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QUALE COMUNICAZIONE NELLE EMERGENZE? Tra Ascolto organizzativo e aree vulnerabili, verso una ripartenza

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QUALE COMUNICAZIONE NELLE EMERGENZE?

Tra Ascolto organizzativo e aree vulnerabili, verso una ripartenza Stefano Martello

Sappiate ascoltare, e abbiate per certo che il silenzio produce spesso lo stesso effetto che la scienza.

Napoleone Bonaparte, Istruzioni per il principe Eugenio, viceré d’Italia, Milano, 7 giugno 1805 Il perimetro e l’approccio d’azione

Prima ancora di addentrarci nel complesso – perché connotato da intensa multidisciplinarietà – tema della comunicazione delle emergenze naturali e delle crisi ambientali, può essere utile un ideale riepilogo per circoscrivere il perimetro d’azione (sia pure all’interno di confini sempre più mobili e frastagliati) assicurando il più possibile una coerenza ed una contingenza attuativa, nel momento in cui quelle risultanze si trasformeranno (dovranno trasformarsi) in azioni, condotte e comportamenti.

In questo senso e in questa direzione, già il sottotitolo che accompagna questo ciclo di appuntamenti e confronti - Verso una risposta di sistema delle Agenzie – evidenzia due aspetti centrali. Il primo riguarda la natura del processo, in progress e non ancora debitamente strutturato e incardinato nella quotidianità operativa mentre il secondo interessa l’obiettivo finale del processo:

una risposta di sistema che sia sempre più in grado di intercettare le tante peculiarità di un territorio, di una comunità, di un tessuto produttivo, offrendo ai tanti pubblici interessati non più risposte parziali e parcellizzate bensì sempre più personalizzate.

Si tratta, dunque, di comprendere in che modo la Comunicazione possa contribuire al perseguimento di tale obiettivo, tenendo conto di due aspetti che oggi caratterizzano lo scenario: a.

la sensazione di ritardo nonostante una (purtroppo) costante presenza di emergenze naturali e ambientali b. la presenza di aree vulnerabili – di cui valuteremo impatto e resa nel corso della trattazione - troppo spesso sottovalutate, vuoi per miopia vuoi perché considerate laterali rispetto alle questioni trattate.

I (nuovi?) paradigmi comunicativi all’orizzonte

Il processo comunicativo non è mai stato statico; proprio l’intensa bidirezionalità che lo ha sempre contraddistinto comporta una naturale vocazione all’apertura ed al cambiamento1, per intercettare bisogni sopraggiunti e domande sempre più attuali2. Il Delegato FERPI (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana)3 per l’Emilia Romagna Biagio Oppi ha identificato nel Melbourne Mandate4 uno

1 Tra gli esempi che maggiormente hanno impattato sulla costruzione della relazione comunicativa, il passaggio epocale dal Target – rappresentato generalmente da un gruppo consistente in percentuali statistiche che non risponde alle sollecitazioni limitandosi ad assorbirle come una spugna – al Pubblico, difficilmente identificabile per le tante sfaccettature che lo attraversano ed estremamente dinamico sia nel rispondere alle sollecitazioni sia nell’entrare in maniera diretta nelle questioni raccontate. Fonte: S. Martello, B. Oppi, Un punto d’inizio nella definizione e gestione delle relazioni con i pubblici in caso di calamità naturali, in S. Martello, B. Oppi (a cura di), Disastri naturali: una comunicazione responsabile? Bononia University Press, Bologna, 2016, 2017, pp. 7-12.

2 Le Domande rappresentano un perfezionamento dei Bisogni. Prendiamo come esempio il bisogno della Sicurezza, oggi più che mai comune e trasversale per ogni tipologia di pubblico, a prescindere dall’età, dal livello di istruzione o dal territorio in cui si vive e si lavora. Lo stesso bisogno si trasforma in domanda nel momento in cui interessa il cittadino di una grande area metropolitana – che avrà una domanda più specifica rispetto alla microcriminalità – rispetto ad un cittadino che vive in un piccolo centro di provincia, che avrà, a propria volta, domande diverse anche dal proprio concittadino, tenendo conto dei parametri dell’età o del lavoro che svolge.

