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saper «vedere» 44 atteggiamenti dell educatore ATTEGGIAMENTI DELL EDUCATORE /1 DANIELE BUZZONE Si incomincia sempre col guardare

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persona unica e irrepetibile. Questa ac- cezione – va detto – è forse soltanto parziale: e-ducere può voler dire altret- tanto bene «condurre fuori» nel senso di «portare oltre», di prendere per mano – come faceva l’antico paidagogos – e accompagnare l’altro alla scoperta di nuovi orizzonti, introdurlo in mondi a lui ancora sconosciuti, o semplicemen- te indicargli la via attraverso la quale trascendere la situazione in cui è «get- tato», superare i limiti entro cui si tro-

44 atteggiamenti dell’educator e

ATTEGGIAMENTI DELL’EDUCATORE /1

saper «vedere»

DANIELE BUZZONE

Si incomincia sempre col guardare

Fra le interpretazioni più diffuse del termine «educazione» prevale quel- la (certamente indotta dal senso etimo- logico della parola) che identifica l’e- ducare con il «tirar fuori», con l’atto, cioè, di riconoscere in qualcuno delle potenzialità e svilupparle, di portare a piena realizzazione il disegno implicito e latente che lo abita e che ne fa una

Il lavoro dell’educatore e dell’ani- matore è fatto di idee e di azioni, di progetti e di rischi, di desideri e di emozioni. Dietro ogni gesto si cela una convinzione, una intenzionalità (talvolta inconscia), una speranza.

L’azione educativa scaturisce da un pensiero, anche quando resta impli- cito; c’è sempre, alla base, un’etica e una epistemologia, ovvero una per- suasione di che cosa significhi edu- care, di quali criteri ispirino le scel- te, di quale sapere sia necessario per farlo, di come si costruisca la conoscenza delle persone e dei modi per rendere efficace la propria azione. Il «metodo», prima ancora che una sequenza ordina- ta di azioni, è questo insieme di valori, di opzioni e di operazioni mentali.

Ma non sempre chi lavora in ambito educativo è consapevole del sapere implici- to nei propri gesti quotidiani, non sempre sa rendere ragione delle tecniche a cui si affida, o ha l’abitudine di meditare sui propri vissuti. Questa rubrica vuol es- sere uno spazio di riflessione su alcuni atteggiamenti fondamentali dell’essere educatore e del fare educazione.

Il gruppo di pedagogisti a cui è affidata, coordinato da Vanna Iori, afferisce all’U- niversità Cattolica di Piacenza e lavora da anni nella formazione di educatori, ope- ratori sociali, volontari, impegnandosi in particolare sul tema della vita emotiva nel lavoro educativo e di cura*. L’orientamento fenomenologico, che accomuna questi contributi, mira a tenere saldamente unite due dimensioni irrinunciabili del lavoro pedagogico: il rigore scientifico e l’aderenza all’esperienza. Perché quando si ha a che fare con l’esistenza, la scienza non basta: ci vuole la vita.

*Presso la sede piacentina dell’Università Cattolica è attivo anche un Master in «Relazio- ni e sentimenti nelle professioni educative e di cura». Tra le pubblicazioni realizzate dal gruppo in questi anni, segnaliamo: V. Iori (a cura di), Quando i sentimenti interrogano l’e- sistenza, Guerini, Milano, 2006; D. Bruzzone, E. Musi (a cura di), Vissuti di cura, Gueri- ni, Milano, 2007; V. Iori (a cura di), Il sapere dei sentimenti, Franco Angeli, Milano, 2009 (in corso di pubblicazione).

«Ci sono pochissimi occhi in cui esiste lo sguardo»

(A. Giacometti)

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va a vivere, e insegnargli ad ex-sistere, ossia a «stare fuori» di sé, a rivolgersi al mondo e a progettarsi attraverso l’e- sercizio della scelta1, che lo sottrae al- l’inautenticità di una condizione in cui tutto rischia di essere già detto e già de- ciso (dalle disposizioni genetiche, dalle condizioni socioeconomiche, dall’am- biente culturale, ecc.).

Ma al di là di questa polarità fra entrare-in-sé e uscire-da-sé che costi- tuisce la meccanica spirituale di ogni processo di crescita, di apprendimento e di maturazione umana, mette conto rilevare che il termine stesso «educa- zione» suggerisce un «partire dal sog- getto» che non può essere mai eluso; si tratta, beninteso, un soggetto

concreto, situato, unico – non del soggetto «oggettivato», astratto, generale e privo di un’identità determinata che si incontra nelle teorie (an- che pedagogiche) e tra le pa- gine dei libri.

