di garantire i diritti fondamentali.

È in questo quadro che è ripresa e si colloca la discussione parlamentare, al Senato della Repubblica, per l’introduzione del reato di tortura nel codice penale italiano.

In conclusione dell’indagine della commissione sulle carceri, e contestualmen- te all’approvazione del rapporto conclusivo, i senatori componenti della commis- sione hanno insieme sottoscritto un disegno di legge che introduce il reato di tortura e di trattamenti inumani e degradanti e ne hanno sollecitato l’iscrizione all’ordine del giorno e l’esame in commissione Giustizia.

In un universo politico e parlamentare segnato da una contrapposizione e da una litigiosità così forti, il fatto che su un problema così delicato e sicuramente non molto popolare, parlamentari di diversi gruppi e schieramenti abbiano sottoscritto una proposta comune, a me sembra un fatto rilevante.

Come è noto, la questione dell’introduzione del reato di tortura nel nostro co- dice penale fa parte della discussione politica parlamentare da molto tempo.

La Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura è del 1984 e la ratifica da parte dell’Italia del 1989. Sono inutilmente passati circa 25 anni da quella data.

Da allora l’Italia non solo non ha introdotto il reato di tortura come prevedeva e prevede la Convenzione, ma neppure ha ancora ratificato il protocollo addiziona- le delle Nazioni Unite (OPCAT) sottoscritto nel 2002, che prevede che, così come esistono strumenti internazionali di osservazione, di verifica e di prevenzione della tortura, così sia istituito uno strumento nazionale di verifica del rispetto della con- venzione e di controllo, osservazione e prevenzione dei fenomeni di tortura.

L’argomento fino ad oggi utilizzato per non introdurre il reato di tortura è stato che esistevano già strumenti e norme sufficienti per perseguire questo crimine.

I fatti hanno dimostrato che le cose non stanno così: tra pochi giorni sarà pub- blicata la sentenza della Cassazione sui fatti di Genova e di Bolzaneto del 2001, ma voglio qui ricordare la recente sentenza del Tribunale di Asti con la quale il giudice, dopo aver accertato senza alcuna possibilità di dubbio che diversi agenti di polizia penitenziaria, in modo ripetuto e per un lungo periodo di tempo, avevano sottopo- sto a gravi percosse persone detenute, ha emesso una sentenza di assoluzione per- ché in mancanza del reato di tortura e in mancanza di una denuncia di parte, non era in grado di perseguire fatti per i quali nel frattempo era scattata la prescrizione.

E le osservazioni che provengono dalle istituzioni internazionali, come le rac- comandazioni formulate al termine della Universal Periodic Review sull’Italia dal Consiglio dei diritti umani della Nazioni Unite, o come quelle del Consiglio d’Eu- ropa, sia attraverso le dichiarazioni del Commissario per i Diritti dell’uomo, sia, soprattutto, attraverso il giudicato della Corte di Strasburgo, impongono di riconsi- derare la questione e di prendere finalmente decisioni nuove.

Anche se la formulazione della Convenzione configura senza possibilità di equivoci il reato di tortura come reato proprio, la proposta di legge che abbiamo presentato parla di reato generico, pur prevedendo significative aggravanti per i pubblici ufficiali che lo commettano.

Riconosco esplicitamente che si tratta di un compromesso senza il quale temo avremmo continuato ad affermare un principio sacrosanto rinunciando tuttavia a

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quel significativo passo avanti che la proposta in discussione rappresenterebbe.

Siamo stati convinti di questa strada anche da un’analisi comparativa tra la soluzioni adottate su questo punto in altri ordinamenti nell’Unione europea.

Allo stesso tempo, abbiamo presentato la legge per la ratifica dell’OPCAT, il protocollo addizionale, della quale sono primo firmatario: l’hanno sottoscritta 70 senatori e dovrebbe essere iscritta all’ordine del giorno e finalmente approvata il prossimo 26 giugno, data che coincide con quella della Giornata Internazionale della Lotta per i Diritti Umani.

Volevo fare una piccola e conclusiva considerazione: l’altro giorno il ministro Severino ha dichiarato che “Il reato di tortura non deve essere una norma di ban- diera, la sua introduzione nel codice penale italiano deve rappresentare una con- notazione in più rispetto ai reati che già esistono e deve impedire i comportamenti disumani e degradanti. È un compito difficile creare ipotesi diverse rispetto ai reati, dalle lesioni al sequestro di persona, dalla violenza ai trattamenti disumani che già esistono nel nostro codice”.

