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Comunicare per esserci, esserci per comunicare. Social Media Marketing nell'eta del Web 2.0

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Academic year: 2021

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INDICE

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INTRODUZIONE ... 3

1.1

Presentazione del problema ... 3

1.2

Il racconto è ovunque ... 4

1.3

Tutto cambia perché niente cambi? ... 6

1.4

Rassegna della letteratura e contenuto della tesi ... 9

2

L’IMPRESA CHE COMUNICA ... 13

2.1

Le direzioni del messaggio ... 14

2.2

La comunicazione d’impresa nell’età Web 2.0 ... 17

2.2.1

Il web: tappe evolutive e implicazioni ... 18

2.2.1.1 La convergenza ... 19

2.2.1.2 L’intelligenza collettiva e il neo-tribalismo ... 21

2.2.1.3 Web e Marketing ... 24

2.2.1.4 Big data e privacy ... 26

2.3

Marketing e comunicazione (d’impresa) ... 30

2.3.1

Una funzione integrata ... 35

2.4

Interlocutori e obiettivi ... 37

2.5

Positioning ... 41

2.6

La relazione, un’esperienza di valore ... 45

2.7

La community e l’esperienza di acquisto ... 47

2.8

Il consumatore “agens” ... 49

2.9

Studi e teorie: il dialogo bidirezionale ... 54

2.9.1

La Stakeholder Theory ... 54

2.9.2

La Excellence Theory ... 55

2.9.3

La Situational Theory of Publics ... 56

2.9.4

La Relationship Management Theory ... 57

2.9.5

La Contigency Theory ... 57

2.9.5.1 Una prova empirica ... 58

2.9.6

La Co-creation of Meaning Theory ... 59

2.9.6.1 Karl E. Weick e i processi di sensemaking ... 61

2.9.7

La Communicative Consitution of Organization... 63

3

L’IMPRESA CHE RACCONTA ... 66

3.1

Teorie dello storytelling ... 67

3.2

Il brand 2.0: le sfide del racconto di marca ... 72

(2)

2

3.2.2

La forma del messaggio: multimedialità e ipertestualità ... 81

3.3

User generated content ... 83

3.4

Content marketing: il contributo della semiotica ... 88

3.4.1

Semioscreen ... 89

3.4.2

I consigli di Kurt Vonnegut ... 94

4

L’IMPRESA CHE PIANIFICA ... 98

4.1

Digital Storytelling Process ... 98

4.2

Social Media o Social network? ... 101

4.3

Usare i Social Media: il Social Commerce ... 105

4.3.1

… e il Mobile Marketing ... 107

4.3.2

L’alveare delle funzioni Social Media ... 109

4.3.3

SocialMediAbility: le sfide delle imprese italiane... 112

4.4

Owned, earned, payed Media ... 114

4.4.1

I media posseduti ... 115

4.4.2

I media guadagnati ... 115

4.4.3

I media comprati ... 116

4.5

Il vademecum della Harvard Business School ... 117

4.6

Social Media Plan ... 119

4.6.1

La fase di analisi ... 120

4.6.2

La fase strategica ... 121

4.6.3

La fase operativa: azione ed engagement ... 124

4.7

Misurare il Social Media Marketing ... 128

4.7.1

Key Performance Indicators e Return On Investment ... 133

4.7.2

La fase di analisi ... 136

4.8

Case history: l’esperienza di San Francesco 67 ... 137

4.8.1

Chi è San Francesco 67? ... 137

4.8.2

Struttura e gestione del profilo Facebook... 140

4.8.3

Instagram: il potere delle immagini ... 141

4.8.4

@sanfrancesco67 ... 144

4.8.5

Il target e i follower ... 147

4.8.6

Punti di forza e osservazioni finali ... 147

CONCLUSIONI ... 152

ABSTRACT ... 155

BIBLIOGRAFIA ... 157

(3)

3

1 INTRODUZIONE

1.1 Presentazione del problema

È perlopiù risaputo che il racconto è il cuore di ogni processo comunicativo. Dal punto di vista della storia dell’umanità l’acquisizione di un sistema di oralità primaria prima e scritturale poi ha la costante dell’efficacia (o dell’inefficacia) e della potenza della narrazione. Comunicazione verbale, non verbale e paraverbale nella tripartizione della teoria della comunicazione classica ribadisce questa cifra caratteristica della specie umana. Un tattoo, una pettinatura, un look ben preciso producono una catena di racconti impliciti e immediati, descrittivi e spesso valutativi dell’altro/a.

Anche dal punto di vista dello sviluppo psicologico dell’individuo il racconto è lo strumento e il dispositivo principale degli scambi interpersonali. La presenza di uno o più protagonisti/antagonisti, di schemi e topoi ricorrenti, di uno o più messaggi e significati, di una missione da compiere costituisce la cornice narrativa di buona parte della nostra comunicazione.

Facciamo migliaia di inferenze al giorno, in ogni situazione, dalla più banale alla più complessa e articolata. Il diverbio con il collega, il litigio in coda al semaforo, lo sfogo con un’amica, una dichiarazione d’amore o di amicizia, lo spot pubblicitario, un profilo Facebook o Instagram sono tutti dispositivi, piattaforme comunicative nelle quali interpretiamo, comunichiamo e nel farlo “siamo”. Della comunicazione si sostanzia il nostro stare nel mondo dal punto di vista sociale, culturale e artistico, politico ed economico.

Lo sforzo di questo lavoro sarà quello di attingere all’opera dei padri (e ai figli) della teoria della comunicazione come una sorta di cassetta degli attrezzi per un duplice motivo: tentare di dare un inquadramento filosofico della comunicazione aziendale veicolata sui Social Media (d’ora in poi SM), sempre più pervasiva e incentrata sui contenuti e le relazioni; delineare le sfide di un marketing nuovo, non perché etichettato nelle formule Digital o Social Media Marketing (SMM), ma perché composito e multiforme, come lo è lo scenario in cui si muove.

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4

Il fuoco dell’elaborato si colloca dunque sulle opportunità di business nei SM e sull’eredità che le dirompenti novità tecnologiche devono riconoscere di aver acquisito dalla comunicazione e dallo storytelling tradizionali.

L’idea della tesi nasce principalmente da un’esperienza lavorativa di circa sei anni tanto stimolante, quanto complessa e sfaccettata. San Francesco 67, San Francesco Easy, Michel Castiglioncello e Il Mondo di Sofia sono i nomi, o per meglio dire i brand, per i quali ho lavorato. Si tratta di piccoli negozi di abbigliamento e accessori per donna, ciascuno con una personalità e un’intenzione comunicativa precise. L’ultima parte del quarto capitolo si concentrerà in particolare su San Francesco 67, con il quale ho più collaborato in questi anni. Si trattava di un lavoro principalmente a contatto con il pubblico: accogliere, aiutare, consigliare, vendere. Le mansioni di shop assistant si coniugavano con quelle di backstage che comprendevano campionari, rapporto con i fornitori, fiere, e cura giornaliera degli spazi Facebook e Instagram aziendali. Quest’ultima mansione è nevralgica rispetto al concept-store e al SMM. In un’ottica di marketing mix, o meglio, communication mix, l’insegna, la vetrina, l’allestimento, il visual merchandising, etichette e cartellini, il packaging, lo stile di vendita delle dipendenti e non da ultimi, per l’appunto, i post e le foto sulle fanpage comunicano l’idea, i valori, la cultura aziendali.

Il fatto che anche un piccolo negozio di provincia, privo di una casa madre e di brand forti di riferimento, necessiti di interfacciarsi al cliente e alle altre aziende anche sui SM è stato significativo nella prospettiva del presente lavoro: più il venditore-narratore-comunicatore è avvincente nel suo narrare, meglio arriva a chi ascolta, che con tutta probabilità si farà egli stesso portatore di questa storia ad altre orecchie.