Ciò significa, in fondo, soltanto una cosa: che il pri-

mo atto autenticamente «educativo»

non consiste mai immediatamente nel

«fare qualcosa», nell’intervenire o nel- l’agire, ma nello sforzo di «compren- dere qualcuno», e cioè in quella «pas- sività attiva», recettiva e non intrusi- va2, piena di pazienza e di attenzione, che si preoccupa anzitutto di ascolta- re e di capire. Di cogliere il profilo unico di ogni individuo e di ogni si- tuazione. Perché forse la prima vio- lenza che si può fare alle persone – ancor prima del costringerle ad essere come noi le vogliamo – sta nell’aver- le già pensate prima ancora di incon- trarle, nel darle per scontate, nel sus- sumerle totalmente entro schemi pre- fissati, entro aspettative già definite, entro progetti già elaborati, e così via.

45 atteggiamenti dell’educator e

L’educazione, insomma, inizia dallo sguardo. Non sempre, del resto, bastano gli occhi per «vedere» ciò che è più essenziale.

Ci sono sguardi affrettati, inco- stanti, superficiali, presuntuosi, so- spettosi – e nessuno di essi è capace di vedere davvero. Lo sguardo peda- gogico non può essere quello di chi già tutto conosce in anticipo, perché pre-sumere di sapere impedisce di farsi domande e, quindi, di incontra- re davvero l’altro. L’educatore sa sem- pre di «non sapere» abbastanza, e per questo ha bisogno di tenere gli occhi aperti: perché nulla di ciò che ogni persona ha in sé di nuovo e di inedi- to gli sfugga. Lo sguardo pe- dagogico non può neppure essere quello di colui che semplicemente «fotografa»

la realtà, come in una dia- gnosi accuratissima ma sen- za speranza, o che si accon- tenta di capire e di spiegare ciò che vede, come spesso fa la scienza, senza però poter dire alcunché sul senso delle cose.

L’educatore, per questo, ha bi- sogno dello sguardo dell’amore che genera vita, di quell’amore – come diceva Viktor Frankl – che è capace non soltanto di cogliere l’altro nella sua unicità e di accettarlo per quello che è, ma anche di intuire ciò che egli non è ancora: «non solo vederlo per quello che veramente è, ma so- prattutto per quello che egli può e deve diventare»3.

«Occhi spalancati» sul mondo Il primo atteggiamento dell’edu- catore consiste allora nel suo modo di guardare il mondo e gli altri.

L’educatore ha bisogno dello sguar- do dell’amo- re che gene-

ra vita

1) Cf V. Iori, Nei sentieri dell’esistere, Erickson, Trento, 2006, pp. 43-48.

2) Cf L. Mortari, La pratica dell’aver cura, Bruno Mondadori, Milano, 2006.

3) V.E. Frankl, Come ridare senso alla vita, Paoline, Milano, p. 111.

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Anche la fenomenologia, a ben vedere, è una questione di sguardo.

Essa non rappresenta una teoria (l’en- nesima) sul mondo e sulle cose, ma

«un metodo nuovo»4della conoscenza, in contrapposizione a quello oggetti- vante e naturalistico delle scienze po- sitive. Lo stesso Husserl riconduce questo metodo a «un puro guardare»5, e quando la sua allieva Edith Stein tenta di spiegare l’essenza dell’atteg- giamento fenomenologico, lo defini- sce come un tenere «gli occhi spalan- cati»6 sul mondo e sulle cose. Si trat- ta, dunque, di affinare lo sguardo sul- l’esperienza e di ritrovare, alimentan- dolo, quello stupore di fronte al mon- do e quell’attenzione non frettolosa al suo manifestarsi, che impedisce di ri- condurre ogni fenomeno nella sua ir- riducibile singolarità (ogni persona, ogni situazione) al già detto, al già vi- sto, al già saputo.

È, questa, una qualità assoluta- mente necessaria per chi è quotidia- namente impegnato nel lavoro educa- tivo e di cura.

Per realizzarla, occorre però un faticoso percorso di disciplina interio- re: bisogna infatti mettere «tra paren- tesi», «fuori circuito», rinunciare al- meno inizialmente e non far imme- diatamente uso di tutte le precom- prensioni che ci provengono dal sen- so comune, dall’abitudine, dalle cer- tezze scientifiche, dalla chiacchiera dei media, o dalla nostra esperienza pregressa.