3 Per approfondimenti sulle attività, http:// www.ferpi.it.

4 Sottoscritto da oltre 800 delegati provenienti da 29 paesi nel corso del Public Relations Forum 2013, il Melbourne Mandate deve molto, in termini di indirizzo e contenuto, sia agli Stockholm Accords – deliberati nel 2010 nel corso del World Public Relations Forum – sia al documento di indirizzo Building Belief, pubblicato nel 2012 dall’Arthur Page Society (http://www.awpagesociety.com) che riunisce i Chief Communication Officers delle principali aziende statunitensi. Tutti i documenti citati sono presenti e consultabili in http://www.globalalliancepr.org, sito di Global Alliance for Public Relations & Communication Management, federazione mondiale delle associazioni di relazioni

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dei più innovativi punti di partenza nella pratica delle relazioni pubbliche e nello sviluppo di una rinnovata organizzazione comunicativa, nel momento in cui definisce la Cultura dell’ascolto e del coinvolgimento, affiancata da un Ruolo di interesse pubblico come vere e proprie pietre angolari su cui costruire un approccio ed una consapevolezza (prima ancora di un modello operativo) capace di essere al passo con i tempi, con i cambiamenti e, più in generale, con le aspettative che la società ha nei confronti della professione di relatore pubblico. In tempo di pace come in tempo di crisi e a prescindere dalla tipologia di crisi5.

Qualcuno potrebbe ribattere come l’auspicio all’ascolto organizzato non rappresenti nulla di particolarmente nuovo ed innovativo e che numerose esperienze hanno già dimostrato sul campo una reale e sostanziale incidenza dell’ascolto nelle logiche organizzative e produttive6, ma non possiamo nel contempo nemmeno scordare – ancora di più nel panorama italiano - lo scollamento tra il dato pubblicistico – che ha pienamente metabolizzato sia lo strumento che la resa – e quello quotidiano in cui, salvo rari casi, dominano ancora modelli comunicativi top-down7 o di press agentry8 e dove, nel migliore dei casi, vige un ascolto maliziosamente formale che assomiglia tanto al discente che ascolta la lezione del docente, seguendone i movimenti para verbali, intercettandone i cambiamenti nel volume e nel tono della voce e trasferendo sul proprio volto le reazioni più appropriate mentre in realtà sta pensando al week end che si avvicina. Le insidie della cd.

continuità relazionale sono state ben evidenziate dal docente in Comunicazione presso l’Università di Sydney Jim McNamara che nel novembre 2016 ha presentato – nella prestigiosa London School Economics and Political Science – il report Creating an “architecture of listening” in organizations, basato su oltre 36 case study (tra organizzazioni pubbliche e non profit nel Regno Unito, in Australia e negli Stati Uniti) e implementato da oltre 100 interviste.

I risultati dello studio, commentati dal comunicatore pubblico Pierluigi De Rosa9, hanno evidenziato come l’ascolto oggi sia principalmente focalizzato sulle indagini di customer e sul social media monitoring e come la quasi totalità delle risorse destinate alle attività di comunicazione10 venga indirizzato verso attività di veicolazione di contenuti all’esterno più che su attività di ascolto. Un vero e proprio simulacro comunicativo che, sfruttando una modalità broadcast11, esprime un impegno comunicativo senza assumersene la responsabilità in termini relazionali.

La sensazione, in ultima analisi, è che la riflessione sull’Ascolto sia già oggi pienamente matura e consapevole ma che, proprio le risultanze emerse - e in particolare la complessità della gestione dell’Ascolto (sia in termini temporali che contenutistici) – siano poco in linea con quei processi di rapidizzazione recentemente evocati da Papa Francesco nell’Enciclica Laudato Sì che, pur

pubbliche e comunicazione.

5 B. Oppi, Verso un nuovo paradigma comunicativo, in S. Martello, R. Zarpellon (a cura di), Litigation PR, Pacini Giuridica, Pisa, 2017, p. 23.

6 Sul tema, illuminante il contributo di Adrian Gostick e Chester Elton raccontato in Impegno Totale. Come i manager migliori creano la cultura e la convinzione per raggiungere grandi risultati, Franco Angeli, Milano, 2013.

