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1 - LA MOTIVAZIONE POSTUMA DEL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO.

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Academic year: 2022

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1 - LA MOTIVAZIONE POSTUMA DEL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO.

di Serafino Ruscica

Schema di svolgimento della traccia

• Fondamento costituzionale dell’obbligo di motivazione • Le funzioni cui assolve l’obbligo di motivazione • La patologia della motivazione: il difetto di motivazione ed i suoi rapporti con l’eccesso di potere • La possibilità da parte della P.A. di convalidare l’atto carente di motivazione con una successiva integrazione in giudizio • La tesi favorevole alla ammissibilità della motivazione postuma • L’orientamento tradizionale contrario all’ammissibilità della motivazione postuma • Ammissibilità dei c.d. chiarimenti

• L’incidenza del principio di parità delle armi • L’obbligo di mitigare le conseguenze risarcitorie dell’illegittimità della motivazione

F

ondamento costituzionale dell’obbligo di motiva- zione. La motivazione costituisce un elemento essenziale ai fini della perfezione degli atti amministra- tivi. L’art. 3 della legge n. 241 del 1990 ha previsto, in via generale, l’obbligo della motivazione espressa per gli atti dell’amministrazione pubblica. Ogni provve- dimento amministrativo deve essere motivato, com- presi quelli concernenti lo svolgimento dei pubblici concorsi e la gestione del personale ed esclusi gli atti normativi e quelli a contenuto generale. Dunque, con la legge del 1990 sul procedimento amministrativo, la giustificazione della manifestazione di volizione o di decisione della P.A. ha assunto un valore centrale nella stessa ricostruzione degli elementi portanti dell’attività amministrativa.

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e funzioni cui assolve l’obbligo di motivazione: La motivazione appare così costruita in funzione del controllo, amministrativo e giudiziario, specie del controllo in prospettiva del sindacato sull’eccesso di potere esercitato dal giudice amministrativo. Fra le varie funzioni della motivazione, oltre quella di con- trollo amministrativo e giurisdizionale, v’è la fun- zione interpretativa dell’atto nonché la funzione di garanzia per il privato, la funzione extra-processuale e la funzione extraprocedimentale della motivazione, che mira a rendere possibile la trasparenza dell’attività amministrativa (la motivazione viene incontro all’esi- genza di controllo democratico sull’operato della P.A.), ed infine la funzione di garanzia preordinata alla tutela dei privati destinatari degli atti amministrativi, ossia dei soggetti nei confronti dei quali i provvedimenti amministrativi possono produrre effetti pregiudizievoli

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a patologia della motivazione: il difetto di motivazione ed i suoi rapporti con l’eccesso di potere; La dottrina e la giurisprudenza concordano nell’evidenziare quel nesso stretto tra motivazione e discrezionalità, che consente al potere giudiziario di entrare nell’hortus conclusus dell’attività discrezionale della P.A., evitando

alla discrezionalità di essere una pura e semplice ma- nifestazione della soggettività amministrativa intesa come autorità, poiché la soggettività amministrativa ha una sua sfera psicologico-subbiettiva che si espri- me nella motivazione, che diviene il canale d’accesso alla discrezionalità. L’obbligo di motivare – espresso dalla legge o ritenuto manifestazione di un principio generale ovvero ancorato o ricavato dalla natura del provvedimento – impone all’atto un requisito, e con- sente così al giudice un sindacato di legittimità sul provvedimento. La motivazione è sufficiente quan- do consente di ricavare l’iter logico giuridico seguito dall’amministrazione decidente: la motivazione non pertinente è indizio di un vizio, di uno sviamento, di un eccesso di potere del provvedimento così emanato.

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a possibilità da parte della P.A. di convalidare l’atto carente di motivazione con una successiva integra- zione in giudizio. La motivazione dell’atto è ricondotta non alla sua enunciazione ma alla sua giustificazione, alla validità intrinseca delle soluzioni adottate dall’au- torità decidente. Si ritiene che il vizio di motivazione non sia un vizio formale che non impedisce il rieser- cizio del potere ma un vizio sostanziale, che non può essere superato mediante la correzione del provvedi- mento carente.