1.2 Il racconto è ovunque

Il racconto che promana dai brand a noi più o meno cari è la vera costante del nostro tempo: online e offline condividiamo foto, video, contenuti testuali di ogni tipo. Le imprese fanno altrettanto e anche quando non consapevolmente sono di fatto “attraversate” da un imponente flusso narrativo sui loro brand. Il punto non è confezionare storie da trasferire nel digitale, ma implementare uno storytelling che si ponga come punto di intersezione tra il racconto d’impresa, le narrazioni del mercato e dei singoli consumatori in

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un continuum problematico che va dalla “supremazia del racconto” alle “condivisioni collaborative”1. Sono

queste ultime infatti che nutrono e sostanziano di carica simbolica la personalità di una marca, di un’impresa, delle sue merci, ma anche di un personaggio politico, di una donna o di un uomo d’affari.

Anche nelle merci che popolano la nostra vita quotidiana, come spiega Emanuele Coccia nel suo “Il bene delle cose”2, si condensano i valori, i significati, i riferimenti culturali della nostra esistenza individuale e

sociale. Le scelte del consumatore hanno sempre avuto la capacità di evidenziare i cambiamenti storici e sociali in atto, nella misura in cui illuminano le motivazioni profonde di un comportamento rilevante per le persone. E come tanta sociologia dei consumi ha dimostrato, rilevante è anche il comportamento (di scelta, consumo, condivisione…) mostrato quotidianamente sui SM.

La comunicazione e il marketing oggi non possono dunque più rimandare: se aspirano a un qualche potere trasformativo nelle abitudini e nelle categorie del pensiero delle persone dovranno “comunicare attraverso racconti”3: inserirsi, cioè, in modo memorabile e significativo nel flusso di interpretazioni e attribuzioni di

senso dei loro interlocutori, impattare nelle loro vite con messaggi carichi di rilevanza, pertinenza, verità. La nuova comunicazione si colloca in un punto equidistante, ma sempre in discussione, tra il capitale narrativo del brand e le vite delle persone, nelle quali incide solo se qualitativamente importante e con la velocità richiesta da uno scenario super informatizzato. I cui tratti distintivi sono:

• Gli utenti dei SM sono più content publisher che content reader4: come in un braccio di ferro si

pongono al polo opposto della sfera di controllo e potere esercitati dall’impresa. Attorno ai brand e ai prodotti si moltiplica a dismisura la quantità di informazioni veicolate dall’uomo comune. • Quest’ultimo è sottoposto a una quantità di infotainment senza precedenti: all’aumentare degli

stimoli diminuisce la sua fiducia nei messaggi di marca “homemade”, prodotti finiti dell’impresa.

1 Introduzione di A. Fontana a Sassoon J., Web Storytelling. Costruire storie di marca nei social media, Franco Angeli, Milano, 2012. Premessa alla nuova edizione, versione ePub.

2 Coccia E., Il bene delle cose. La pubblicità come discorso morale, Il Mulino, Milano, 2014. Cap I.

3 Prefazione di Iabichino P. “Siamo tutti storyteller, con le storie degli altri” a Fontana A., Storytelling d’impresa: la guida definitiva, Hoepli, Milano, 2016. Versione ePub.

4 Introduzione di Andrea Fontana a Sassoon J., Web Storytelling. Costruire storie di marca nei social media, Franco Angeli, Milano, 2012. Versione Epub.

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• L’acquisto è preceduto da estrema oculatezza: l’utente si informa, legge, indaga e compara. Sfrutta

buona parte delle potenzialità offerte dalla sua rete di amicizie social e solo dopo decide se acquistare o meno.

Il primo punto, in particolare, è cruciale e disegna l’orizzonte pratico delle imprese oggi. Il fatto che i consumatori siano oggi i primi creatori di contenuti sulla marca ha implicato per molte di loro un forte dislivello nel rapporto di potere impresa-consumatore a favore di quest’ultimo. Il SMM deve dunque affidarsi al web storytelling per ristabilire la parità di consapevolezze nel rapporto di forza che è la comunicazione. Solo grazie a un confronto tra il “cosa dicono” gli altri e cosa invece l’impresa dice di sé le imprese possono recuperare un ruolo attivo5 nel costruire e difendere la brand reputation, contrastare

attacchi e “contro-narrazioni”, orientare le opinioni dei consumatori verso la brand image, trovare una bussola, il web storytelling mindset6, che indichi la giusta direzione da seguire nella confusione generata da

una comunicazione non più lineare.

Se sgomberiamo il campo dagli allarmismi sulla (presunta) pericolosa pervasività della comunicazione sui media digitali, il SMM, da “costola” del marketing tradizionale può assurgere al ruolo di teoria e tecnica consustanziale della comunicazione. Nel momento in cui segna il cambio di paradigma o disruption che dir si voglia, la nuova comunicazione recupera la necessità primitiva dell’animale narrativo che è in ognuno di noi e il bisogno di senso di ogni comunicazione che si definisca tale. Più storytelling e teoria della comunicazione dunque e un po’ meno marketing.

1.3 Tutto cambia perché niente cambi?

Il SMM segna un cambiamento epocale negli strumenti e negli artefatti tecnologici che mette in campo. Con esso si intende propriamente l’insieme delle strategie marketing di un’impresa finalizzate a dare visibilità a un brand o a un’azienda sui SM, le comunità digitali e le diverse piattaforme del web 2.0. Il SMM supera i

5 Introduzione di Andrea Fontana a Sassoon J., Web Storytelling. Costruire storie di marca nei social media, Franco Angeli, Milano, 2012. Premessa alla nuova edizione. Versione ePub.

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modelli tradizionali di comunicazione unidirezionale e permette alle aziende di stabilire un rapporto paritario con i clienti che possono esprimere giudizi e partecipare in modo attivo al crowdsourcing.

Negli anni “incantatori”7 – principalmente gli anni Ottanta – in cui gli spot affidati ai mass media erano il

frutto di lunghe e impegnative analisi di mercato e confronti con i focus group, il lessico della pubblicità era quello di un conflitto armato: i clienti erano dei target, bersagli da colpire, nell’illusione che un abile uso congiunto di calcolo e creatività potesse determinare la loro persuasione incrollabile.

L’uso dei media digitali ha riportato alla luce i meccanismi più intimi e personali di appropriazione dei messaggi che promanano da qualsiasi marca, i quali lungi dall’aver massificato gusti e preferenze, li hanno moltiplicati e resi più complessi da intercettare8. Senza contare, come ricorda Joseph Sassoon9, che le

conversazioni degli utenti sui social sono esse stesse un’inesauribile fonte (a basso costo) di focus group permanenti. L’ascolto proattivo di cosa, dove e quanto si dice del brand può essere estremamente utile per calibrare le scelte del management.

L’utente dialoga con l’impresa senza intermediari e allo stesso tempo collabora e co-costruisce con la stessa i suoi progetti di business. Cherubini e Pattuglia10 definiscono “co-opetition” il mix di cooperazione e

competizione nella comunicazione resa possibile dai nuovi media: un’alleanza orizzontale dove le esigenze di socialità, informazione, consapevolezza e protagonismo degli utenti incontrano gli obiettivi commerciali delle aziende e creano valore condiviso.

Il successo delle piattaforme social figlie del web 2.0 sembrerebbe dunque decretato da attività che l’uomo compie da secoli: conversare, raccontare, socializzare, descrivere, giudicare, accusare… Seneca nel I secolo a. C. diceva “l’uomo è un animale sociale. Le persone non sono fatte per stare da sole”. La grande novità è

7 Iabichino P., Verba volant. Un nuovo alfabeto per scrivere (e leggere) la pubblicità di oggi, Codice Edizioni, Torino, 2017. Versione ePub. Introduzione.

8 Sassoon J., Web Storytelling. Costruire storie di marca nei social media, Franco Angeli, Milano, 2012. Versione ePub. Cap. IV.

9 Ivi, Cap. III.

10 Cherubini S., Pattuglia S., Co-opetition. Cooperazione e competizione nella comunicazione e nei media, Franco Angeli, Milano, 2010. Op. cit. in Cherubini S., Pattuglia S., Social Media Marketing. Consumatori, imprese, relazioni, Franco Angeli, Milano, 2012. P. 24.

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l’abbattimento delle barriere comunicative che senza Internet e l’avvento del web 2.0 sarebbe stato difficile valicare.