7 Caratterizzato da un serrato accentramento comunicativo, al cui interno ogni singola decisione viene assunta dal vertice dell’organizzazione per poi essere declinata verso ogni singolo vertice intermedio che avrà il solo compito di eseguirla pedissequamente. Tra i pochi vantaggi ancora riscontrabili, la credibilità del messaggio emesso e la velocità dei processi decisionali. Tra gli svantaggi, l’assenza di condivisione sul messaggio; la piena deresponsabilizzazione dei livelli intermedi nonché, di riflesso, la scarsa coesione interna all’organizzazione.

8 Nato negli Stati Uniti nella prima metà del 1800, il modello sviluppa una attività di propaganda caratterizzata da una scarsa attenzione alla completezza delle informazioni rilasciate e ai reali bisogni degli interlocutori. Il modello comunicativo utilizzato è rigorosamente ad una via (dall’emittente al ricevente) e non contempla alcun monitoraggio in merito ai risultati acquisiti.

9 P. De Rosa, Una nuova architettura per l’ascolto organizzativo, in www.ferpi.it, 30.11.2016.

10 Quasi 520 milioni di dollari solo nel 2014.

11 Il broadcasting è naturalmente associato ad un modello comunicativo “uno a molti” al cui interno una fonte emittente attiva e diffonde messaggi verso una platea, generalmente molto vasta, di ascoltatori che recepisce in maniera generica e generalista.

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concentrata proprio sul tema dell’ambiente – e parte integrante di un dialogo mai interrotto sulle questioni ecologiche12 – resta un documento di ampio respiro intellettuale e spirituale.

Con delle conseguenze chiare ed inequivocabili non solo sulla tenuta di quel sentimento di fiducia che dovrebbe sorreggere e sottintendere la relazione tra le parti ma anche sulla stessa credibilità della scienza comunicativa che da risorsa positiva e proattiva si trasforma in strumento di mera conservazione.

Le stesse aree vulnerabili – che andremo ora ad esaminare nello specifico – diventano, così, conseguenza naturale di un approccio che, di fronte alla complessità, sceglie la via più semplice. Ma non necessariamente la più giusta.

Le aree vulnerabili

In un processo di crisis management l’analisi delle aree vulnerabili rappresenta il primo ineludibile passaggio di una vera e propria verifica volta ad identificare – all’interno dell’organizzazione coinvolta – gli anelli deboli o meno presidiati e per valutare il possibile impatto di tali debolezze, sia dal punto di vista meramente economico sia da quello della sicurezza per le persone e l’ambiente, sino ad arrivare ai potenziali danni alla reputazione dell’organizzazione stessa13.

Rispetto al tema oggetto della presente relazione, sono state individuate tre aree vulnerabili.

Nello specifico:

(segue) Uno sconosciuto alla porta: il Comunicatore

Chi è il Comunicatore? Quale è il valore aggiunto portato in dote dalle proprie competenze professionali? E questo valore aggiunto può essere, in qualche modo, misurato e quantificato?

Nonostante il forte appeal, nonostante una presenza imponente nella pubblicistica e nella convegnistica professionale, il Comunicatore (e, dunque, la Comunicazione) rimane, a livello operativo, un profilo indecifrabile. Per alcuni è solo una risorsa costosa e ridondante; per altri è un esperto di marketing che può risollevare le sorti compromesse di una organizzazione con una idea geniale; per altri ancora è solo un furbo che sta cercando di “aprire” nuovi segmenti di mercato14. Pesa, su questa valutazione, l’idea per cui tutti possono comunicare; che la stessa comunicazione altro non sia che una attitudine all’empatia e che basti un po’ di allenamento per poter organizzare una strategia efficace. Gli esempi a sostegno di tale tesi non mancano.

Pensiamo, in tal senso, agli stessi percorsi di accreditamento professionale, vari e variegati: alcuni di noi provengono dall’ambiente universitario; altri dal giornalismo e dal mondo dei media; altri ancora dall’ambito pubblico e/o privato o dal non profit. Mentre se noi incontriamo, per esempio, un avvocato sappiamo con certezza – a prescindere dal luogo in cui ha studiato o in cui esercita la propria professione – i vari passaggi che ha dovuto compiere per arrivare all’abilitazione: il conseguimento di una laurea in giurisprudenza; un percorso di praticantato con una durata e con degli step predefinijti e, infine, il superamento di un esame di Stato. Senza voler condannare la varietà di esperienze e di competenze che oggi il mondo della Comunicazione esprime, questo aspetto entra prepotentemente nei processi di formazione di quella fiducia che dovrebbe sottendere il vincolo relazionale. Ma c’è un esempio che, più di mille parole, svela in maniera dolorosamente