Cara ministro Severino, io apprezzo le sue considerazioni e vorrei che inter- venisse sul disegno di legge in discussione con proposte di completamento e di miglioramento. Spero però, con altrettanta sincerità, che queste domande non pre- parino l’ennesimo nulla di fatto.

Sulla proposta che esiste si può raccogliere una maggioranza parlamentare e dare, su un tema così delicato, difficile e fino ad oggi controverso, un segnale di una certa importanza.

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Prof. Silvia Larizza

Ordinario di Diritto penale, Università di Pavia

L’IMPUTABILITÀ E IL TRATTAMENTO DEL MINORE – PROFILI GIURIDICI

Il titolo del mio intervento: “L’imputabilità ed il trattamento del minore”

richiederebbe, chiamando in causa capitoli nevralgici del diritto penale e del diritto penale minorile, una trattazione estesa.

Cercherò tuttavia di schizzare semplicemente alcuni punti che reputo im- portanti in tema di imputabilità del minore e delle risposte del sistema nei suoi confronti. Bisogna, difatti, partire dall’esistente, mettere in luce le criticità del momento attuale, per poi proporre delle piccole e modeste soluzioni de lege ferenda.

Voglio subito anticipare però un dato: l’argomento dell’imputabilità del mi- nore e del trattamento sanzionatorio a lui riservato viene sovente menzionato quando si parla di riforma del codice penale. Avanzerei, in proposito, dei dubbi sull’opportunità che la materia minorile vada trattata nel codice penale, anche perché l’esempio di legislazioni straniere (alludo alla Germania, alla Francia, alla Spagna, al Portogallo e al Regno Unito) evidenziano come la specificità del diritto minorile abbia trovato una sede, a mio avviso, più appropriata in specifi- ci testi legislativi che disciplinano in maniera assai organica tale materia.

È opportuno, in premessa, qualche rilievo sull’imputabilità, che risulta essere, senza ombra di dubbio, un tema cruciale. Si tratta di un settore nel quale il legislatore non può assolutamente prescindere dall’osservazione concreta di quello che si verifica e si riscontra nella realtà. Il diritto, per fornire la disci- plina giuridica, fotografa e cristallizza, imbrigliandola, una certa realtà di un determinato momento storico. Si verifica, tuttavia, che la realtà concreta, che il diritto disciplina, evolve e si modifica. Si crea, quindi, una tensione tra il feno- meno concreto e la disciplina che il legislatore ne ha fornito in un determinato momento storico. Questo esito è inevitabile dal momento che per la certezza stessa del diritto è necessario che la disciplina normativa sia stabile, duri per un determinato lasso di tempo, anche se la realtà fenomenica che sottostà alla proposizione normativa muta, si rivela diversa da quella che è stata fotografata con il varo della norma.

La domanda cui dobbiamo cercare di rispondere dopo questi rilievi può es- sere così formulata: la disciplina che il legislatore ha fornito nel 1930 all’impu- tabilità con la fissazione di precise soglie di età si attaglia ancora al fenomeno destinato ad essere regolato dalla norma?

Gettiamo, allora, un rapido sguardo a quella che appare oggi la realtà dei minori che si rivela complessa e, in parte, contraddittoria tanto che non è pos- sibile riscontrare una chiave di lettura univoca.

Se da un lato si afferma che i rapidi mutamenti occorsi negli ultimi lustri, soprattutto a livello tecnologico, per esemplificare: la “rivoluzione” di internet, hanno sicuramente stimolato le conoscenze e la maturazione dei minori, dall’al-

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tro lato – si fa notare – come la precocità in specifici ambiti non sia accompa- gnata da una eguale precocità dal punto di vista della assunzione di respon- sabilità. Si parla di giovani che preferiscono rimanere attaccati alla famiglia e non uscire di casa, che tardano a emanciparsi da un punto di vista economico, complice, verosimilmente, la precarietà del lavoro che affligge la nostra società.

Ci si chiede, allora: questi giovani precoci e, nello stesso tempo, in ritardo nell’assumersi responsabilità hanno alterato il quadro di riferimento e, soprat- tutto, dal punto di vista che ci interessa, la disciplina penale è ancora in grado di abbracciare adeguatamente questa specifica realtà?