In modo quasi circolare e senza soluzione di continuità i cambiamenti che impattano su comunicazione e marketing rispondono all’esigenza primitiva del raccontare, predicato del vivere sociale. La grande differenza rispetto al marketing tradizionale è in buona parte il paradossale ritorno, attraverso dispositivi e aperture nuove, alla portata emotiva della relazione comunicativa e interpersonale. Il marketing, che per questo motivo è stato definito anche “emozionale”, si fa più umano e meno ancorato alla rigidità organizzativa, più emotivo e meno razionale, più informale e diretto, più orizzontale, meno verticale.

“I mercati sono conversazioni” è la prima delle 95 tesi del “Cluetrain Manifesto”11: gli attuali strumenti di

“relazione aumentata” fanno perno su una delle basi fondamentali dell’umana convivenza. Quando mettiamo il like a una fanpage o iniziamo a seguire un profilo Instagram non incontriamo un nodo della rete né un semplice consumatore. La persona è alla base di qualsiasi processo collaborativo in tutte le sue dimensioni, fisica, emotiva, mentale, spirituale. Qualunque messaggio si scambi sui SM, sia pure strategicamente elaborato per essere accolto in un determinato modo, dovrà essere consegnato con umiltà dalle aziende alle percezioni dell’altro, in una visione basata sull’ascolto e sull’equilibrio di potere.

Da un certo punto di vista siamo d’accordo con Guido Di Fraia12 quando, scrive che Il web e i Social Media

non sono solo nuovi canali che l’impresa può utilizzare insieme a quelli tradizionali, ma costituiscono piuttosto una testimonianza di un vero e proprio cambio di paradigma destinato a modificare la comunicazione aziendale per come essa è stata concepita sino a oggi. È in atto una rivoluzione antropologica che forgia e plasma nuove “forme dell’umano”: ogni tecnologia – il linguaggio, l’invenzione della scrittura, e dopo migliaia di anni, quella della stampa, e poi ancora, il telefono, il cinema, la radio la tv – possono essere considerati tappe di sviluppo della tecnologia della comunicazione che di volta in volta è anche, se non soprattutto, una tecnologia cognitiva, in grado di incidere profondamente sulla società e sulla cultura.

11 Levine R., Locke C., Searls D., Weinberger D., The Cluetrain Manifesto (1999). Traduzione di Luisa Carrada in

http://www.mestierediscrivere.com/articolo/Tesi.

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Eppure, tanto i media tradizionali, concentrati sul mero prodotto quale oggetto del desiderio e sulla riproduzione verticale di un preciso ordine socioeconomico, quanto i new media, enzimi di una struttura socioculturale di tipo orizzontale, nonostante i secondi a differenza dei primi segnino un vistoso salto di qualità, di fatto parlano attraverso l’essenza narrativa del comunicare. Gli attori sociali coinvolti elaborano e negoziano significati sia nella comunicazione one to many, che in quella many to many. La differenza più vistosa è che oggi più che mai tali significati sono collocati sullo stesso piano di quelli pensati strategicamente da uno scrittore, da un politico, da un’impresa. E, come lo stesso Kotler in più momenti ha ribadito, la socialità dell’esperienza d’acquisto mediata dai SM ha senz’altro contribuito a restituire autonomia e consapevolezza alla scelta d’acquisto. Prima ancora di far emergere modelli di business i SM stanno modificando il nostro modo di pensare, selezionare, creare nuova conoscenza e governare nuove relazioni.

Capire come il loro impiego può incidere sulle modalità di racconto di un’azienda ci impone di studiarne le premesse tecnologiche e culturali, intendendo per quest’ultime il “collante di senso”, come mission e narrazione all’interno di un’azienda e al tempo stesso come il più generale ecosistema mediale nel quale siamo immersi e sintonizzati. “Siamo cantastorie del Terzo Millennio”, dice Gianpietro Vecchiato13: è in

gioco né più né meno che il processo di comunicazione, con le sue regole e le sue implicazioni e allo stesso tempo con i contraccolpi dell’ennesima virata tecnologica, culturale, sociologica, entro i (labili) confini della vasta “semiosfera”14 nella quale siamo immersi.

1.4 Rassegna della letteratura e contenuto della tesi

Dal punto di vista della letteratura, l’intenzione dell’elaborato è quella di seguire parallelamente alcuni classici della teoria della comunicazione e al contempo pubblicazioni di taglio più economico, che comprendono alcuni teorici del marketing e del SMM. Quando si parla di comunicazione e delle sfide che a questa di aprono nell’odierno scenario non si può fare a meno di confrontarsi con le tesi della semiotica: le

13 Consigliere nazionale Ferpi con delega alla Formazione. In Cherubini S., Pattuglia S., Social Media Marketing. Consumatori, imprese, relazioni, Franco Angeli, Milano, 2013. P. 47-49.

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rivoluzioni innescate dalle tecnologie digitali sembrerebbero regalarci un monito a recuperare gli essenziali del processo comunicativo, al rapporto tra segno e significato, linguaggio, pensiero e realtà.

Di seguito indicherò i contributi testuali alla stesura dell’elaborato. Per quelli relativi ai contenuti digitali e online rimando alle note del capitolo corrispondente e alla sitografia.

Dopo questo primo capitolo introduttivo ispirato alle riflessioni di Fontana (2016), Sassoon (2012), Cherubini & Pattuglia (2013), il secondo verterà sulla comunicazione come concetto generale (Castells 2010; Volli, 2014) e fattore essenziale di un’organizzazione aziendale (Fabris 2003; Corvi 2012; Zeppa 2013): vi sono affrontati i concetti di comunicazione integrata e marketing communication; seguono una definizione di web 2.0, retroterra culturale oltre che tecnologico, del SMM e della comunicazione come relazione e conversazione di valore e significativa con il nuovo consumatore (Fabris, 2003 e 2009; Gnasso e Iabichino, 2014). Qui Jenkins (2007) e Lévy (2002) sono i riferimenti rispettivamente per i concetti di cultura convergente e intelligenza collettiva; Cova, Giordano e Pallera (2008) per il neo-tribalismo. Dal punto di vista metodologico, il manuale del prof. Guido di Fraia (2011) è il supporto teorico del capitolo. Per quanto riguarda la digressione sul concetto di agency il riferimento è al manuale del prof. Fabio Dei (2012). L’ultima parte è dedicata ai principali approcci teorici sulla comunicazione d’impresa e le relazioni pubbliche come dialogo (Mazzei & Ravazzani, 2014) con un approfondimento su Weick (da Bartezzaghi, 2010) e i concetti di sensemaking e organizing.

Il terzo capitolo riparte dal concetto di storytelling – così come è elaborato da Iabichino (2009; 2017), Sassoon (2012) e Fontana (2016) – e si focalizza sulle personalità multiple del brand 2.0 (Kapferer e Thoening 1991; Fiocca, Marino & Testori 2007; Fioroni & Titterton 2007; Cherubini & Pattuglia 2010; Lombardi 2011; Gabrielli 2012; Rinaldi 2013) per individuarne le potenzialità di racconto sulle piattaforme social. Il capitolo riporta a tal fine anche alcune teorie utili sullo storytelling e sulla narrazione (Aaker & Smith 2010; Fontana, Sassoon e Soranzo 2011; Gottschall 2012; Cometa 2017) e prosegue sulle caratteristiche peculiari del messaggio di marca nei new media (Cosenza 2008; Volli 2014) tra intertestualità e multimedialità. Il focus passerà quindi al continuum di libertà creativa dell’utente-consumatore (Tuten 2008): lo user generated content, e, in particolare, il citizen advertising ha decretato il passaggio dalla comunicazione asimmetrica alle condivisioni narrative, teorizzato da Fontana (2018). Dopo alcuni cenni alla

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semiotica francese, la parte conclusiva è affidata al metodo “Semioscreen” così come viene adattato da Sassoon (2012), a dimostrazione che anche nella comunicazione affidata ai SM si può parlare propriamente di racconto.