12 Già nel 1963, con l’Enciclica Pacem in terris, il santo Papa Giovanni XXIII denunciò il pericolo delle armi nucleari.

A questa seguirono poi, nel 1971, l’Octogesima adveniens (in cui Papa Paolo VI avvertiva circa le condotte sempre più sconsiderate dell’Uomo nei confronti del pianeta); la Redemptor hominis (1979) in cui San Giovanni Paolo II denunciò l’assenza di condotte calibrate sul medio lungo termine a vantaggio di condotte immediate e per questo parziali e l’Enciclica Caritas in veritate (2009) in cui Papa Benedetto XVI descrive la stretta connessione tra il degrado della natura e scelte sociali che influiscono e modellano la cultura umana.

13 L. Poma, La comunicazione di crisi. Il Crisis management, in S. Martello, B. Oppi (a cura di), Disastri naturali: una comunicazione responsabile? Op. cit., pp. 17-18.

14 Si pensi solo, in tal senso, al processo di accreditamento della comunicazione negli Studi professionali, iniziato con l’approvazione della legge 248/2006 (Legge Bersani, dal nome dell’allora ministro proponente) e mai pienamente ultimato, come dimostra l’attuale polarizzazione tra le realtà medio grandi (che già conoscevano e praticavano forme e modelli comunicativi) e quelle piccole che ancora faticano ad interpretare il Comunicatore come una risorsa funzionale al superamento delle attuali logiche di competizione.

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inequivocabile l’attuale percezione della Comunicazione nel panorama italiano. Massimo Alesii – uno dei più acuti osservatori degli effetti comunicativi durante le emergenze de L’Aquila (2009) e dell’Emilia Romagna (2012) – ha scritto che proprio durante l’emergenza de L’Aquila fu attuato un accentramento delle attività di comunicazione che non tenne in alcuna considerazione le Autonomie locali del territorio, alle quali pure la Legge 7 giugno 2000, n. 15015 riconosce il potere/dovere di comunicazione diretta con i cittadini16. La valutazione di Alesii è pienamente condivisibile, anche e soprattutto alla luce del ruolo rinnovato dell’Ascolto nelle logiche di gestione e risposta alla crisi, ma siamo sicuri che l’alternativa proposta sarebbe stata più efficace, assicurando quel vincolo relazionale la cui assenza (o presenza parziale) ha compromesso la tenuta dell’intero processo?

Non possiamo dimenticare che stiamo parlando di una norma che non è mai riuscita a diventare tale; di una legge che non prevede alcuna sanzione nei confronti delle amministrazioni inadempienti, assomigliando molto più ad un consiglio paterno.17 E nel tempo, proprio l’assenza di un apparato sanzionatorio ha consentito la nascita di uno scenario liquido alimentato da pochi esempi virtuosi contrapposti a sempre più numerose assenze o, ancora peggio, a inclusioni formali nell’organigramma delle organizzazioni di uffici affidati ad un personale non adeguatamente formato.

Ed è quasi un paradosso constatare che mentre per qualsiasi altro argomento la produzione normativa cresce, si infittisce e, in qualche modo si aggiorna rispondendo agli stimoli esterni, proprio sul tema della comunicazione pubblica siamo di fronte ad una stasi che non ha nemmeno risparmiato i nuovi sjtrumenti digitali di dialogo che versano in un limbo di non facile soluzione18. Occorre, oggi più che mai, una azione decisa di accreditamento della Comunicazione e del Comunicatore, per restituire dignità e ragione d’essere ad una materia che attualmente si limita a sopravvivere, imprigionata in una declinazione sempre più formale e sempre meno capace di impattare sui singoli ambiti d'azione.