Trattandosi di un processo tutto sommato recente e, forse, ancora in corso, non è possibile dare risposte precise. Tuttavia, dall’esame di alcuni dati empi- rici emerge un abbassamento dell’età di ingresso dei giovani nella criminalità, un aumento del numero dei giovani che delinquono, un consistente numero di

“giovani adulti” che commettono reati, un uso effettivamente residuale, di ulti- ma ratio, della carcerazione, un esteso uso, di contro, del fermo e della custodia cautelare.

Dal punto di vista criminologico dobbiamo tenere presente un ulteriore dato che complica, peraltro, il quadro di incerta definizione della nozione di imputabilità. Se, fino a pochi anni addietro, la realtà criminale dei giovani era compatta, unitaria, non è più così nel momento attuale, a séguito del fenomeno migratorio. Gettando uno sguardo ai dati statistici a disposizione, si può subito rilevare quanto sia consistente il numero di minori stranieri entrati a contatto con il sistema penale. Quindi l’individuazione di una nozione di imputabilità valida da un punto di vista criminologico diventa oggi più difficile in ragione della presenza di soggetti che provengono da ambienti diversi, portatori di valori differenti che devono spendere notevoli energie per comprendere e adat- tarsi al nuovo ambiente che li ospita. In questi casi, alle difficoltà del percorso verso l’età adulta si aggiungono le difficoltà dell’adattamento a modelli culturali del paese ospitante che possono anche confliggere con quelli finora introiettati.

Potremmo, a tal punto, descrivere in questi termini la situazione attuale: da un lato scorgiamo una infanzia precocemente adultizzata che vive, peraltro, una adolescenza prolungata; dall’altro lato minori che, sradicati dal loro contesto culturale, si devono immettere in uno nuovo, differente e a volte ostile, spesse volte in situazioni di estremo disagio economico e sociale.

Questa, a larghi tratti, la situazione che emerge. Ed è proprio a questa com- plessa situazione che il legislatore dovrà fare riferimento se vorrà immutare il quadro normativo.

A questo punto è utile fornire qualche dato concreto. I detenuti presenti negli istituti penali per minorenni ammontavano al 30 giugno 2009 a 523 unità, di cui 325 italiani e 198 stranieri. Non sono state ancora elaborate per il mede- simo anno rilevazioni statistiche relative al numero dei minorenni denunciati.

I dati in nostro possesso, forniti dall’Istat, si riferiscono al 2007 e manifestano una distanza accentuata tra il numero dei minorenni denunciati e il numero dei minorenni detenuti. Le denunce relative al 2007 ammontano a 38.193. È interessante, disaggregando questi dati, conoscere le età dei minori che delin- quono. Abbastanza sorprendente è il numero dei minori di 14 anni, non impu- tabili, denunciati: ben 6495; a carico dei quattordicenni sono state presentate 4550 denunce, numero che sale a 6824 in relazione ai quindicenni e a 9507 in

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L’IMPUTABILITÀ E IL TRATTAMENTO DEL MINORE – PROFILI GIURIDICI

relazione ai sedicenni, per attestarsi, infine, a 10.817 denunce nei confronti dei diciassettenni.

Ho riportato questi dati in considerazione del fatto che esperienze legisla- tive diverse dalla nostra e anche alcuni nostri disegni di legge hanno abbassato (o hanno in mente di farlo) a 13 anni la soglia dell’imputabilità, come pure si propongono di diminuire l’età per essere considerati adulti per il diritto penale.

Il dato empirico è eloquente: è, difatti, consistente il numero dei minori di 14 anni che delinquono, come pure è considerevole il numero dei diciassettenni che commettono reati. Sull’onda dell’allarme sociale potrebbe essere forte la tentazione per il legislatore di mutare questi parametri di riferimento.