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a tesi favorevole alla ammissibilità della motivazio- ne postuma: Dopo la L. n. 15/2005, si è posto il problema di valutare se l’introduzione nel processo di elementi istruttori possa consentire l’integrazione della motivazione del provvedimento impugnato, consen- tendo in tal guisa l’applicazione dell’art. 21-octies, co.

2, della L. n. 241/1990. La stessa legge, introducendo il nuovo articolo 21-septies, prevede una disposizione che potrebbe astrattamente avere incidenza sul tema della motivazione, modificandone il regime giuridi- co in caso di omissione o difetto motivazionale. La questione attiene alla possibilità di far rientrare l’o- missione o il difetto della motivazione nell’ambito

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dei vizi formali del provvedimento amministrativo.

Il problema è di non poco momento, poiché parte della giurisprudenza dei Tar (peraltro minoritaria) propende per la soluzione positiva ricomprendendo il difetto di motivazione nell’ambito dei vizi formali e ammettendo il ricorso all’art. 21-octies, co. 2. Sicché, partendo dal presupposto per cui attraverso l’introdu- zione della regola del raggiungimento dello scopo si è realizzata una trasformazione del processo ammini- strativo da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto, si ammette che l’Amministrazione intimata possa oggi rappresentare in corso di giudizio ogni elemento utile per evidenziare la palese infondatezza della pretesa del ricorrente, grazie alle risultanze di un’attività istrutto- ria disposta d’ufficio.

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’orientamento tradizionale contrario all’ammissi- bilità della motivazione postuma. L’orientamento aperturista è stato bocciato sul nascere dal Consiglio di Stato, che ha riconfermato la giurisprudenza tra- dizionale sul divieto di integrazione postuma della motivazione, anche a mezzo di contributi istruttori: se la motivazione non può essere integrata in giudizio – a guisa di sanatoria del vizio – il difetto che la inficia non può essere qualificato come vizio di natura formale.

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rincipio di inammissibilità della sanatoria proces- suale degli atti gravati: Per giustificare il divieto di integrare la motivazione originaria, valevole indif- ferentemente sia nei confronti dell’Amministrazione, sia nei confronti di coloro che la difendono in giudi- zio, in talune sentenze si fa riferimento al principio di inammissibilità della sanatoria processuale degli atti gravati, ovvero al principio secondo cui la motivazio- ne deve precedere e non seguire la parte dispositiva del provvedimento e comunque non può essere sanata con integrazioni giudiziali, le quali non sono imputa- bili all’organo di amministrazione attiva che è l’unico competente a pronunciarsi.

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mmissibilità dei c.d. chiarimenti: Se non può darsi ingresso alla motivazione successiva o postuma della motivazione, si può tuttavia ammettere la mera esternazione di motivi già dedotti (riportabile ai c.d.

chiarimenti resi dall’amministrazione), poiché in tal caso non si fa riferimento a elementi motivatori soprav- venuti ma a ragioni tenute presenti, ricavabili degli atti, anche se non convenientemente esplicitate

L

’incidenza del principio di parità delle armi. L’am- ministrazione non potrebbe in corso di giudizio integrare la motivazione originariamente data al provve- dimento o addirittura dare ad essa origine per la prima volta poiché altrimenti godrebbe di una facoltà che la porrebbe in una situazione di ingiustificato privilegio nei confronti del ricorrente, cioè dell’avversario nel processo, il quale verrebbe per conseguenza posto nella situazione per cui l’atto impugnato potrebbe risultare pienamente legittimo nel corso del processo allorché l’amministrazione adducesse i motivi posti a suo fon- damento, in precedenza non dedotti.

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’obbligo di mitigare le conseguenze risarcitorie dell’il- legittimità della motivazione. Una volta ammessa in termini generali la possibilità che anche dall’esercizio delle attività provvedimentali della pubblica ammi- nistrazione possano scaturire illeciti ai sensi dell’art.

