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6, si è riunito il Consiglio Superiore della Magistratura

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Academic year: 2022

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L'anno millenovecentonovantadue, il giorno quattro del mese di giugno alle ore 17.05 in Roma, Piazza dell'Indipendenza n. 6, si è riunito il Consiglio Superiore della Magistratura.

Sono presenti:

VICE PRESIDENTE Prof. Giovanni GALLONI

COMPONENTI ELETTI DAI MAGISTRATI E DAL PARLAMENTO

Avv. Alessandro REGGIANI

Prof. Giuseppe RUGGIERO Avv. Franco COCCIA

Avv. Piergiorgio BRESSANI

Dott. Renato TERESI Dott. Giacinto de MARCO Dott. Carlo DE GREGORIO Dott. Giovanni PALOMBARINI Dott. Renato VUOSI

Dott. Alessandro CRISCUOLO

Dott. Elvio FASSONE

Prof. Pio MARCONI

Dott. Luigi FENIZIA

Dott. Gianfranco VIGLIETTA

Prof. Mario PATRONO Dott. Italo MATERIA Dott. Luciano SANTORO Prof. Gaetano SILVESTRI Dott. Gennaro MARASCA Dott. Alfonso AMATUCCI

Dott. Maurizio MILLO

Dott. Antonio CONDORELLI

Dott. Maurizio LAUDI

Dott. Aldo GIUBILARO

Dott. Gaetano SANTAMARIA AMATO Dott. Ernesto STAJANO

S E G R E T A R I

Dott. Giuseppe GRECHI

Dott. Settembrino NEBBIOSO

Dott. Ippolisto PARZIALE

Dott. Roberto Maria CENTARO

Dott. Carlo DE CHIARA Dott. Antonio ORICCHIO

Sono assenti giustificati il dott. Antonio BRANCACCIO, il prof. Vittorio SGROI, il dott. LIPARI, il prof. Alessandro PIZZORUSSO ed il prof. Giorgio LOMBARDI.

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Assume la presidenza il prof. Giovanni GALLONI, Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura.

Il PRESIDENTE dà quindi lettura della seguente comunicazione:

"Il Vice Presidente,

ritenuta l'opportunità di procedere alla pubblicazione della Relazione al Parlamento sullo stato della giustizia, approvata dall'Assemblea plenaria nella seduta del 27 maggio 1992, con la massima urgenza, allo scopo di trasmetterla tempestivamente al Parlamento ed agli organi istituzionali impegnati in questi giorni a formulare programmi concernenti l'amministrazione della giustizia;

rilevato che l'Assemblea plenaria ha deliberato che i verbali delle sedute del 16 e 17 ottobre 1991, 26 e 27 maggio 1992 siano allegati alla Relazione;

considerato che il perfezionamento delle procedere di formazione ed approvazione degli ultimi verbali ritarderebbe la stampa e l'invio della Relazione nel testo che il prof. PIZZORUSSO ha già coordinato con gli emendamenti approvati nel corso della discussione;

considerato che i verbali potranno essere pubblicati in tempi brevi sui "Quaderni" del Consiglio Superiore della Magistratura e che anche questa pubblicazione sarà trasmessa, con le medesime formalità, ai destinatari della Relazione,

propone

che l'Assemblea plenaria deliberi di pubblicare Relazione e verbali come sopra indicato".

Il Consiglio delibera in conformità.

Si procede quindi all'esame dell'argomento di cui all'ordine del giorno concernente "Posizioni e iniziative del Consiglio Superiore della Magistratura in ordine alle questioni connesse alla strage di Capaci ed in particolare della seguente proposta, formulata ex art. 14 co. 3E Regolamento Interno, del dott. FASSONE:

"La strage di Capaci può e deve essere occasione di ampia riflessione: ma questa non può tradursi in censure sulla manifestazione di opinioni e di convincimenti, correttamente espressi, da chiunque provenienti.

E' convinzione largamente diffusa che l'istituto della Direzione Nazionale Antimafia - così come delineato dalla legge n. 8/1992 - giustifichi ampie riserve e critiche, per le potenzialità in esso racchiuse a danno dell'indipendenza del Pubblico Ministero.

Tali riserve e critiche non hanno mai investito l'indiscussa capacità professionale del magistrato Giovanni FALCONE, ma hanno semplicemente condotto una parte del Consiglio (e della magistratura) a ritenere preferibile che un istituto dotato di tali potenzialità fosse affidato a magistrati più lontani dal potere politico che lo ha voluto: questa preferenza è maturata nel quadro esclusivo di una analisi ampia, oggettiva, incentrata sulla tutela dell'indipendenza della magistratura, ed assente da ogni animosità o disistima personale.