Il compito che spetta al legislatore nel definire le soglie dell’imputabilità è sicuramente arduo. I nodi cruciali da sciogliere riguardano la fissazione di una soglia a partire dalla quale un soggetto entra a contatto con il diritto penale;

come pure l’individuazione dell’altra che segna il passaggio all’età adulta. Si tratta di una materia estremamente delicata e, soprattutto in questo momento, si presenta a frontiere mobili, come dimostrano le modifiche recate all’impu- tabilità fatte in Francia che risentono di precise scelte politico-criminali. Basta, difatti, ridurre di un anno la soglia per essere dichiarati imputabili ed ecco che, con pochi sforzi, il legislatore è in grado di placare l’allarme sociale della col- lettività, suscitato dai fatti di criminalità minorile. Tuttavia, un’operazione del genere si presenta pericolosa perché porta, inevitabilmente, immettendo prima i minori a contatto con il diritto penale, a erodere quelle poche differenziazioni di trattamento che il legislatore ha previsto nei loro confronti.

Nell’affrontare, de lege lata, il tema dell’imputabilità possiamo avanzare rilievi critici sulla disciplina prevista: il codice Rocco utilizza per i minori la stessa categoria dell’imputabilità forgiata per gli adulti richiedendo la capacità di intendere e di volere. E la differenziazione di trattamento posta tra minore e adulto riposa solo su una diminuzione di pena. Tuttavia, nel codice Rocco la diminuzione di pena operava sempre: era, difatti, obbligatoria. A séguito della riforma del 1974, che ha reso passibili di bilanciamento le circostanze inerenti alla persona del colpevole, la diminuzione di pena può essere messa in forse dalla presenza di un’aggravante se viene dichiarata equivalente o addirittura prevalente sull’attenuante della minore età. Quindi, quella leggerissima diffe- renza di trattamento per il minore in Italia può non operare: in questo caso il minore è trattato come un adulto.

Se la nozione di imputabilità adottata dal codice Rocco è comune ad adulti e minori, anche dal punto di vista delle sanzioni non si coglie alcuna differenza:

al minore si applicano le stesse pene previste per gli adulti, vale a dire: l’arre- sto, la reclusione, la multa, l’ammenda; e, come sostitutivi delle pene detentive brevi, la semidetenzione e la libertà controllata. Siamo di fronte a un sistema sanzionatorio completamente mutuato da quello degli adulti in quanto il nostro legislatore non ha elaborato per i minori delle risposte sanzionatorie tipiche. Il minore viene quindi differenziato dall’adulto eventualmente solo su un piano quantitativo, qualora venga applicata la diminuente della minore età.

Sono sempre molto efficaci le parole che, all’inizio del secolo, Maino scri- veva: “ci si illude così di perequare la differenza essenziale tra il fanciullo e l’adulto con un criterio riprovevolmente superficiale di esteriore simmetria, si

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sostituisce alla necessità di provvedimenti resi necessari dalle rilevate diversità di condizioni fisio-psichiche una differenza quantitativa nella pena”. Quindi, il minore delinquente, rebus sic stantibus, dal punto di vista sostanziale, invece di ricevere un trattamento differenziato richiesto dalle sue condizioni speciali, viene considerato una frazione (i 2/3) di un adulto.

Chiara la conseguenza di una simile scelta: appurato che le pene applicabili al minore sono quelle previste per gli adulti, e dato che l’attuale sistema san- zionatorio assegna alla pena detentiva un posto di estremo rilievo, quest’ultima sarà la pena che dovrà subire il minore, eventualmente diminuita in quantità.

Contro questa situazione, a dir poco anomala, la prassi ha reagito, prima della svolta del 1988, facendo ampio ricorso al proscioglimento per immaturità e cercando di concedere ai minori, fin dove possibile, il perdono giudiziale e la sospensione condizionale della pena. Bisogna anche ricordare, a maggior critica, che la pena dell’ergastolo non è stata eliminata dal nostro legislatore. È stato necessario un intervento della Corte costituzionale per “bandire”, nei loro confronti, l’applicazione della massima pena.

Finalmente, nel 1988, la situazione muta parzialmente. In questo anno, ap- profittando del varo del codice di procedura penale, si emanano le disposizioni sul procedimento penale a carico dei minorenni, dove sono contemplati istituti di chiara matrice sostanziale come l’irrilevanza del fatto e la sospensione del processo con messa alla prova.

Cercando di sintetizzare al massimo, la filosofia che emerge da questo im- portante testo legislativo sembra quella di non volere assolutamente arrivare (se non in piccole percentuali) all’irrogazione di una sanzione. Si cerca, cioè, attraverso la sospensione del processo che ha un ambito sconfinato di applica- zione, potendo coprire qualunque tipo di reato (dal meno grave al più grave), come pure attraverso l’irrilevanza del fatto, di non arrivare all’irrogazione della sanzione penale.