Il quarto capitolo è senz’altro quello più denso. Si apre con un aggancio al precedente, nel tentativo di illustrare le possibilità di pianificazione strategica per le imprese impegnate a raccontarsi sui SM (Di Fraia 2011; Loreti 2013). Torneremo poi sui SM, specificando le differenze tra le categorie SM e social networks, incentrate sui due aspetti fondamentali del web 2.0, i contenuti e le relazioni. Per le statistiche e le mappe relative alla distribuzione nel mondo dell’uso dei SM ci affidiamo al blog di Vincenzo Cosenza, importante riferimento (Cosenza 2014) anche per le metriche – quantitative e qualitative – di misurazione del SMM. Il capitolo illustra anche il comportamento delle aziende italiane al riguardo grazie alla ricerca del prof. Di Fraia sulla loro “socialmediability”, e riporta il framework (Loreti 2013) “honeycomb”, capace, a nostro avviso, di indicare con i sette blocchi di cui si compone le possibili aree di intervento sui social. Attingiamo sempre a Di Fraia (2011) per il primo schema di lavoro proposto, nella tripartizione owned-earned-payed media: alla luce della loro tipologia cambiano sia gli strumenti che i risultati dell’azione della marca. Il vademecum di Harvard sulle buone prassi da tenere online evidenzia una sostanziale difficoltà degli analisti di comprendere come produrre risultati concreti dalla comunicazione sui SM e come provarne l’impatto. Faremo tuttavia un tentativo con il social media plan proposto dalla prof.ssa Arienzo (Università di Macerata): analisi dello scenario e Social Media Listening; definizione strategica degli obiettivi S.M.A.R.T. e il posizionamento della conversazione/distribuzione; la fase operativa, infine, riguarda i codici comportamentali e linguistici adottati sui SM, la creazione di un calendario editoriale, e gli step del “marketing funnel”, con il quale chiamare all’azione la community di lurkers e produrre engagement (Gnasso & Iabichino 2014). L’ultima parte del capitolo accenna alla possibilità, sia pure complessa e sfaccettata, di misurare e valutare i risultati del social media plan (Cosenza, 2014) e chiude con un caso di studio incentrato su Instagram e sulle recenti opportunità in termini di content marketing (Moccia, Zavagnin & Zingone 2016). La parte finale interesserà l’uso dei social networks da parte del piccolo brand pisano San Francesco 67, di cui proveremo a illustrare, nella nostra prospettiva, i punti di forza e i possibili margini di miglioramento.

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2 L’IMPRESA CHE COMUNICA

Ogni impresa comunica. Per il solo fatto di esistere, produrre, commercializzare prodotti o servizi essa si inserisce nel contesto in cui opera e parla di sé. Cosa significa concretamente? Cosa ha significato nell’economia di massa e cosa significa invece oggi? In un contesto di mutamenti storici e tecnologici repentini che vede radicalmente rivoluzionati i ruoli degli attori coinvolti (l’impresa, l’agenzia di comunicazione, il consumatore, i media…) quale può essere il significato e il valore strategico di un piano di comunicazione?

Quale che sia la scelta di campo delle imprese, l’attenzione ai contenuti comunicati è aumentata enormemente. Per rispondere allora dobbiamo fare un passo indietro, o meglio in profondità ai meccanismi di base della comunicazione stessa.

In questo capitolo, sebbene ci occupiamo specificamente di marketing parleremo anzitutto di comunicazione di impresa in un senso più ampio, quale funzione aziendale che pervade l’intera organizzazione, oltre che rivolgersi ai suoi pubblici e target di riferimento. Come vedremo, dal punto di vista del SMM, l’integrazione delle funzioni di comunicazione in primis a livello aziendale costituisce un importante valore aggiunto al raggiungimento degli obiettivi di business.

La pubblicità, per quanto diffusa e ricca di risorse, è solo una delle forme di comunicazione previste dal marketing mix: insieme a politica dei prezzi, costruzione di una corporate image, le relazioni pubbliche, il marketing diretto e quello sul punto vendita, il packaging, la scelta dei prodotti e dei mercati sui cui operare, Internet e i SM la comunicazione pubblicitaria consente a un’azienda di raggiungere i suoi obiettivi di mercato.

Il carattere eminentemente comunicativo del marketing è ben indicato da Tamborini15: “Il marketing è un

processo di pianificazione e di realizzazione delle attività di concepimento, attribuzione del prezzo, promozione e distribuzione delle idee, beni e servizi destinati a creare scambi allo scopo di soddisfare

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obiettivi degli individui e delle organizzazioni”. E ancora Kotler16 lo definisce “l’atto di ottenere il prodotto

desiderato da parte di qualcuno al quale viene offerto qualcosa in cambio” ed elenca le condizioni necessarie alla realizzazione dello scambio, tra cui la terza dice: “Che ogni parte sia in grado di comunicare e trasferire valore all’altra (…)”. Il concetto stesso di scambio rientra in una delle accezioni classiche della comunicazione come ermeneutica.

2.1 Le direzioni del messaggio

L’analisi sulla comunicazione d’impresa può iniziare da una riformulazione dello schema di Jakobson17, dove

il committente (solitamente un’agenzia esterna) e il consumatore sono gli estremi materiali, inseriti in un mondo reale. Qui di seguito riproponiamo lo schema di Volli in una struttura a serpentina. Distinguiamo l’audience della comunicazione pubblicitaria dal suo target, che è solo una frazione della prima e che la pianificazione aziendale cerca di adeguare al target stesso, al bacino di “consumatori ideali” (simili ai destinatari-lettori modello di Umberto Eco) ai quali si rivolge. La comunicazione è inoltre firmata non tanto dal reale emittente del messaggio, ma dalla marca, che Volli definisce un “emittente rappresentato”, in buona parte finzionale, e facente parte del mondo così come viene percepito e inferito dal destinatario, il

quale risponde allo stimolo e modifica in maniera esplicita il suo ambiente cognitivo18.

16 Kotler P., Roberto E. L., Marketing sociale. Strategie per modificare i comportamenti collettivi, Edizioni di Comunità, Milano, 1991. P. 10. Trad.it.

17 Volli U., Il nuovo libro della comunicazione. Che cosa significa comunicare: idee, tecnologie, strumenti, modelli, Il Saggiatore, Milano, 2014. P. 240.

18 Sperber D., Wilson D., La pertinenza, Anabasi, Milano, 1993. Trad.it. Op. cit in Volli U., Il nuovo libro della comunicazione. Che cosa significa comunicare: idee, tecnologie, strumenti, modelli, Il Saggiatore, Milano, 2014. P. 240.

Committente Agenzia Marca Prodotto Target Promessa Mondo rappresentato Consumatore reale

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La promessa, l’argomentazione e l’impegno profusi con il cliente in termini di plus (vantaggio competitivo del prodotto) o di benefit (risultato promesso), può essere sia concreta che immateriale o emotiva, riferita ai valori e ai desideri di autostima e rassicurazione del destinatario. Per questo motivo, si situa anch’essa nel mondo rappresentato (che più avanti definiremo positioning), che è il referente generale della comunicazione e delinea con i suoi tratti il profilo del target. Quest’ultimo viene raggiunto grazie ancora a due dispositivi della comunicazione: la valorizzazione utopica, che ambienta il racconto in un mondo possibile e suggerisce il valore della marca per connotazione; la narrazione, dove il “destinante” della storia, colui che la fa partire, è spesso il consumatore stesso o la società in cui vive, mentre la marca è “l’aiutante competente che suggerisce al consumatore l’oggetto magico”19.

Le imprese “più che vendere merci vendono messaggi”20, dunque. Quello che ha fatto parlare di rivoluzione

copernicana è il cambiamento radicale della direzione dei messaggi in questione, che da univoca ed eterodiretta, diventa più autonoma e partecipata dai consumatori.

L’analisi di Guido di Fraia21 ci ricorda come per decenni i media tradizionali hanno seguito un modello di

comunicazione passivo, un flusso unidirezionale che dall’impresa andava (e va ancora) verso i target.

Tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento, l’affermarsi di media elettrici di massa (telegrafo, telefono, radio, televisione) ha certamente arricchito il bacino di informazioni disponibili ai cittadini: nasce un’opinione pubblica intorno ai temi che riguardano la loro condizione socioeconomica e i loro diritti. Tuttavia, ha altresì contribuito alla “massificazione” delle forme del pensiero e della progressiva trasformazione dei cittadini in “consumatori”. “Funzionali ai modelli organizzativi rigidi e piramidali dell’azienda moderna, le comunicazioni di massa hanno caratterizzato il panorama mediatico del Novecento contrassegnando con le proprie logiche le forme di vita e di pensiero dominanti”22.