La tragica fine del magistrato Giovanni FALCONE (e di quelli che con lui sono periti) impone al Consiglio - oltre che un ricordo riconoscente del suo impegno e del suo sacrificio - di non attardarsi in polemiche retrospettive, ma di cercare il massimo di unità e di impegno per un'efficace lotta contro la criminalità; di perseguire la distensione nelle relazioni istituzionali; di ricordare con gesti concreti il sacrificio dei caduti, in continuità ideale con chi ne proseguirà l'opera.

In questo spirito il Consiglio

delibera

1) la seduta del Consiglio Superiore della Magistratura che si terrà il 23 maggio di ogni anno, o nella data immediatamente successiva, sarà dedicata alla memoria del magistrato Giovanni FALCONE e di tutti gli altri magistrati caduti nell'adempimento del loro dovere;

2) agli uditori giudiziari di ogni concorso, all'atto della scelta delle sedi, sarà consegnata una copia della Costituzione italiana ed un elenco di tutti i magistrati caduti;

3) la Commissione Bilancio del Consiglio è richiesta di esaminare la possibilità di destinare, in tutto o in parte, gli stanziamenti previsti per la sicurezza ed i trasferimenti dei componenti del Consiglio ad un fondo di sostegno delle esigenze dei magistrati assegnati alle sedi abitualmente non richieste, ad alta esposizione criminale;

4) a questo stesso fondo i componenti del Consiglio destinano le loro indennità di seduta del mese di maggio;

5) la Terza Commissione del Consiglio è richiesta di mettere allo studio una regolamentazione che consenta il trasferimento congiunto di due o più magistrati, a loro richiesta, nelle sedi ad alta esposizione criminale".

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A questo punto il dott. FASSONE illutra un testo integrato della proposta, già formulata ai sensi dell'art. 14 comma III del Regolamento Interno, di seguito riportato:

"Posizioni e iniziative del Consiglio Superiore della Magistratura in ordine alle questioni connesse alla strage di Capaci".

La strage di Capaci può e deve essere occasione di ampia riflessione: ma questa non può tradursi in censure sulla manifestazione di opinioni e di convincimenti, correttamente espressi, da chiunque provenienti.

Le riserve e le critiche sollevate sull'istituto della Direzione Nazionale Antimafia non hanno mai investito l'indiscussa professionalità del magistrato Giovanni FALCONE, ma hanno semplicemente condotto una parte del Consiglio (e della magistratura) ad orientarsi diversamente nel quadro esclusivo di una analisi ampia, motivata, esente da disistima personale.

In ogni caso, la tragica fine del magistrato Giovanni FALCONE (e di quelli che con lui sono periti) impone al Consiglio - oltre che un ricordo riconoscente del suo impegno e del suo sacrificio - di non attardarsi in polemiche retrospettive, ma di cercare il massimo di unità e di impegno per un'efficace lotta contro la criminalità; di perseguire la distensione nelle relazioni istituzionali; di ricordare con gesti concreti il sacrificio dei caduti, in continuità ideale con chi ne proseguirà l'opera.

In questo spirito il Consiglio

delibera

1) la seduta del Consiglio Superiore della Magistratura che si terrà il 23 maggio di ogni anno, o nella data immediatamente successiva, sarà dedicata alla memoria del magistrato Giovanni FALCONE e di tutti gli altri magistrati caduti nell'adempimento del loro dovere;

2) il corso sulle tecniche di indagine, organizzato periodicamente dal Consiglio, si intitolerà alla memoria del magistrato Giovanni FALCONE;

3) agli uditori giudiziari di ogni concorso, all'atto della scelta delle sedi, sarà consegnata una copia della Costituzione italiana ed un elenco di tutti i magistrati caduti;

4) la Commissione Bilancio del Consiglio è richiesta di esaminare la possibilità di destinare, in tutto o in parte, gli stanziamenti previsti per la sicurezza ed i trasferimenti dei componenti del Consiglio ad un fondo di sostegno delle esigenze dei magistrati assegnati alle sedi abitualmente non richieste, ad alta esposizione criminale;

5) i componenti del Consiglio devolvono la somma di £. 2.000.000 ciascuno o ad interventi di sostegno a favore delle famiglie dei caduti nella strage di Capaci, appartenenti alle forze dell'Ordine, ovvero alla istituzione di una o più borse di studio - intitolate a Giovanni FALCONE - a favore di giovani che facciano oggetto di ricerca le problematiche connesse all'impegno giudiziario contro la criminalità mafiosa; ed affidano ad un gruppo (costituito dai consiglieri ...) l'incarico di elaborare i termini tecnici della devoluzione;

6) la Terza Commissione del Consiglio ha richiesto di mettere allo studio una regolamentazione che consenta il trasferimento congiunto di due o più magistrati, a loro richiesta, nelle sedi ad alta esposizione criminale".