Quale il dato significativo? Il legislatore non colma con misure sostanziali e adeguate il divario che c’è tra adulti e minori; ne segue che la differenziazio- ne del trattamento penale si attua con i mezzi processuali a disposizione che, molte volte, vengono distolti dalla loro funzione originaria. Il diritto penale sostanziale e il diritto processuale penale minorile in un certo senso si sovrap- pongono e il processo minorile viene caricato di funzioni ulteriori rispetto a quelle di accertamento della verità: difatti, il processo penale minorile, (basta leggere l’art. 1 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448) è volto al perseguimento delle esigenze educative del minore.

Tuttavia, ed è questo un punto assai rilevante, il legislatore non fornisce una definizione delle esigenze educative, nel senso di chiarire cosa possa essere utile all’educazione del minore. In fondo, le esigenze educative costituiscono una espressione indefinita che i giudici riempiono di contenuti tra i più dispa- rati, contribuendo così a creare prassi assai diversificate.

Proposizioni de lege ferenda: che cosa fare? Da questo sintetico schizzo tracciato emerge un’estesa procedimentalizzazione della giustizia penale mino- rile: gli istituti della irrilevanza del fatto e della sospensione del processo sono strutturati in forma talmente discrezionale da non consentire prassi uniformi.

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L’IMPUTABILITÀ E IL TRATTAMENTO DEL MINORE – PROFILI GIURIDICI

Grave la conseguenza: i minori risultano, di fatto, discriminati a seconda del tribunale da cui verranno giudicati. Quindi, la presenza di questi istituti volti al soddisfacimento delle esigenze educative del minore ha snaturato la funzione del processo come strumento di accertamento della verità; la sede più propria per la realizzazione di questo obiettivo sarebbe, di contro, il codice penale.

Proprio a fronte di questa realtà è importante che il legislatore sostanziale fac- cia qualche cosa: che vari un sistema sanzionatorio calibrato sulle specifiche esigenze dei minori.

La costruzione di un sistema sanzionatorio per i minori, costruito sulla specificità della loro condizione, è imposto dal rispetto del principio di egua- glianza che, nell’interpretazione datane dalla Corte costituzionale, impone la eguale trattazione di casi eguali e la diversa regolamentazione dei casi diffe- renti. Il minore non può essere messo sullo stesso piano di un adulto perché non ha ancora portato a compimento il suo processo di crescita e, quindi, non va trattato come un adulto. Sulle specificità della condizione minorile va, dunque, calibrato il sistema sanzionatorio minorile. Bisogna, quindi, ritornare al momento sostanziale con l’elaborazione di un catalogo di sanzioni: lo esige l’art. 3, comma 1° Cost., lo esige il compito di protezione dei minori che grava sullo Stato. Le sanzioni ipotizzabili dovranno salvaguardare la libertà del mino- re, i suoi diritti fondamentali, e non dovranno, soprattutto, recargli nocumento.

Quindi, in questo ipotetico quadro, la pena detentiva non scompare ma dovrà essere improntata essenzialmente al ruolo di ultima ratio, come tra l’altro viene richiesto da diversi documenti internazionali.

Per evitare la prevalenza del momento processuale, le risposte da dare non dovrebbero essere numerose: pochi tipi di sanzioni, perché più si moltiplicano, più è difficile garantirne una corretta utilizzazione. È di tutta evidenza, pur- troppo, che la pena pecuniaria che avrebbe, dalla sua, molti punti a favore non può essere utilizzata nei confronti dei minori in quanto sforniti di un loro patri- monio. Si dovranno considerare altri tipi sanzionatori, quali il lavoro a profitto della comunità, lo svolgimento di attività socialmente utili e, anche, forme di mediazione del conflitto tra autore-vittima del reato. Nel caso in cui la vittima non accetti il confronto con il minore, quest’ultimo potrebbe svolgere un lavoro a profitto della comunità. Degne di attenzione potrebbero essere anche alcune misure di tipo interdittivo: privare un sedicenne del motorino, impedirgli di uscire il sabato sera, ecc.