2043 c.c., appare conseguente ritenere che l’ammini- strazione debba essere posta in condizioni tali da poter esercitare un ampio jus paenitendi in via di autotutela.

Diversamente, verrebbe violato il principio della parità delle parti del processo (un tempo invocato, sotto ben diverso profilo, a sostegno dell’indirizzo tradizionale), posto che la pendenza del ricorso del privato impedi- rebbe all’amministrazione, pur assoggettata al principio paritario del neminem laedere, di assumere iniziative di diligenza a difesa (oltre che della legalità) dei propri interessi patrimoniali.

Legislazione correlata

• Legge 7 agosto, n. 241: artt. 3, 21-septies, 21-octies, comma 2;

• Codice Civile: art. 2043.

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2 - EVOLUZIONE E NATURA DELLA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE.

Di Serafino Ruscica

Schema di svolgimento della traccia:

• Introduzione • Le trattative e la responsabilità precontrattuale • Esplicitazione del dovere di buona fede oggettiva • Le principali fattispecie di responsabilità precontrattuale • L’omessa comunicazione di cause di invalidità del contratto conosciute o conoscibili da una delle parti • La conclusione di un contratto valido ma pregiudizievole • Distinzione tra regole di validità e regole di comportamento

• La natura della responsabilità precontrattuale: le diverse tesi e la rilevanza della questione

I

ntroduzione: La natura della responsabilità precon- trattuale è una questione che per molto tempo è sembrata riguardare esclusivamente la dottrina che si è divisa fra i sostenitori della tesi della natura ex- tracontrattuale e quelli dell’opposta tesi della natura contrattuale.

L

e trattative e la responsabilità precontrattuale:

L’art. 1337 c.c. detta una regola di carattere ge- nerale, imponendo alle parti l’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, mentre l’art. 1338 c.c.

specifica tale regola generale in relazione all’ipotesi di mancata comunicazione dell’esistenza di cause di invalidità del contratto. La buona fede di cui all’art.

1337 c.c. deve essere intesa in senso oggettivo, quale regola di condotta che obbliga le parti a comportarsi con correttezza e lealtà, nello stesso significato che tale espressione assume anche negli artt. 1366, 1375 e 1358;

si tratta, in definitiva, di una specificazione del dovere di correttezza che l’art. 1175 c.c. pone in capo a debi- tore e creditore. La buona fede oggettiva costituisce una vera e propria clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso, ma è potenzialmente idonea a ricomprendere una pluralità di comportamenti atipici.

E

splicitazione del dovere di buona fede oggettiva: La dottrina e la giurisprudenza hanno comunque individuato una serie di doveri precontrattuali discen- denti dalla clausola generale di buona fede di cui all’art.

1337 c.c.; a titolo esemplificativo, è possibile menzio- nare: L’obbligo di informazione, avente ad oggetto la comunicazione alla controparte di tutti gli elementi rilevanti ai fini della trattativa e della futura conclusio- ne del contratto; L’obbligo di chiarezza (clare loqui), al fine di non ingenerare fraintendimenti: L’obbligo di riservatezza circa i fatti appresi in occasione della trattativ; Il dovere di compiere gli atti necessari per la validità o l’efficacia del contratto.

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e principali fattispecie di responsabilità precontrat- tuale. L’interruzione ingiustificata delle trattative:

La clausola generale di buona fede pone dei limiti alla libertà di recedere dalle trattative, a tutela del legit- timo affidamento dell’altra parte. Laddove sia sorta la ragionevole convinzione che le trattative avrebbero portato alla conclusione del contratto il recesso sarà le- cito solo se sorretto da un giustificato motivo: il recesso dalle trattative in assenza di un giustificato motivo o la condotta scorretta che abbia determinato il recesso giustificato della controparte, determinano l’insorgere della responsabilità precontrattuale.