Questa epoché (sospensione del giudizio) educa a star «fuori» dai modi consueti del conoscere, che perlopiù consistono nel ricondurre il nuovo a qualcosa di già noto per spiegarlo,

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uscire dalle modalità convenzionali o stereotipate di rappresentarsi le per- sone, di interpretare i loro problemi, di rispondere ai loro bisogni. Edith Stein descrive così questo atteggia- mento:

«Non tener conto delle teorie sulle cose, escludere, ove è possibile, tutto ciò che si ascolta, si legge o che si è costruito da soli, avvicinarsi ad esse con uno sguardo privo di pregiudizi e attingere ad una vi- sione immediata. Se vogliamo sapere co- s’è l’essere umano dobbiamo porci nel modo più vivo possibile nella situazione in cui facciamo esperienza del suo esser- ci, vale a dire di ciò che noi sperimentia- mo in noi stessi e di ciò che sperimen- tiamo nell’incontro con gli altri»7.

Le persone, in effetti, non si com- prendono se non incontrandole, e l’u- nica possibilità che abbiamo di cono- scerle davvero è che loro ci si mani- festino. Per questo motivo, nelle pro- fessioni d’aiuto, la relazione interper- sonale, molto prima di essere una mera tecnica che potenzia l’efficacia del- l’intervento, costituisce il contesto di senso entro il quale avviene la com- prensione e si dischiudono le autenti- che possibilità dell’esistenza8. È la re- lazione da persona-a-persona, infatti, che produce e scatena le potenzialità formative dell’incontro: con se stessi e con il mondo9.

Qualunque dottrina filosofica o teologica, qualsiasi descrizione scienti- fica di cui possiamo disporre, in quan- to astratta e generalizzata, riguardando tutti, non parla di nessuno in particola- re. Un trattato di sociologia, o di me- dicina, o di psicologia clinica, per esem- pio, possono contenere una descrizione accurata di condizionamenti sociali, di

4) E. Husserl, L’idea della fenomenologia, Laterza, Roma-Bari, 1992, p. 53.

5) Ibid., p. 56.

6) E. Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma, 1998, p. 37.

7) E. Stein, La struttura della persona umana, Città Nuova, Roma 2000, p. 66.

8) Cf D. Bruzzone, Carl Rogers. La relazione efficace nella psicoterapia e nel lavoro educativo, Carocci, Roma, 2007.

9) Cf R. Guardini, Persona e libertà, La Scuola, Brescia, 1987, pp. 27-47.

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patologie o di sintomi psichici che in- teressano in alcuni casi gli esseri uma- ni, ma in nessun caso possono conte- nere e prevedere il modo unico di quel- la singola persona di star «dentro» quei condizionamenti o il significato perso- nale che essa attribuisce all’esistenza nonostante la malattia e la sofferenza – e ciò nondimeno sono proprio queste le cose che maggiormente riguardano la cura educativa10.

«Vedere» con il cuore

Quello che permette di conoscere le persone e di accompagnarle in un iti- nerario di formazione, non è allora uno sguardo puramente intellettuale, distac- cato, asettico, «oggettivo». È, piuttosto, lo sguardo emotivamente connotato di chi protende «le rabdomantiche anten- ne del cuore»11per cogliere il progetto segreto, l’intimo desiderio e il sogno di ciascuno, di chi è capace – per utiliz- zare un ossimoro suggestivo – di «guar- dare ascoltando»12.

Lo sguardo puramente oggettivo dis-umanizza l’uomo, mentre «il modo migliore per comprendere un altro es- sere umano (...) è di entrare nella sua Weltanschauung e riuscire a vedere il suo mondo attraverso i suoi occhi»13. Questa capacità di sintonizzarsi sul- l’esperienza vissuta (Erlebnis) dell’al- tro per mettere in atto gesti di cura ap- propriati e non impersonali e standar- dizzati, si fonda su quell’atteggiamen- to che nella tradizione fenomenologi- ca è stato definito con il termine «em- patia» (Einfühlung). Comprendere em- paticamente significa riuscire a porsi in ascolto profondo dell’altro, nel ten- tativo – sempre precario e imperfetto

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– di cogliere il suo modo di pensare, di sentire e di essere-nel-mondo.

Quando questo accade, le persone si stagliano finalmente dallo sfondo uniforme e opaco della quotidianità ed emergono finalmente nella loro fisio- nomia, nella loro unicità irriducibile. È questa l’essenza dello stupore, che non è necessariamente l’esperienza di qual- cosa di eccezionale, ma un modo ec- cezionale di vedere anche le cose più consuete: «in esso si fa esperienza del- l’apparire del qualcosa di comune, ma sempre e solo in quanto ciò che appa- re (…) è l’essere – nient’affatto comu- ne, ma anzi esclusivo – del qualcosa nel suo proprio modo d’essere che è quello di essere proprio quel determi- nato qualcosa»14. Se trasponiamo que- sta osservazione all’esperienza delle persone, dobbiamo dire che la capacità di stupirci rappresenta l’unica possibi- lità che abbiamo di rispettarle e di co- noscerle per quello che sono, senza ri- durle semplicemente ai nostri automa- tismi cognitivi e senza ingabbiarle nel- le nostre aspettative.