19 Volli U., Il nuovo libro della comunicazione. Che cosa significa comunicare: idee, tecnologie, strumenti, modelli, Il Saggiatore, Milano, 2014. P. 240.

20 Fabris G., Il nuovo consumatore: verso il postmoderno, Franco Angeli, Milano, 2003. P. 71.

21 Di Fraia G., Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Hoepli Editore, Milano, 2011. Versione ePub. Cap I. 22 Ibidem.

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Lo schema massmediatico si è rivelato a lungo un successo. Messaggi one-way, ripetitivi e memorizzabili sono stati capaci contemporaneamente di irreggimentare, intrattenere, educare e vendere fin quando all’orizzonte non si è palesata l’alternativa delle conversazioni multidirezionali, dialogiche e non intrusive della comunicazione in ambiente digitale.

Benché ai minimi storici, le vecchie regole sicuramente continuano a interessare i modelli culturali della maggior parte delle imprese pubbliche e private; ma esse rappresentano ormai un passato da cui ci stiamo velocemente allontanando grazie all’avvento della network society e della cultura digitale in rapida diffusione.

Le nuove tecnologie della rete offrono a ciascun individuo la possibilità di generare contenuti che potenzialmente arrivino a un pubblico globale. I pubblici in virtù di questa possibilità non solo non possono più accettare di subire conversazioni unidirezionali (espressione di fatto ossimorica), ma nutrono una profonda sfiducia verso la solita comunicazione, pubblicitaria o no.

È a quest’area di esperienza, intessuta dalla partecipazione più che dalla persuasione, che si riferisce lo slogan di McLuhan “Il mezzo è il messaggio”, da intendersi nel doppio punto di vista come contesto e come innovazione tecnologica. Le esperienze che viviamo quotidianamente, in particolare quelle consentite dai mezzi di comunicazione “si sedimentano in predisposizioni percettive e comportamentali”23: le tecnologie

forgiano le nostre esperienze e definiscono nuove forme di relazione con la realtà.

Lo schema classico di Shannon & Weaver (poi riformulato da Jakobson in relazione alla comunicazione umana) assume una luce diversa: il canale e il contatto nella misura in cui conduce le informazioni le modifica irrimediabilmente segna l’esperienza stessa del comunicare, la percezione di sé, dell’altro, del mondo.

Tuttavia, l’identificazione storica del mezzo con il messaggio rischia di semplificare troppo fenomeni complessi, che non possono essere risolti unicamente dall’equazione: evoluzione dei mezzi di comunicazione=cambiamento culturale. E qui ci riferiamo al secondo e più articolato significato della

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citazione di McLuhan, il mezzo come “contesto”. Tra i mezzi e le persone si interpone uno strato24, quello

delle pratiche sociali, della gestione concreta di quei mezzi e del loro controllo. Molto dipende e dipenderà dai modi e dai tempi effettivi con i quali le imprese siano disposte a cambiare filosofia organizzativa, linguaggio, rapporto con gli interlocutori e la loro rinnovata consapevolezza.

Inoltre, non è possibile parlare di un vero passaggio di testimone da un mezzo all’altro, da un modus operandi a un altro, da forme di produzione e ricezione dei messaggi ad altri. Le comunicazioni interpersonali, le comunicazioni di massa e le “autocomunicazioni” di massa25 non si sostituiscono l’una

all’altra, ma tendono a integrarsi e completarsi a vicenda in un flusso comunicativo di cui non è facile isolare protagonisti e momenti.

2.2 La comunicazione d’impresa nell’età Web 2.0

Proviamo a farlo partendo dal vero momento di cesura rappresentato dall’avvento del web 2.0. Esso offre un modello teorico per comprendere la rivoluzione in atto nel marketing e nella comunicazione d’impresa e al contempo una vasta gamma di strumenti concreti per riattivare e/o invigorire il rapporto biunivoco con il cliente.

La dovuta premessa è che il web 2.0 non si è rivelata certamente una panacea. Lo hanno dimostrato le implicazioni tecnologiche, sociali, culturali e legislative a cui ha dato origine per il cliente, per le aziende, per le nazioni, per le persone.

In generale, possiamo già affermare che gli sviluppi più recenti realizzano due tendenze che caratterizzano il periodo in cui viviamo: il passaggio da una organizzazione centralizzata della comunicazione a strutture reticolari molto estese, che sfruttano il protagonismo dei singoli; una geografia “magica” della

24 Volli U., Il nuovo libro della comunicazione. Che cosa significa comunicare: idee, tecnologie, strumenti, modelli, Il Saggiatore, Milano, 2014. P. 231.

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comunicazione, percepita indipendentemente dalla collocazione fisica di chi la produce o la consuma26 ed è

“glocal”27, globale e locale insieme.

Data la vocazione universalista di Internet appare ancora più riduttivo lo slogan di McLuhan “il mezzo è il messaggio” anche qualora per mezzo si intenda lo strumento tecnologico: più che la struttura materiale della comunicazione contano le convenzioni esplicite o implicite (linguaggio Html, Java e Flash; i browser, i protocolli) che definiscono la comunicazione e presiedono al suo buon funzionamento.

Vediamo di analizzarne i principali tratti distintivi, responsabili della configurazione plastica ed estremamente flessibile che ha acquisito da allora la comunicazione. Software e dispositivi fisici hanno generato un cambiamento profondo nella vita quotidiana, sempre più ricca di rappresentazioni e sempre più interconnessa28.

2.2.1 Il web: tappe evolutive e implicazioni

La locuzione web 2.0 pone l’accento sulle differenze rispetto al web 1.0, diffuso fino agli anni novanta, e composto prevalentemente da siti web statici, senza alcuna possibilità di interazione con l’utente eccetto la normale navigazione tra le pagine, l’uso delle e-mail e l’uso dei motori di ricerca.

Da quando Tim O’Really coniò la locuzione nel 2004 durante un brainstorming tra lui e Media Live International sono passati quattordici anni e il modo di pensare e di agire delle persone, delle aziende, di loro stakeholder sono drasticamente cambiate. Si è trattato di un punto di non ritorno, con implicazioni importanti in ogni settore della vita e dello scibile umano: le società, le modalità di fruizione dei contenuti mediali, i comportamenti di consumo, le abitudini sociali e di conseguenza le strategie di marketing e la comunicazione nelle aziende.

Vistosi cambiamenti culturali si accompagnano all’innovazione tecnologica. In un’ottica post cognitivista ci riferiamo agli aspetti più concreti legati al “turn”, alla conversione culturale in atto, entro la prospettiva

26 Volli U., Laboratorio di semiotica, Laterza, Bari, 2005. Cap. III.

27 Baumann Z., Globalizzazione e Glocalizzazione, Armando Editore, Roma, 2005. Op. cit in Rinaldi M., Come essere un brand 2.0. Social media relations tra contenuto e relazione, Franco Angeli, Milano, 2013. P. 10.

28 Volli U., Il nuovo libro della comunicazione. Che cosa significa comunicare: idee, tecnologie, strumenti, modelli, Il Saggiatore, Milano, 2014. P. 236.

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teorica dell’embodiment (letteralmente l’atto di embody, incarnare). Lungi dal rappresentare delle dicotomie, tecnologia e cultura, innovazione e pensiero, tecnica e antropologia sono poli che si influenzano reciprocamente e si sviluppano in parallelo. Il corpo che si rapporta al nuovo medium non ha, dunque, artificialmente una mera valenza protesica, né il mondo virtuale immersivo nel quale l’utente e l’impresa comunicano ha un ruolo puramente strumentale. L’embodiment di cui parliamo non avviene “attraverso” la tecnologia, ma è una affordance della tecnologia stessa29 un invito all’uso e una qualità fisica che

consentono al soggetto di manipolarlo. Internet è un ambiente concreto e ha una fortissima relazione con la vita delle persone (prassi, abitudini, intersoggettività). Non è solo uno spazio di comunicazione e informazione, ma in primo luogo è una tecnologia di azione, legata alla vita, alle passioni, agli interessi delle persone.