L

’omessa comunicazione di cause di invalidità del con- tratto conosciute o conoscibili da una delle parti:

L’art. 1338 c.c., obbliga la parte che non ha dato no- tizia all’altra dell’esistenza di una causa di invalidità del contratto conosciuta o conoscibile a risarcire il danno prodotto alla controparte che, senza sua colpa, ha confidato nella validità del contratto. Nonostante la lettera della legge faccia riferimento alle sole cause di invalidità del contratto, secondo l’orientamento pre- valente l’art. 1338 c.c. ricomprende, oltre alla nullità e all’annullabilità (cause di invalidità in senso stretto), anche l’inefficacia. Per questo motivo, larga parte della dottrina (Sacco, Bianca, Scognamiglio) qualifica come precontrattuale la responsabilità del falsus procurator ex art. 1398 c.c., ritenendo tale fattispecie assimilabile a quella prevista dall’art. 1338 c.c.

L

a conclusione di un contratto valido ma pregiudizievole:

La dottrina tradizionale riteneva che la conclu- sione di un contratto valido ed efficace fosse di per sé ostativa alla possibilità di predicare la responsabilità precontrattuale, potendo eventualmente sussistere, una volta stipulato il negozio e ricorrendone tutti gli elementi costitutivi, la sola responsabilità contrattua- le. Un’eccezione alla regola dell’incompatibilità fra conclusione di un contratto valido e responsabilità precontrattuale era individuata nell’art. 1440 c.c.,

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che sancisce la validità del contratto stipulato per ef- fetto di dolo incidente (ossia non determinante del consenso), ma, che obbliga il contraente che ha posto in essere artifici o raggiri a risarcire il danno sofferto per effetto dell’attività contrara a buona fede dall’al- tra parte. L’elaborazione giuridica più recente, ritiene l’art. 1440 c.c. è norma eccezionale, ma espressione di un principio generale dell’ordinamento, in virtù del quale sia possibile conferire rilievo a condotte tenute nella fase delle trattative anche a fronte di un contratto validamente concluso.

D

istinzione tra regole di validità e regole di compor- tamento. È necessario tenere in considerazione la distinzione esistente tra le norme di validità e le norme di comportamento. Le norme di validità hanno ad oggetto gli atti giuridici e disciplinano i requisiti che gli stessi devono possedere per poter essere legittimi ed efficaci; la violazione di tali norme determina l’invali- dità dell’atto, che sarà inidoneo a produrre gli effetti in quanto viziato ab origine. Le norme di comporta- mento, hanno ad oggetto le condotte dei consociati, prescrivendo regole di correttezza che trovano fonda- mento nel dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost;

tenere una condotta contraria a tali regole non pregiu- dica la validità degli atti giuridici eventualmente posti in essere, ma determina l’insorgere di responsabilità e del conseguente obbligo risarcitorio nei confronti dei soggetti danneggiati dalla condotta illecita. Sulla scorta di tali osservazioni, la dottrina e la giurisprudenza più recenti sono giunte ad affermare la non interferenza tra il regime delle invalidità contrattuali (norme di validità) e la responsabilità precontrattuale (norme di comportamento). Di conseguenza, è possibile am- mettere che una condotta scorretta tenuta nel corso del procedimento di formazione del contratto possa determinare l’insorgere di responsabilità in capo a colui che l’ha posta in essere, in quanto contraria alla regola di buona fede ex art. 1337 c.c., anche se le trattative si siano successivamente concluse con un contratto valido ed efficace

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a natura della responsabilità precontrattuale: le di- verse tesi e la rilevanza della questione. La tesi della natura extracontrattuale. Secondo la tesi tradizionale, sostenuta in dottrina da autori quali Sacco, Bianca e Roppo, la responsabilità precontrattuale ha natura ex- tracontrattuale. I sostenitori di questa tesi affermano che il dovere di buona fede posto dall’art. 1337 c.c. è una species del generale dovere del neminem laedere gravante su ogni soggetto dell’ordinamento, senza

essere oggetto di un’obbligazione specifica la cui vio- lazione dia luogo a responsabilità per inadempimento.