Il dott. TERESI propone di rinviare l'esame della pratica in modo da approfondire taluni aspetti critici che vi ineriscono, specie in considerazione della drammaticità del momento nella quale essa è stata avviata.

Il prof. PATRONO conviene sul dispositivo della proposta, esprimendo peraltro riserve sulla consegna agli uditori giudiziari dell'elenco dei magistrati caduti. Propone poi di sopprimere i primi due capoversi della premessa nonchè, nel terzo capoverso, le parole iniziali "In ogni caso" e quelle comprese tra le parole "di non attardarsi" e le parole "ma di".

Il dott. LAUDI illustra i seguenti emendamenti, consistenti nell'introduzione di due ulteriori punti: a) il gruppo di lavoro sul codice di procedura penale individuerà possibili interventi a modifica urgente del codice stesso, da sottoporre all'attenzione del Parlamento e del Governo;

b) la Terza Commissione acquisirà, con le modalità ritenute più opportune, valutazioni e pareri dei magistrati addetti alle direzioni distrettuali antimafia in ordine alla prima fase di applicazione della legge 20 gennaio 1992 n. 8.

Il dott. STAJANO ritiene che si possa ulteriormente elaborare il documento al fine di pervenire ad una formulazione pienamente soddisfacente.

Il dott. FASSONE sollecita l'esame della pratica, in modo da dare un segnale positivo alle attese dell'opinione pubblica.

Su proposta del dott. STAJANO si conviene infine di sospendere temporaneamente la trattazione della pratica.

Si procede, quindi, all'esame della pratica della Prima Commissione referente.

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A) - n. 191/91 R.R. - A) Nota del Comitato di Presidenza che trasmette la lettera in data 16 agosto 1991, inviata al Ministro di Grazia e Giustizia e per conoscenza al Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, con la quale il Presidente della Repubblica chiede l'avvio di una inchiesta sull'operato delle istituzioni giudiziarie e sui magistrati della Procura della Repubblica di Palermo in relazione alle accuse mosse dal prof. Leoluca ORLANDO;

- Nota del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo concernente dichiarazioni, riportate dal quotidiano "L'Ora", del dott. Salvatore BARRESI, giudice del Tribunale di Palermo, di critica sui modi di condurre la lotta contro la mafia da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo;

- Nota del Comitato di Presidenza con la quale si trasmette una nota del componente dott. Marcello MADDALENA il quale trasmette ritagli di stampa relativi alle dichiarazioni del dott. Gianfranco GAROFALO, Sostituto Procuratore della Repubblica di Palermo, su una sentenza pronunciata dalla Corte d'Assise di Palermo;

B) Nota del Ministro di Grazia e Giustizia il quale chiede che sia disposto il trasferimento d'ufficio ex art. 2 R.D.L. 31 maggio 1946 n. 511 del dott. Pasqualino BARRECA, Presidente della I^ Sezione della Corte di Assise di Appello di Palermo, con riferimento al provvedimento emesso dalla Corte dal predetto presieduta nei confronti di Pietro VERNENGO;

- Nota del Presidente della Corte di Appello di Palermo con la quale si trasmette una nota del Presidente del Tribunale di Palermo concernente comportamenti del dott. Sergio LA COMMARE, giudice di quel Tribunale;

- Nota del Comitato di Presidenza con la quale si trasmette una nota del Ministro di Grazia e Giustizia concernente i frequenti ricoveri di detenuti della Casa Circondariale di Palermo in luoghi di cura estranei alle strutture carcerarie.

La pratica reca la seguente proposta:

"1. Svolgimento della procedura.

1.1.- Con lettera in data 18 agosto 1991, il Presidente della Repubblica trasmetteva al Vice-Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura copia di una lettera da lui indirizzata due giorni prima al Ministro della Giustizia, cui era allegata copia di un'intervista rilasciata dal prof. Leoluca ORLANDO al quotidiano "L'Unità" e da questo pubblicata il 14 agosto, nella quale venivano espressi una serie di rilievi sul comportamento della magistratura palermitana in relazione al problema dei rapporti mafia-politica.