(segue) il paradosso tenace della Comunicazione di crisi

La comunicazione di crisi non è altro che l’estensione della comunicazione di ogni giorno: senza la costante relazione che si crea tra l’organizzazione e i propri interlocutori attraverso la pratica quotidiana messa in atto dalle relazioni pubbliche, l’organizzazione si troverebbe “isolata”

durante una comunicazione di crisi e non riuscirebbe a comunicare le proprie ragioni.19

Dietro l’apparente semplicità dei concetti espressi, il giornalista e Reputation Manager Luca Poma ci offre un punto di vista centrale per comprendere appieno i ritardi dell’attuale modello di comunicazione di crisi. L’idea, in particolare, che la stessa comunicazione di crisi inizi nel momento in cui la crisi che l’ha originata non è ancora conclamata. Addirittura, non esiste.

Lo stesso processo di crisis management, nella sua declinazione teorica, conferma il pensiero di Poma prevedendo una fase di Preparazione nella quale l’organizzazione forma un Crisis team che si occuperà di monitorare tutti i segnali deboli provenienti dall’organizzazione e di predisporre un Piano di crisi che consentirà all’organizzazione – in caso di eventuale crisi conclamata – di assumere il controllo della situazione nel più breve tempo possibile. Nella sua costruzione teorica, la fase di Preparazione perfeziona la tenuta e la resa della fase di Risposta in cui l’organizzazione si

15 Legge 7 giugno 2000, n. 150 Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, 13 giugno 2000, n. 136.

16 S. Martello, B. Oppi, Le responsabilità della comunicazione, in F. Esposito, M. Russo, M. Sargolini, L. Sartori, V.

Virgili (a cura di), Building Back Better: idee e percorsi per la costruzione di comunità resilienti, Carocci, Roma, 2017, p. 39.

17 Per un approfondimento sul tema, S. Martello, La legge 150/2000 sull’attività di informazione e comunicazione delle pubbliche amministrazioni, in Rivista della Guardia di Finanza, anno LIV, n. 5, 2005, pp. 1549-1558.

18 Sul tema, proprio a proposito della figura del Social Media Manager pubblico, interessante il contributo di P.

Citarella, Social media e P.A., Franco Angeli, 2017, pp. 57-64.

19 L. Poma, La comunicazione di crisi. Il Crisis management, in S. Martello, B. Oppi (a cura di), Disastri naturali: una comunicazione responsabile? Op. cit., p. 14.

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trova alle prese con una crisi conclamata, migliorando il tono della reazione e consentendo all’organizzazione stessa di affrontare la fase di Post crisi in maniera responsabile e piena.

Quanto sopra in teoria e nei tanti manuali sul tema.

La quotidianità esprime, nella maggior parte dei casi, una sottovalutazione della fase di Preparazione, vuoi perché antieconomica vuoi per ragioni di fatalismo, con una fase di Risposta che – proprio perché non adeguatamente preparata – è quasi sempre in affanno e costretta dalla sua stessa inadeguatezza ad un ascolto frammentario o al sacrificio di pubblici considerati marginali, con risposte che quasi sempre hanno l’obiettivo di arginare più che di risolvere. E con conseguenze tangibili nel momento in cui, per esempio, il mancato ascolto innesca una crisi nella crisi, andando ad appesantire una situazione già difficile e compromettendo quella fase di rilancio che dovrebbe seguire alla dichiarazione di fine della crisi.

Di fronte a questo scenario; a questa contrapposizione tra un impianto tecnico maturo e ben metabolizzato ed una applicazione che, nel migliore dei casi, è parziale, l’unico auspicio possibile riguarda la nascita di un sentimento di consapevolezza profonda che coinvolga tutte le parti interessate.

(segue) La comunicazione ambientale al bivio

Tra i tanti esempi che alimentano il confronto tra chi scrive ed il comunicatore ambientale Sergio Vazzoler, uno mi ha particolarmente colpito. Dall’inizio degli anni 90 del secolo scorso, l’Intergovernmental Panel on Climate Change pubblica periodicamente dei rapporti per mettere in guardia il mondo dai pericoli del cambiamento climatico. Si tratta di un lavoro di raccolta, analisi e sintesi davvero mastodontico e imponente che ha il pregio di raccontare l’evoluzione ed il decorso di una determinata situazione, mostrandone gli effetti all’interno di una cornice temporale costante e prolungata. Tuttavia, se da una parte l’IPCC riesce nel proprio intento informativo, dall’altra non riesce ad ottenere dai propri interlocutori risposte politiche e pubbliche adeguate20.