Tale dovere non grava su un soggetto determinato al fine di soddisfare un interesse individuale altrui, ma deve essere osservato dalla generalità dei consociati al fine di perseguire l’interesse superindividuale al cor- retto e leale svolgimento della libertà contrattuale. La violazione del dovere di buona fede nelle trattative ex art. 1337 c.c. costituisce un tipo di illecito aquiliano, previsto in via espressa dal legislatore, ma in ogni caso soggetto alla disciplina dettata dagli artt. 2043 ss. c.c.

In proposito si osserva, infatti, che i soggetti coinvolti nelle trattative non sono ancora legate da un rapporto giuridico obbligatorio in senso tecnico, in quanto non legati da alcun vincolo contrattuale, alla cui formazio- ne le trattative intraprese semmai sono dirette.Tale tesi risente dell’influenza della tradizionale concezione bi- partita delle fonti delle obbligazioni, la quale identifica tali fonti. La tesi della natura contrattuale: L’obbligo di comportarsi secondo buona fede durante le tratta- tive e nel corso del procedimento di formazione del contratto non è una mera specificazione del generico obbligo di neminem laedere, ma è un’obbligazione in senso tecnico, l’inadempimento della quale determina l’insorgere delle conseguenze previste dagli artt. 1218 ss c.c. In questa prospettiva, attraverso l’art. 1337 c.c., il legislatore ha inteso estendere alla fase che precede la conclusione del contratto l’obbligo di comportarsi secondo le regole della correttezza, che l’art. 1175 c.c.

pone in capo al debitore e al creditore, soggetti prota- gonisti del rapporto obbligatorio. La circostanza che una norma giuridica, quale l’art. 1337 c.c., assoggetti lo svolgimento di una relazione sociale all’imperativo della buona fede, è indice del fatto che tale relazione ha assunto rilevanza anche sul piano giuridico, oltre che sociale, divenendo un vero e proprio rapporto obbligatorio. Nella concezione contrattuale, l’obbli- go di comportarsi secondo le regole della correttezza e della buona fede, a differenza del generico dovere di neminem laedere, non grava su tutti i consociati, ma su soggetti determinati, poiché coinvolti in una relazione diretta alla conclusione di un contratto. I sostenitori della teoria contrattuale, infatti, osservano che, ai sensi dell’art. 1173 c.c., fonte di obbligazione può essere, oltre al contratto e al fatto illecito, anche ogni altro atto o fatto idoneo a produrre la stessa in conformità dell’ordinamento giuridico.Conseguente- mente, il dovere di comportarsi secondo buona fede nelle trattative è qualificato come obbligazione ex lege, che ha la propria fonte in una norma giuridica quale

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l’art. 1337 c.c. La tesi del tertium genus: Occorre dare altresì conto dell’esistenza in dottrina di una tesi, per quanto minoritaria (Visintini, Cuffaro) la quale ritiene che la responsabilità precontrattuale non possa essere ricondotta a nessuno dei due tradizionali modelli di responsabilità previsti dall’ordinamento, e che essa costituisca un tertium genus di responsabilità, che si aggiunge a quella contrattuale e a quella aquiliana.

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ritiche: La principale critica che viene mossa alla teoria appena esposta, rimasta pressoché priva di seguito in giurisprudenza, è che la stessa si rivela di scarsa utilità pratica, non potendo essere individuata a livello normativo la disciplina cui dovrebbe essere assoggettato questo ulteriore tipo di responsabilità.

Legislazione correlata

• Codice Civile: artt. 1337, 1338, 1366, 1375, 1358, 1175, 1398, 1440, 2043, 1218, 1173.

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3 - MISURE DI PREVENZIONE PERSONALI E PERICOLOSITÀ SOCIALE.