Nella pratica che veniva conseguentemente formata - e della quale era investita questa Commissione - venivano quindi a confluire un esposto presentato l'11 settembre 1991 dai signori prof. Leoluca ORLANDO, già sindaco di Palermo, prof. Alfredo GALASSO, già componente del Consiglio Superiore della Magistratura, e Carmine MANCUSO, nel quale essi illustravano tutta una serie di fatti dai quali dovrebbe dedursi che gravi disfunzioni si sarebbero verificate nella conduzione dei processi di mafia da parte degli uffici giudiziari di Palermo, ed una serie di copie di atti processuali prodotte il 5 settembre da parte dell'avv. Giuseppe ZUPO, che in alcuni di tali processi aveva assistito alcune parti offese.

Sulla base di tali materiali, questa Commissione procedeva all'audizione dei tre firmatari dell'esposto (il 24 settembre), dell'avv.

ZUPO e del figlio e della vedova del Procuratore COSTA (il 30 settembre), del Procuratore GIAMMANCO (il 14 ottobre), del magistrato FALCONE (il 15 ottobre), della vedova dell'onorevole LA TORRE e dei magistrati BARRESI e GAROFALO (il 19 novembre), del magistrato NATOLI (16 dicembre), del magistrato SCIACCHITANO e del magistrato in pensione MELI (14 gennaio 1992). Veniva unito agli atti un rapporto presentato dal Procuratore della Repubblica di Palermo il 18 luglio 1991 nei confronti del magistrato BARRESI per una intervista da lui rilasciata al giornale "L'Ora" di Palermo in relazione ad alcuni dei fatti che costituivano oggetto anche dell'esposto ORLANDO. A sua richiesta, veniva inoltre sentito, il 1E ottobre 1991, il deputato regionale Turi LOMBARDO, il quale esponeva altre lamentele relative al funzionamento degli uffici giudiziari di Palermo. Il 28 settembre 1991 perveniva infine un esposto da parte del dott. Amindore AMBROSETTI, il quale veniva sentito in merito alle sue affermazioni il 10 febbraio 1992. Ad integrazione delle informazioni assunte, venivano acquisite copie di precedenti istruttorie svolte dal Consiglio Superiore della Magistratura e dalla Commissione parlamentare antimafia e di una serie di atti processuali e documentazione varia. Le pratiche rela- tive alle dichiarazioni dell'on. LOMBARDO ed all'esposto del dott. AMBROSETTI venivano archiviate con deliberazioni del plenum in data 26 febbraio e 19 febbraio rispettivamente, ma i relativi atti venivano comunque tenuti presenti ai fini dell'ulteriore esame della pratica, cui non venivano peraltro formalmente riuniti.

A seguito della pubblicazione sul settimanale "L'Espresso" del 22 marzo 1992 di una intervista con il Cons. Antonino CAPONNETTO già Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo, ora in pensione, nella quale si faceva riferimento alle vicende esaminate nella

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presente pratica, si acquisiva il testo di una denuncia presentata da Democrazia Proletaria e relativa a fatti riguardanti l'On. Salvo LIMA, recentemente assassinato, cui si era riferito il Cons. CAPONNETTO nel corso della sua intervista.

1.2.- Mentre i fatti dedotti negli esposti suddetti si sono svolti in un lungo arco di tempo che va dal 1979 ai giorni nostri, talune vicende recenti hanno costituito oggetto di una diversa iniziativa assunta dal Ministro della Giustizia, con nota del 22 ottobre 1991, nei confronti del presidente della prima sezione della Corte di Assise di Appello di Palermo, dott. BARRECA, del quale veniva chiesto il trasferimento d'ufficio ex art. 2, r. d.l. 31 maggio 1946, n. 511, con riferimento alla decisione, adottata dalla corte da lui presieduta, di non ripristinare lo stato di custodia cautelare in carcere nei confronti di taluni imputati di gravi delitti - fra cui tale Pietro VERNENGO - a seguito dell'entrata in vigore del decreto legge 9 settembre 1991, n. 292. In un rapporto redatto dall'Ispettorato del Ministero della Giustizia, in data 9 novembre 1991, i rilievi mossi a carico del dott. BARRECA venivano ritenuti estensibili al dott. OLIVIERI, che faceva parte del collegio giudicante che aveva adottato il provvedimento in questione, ed altri rilievi venivano mossi nei confronti dei magistrati LA COMMARE e Di LELLO, in relazione ai provvedimenti in materia di arresti domiciliari da questi adottati. Anche nei confronti di questi tre magistrati gli ispettori ritenevano applicabile l'art. 2, mentre nei confronti di altri ancora venivano sollevate censure per fatti non ritenuti tali da determinare incompatibilità ambientale e/o funzionale.