Anche questo è vedere. «Non si tratta di un vedere con gli occhi», os- serva lo psichiatra Binswanger, «ep- pure si tratta di una presa di coscien- za immediata, di un ‘vedere dentro’

che non ha nulla da invidiare alla co- noscenza sensoriale»15. Il cuore, di fronte a questo compito infinito, è un organo perfino più perspicace della ra- gione: perché capace di s-velare le ra- gioni di un altro cuore, anche quelle apparentemente più «irrazionali».

Il sentire, insomma, fa parte del conoscere. Anzi, nell’ambito della co- noscenza personale il sentire ci per- mette di accedere nei luoghi più ripo-

10) Cf D. Bruzzone, Ricerca di senso e cura dell’esistenza, Erickson, Trento, 2007, pp. 161-183.

11) E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 80.

12) Cf P.A. Rovatti, Guardare ascoltando, Bompiani, Milano, 2003.

13) A.H. Maslow, Verso una psicologia dell’essere, Astrolabio, Roma, 1971, p. 25.

14) S. Petrosino, Lo stupore, Interlinea, Novara, 1997, pp. 74-75.

15) L. Binswanger, Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 8.

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sti e nei chiaroscuri dell’anima, lad- dove nulla possono i potenti fasci di luce della ragione. Per questo, come è stato detto, «l’opera di chiarificazione del fenomenologo è costantemente ba- sata sull’esercizio di organi raramente attivi nel filosofo al lavoro – i sensi e il cuore, la sensibilità sensoriale e quella affettiva»16.

La vita emotiva, dunque, non è il regno incostante e inattendibile del soggettivo, ma il luogo di una cono- scenza diversa: quella che procede non dall’oggettivazione, bensì dalla rela- zione. Come sottolinea Eugenio Bor- gna: «ciò che rende la vita

emozionale, l’affettività, premessa essenziale a ogni cura, è il fatto che in essa c’è sempre relazione e, cioè, costruzione, sia pure a vol- te fragile e frammentaria, di dialogo e di ascolto, di silenzio e di contatto: di in-

tersoggettività»17. Naturalmente non vi è intersoggettività o empatia se non sulla base di una certa «risonanza»

emotiva, e ogni tentativo di «epurare»

il lavoro di cura da questo coinvolgi- mento equivale al rischio di lasciarla degenerare in un «prendersi cura» in- curante e privo di umanità18. La possi- bilità di lasciarsi «colpire» emotiva- mente da una situazione umana è in- vece l’unico atteggiamento da cui sca- turisce l’autentica responsabilità.

Un noto passo evangelico lo dice in maniera emblematica:

«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide pas- sò oltre dall’altra parte. Anche un levi- ta, giunto in quel luogo, lo vide e passò

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oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giu- mento, lo portò in una locanda e si pre- se cura di lui…» (Lc 10, 25-37).

La misericordia/compassione ri- chiamata nel testo designa un’emozio- ne quasi fisica, un fremito interiore, una com-mozione: è un sentimento vi- scerale simile all’amore della madre che ha portato il suo bambino nel grembo e pertanto lo «sente» come una parte di sé, e coglie i suoi senti- menti e i suoi bisogni come fossero propri. Il verbo esplanchní- sthe (qui tradotto con «ne ebbe compassione») si ri- trova, non a caso, nella pa- rabola del «Padre miseri- cordioso» (Lc 15, 11-32), e anche qui esprime un’espe- rienza affettiva in cui vede- re e sentire sono un tutt’uno: si tratta di un vedere che non può restare estra- neo, ma anzi mette in grado di dis-al- lontanare l’altro per «farsi prossimo».

Non si tratta tanto di un vedere e poi sentire qualcosa a riguardo, quanto piuttosto di un sentire che rende ca- paci di «vedere» davvero!

Il sentire mi permette di cogliere l’altro non come un estraneo che mi è indifferente, ma come un destino che

«mi ri-guarda» ed esige da me una ri- sposta. L’etica della cura (anche della cura educativa) nasce qui: da uno sguar- do capace di commuoversi. L’amore, in questo caso, non è «cieco», come vor- rebbe un noto adagio popolare, ma al contrario vede quello che sfugge ad al- tri sguardi – e in questo senso è vero piuttosto l’antico principio che Riccardo di S. Vittore ha distillato dalla sua espe- rienza mistica: Ubi amor, ibi oculus.

16) R. De Monticelli, L’ordine del cuore, Garzanti, Milano, 2003, p. 62.

17) E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, cit., p. 188.

18) Cf M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976, pp. 153-158.

Cogliere l’altro come un desti- no che mi ri-

guarda

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