Il legislatore dovrà quindi elaborare un sistema di risposte sanzionatorie calibrate sulla specificità della condizione minorile, ove venga ricompresa an- che la pena detentiva. Dovrà, quindi, fissare per ciascuna di queste pene dei limiti di durata massima. In seguito, dovrà riservare al giudice la scelta della risposta reputata più idonea a soddisfare i bisogni del minore, esplicitando i criteri orientativi della discrezionalità. Infine, il legislatore dovrà enunciare, espressamente, che nella scelta e nella commisurazione della pena, il recupero del minore debba risultare l’obiettivo da perseguire. Evidentemente, in questo quadro non si può, a mio avviso, fare a meno di recuperare il criterio della gravità del reato, perché rieducare il minore significa anche fargli capire quello che ha commesso, se si tratta di un reato più o meno grave. Queste ipotetiche sanzioni dovranno già a livello legislativo essere rapportate alla gravità del re- ato commesso.

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Concludendo, evidentemente in questo ipotetico riassetto, anche l’utilizza- zione del processo penale dovrebbe essere improntata al canone dell’ultima ratio, dal momento che l’avvio di un processo è particolarmente stigmatizzante nei confronti dei minori. Bisognerebbe, come ci sollecitano alcuni documenti internazionali, sperimentare e mettere a punto delle ipotesi di diversione dal processo penale; l’ostacolo – è noto – è rappresentato dall’art. 111 Cost.

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Prof. Avv. Adelmo Manna

Ordinario di Diritto Penale, Università di Foggia

L’IMPUTABILITÀ E IL TRATTAMENTO DEL NON IMPUTABILE MAGGIORENNE

Sommario: 1. – Lo scetticismo sulla possibilità di una nuova codificazione penale; 2.

– L’imputabilità ed i diversi paradigmi ricostruttivi dell’infermità mentale; 3. – Neuroscienze e libertà del volere; 4. – Il nesso di causa, affermato dalla giurisprudenza, fra reato e infirmi- tas; 5. – L’ubriachezza ed il momento del suo accertamento, in rapporto al fatto di reato; 6.

– La “manipolabilità” del concetto di pericolosità sociale; 7. – L’abolizione degli OPG: come e quando?

1. S’intende iniziare con una nota di scetticismo sotto il profilo della codi- ficazione penale. Infatti, il sottoscritto è tra chi considera una nuova codifica- zione penale, nonostante sia avvenuta in parecchi Paesi occidentali, sia in altri notevoli e importanti Paesi ex-socialisti, ancora una “chimera”.

Non si può, infatti, non tener conto che nel nostro Paese, nonostante le commissioni di riforma siano iniziate dal 1946, gli ultimi governi sino a questo attuale, non abbiano più nominato commissioni di riforma. Ciò sta a signifi- care che lo stesso legislatore si dimostra scettico nei confronti di una nuova codificazione penale e non è un caso che è stato varato un nuovo codice di procedura penale, non preceduto però né da un codice penale sostanziale né, conseguentemente, anche da un nuovo ordinamento penitenziario, successivo, ovviamente, a quelli del 1975 e del 1986.

Tutto ciò perché avviene? Perché risulta più semplice una codificazione processuale penale, giacché bisogna mettere d’accordo, in definitiva, solo due grandezze fondamentali: l’efficienza e la garanzia. È, invece, assai più difficile riuscire ad arrivare ad una nuova codificazione penale, giacché essa si scontra con uno dei temi più difficili, cioè quello che attiene al “mondo dei valori”, cioè dei beni giuridici, ovverosia delle scelte di valore. Questo complesso di problemi risulta più semplice da risolvere in società ottocentesche, in società, cioè, quasi mono-classi, ma risulta molto più complicato in società non solo in- terclassiste, ma multiculturali e multietniche, in cui noi viviamo. In più i tempi della politica sono tempi molto più “ristretti” di quelli che richiede una codifi- cazione penale e questo spiega, evidentemente, perché non un penalista, ma uno dei più grandi civilisti italiani, Natalino Irti, già negli anni Settanta scrisse un aureo libretto, cioè L’età della decodificazione, (Milano, 1979). Significa, evi- dentemente, che con riferimento al codice civile per Irti (ma lo stesso discorso si può effettuare anche per il codice penale) il sistema dei codici sostanziali ormai assomiglia al “centro storico” delle nostre città, cioè ad un piccolo centro intorno al quale sono state costruite, a macchia d’olio, tutta una serie di peri- ferie e queste integrano le legislazioni complementari. Tanto ciò è vero che la

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