A seguito di ciò, il 20 e 21 gennaio 1992, si provvedeva all'audizione dei magistrati LO FORTE, MOTISI, PIGNATONE, LA COMMARE, PASSANTINO e PINELLO mentre il magistrato DI LELLO faceva pervenire una memoria, ed il 5 febbraio si sentivano i magistrati ALIQUO', CROCE e VIRGA.

1.3.- La Commissione procedeva quindi all'esame delle due pratiche e, nella seduta del 9 aprile, ne disponeva la riunione per le ragioni che saranno esposte più oltre. L'esame delle varie bozze di risoluzione della proposta di archiviazione predisposte dai relatori veniva quindi completato nella seduta del 16 aprile, nel corso della quale l'attuale testo veniva approvato a maggioranza.

2. Questioni preliminari.

2.1.- Preliminarmente la Commissione ha valutato l'opportunità di riunire le due pratiche, quella relativa all'esposto ORLANDO ed allegati e quella relativa alla richiesta ministeriale contro il presidente BARRECA ed allegati, ed è pervenuta ad una decisione positiva in base alle seguenti considerazioni.

Le procedure tendenti all'accertamento di eventuali situazioni di incompatibilità funzionale e/o ambientale hanno, come è noto, carattere amministrativo e pertanto non sono disciplinate nè dalle regole processuali sulla connessione, nè dai principi generali che stanno alla base di esse ed ai quali gli organi giudiziari devono rifarsi nei casi in cui la riunione o la separazione delle cause è rimessa alla loro valutazione discrezionale.

Salvo il doveroso rispetto delle regole sulla competenza delle diverse articolazioni interne del Consiglio (che in questo caso non vengono in considerazione), la valutazione circa l'opportunità della riunione o della separazione delle pratiche deve ispirarsi esclusivamente alla finalità di meglio realizzare quegli interessi pubblici al cui perseguimento è indirizzata l'attività amministrativa del Consiglio stesso.

Nel caso in esame l'ampio esame che la Commissione ha finito inevitabilmente per compiere dell'attività degli uffici giudiziari di Palermo, per cercare di dare una risposta alle sollecitazioni provenienti dagli autori degli esposti e dei rapporti e dagli stessi atti istruttori via via compiuti nell'ambito dell'una e dell'altra pratica, ha avuto come prodotto finale la raccolta di un imponente complesso di informazioni e di valutazioni, le cui possibili utilizzazioni indubbiamente trascendono le finalità specificamente proprie delle due pratiche, cioè la ricerca delle eventuali situazioni di incompatibilità ambientale e/o funzionale di singoli magistrati attualmente in servizio a Palermo.

Inoltre, le decisioni che la Commissione ha adottato in relazione a taluni dei fatti ad essa denunciati ha comportato la risoluzione di alcuni problemi giuridici che appaiono almeno in parte comuni alle situazioni cui fanno riferimento le due pratiche.

Queste considerazioni sono parse consigliare la riunione per consentire di concentrare in un'unica discussione il dibattito sulle questioni di ordine giuridico, alcune delle quali presentano carattere di novità e non trascurabile importanza anche in vista dell'individuazione di orientamenti di massima cui attenersi anche in avvenire. Nè va trascurata l'importanza di una ricostruzione dei fatti che consenta di contribuire a quella valutazione complessiva della situazione degli uffici giudiziari di Palermo e della Sicilia che è indubbiamente necessaria per adottare tutta una serie di eventuali provvedimenti del Consiglio.

2.2.- Passando al merito, la Commissione deve muovere dalla considerazione che in questa sede si tratta soltanto di stabilire se i fatti enunciati negli esposti, nei rapporti e nelle dichiarazioni raccolte giustifichino l'adozione da parte del Consiglio di provvedimenti di trasferimento

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d'ufficio per incompatibilità ambientale e/o funzionale ai sensi dell'art. 2 del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511, e poichè la presente pratica presenta particolarità relativamente insolite, appare opportuno premettere alcune considerazioni circa l'ambito di applicabilità di questa disposizione di legge.