2.2.1.1 La convergenza

Lo sviluppo della microelettronica e la digitalizzazione hanno reso possibile “smaterializzare e trasformare in grumi di bit, facilmente trasportabili attraverso la rete, ogni contenuto comunicativo precedentemente archiviato su supporto materiale e in forma analogica: foto, video, testi e quant’altro”30. La comunicazione

ci guadagna dunque in ergonomia, potremmo dire, divenendo un processo e un’acquisizione facile da usare, manipolare e modificare all’occorrenza.

Alla rigidità dei media tradizionali che prevedono un contenuto per ogni mezzo, si sovrappone il processo di convergenza tra piattaforme, device fisici e pratiche d’uso. La convergenza avviene in due sensi: quello dell’ibridazione di più media in un’unica piattaforma multifunzionale e, all’inverso, come possibilità di trasportare lo stesso contenuto digitalizzato su piattaforme diverse. Basti pensare, rispettivamente, all’”integrazione digitale” messa in atto dagli smartphone, che ci consentono di scattare foto, ascoltare musica, fare filmati e navigare in rete, tutte considerate da tempo funzioni di base dei dispositivi, tanto che non ne riusciamo più a individuare la portata innovativa; e alla possibilità di guardare un video in televisione, in rete, sullo smartphone.

29 Fedeli L., La ricerca scientifica al tempo dei social media, Franco Angeli, Milano 2017. P. 66.

30 Di Fraia G., Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Hoepli Editore, Milano, 2011. Versione ePub. Cap I, par. “Social Media e Cultura Convergente”.

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Oggi la convergenza investe tutti gli ambiti della nostra esperienza quotidiana (lavorativo, ludico, ricreativo…) e se un nuovo medium è anche ausilio cognitivo è evidente come cambiamenti di questa portata si accompagnino alla definizione di nuovi modelli culturali. Tutto ciò ha portato Henry Jenkins a parlare di “cultura convergente”31, concetto che affranca l’idea di convergenza dal mero significato

tecnologico e lo trasporta su un piano cognitivo, appunto, e culturale.

Il web e i SM giocano la duplice funzione di strumenti di condivisione e artefatti cognitivi, capaci di tradurre in prassi concrete i modelli relazionali e organizzativi resi possibili dalla rete. Allo stesso tempo, sono essi stessi il risultato di forme diverse di integrazione e convergenza: ogni social network è il frutto di individui che convergono dal punto di vista relazionale verso certi interessi e funzioni comunicative. La crossmedialità consentita da alcuni SM (si pensi alla possibilità tramite Instagram di pubblicare lo stesso post anche su Facebook) è un esito di questo processo di integrazione.

Anche la capacità di integrare in un’unica piattaforma canali comunicativi e media sociali separati (mail, msn, chat) è il frutto dell’integrazione convergente e della “ri-mediazione”32.

Il concetto di remediation è estremamente importante quando si parla di web 2.0. La semiotica dei nuovi media33, attingendo agli strumenti concettuali della semiotica strutturalista, considera come dei testi il web

e i suoi applicativi (ipertesti, interfacce software e hardware, siti web, banner, chat verbali e multimediali, blog, videogiochi e offline). “Si cercano le relazioni semantiche che sono, esplicitamente o implicitamente, nel testo e poi si confrontano con ciò che sta fuori dal testo”. La comparazione dei significati avviene cioè sia con “l’intertestualità di cui il testo è intessuto (citazioni, rimandi impliciti ad altri testi, regole di genere), sia con quella che U. Eco ha chiamato enciclopedia, il patrimonio di conoscenze e credenze condivise nella

31 Jenkins H., Cultura convergente, Apogeo, Milano, 2007. Trad.it.

32Bolter J. D., Remediation. Competizione e integrazione tra vecchi e nuovi media, Guerrini e Associati, Milano, 2012. Trad.it.

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cultura, nella società e nel momento storico in cui il testo vive”34. L’indagine semiotica dunque non può

prescindere dallo studio sistematico di “ciò che già si sa in un certo ambito culturale, sociale, storico”35.

Ciò vuol dire che la comprensione e l’utilizzo dei nuovi media poggiano sulla comprensione delle regole dei media che li hanno preceduti. Il passaggio è trasformativo, fatto di mescolamenti e ricombinazioni, ma prescrive di cercare sempre e comunque dal passato: come il cinema ri-mediò la fotografia e la televisione la radio, “Internet ri-media televisione, telefono, servizio postale, radio e altri media ancora”36. Come

vedremo nel prossimo capitolo a proposito dell’analisi semiotica del web storytelling, l’insieme dei saperi che riguardano i mass media è cruciale sia per analizzare che per costruire i contenuti veicolati dai nuovi media. Potremmo dire che tanto il semiologo quanto il copywriter attingono a piene mani allo stesso repertorio.

Convergenza e integrazione rendono l’esperienza del web sempre più intuitiva, agile e a misura d’uomo, come se fosse campo d’azione e al tempo stesso struttura del vivere sociale delle persone, di cui i consumi e la comunicazione sono, da questo punto di vista, esperienze cruciali. Apertura, relazione, partecipazione, collaborazione, creatività sono le dimensioni che spiegano il successo di Internet nella sua evoluzione 2.0, ma sono anche i valori della cultura convergente in corso di affermazione.

2.2.1.2 L’intelligenza collettiva e il neo-tribalismo

Tutto questo ci conduce al secondo importante principio del web 2.0: il servizio migliora all’aumentare del numero degli utenti.

È grazie all’intelligenza collettiva che il web acquista importanza. Concetto diffuso dallo studioso Pierre Lévy, che ad esso ha dedicato il libro L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio37, indica

una forma di intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che

34 Ivi, p. 226.

35 Ibidem.

36 Bolter J. D., Remediation. Competizione e integrazione tra vecchi e nuovi media, Guerrini e Associati, Milano, 2012. Op. cit. in Cosenza G., Semiotica dei nuovi media, Laterza, Bari, 2008. P. 227.

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porta ad una mobilitazione effettiva delle competenze. “Nessuno sa tutto, ognuno sa qualcosa”38, scrive

Lévy, ad indicare l’assioma per cui il sapere è sempre diffuso.

L’uso massivo di tecniche di comunicazione su supporto digitale ha consentito la nascita di nuove forme di legame sociale, non più fondate su appartenenze territoriali, relazioni istituzionali, o rapporti di potere, ma sul radunarsi intorno a centri di interesse comuni, sul gioco, sulla condivisione del sapere, sull’apprendimento cooperativo, sui processi aperti alla collaborazione. Il declino delle grandi narrazioni ideologiche che ha sancito l’inizio dell’età postmoderna è stato decretato da soggetti connotati da un forte individualismo, talvolta edonistico e solipsistico, tuttavia organizzati in micro-reti sociali che non rispondono a nessuna norma precostituita, se non alla conoscenza (di utilità enciclopedica, di interesse ludico o anche etico) che possono produrre.

Le persone si riappropriano del passaparola (word-of-mouth), modalità comunicativa che è sempre esistita e che i mass media hanno trascurato per un periodo storico tutto sommato breve. Conversazioni libere, dialogiche e multidirezionali costituiscono il patrimonio inesauribile di neo-tribù postmoderne: Maffesoli39 e

poi Cova, Giordano e Pallera40 hanno notato la tendenza delle persone a riunirsi attorno a reti micro-sociali,

definendo le nuove tribù come “reti di individui non necessariamente omogenei fra loro (in termini di caratteristiche sociali oggettive), ma interrelati mediante un’identica soggettività, affettività o etica, e capaci di svolgere azioni micro-sociali vissute intensamente benché effimere”41. Il web 2.0 è il legame

fondamentale che le tiene insieme e la loro estensione potenzialmente planetaria non compromette la qualità della condivisione dei loro rituali online e offline.