Quale è il problema? Lo stesso Vazzoler ha offerto degli spunti interessanti parlando di un rassicurante rifugio nel linguaggio per addetti ai lavori ed evidenziando come il problema riguardi l’ampliamento dello scenario d’ascolto, non più limitato ad un laboratorio o ad una aula universitaria, ma sempre più trasversale e connesso con i mondi della finanza, dell’industria e della partecipazione pubblica.

Di fronte a questo ampliamento (di interlocutori, di interessi, di possibilità) la stessa comunicazione ambientale si trova di fronte ad un bivio insidioso. Da una parte, il mantenimento, conservatore e conservativo, di un approccio puramente scientifico e, per questo, unidirezionale nelle scelte comunicative di declinazione all’eterno. Dall’altra, la concessione alle richieste di apertura promosse da ambiti un tempo estranei, attraverso il cambiamento del timbro narrativo per poter dialogare in maniera paritaria. L’insidia sta proprio nel fatto che tutte e due le strade prefigurate sono perfettamente legittime e rispondono a motivazioni solide. Da una parte, ancora, la volontà di difendere quei valori identitari di complessità che da sempre sottendono la ricerca scientifica, ancora di più in tempi di post verità. Dall’altra, la tentazione e, in qualche modo, anche l’urgenza di intercettare quei pubblici oggi esclusi dal circuito informativo istituzionale e, proprio per questo, possibile preda di quei blitzkrieg contro informativi che di scientifico hanno ben poco ma la cui lettura viene assicurata in tre minuti, grazie ad un lessico facilmente comprensibile.

Si tratta di due scelte estremamente polarizzate che non contemplano alcun punto di contatto tra la necessità informativa e il dovere di farlo tenendo conto delle caratteristiche dei nostri interlocutori, e credo fermamente che questo dipenda proprio dal modo in cui percepiamo culturalmente e socialmente la Comunicazione. Non come facilitatore per snellire i processi di decodifica assicurando una reciproca comprensione ma come mero strumento di persuasione per intercettare i punti di debolezza del nostro interlocutore, assicurando la vittoria al nostro singolo e personale interesse.

20 Climate Outreach & Information Network, Science & Stories – Bringing the IPCC to Life, scaricabile su www.climateoutreach.org.uk.

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Molto dipenderà, dunque, dal modo in cui sapremo aggregare questi due estremi in una cornice di equilibrio al cui interno le funzioni si equivalgano e si rispettino reciprocamente.

(Ri)partenze

Volendo aggregare i tanti spunti emersi in una cornice il più possibile unitaria e interconnessa, per apporti e per azioni, al fine di implementare l’attuale modello di risposta alle crisi, emerge che:

 L’Ascolto rimane la nostra risorsa più importante per contrastare le paure che ogni evento di crisi, a prescindere dalla tipologia, innesca. A patto che l’attività di ascolto sia continua e costante nel tempo, e non – come accade, quando accade – limitata al tempo della crisi conclamata o meramente formale.

 Ascoltare (un territorio, una comunità) vuole dire stare sul territorio. In questo senso, sarà sempre più importante stabilizzare la presenza comunicativa secondo parametri rigidi e omogenei per tutto il territorio nazionale, superando le incertezze della Legge 150/2000.

 L’Ascolto si nutre di dialogo che, a propria volta, viene confermato nel tempo da un sentimento di fiducia. Occorre, in tal senso, migliorare la percezione della Comunicazione e del Comunicatore, innalzando gli standard etici, per esempio, o promuovendo percorsi di formazione ancora più stringenti. Con un obiettivo che è, nel contempo, esterno, nei confronti dei pubblici di riferimento, e interno, nella previsione di possibili partnership con ambienti scientifici per assicurare una declinazione comprensibile di temi complessi nel rispetto del dato scientifico.

 Ogni azione di risposta e di contrasto alla crisi, di qualunque genere essa sia, “parte” in tempo di pace. Stante un apparato tecnico già maturo, si tratta ora di implementare il senso di consapevolezza, al fine di migliorare la fase – oggi pericolosamente e trasversalmente sottovalutata – di Preparazione alla crisi.

Ogni crisi, qualunque sia la natura, sottende una opportunità. Se pienamente metabolizzata, la fase di Preparazione non consente solo una risposta più esauriente e completa alla crisi in atto, ma aiutka anche quella fase di rilancio che interessa il post crisi.

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