Di Serafino Ruscica

Schema di risoluzione della traccia

• La disciplina delle misure di prevenzione alla luce del Codice Antimafia • La loro giurisdizionalizzazione • Conformazione ai principi CEDU • In particolare: i presupposti applicativi, la ratio ispiratrice e le affinità rispetto alle misure di sicurezza • Criticità • Le misure di prevenzione personali ed il giudizio sulla pericolosità del proposto • L’attualità della pericolosità sociale del soggetto proposto • La confisca come misura punitive • La posizione delle Sezioni unite • La misura di prevenzione di tipo personale: criticità • Le clausole generiche. Compatibilità con i principi costituzionali • Il principio di accessibilità della prescrizione normativa • Il caso De Tommaso

L

a disciplina delle misure di prevenzione alla luce del Codice Antimafia: La disciplina delle misure di pre- venzione è racchiusa all’interno del D.lgs. 159/2011, il quale costituisce il testo di riferimento normativo per le leggi antimafia e le misure di prevenzione, sia personali che patrimoniali. Si tratta di una normativa speciale, che si giustifica in considerazione della circo- stanza che il sistema delle misure di prevenzione si pone al di fuori del diritto penale in senso stretto. Si vuole alludere al fatto che, in realtà, le misure di prevenzione sono più correttamente espressione di un diritto am- ministrativo sanzionatorio, essendo emanate, in linea generale, dall’autorità di pubblica sicurezza (vedasi il foglio di via obbligatorio o l’avviso orale). Accanto alle misure di prevenzione personali applicate dal questore, vi sono anche le misure di prevenzione personali e pa- trimoniali applicate dall’autorità giudiziaria, secondo un procedimento ben definito dagli articoli 4 e ss. del Codice Antimafia.

L

a loro giurisdizionalizzazione: Con riferimento a quest’ultima categoria di misure e in considera- zione della loro finalità di prevenire la commissione di attività illecita, il legislatore ha predisposto un sistema di garanzie, volto ad assicurare il rispetto della tutela dei diritti del soggetto proposto. A tal proposito, si è parlato di «giurisdizionalizzazione» del procedimen- to di applicazione delle misure di cui agli artt. 4 e ss., espressione con la quale si intende alludere al fatto che deve essere sempre assicurato il rispetto del principio del contraddittorio, della difesa, nonché della pub- blicità dell’udienza.

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onformazione ai principi CEDU: Tale disciplina, si conforma pienamente al principio del giusto processo, previsto dalla Convenzione E.d.u. ed ormai da tempo recepito dalla nostra Carta Costituzionale, nonché dalla legislazione processual-penalistica interna.

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n particolare: i presupposti applicativi, la ratio ispira- trice e le affinità rispetto alle misure di sicurezza. Le misure di prevenzione possano trovare applicazione in presenza di due congiunti parametri: da un lato, deve sussistere una particolare qualifica soggettiva, alla qua- le deve unirsi una valutazione sulla sussistenza di una pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica. Gli stessi articoli 1 e 4 del Codice, indicano le categorie di soggetti destinatari delle misure, rispettivamente di quelle applicate dal questore e dall’autorità giudiziaria.

Si tratta delle categorie dei pericolosi sociali comuni e di quelli qualificati, distinti a seconda che il soggetto sia indiziato della commissione di attività delittuose in generale ovvero di una specifica fattispecie di reato tipizzata dal legislatore.

C

riticità: La dottrina ha parlato di logica del so- spetto, volendo alludere al fatto che, già dalla disamina dei soggetti destinatari delle predette misure, emerge come l’applicazione di queste ultime si giustifi- cherebbe anche laddove vi sia la possibilità di ritenersi che i soggetti siano abitualmente dediti a traffici delit- tuosi ovvero vivono abitualmente, anche in parte, di attività delittuose. Da qui i dubbi sulla compatibilità della richiamata normativa con i principi garantistici che conformano l’ordinamento penale, primo fra tutti la presunzione di innocenza, il principio del fina- lismo rieducativo della pena ed il principio della legalità della pena. La risposta ai dubbi si rinviene nella considerazione per cui è la stessa natura delle misure in esame a giustificare un’anticipazione della soglia di tutela dell’ordinamento: si tratta, infatti, di misure che trovano applicazione ante delictum od addirittura praeter delictum, nel senso che non oc- corre un accertamento giudiziale della commissione di un’attività delittuosa generica o qualificata: è sufficiente che siffatta dedizione od inclinazione al crimine possa legittimamente presupporsi sulla base di un giudizio prognostico fondato su specifici «elementi di fatto».