Le web community “neo-tribali” figlie del web 2.0 secondo il principio dell’intelligenza collettiva espandono una capacità produttiva che libera i singoli dalle limitazioni della propria memoria e consente al gruppo una gamma più vasta di competenze. La capacità dei nuovi media di archiviare e recuperare facilmente le

38 Ivi, p. 34.

39 Maffesoli M., Il tempo delle tribù, Guerini e Associati, Milano, 2004.

40 Cova B., Giordano A., Pallera M., Marketing non convenzionale. Viral, Guerrilla, Tribal e i 10 principi fondamentali del marketing postmoderno, Il Sole 24 Ore, Milano, 2008.

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informazioni ne agevola una condivisione rapida e senza ostacoli e il passaggio da una fonte all’altra genera conoscenza e forme di intelligenza collettiva: ciascuno mette in comune memorie e progetti nel momento stesso in cui costruisce la fitta rete di relazioni. Queste si configurano come delle vere e proprie connessioni sinaptiche, tali da produrre un “cervello cooperativo”42.

Acquistare una lavatrice, scegliere una macchina fotografia, individuare delle possibilità di arredo per la nostra casa, prenotare per cena a un ristorante…, sono atti di consumo, e dunque sociali, preceduti costantemente dalla disamina di consigli, recensioni, opinioni di altri soggetti che hanno condiviso in rete esperienze e competenze. Nelle nuove reti non è più il trickle down effect (effetto sgocciolamento) a innescare consumi di tipo imitativo-ostentivo, né la razionalità utilitaristica a mostrare ciò che serve, né ancora la massificazione di usi e costumi a stratificare le compagini sociali postmoderne. Le tradizionali associazioni tra profili sociodemografici, stili di vita e scelte di consumo perdono logica, se mai ne avessero avuto una. Il web mette in luce una razionalità più complessa e sfaccettata, potremmo dire più “antropologica”, che è sia fredda e calcolatrice, sia emotiva e istintiva; in ogni caso, sempre sociale e valoriale, dotata di significato esistenziale per i singoli e per le reti a cui appartengono e dettata dallo scambio informativo che vi si realizza.

Sono queste riflessioni ad avere stimolato il teorico dei media prima citato Jenkins, che su queste stesse basi ha elaborato il concetto di cultura convergente. La condivisione razionale di conoscenza ha portato alla figura di consapevoli e attivi prosumer (dalla crasi tra producer e consumer) e allo sviluppo di una cultura partecipativa, frutto di una messa in comune delle esperienze e dei nuovi legami di prossimità. La produzione di un sapere diffuso è, secondo Jenkins43, all’origine di processi di democratizzazione, e in

generale di una migliore comprensione della nostra società. Le reti e le collaborazioni spontanee generate

42 Levy P., L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, La Feltrinelli, Milano, 2002. Trad.it. Op. cit in Di Fraia G., Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Hoepli, Milano, 2011. Versione ePub. Cap I, par. “Social Media e Cultura convergente”.

43https://it.wikipedia.org/wiki/Intelligenza_collettiva. Per le critiche all’ottimismo di Levy e Jenkins sulla “saggezza della folla” (James Surowiecki) citiamo Janor Liner e Carlo Formenti. Il primo, autore nel 2010 di “Tu non sei un gadget” (Arnoldo Mondadori) ritiene che Wikipedia sia un’aberrazione, preoccupato che la produzione di conoscenza dal basso concorra a svalutare la qualità contenuti; il secondo, come poi Volli (2014, p. 235), critica lo sfruttamento di lavoro gratuito che l’intelligenza collettiva comporta, in “Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro” (Egea, 2011). Rimandiamo inoltre a p. 100 dell’elaborato.

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dall’architettura del web 2.0 sono ispirate a questa cornice di riferimento: fenomeni come blog, wiki, file-sharing e feed RSS sono tutte forme di intelligenza collettiva ed espressioni di cultura convergente.

Corollario dell’intelligenza collettiva è l’“Hiperlinking”: le connessioni intertestuali crescono esponenzialmente all’aumentare della partecipazione e della condivisione di contenuti degli utenti, co-creatori delle informazioni organizzati in network. Le reti sociali sul web nascono e si riproducono a velocità e alimentano il bagaglio di informazioni su brand, imprese e prodotti/servizi.

2.2.1.3 Web e Marketing

Il marketing tradizionale non può non risentire di tutto questo. L’organizzazione delle informazioni e dei dati diventa un elemento strategico fondamentale. Quanto più un’azienda è capace di organizzare una Rich Internet Application (RIA), in grado cioè di creare un’esperienza desktop unita alle peculiarità del web, tanto più accrescerà la sua reputazione, perché accrescerà le informazioni dell’utente e il suo potere contrattuale. Sì, perché è anzitutto una questione di potere e controllo, come dimostra nella sua disamina Sassoon44.

Studiosi come Gerd Genken fin dai primi anni ’90 hanno radicalmente messo in discussione la filosofia e il linguaggio militarista del vecchio marketing, basati sul pieno controllo delle leve della comunicazione da parte del management d’azienda. Di fatto “il controllo sta scivolando sempre più dalla parte dei consumatori”45 e tale prospettiva è indubbiamente quella che più inibisce il salto di qualità per molte

aziende, spesso ignare del fatto che la produzione di dati a uso e consumo degli utenti comporta più opportunità che rischi, in termini di produzione bottom-up di conoscenza e credibilità per l’impresa. Frutto, quest’ultima del racconto terzo di chi esperisce il brand, piuttosto che della visione riflessa, autoprodotta e spesso opaca elaborata da agenzie e uffici stampa tradizionali.

Peraltro, dal punto di vista del consumatore-utente l’insieme di tali opportunità di accumulo di dati si è tradotto anche in un sovraccarico di informazioni. A partire dal 2006, nell’epoca del “read-write-execute web” si è cominciato a parlare di web 3.0, un’etichetta che non è il frutto dell’introduzione di una nuova tecnologia, ma dei fattori connessi alla centralità dei dati e della semantica. Il Data Web si configura come

44 Sassoon J., Web Storytelling. Costruire storie di marca nei social media, Franco Angeli, Milano, 2012. Versione ePub. Cap I. 45 Ibidem.

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un grande database al quale attingono innumerevoli applicazioni e le intelligenze artificiali, che sono in grado di leggere i dati senza la necessaria interferenza dell’utente (ad esempio, attraverso gli algoritmi di Google). L’obiettivo è fornire all’utente, grazie a mirate connessioni semantiche di parole chiave (web semantico), i contenuti più utili alla sua ricerca, in termini di quantità, qualità e posizione. Il web 3.0 vede così il passaggio dalla connessione tra le persone a quella tra le cose, capaci ora anch’esse di darci informazioni.

Recentemente si è parlato anche di web 4.0, le cui parole chiave sono “spazio” e “big data”. Conosciamo poco gli sviluppi che possono generarsi. Pian piano che i nostri documenti – e i contenuti personali – si aggiornano e collegano fra loro, inglobando chip con a supporto un’infrastruttura tecnica, si costituisce un alter ego virtuale, che ci permetterà di far interagire in real time le due identità (basti pensare alle nuove interfacce, come la domotica nei nostri elettrodomestici e nelle nuove automobili intelligenti).

La risultante dei tratti distintivi del web 4.0 è un maggiore controllo dell’informazione: se il passaggio a un web potenziato ci permette di modificare la società, potremo modificare la realtà che ci circonda. Ne è ben consapevole Kotler46, il padre del marketing moderno, quando scrive che il web 4.0 può determinare il

passaggio dalla brand awareness alla brand advocacy, il grado più alto di fidelizzazione del cliente. L’analisi dei big data consente di creare prodotti e servizi sempre più personalizzati grazie ai quali il cammino tradizionale che conduce all’acquisto (aware, appeal, ask, act) viene arricchito con una quinta componente, l’advocacy, appunto.

Il marketing del web 4.0 mette in campo tutte le strategie necessarie per intercettare l’influenza esercitata dalla rete sulle nostre decisioni di acquisto: dalla raccolta delle informazioni sulle nuove abitudini di acquisto di giovani, donne e “cittadini della rete” alla massima personalizzazione delle esperienze. Si è parlato in tal senso anche di marketing umanistico perché fatto di conversazioni con i clienti e strategie “omnichannel”: le macchine ci forniscono informazioni di ogni tipo organizzate dal punto di vista semantico e il processo decisionale deriverà completamente dalla interazione e comunicazione con le macchine intelligenti. Sembra quasi un paradosso, ma è dall’incrocio delle esigenze umane con degli input

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semanticamente ordinati delle macchine che si realizza il punto massimo, fino a oggi, di soddisfazione del cliente.