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L’affinità tra le due categorie di misure emerge ancora di più se sol si considera che le misure di sicurezza, di cui agli articoli 199 e seguenti c.p., sono inserite all’interno della categoria delle misure amministrati- ve di sicurezza. In particolare, esse sono regolate dal principio di legalità (art. 199 c.p.), di riserva di legge, dal principio del tempus regit actum, - che si giustifi- ca in considerazione del fatto che è necessario operare un giudizio sulla pericolosità sociale nel momento in cui deve farsi applicazione della misura -, nonché dal principio di irretroattività. Quest’ultimo, però, de- v’essere inteso nel senso che non potrà mai applicarsi (oggi) una misura di sicurezza, quando, all’epoca della commissione del fatto, quest’ultimo non era ancora stato previsto dalla legge come reato o quasi-reato. In linea generale, poi, si dice, che, mentre la pena guar- da al passato, la misura di sicurezza guarda al futuro, ponendosi come strumento ulteriore del giudice per neutralizzare il rischio di una recidiva. In realtà, l’ele- mento distintivo tra le misure di sicurezza e quelle di prevenzione è che le prime possono essere applicate soltanto a soggetti – ritenuti socialmente pericolosi- che abbiano già commesso un fatto preveduto dalla legge come reato o quasi reato (categoria in cui vi rientra il reato impossibile ex art. 49 c.p. ovvero l’accordo per commettere un delitto o ancora l’istigazione, non ac- colta, ad un delitto ex art. 115 c.p.), mentre le misure di prevenzione prescindono dalla commissione di un delitto, risultando sufficiente la sussistenza di indizi circa la commissione di un reato, purché ragionevol- mente fondati su elementi di fatto.

L

e misure di prevenzione personali ed il giudizio sulla pericolosità del proposto. Il giudizio valutativo sulla pericolosità del soggetto proposto, cioè, deve essere tale da garantirne la possibilità di un controllo, in termini di pieno rispetto della legge. La giurisprudenza ritiene determinate che il richiamato giudizio sulla pericolo- sità sia fondato su elementi circostanziali oggettivi e quanto più possibile oggettivi, tali da neutralizzare l’alea di una valutazione discrezionale in sede applica- tiva; la ritenuta sussistenza della pericolosità sociale del soggetto deve essere attuale, perché, soltanto in tal modo, si garantisce il pieno assolvimento da parte dell’applicata misura di sicurezza del suo scopo ultimo, che è quello di prevenire la commissione di un reato.

L

’attualità della pericolosità sociale del soggetto pro- posto: Sul profilo dell’attualità della pericolosità della misura che la giurisprudenza di legittimità si è soffermata, con particolare riferimento alla categoria

delle misure di prevenzione patrimoniali, sub specie del- la cosiddetta confisca antimafia. Con l’articolo 18 del Codice Antimafia, il legislatore disciplina l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali disponendo che per queste ultime, a differenza di quelle personali, l’applicazione può avvenire indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto.

L

a confisca come misura punitiva. Tale dato normati- vo, suffragato anche dai recenti esiti interpretativi della Corte di Strasburgo in tema di confisca e di misura punitiva in concreto, aveva legittimato un’impostazione giurisprudenziale, alla stregua della quale la confisca antimafia andava più correttamente qualificata come sanzione punitiva, con conseguenti ricadute in punto di necessario rispetto dei principi dell’irretroattività della legge penale, del giusto processo e di accertamento nel merito della vicenda processuale.

L

a posizione delle Sezioni unite. Sul punto, sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione, le quali hanno ribadito la natura preventiva e non pu- nitiva della confisca antimafia, ritenendo comunque necessario un giudizio sulla pericolosità, che deve ri- flettersi sull’uso del bene, in sé ovviamente neutro. A tal fine, si ritiene necessario che non vi sia un eccessivo distacco temporale tra il momento in cui il bene entra a far parte del patrimonio del soggetto proposto e la presunta commissione, su basi indiziarie, di un’atti- vità delittuosa.

L

a misura di prevenzione di tipo personale: criticità.

La medesima perplessità applicativa si è posta anche in riferimento alla categoria della pericolosità sociale del soggetto proposto per l’applicazione di misure di prevenzione di tipo personale. È necessario valutare l’attualità della pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica, ma si percepisce subito la diffi- coltà di ancorare siffatto giudizio a parametri più o meno definiti, soprattutto quando si tratta di soggetti indiziati della commissione di particolari categorie di reato. Una valutazione della pericolosità sociale, che sia coeva al momento applicativo della stessa, garanti- sce l’assolvimento da parte della misura di un’efficace funzione social-preventiva e soprattutto consente al soggetto proposto di potersi difendere nel merito, adducendo elementi nuovi o comunque diversi che possono incidere sulla valutazione della pericolosità.

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e clausole generiche. Compatibilità con i princi- pi costituzionali. Il ricorso alla clausola generale

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«coloro che debbano ritenersi…abitualmente dediti a traffici delittuosi» ovvero il riferimento a «perso- ne pericolose per la sicurezza pubblica» od anche la prescrizione accessoria di «vivere onestamente, di ri- spettare le leggi» pongono un problema di intellegi- bilità della norma e di comprensione del contenuto. Si pone il problema della compatibilità della normativa del Codice Antimafia con il principio di legalità, per come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ossia in termini di accessibilità e preve- dibilità delle conseguenze della propria condotta.

I

l principio di accessibilità della prescrizione normativa.

Una prescrizione normativa, dev’essere, prima di tutto, formulata in maniera chiara, tale da consentire a qualsiasi consociato di intenderne il contenuto e di autodeterminarsi in maniera consapevole, ben poten- do prevedere le conseguenze della sua condotta.

Soltanto in tal modo un processo potrà dirsi equo, ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, nonché rispettoso delle libertà e delle garanzie dei singoli.

I

l caso De Tommaso: Sulla scorta delle predette ar- gomentazioni, la Corte Europea, nel noto caso De Tommaso c. Italia del 23.2.2017, vertente in tema di applicazione della misura di prevenzione

della sorveglianza speciale di cui all’art. 3 della l. n.

1423/1956 (oggi trasfusa nell’articolo 6 del Codice Antimafia), ha ravvisato una violazione della libertà di circolazione dell’individuo, alla stregua del contenuto dispositivo di cui all’art. 2, protocollo 4, della C.e.d.u.

La Corte E.d.u. ha avuto modo di soffermarsi sul con- cetto di sufficiente determinatezza della fattispecie legislativa e di prevedibilità delle conseguenze della propria condotta, pervenendo, nel caso sottoposto al suo vaglio, all’assunto conclusivo per cui gli obblighi di “vivere onestamente e rispettare le leggi ” e di

“non dare ragione alcuna ai sospetti ” siano stati delimitati in modo sufficiente. In primo luogo, il

“dovere dell’interessato di adattare la propria condot- ta a uno stile di vita che osservi tutti i summenzionati obblighi” è altrettanto indeterminato dell’“obbligo di vivere onestamente e rispettare le leggi”. Secondo la Corte tale interpretazione non fornisce indicazioni sufficienti per le persone interessate. La Corte ritiene pertanto che questa parte della Legge non sia stata formulata in modo sufficientemente dettagliato e non definisca con sufficiente chiarezza il contenuto delle misure di prevenzione che potrebbero essere ap- plicate a una persona, anche alla luce della giurispru- denza della Corte costituzionale.

Legislazione correlata

• Codice Penale: artt. 49, 115;

• D.lgs. 6 settembre 2011, numero 159 (codice antimafia): artt. 1, 4, 6, 18;

• CEDU: artt. 6, 2, protocollo 4;

• Legge 27 dicembre 1956, numero 1423.

Riferimenti

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