Provando a schematizzare, dal punto di vista del marketing, dunque, dal web marketing del web tradizionale 1.0 si passa al SMM del web sociale 2.0, al “semantic/contextual discovery-search” marketing del web semantico 3.0. Il web 4.0 viene definito web ubiquo, dove l’“u-marketing” potrebbe essere, appunto, presente ovunque.

La direttrice è duplice: da una parte i meccanismi ancestrali e fondamentali del passaparola e delle cerchie di amici (il cosiddetto fattore f sui SM: family, friends, fans, followers) si digitalizzano e si depositano nell’infinita banca dati del Social Web, dall’altra gli elementi digitali stessi diventano fisici. Kotler definisce “Internet delle cose”47 il web dove le interfacce tecnologiche possono rendere più coinvolgenti le

interazioni offline. Nei grandi magazzini americani Macy’s, ad esempio, sono stati installati dei trasmettitori iBeacon di Apple che permettono tramite un’app per iPhone di raggiungere i clienti con offerte specifiche e mirate su cosa stanno visitando. I dati sulle transazioni raccolti grazie all’app permettono poi di personalizzare, customizzare le offerte per ogni cliente con sempre maggior precisione.

2.2.1.4 Big data e privacy

Non possiamo non accennare qui alla natura controversa della transazione nella quale siamo tutti coinvolti. Google, Facebook, YouTube, Instagram si configurano come servizi gratuiti, ma di fatto, nel momento in cui ciascuno effettua un’iscrizione, un log in e poi ripetuti accessi cede gran parte delle informazioni caratterizzanti la propria identità. Gusti culturali, indirizzi politici, idee di svago e passatempi, tipologie di consumo, situazioni sentimentali e scelte esistenziali (maternità/paternità, lavoro, studio) confluiscono in un bacino di dati, nell’ordine di zettabyte, ovvero miliardi di terabyte.

Si tratta dei “big data”, temine utilizzato per indicare la capacità di analizzare, estrapolare e decontestualizzare una quantità massiva di dati digitali più o meno strutturati ed eterogenei. Normalmente i big data non posseggono una logica propria, ma la decontestualizzazione contribuisce a evidenziare connessioni e legami per aziende, governi, istituzioni. Il recente sviluppo di metodologie di acquisizione ed

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elaborazione di grandi masse di dati tramite algoritmi coinvolge tutti i settori economici ed ha sollevato dubbi sulla loro applicazione in mancanza di adeguate normative e controlli. Gli specialisti parlano di una massa di informazioni “asimmetrica” perché c’è chi la detiene (corporation come Google, Amazon, Twitter, Facebook e le grandi compagnie telefoniche) e chi ha bisogno di procurarsela per farla diventare analisi e gestione del marketing.

Indirizzi, localizzazione geografica degli utenti, news, offerte d’acquisto oggi, senz’altro, rendono la vita di noi consumatori più facile, ma progressivamente producono un rapporto di potere biunivoco tra detentori e fruitori delle informazioni: da una parte, ad esempio, Google, che ha la possibilità di utilizzare delle mappe molto dettagliate e dall’altra catene di negozi, ristoranti, poli museali, scuole, ospedali… che cercano di trarne vantaggio comunicativo.

A differenza dell’America settentrionale, il Parlamento Europeo ha già varato norme per il settore, ma siamo ben lontani da una vera regolamentazione del fenomeno a livello globale. La recente diffusione48 di

notizie relative all’attività svolta dalla società Cambridge Analytica49 ha avviato l’indagine dell’autorità

indipendente britannica ICO – Information Commissioner’s Officer – relativa ai rapporti tra partiti politici, data companies e piattaforme online per la profilazione degli utenti e la personalizzazione dei messaggi elettorali. L’autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha inviato a Facebook una specifica richiesta di informazioni circa l’impiego di data analytics per finalità di comunicazione politica da parte di soggetti terzi. Facebook potrebbe rischiare una sanzione di milioni di dollari pari al 4% del suo fatturato. La vicenda evidenzia l’urgenza del tema riguardante l’uso strumentale di dati personali di oltre 2 miliardi di persone: qual è il margine di manipolazioni e controllo sugli stessi? In che modo il loro utilizzo sconfina nella violazione dei diritti fondamentali del cittadino? Qual è, in sintesi, il prezzo (economico, legale, etico) della trama di relazioni che intessiamo ogni giorno con i nostri amici/following/followers e con le aziende?

Banalmente, l’algoritmo che ci mostra in offerta sulla home Facebook il libro prima consultato online è l’esempio concreto di come le aziende sfruttino già da tempo le potenzialità del web. Dialogano con il

48 Marzo 2018.

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consumatore, ne facilitano i percorsi di consumo, confezionano messaggi culturalmente significativi per l’individuo e per la collettività. Tuttavia, l’assenza di opportuni paletti e la debolezza di una regolamentazione tutta ancora da scrivere ne mette anche in luce i possibili abusi, qualora quei dati capitino in mani sbagliate. La network society si nutre di informazioni che in un futuro non troppo lontano costituiranno la risorsa economico-finanziaria più importante per i governi.

Nell’introduzione alla traduzione italiana di “Sexy Little Numbers” di Dimitri Maex Paolo Iabichino scrive “Sono i numeri a guidare oggi le relazioni tra le cose, tra le cose e le persone, tra le cose e le città, tra le cose e le istituzioni, tra le cose e le aziende. Sono i numeri a fare la differenza nel bene e nel male”50. Ciò non

significa che il futuro del marketing sarà popolato da istogrammi e torte, analisi di mercato e pianificazioni. La grande opportunità offerta dai dati alla comunicazione d’impresa è piuttosto quella poterli leggere e interpretare qualitativamente, alla ricerca di insight e precisi trend comportamentali “per offrire risposte sempre più vicine alle reali esigenze dei contesti e delle persone che li vivono”51.

Certo, gli scenari dell’”info-comunismo” del romanzo distopico “Il cerchio”, di Dave Eggers52, porrebbero più

di un interrogativo sulle questioni di privacy e legittimità nell’utilizzo di queste informazioni. Inoltre, il cosiddetto modello TAM (“techonologies acceptance model”), che delinea il rapporto tra tecnologia e utente, tanto più si afferma velocemente in termini di abitudini e facilità d’uso quanto più dissolve le preoccupazioni dell’utente riguardo l’utilizzo di questi strumenti. Daniel J. Solove53 oltre dieci anni fa arrivò

a lanciare il proclama “no privacy” affermando che “forse la generazione emergente è solamente non interessata alla privacy”. Viceversa, l’economista inglese Noreena Hertz, in occasione del suo intervento “What is going to change with K Generation?” nel convegno The Power of New Culture, tenutosi a Milano nel 2016, in base ai dati di una ricerca condotta su duemila ragazzi tra i 14 e i 21 anni, ha affermato che il 67% di questi teenagers controlla scrupolosamente i setting della privacy sui social.

50 Iabichino P., Scripta volant. Un nuovo alfabeto per scrivere (e leggere) la pubblicità di oggi, Codice Edizioni, Torino, 2017. Versione ePub. Cap. “B. Big Data”.

51 Ibidem.

52 Eggers D., Il cerchio, Mondadori, Milano, 2014. Trad.it. Op. cit. in Iabichino P., Scripta volant. Un nuovo alfabeto per scrivere (e leggere) la pubblicità di oggi, Codice Edizioni, Torino, 2017. Versione ePub. Cap. “B. Big Data”.

53 Solove D. J., No privacy: gossip, ciarpame, indiscrezioni su Internet, Sperling & Kupfer, Milano 2009. Trad.it. Op. cit. in Iabichino P., Scripta volant. Un nuovo alfabeto per scrivere (e leggere) la pubblicità di oggi, Codice Edizioni, Torino, 2017. Versione ePub. Cap. “O. Oblio”.

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