Gran parte dei fatti denunciati, infatti, consistono in attività svolte dai magistrati palermitani nell'esercizio delle loro funzioni, per cui si pone il problema dei limiti della loro sindacabilità in questa sede, oltre che il problema della ripartizione delle eventuali responsabilità fra quanti hanno partecipato alla conduzione delle diverse procedure giudiziarie di cui trattasi (oppure del concorso di responsabilità dei diversi magistrati in esse impegnati). Il problema della determinazione dei limiti della sindacabilità degli atti giurisdizionali (fra i quali sono da includere anche gli atti del pubblico ministero, che certamente sono da comprendere fra gli atti giudiziari) è inoltre in questo caso complicato dal fatto che i comportamenti denunciati costituiscono, nella maggior parte dei casi, dei comportamenti omissivi. Pare perciò opportuno premettere all'analisi dei fatti una pur succinta riflessione sui presupposti normativi dell'eventuale intervento del Consiglio.

L'art. 2 del r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511, nella parte in cui prevede la possibilità di trasferimento d'ufficio dei magistrati "quando, per qualsiasi causa anche indipendente da loro colpa, non possono, nella sede che occupano, amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell'ordine giudiziario", ha costituito oggetto di ripetute censure di costituzionalità, non tradottesi, peraltro, nella sottoposizione del relativo problema all'esame del giudice della costituzionalità delle leggi, come sarebbe stato opportuno per rendere più certe le sue applicazioni. Le critiche sollevate in passato dalla dottrina hanno trovato tuttavia un principio di risposta in una serie di pronunce dei giudici amministrativi che hanno di- chiarato la questione manifestamente infondata. Più di recente la questione è stata risollevata nel messaggio rivolto dal Presidente della Repubblica al Parlamento il 26 luglio 1990, cui non ha fatto seguito peraltro alcuna nuova iniziativa, nè sul piano legislativo, nè in forma di rimessione della questione al giudizio della Corte Costituzionale.

Ciò posto, tutto quello che in proposito può dirsi consiste nel rinnovare l'auspicio che si pervenga prima o poi ad un chiarimento nelle sedi competenti, attraverso una revisione legislativa della disposizione ovvero attraverso l'esercizio del controllo di costituzionalità di essa da parte della Corte Costituzionale; mentre è evidente che nell'esercizio di questa sua funzione, che ha carattere amministrativo e non giurisdizionale, il Consiglio non può fare altro che applicare l'art. 2, attribuendo ad esso - ove se ne prospettino interpretazioni alternative - significati quanto più è possibile conformi ai principi costituzionali relativi alla materia.

2.3.- Circa il problema dei limiti della sindacabilità degli atti giurisdizionali, sia pure sotto il particolare profilo dell'eventuale incompatibilità ambientale o funzionale, è da ricordare che la circolare adottata dal Consiglio Superiore della Magistratura per l'attuazione dell'art.

2 stabilisce che ai fini della sua applicazione "non può essere presa in considerazione l'attività giurisdizionale del magistrato, tranne che nei casi di dolo o di errore determinato da colpa grave" e questa enunciazione ha trovato alcune importanti precisazioni nella legge 13 aprile 1988, n. 117, la quale, pur confermando l'insindacabilità - al diverso, ma analogo fine dell'accertamento della responsabilità civile dei magistrati - degli atti "di interpretazione di norme di diritto" e di "quelli di valutazione del fatto e delle prove" (art. 2, 2E comma) ha tuttavia precisato che costituiscono "colpa grave", sia "la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile", sia "l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento", sia "la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento", sia "l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione" (art. 2, 3E comma), così precisando la nozione di "provvedimento abnorme" che già in precedenza era stata elaborata dalla giurisprudenza. Tale previsione si riferisce tuttavia soltanto ad atti che si traducono in una decisione, in un ordine o altro comportamento avente una portata positiva, mentre la responsabilità per omissione è regolata esplicitamente soltanto con riferimento agli atti il cui compimento, legalmente dovuto, sia sollecitato da una parte (art. 3). Solo per le omissioni o i ritardi concernenti la libertà personale dell'imputato, è previsto che possa aversi "diniego di giustizia" anche per effetto dell'avverarsi di una situazione di fatto che comporti l'obbligo del magistrato di attivarsi, anche indipendentemente da una richiesta di parte, per rimuovere lo stato di privazione della libertà personale (art. 3, 3E comma). E' chiaro, tuttavia, che vi sono altre omissioni, oltre quelle prese in considerazione dalla legge n. 117/1988, che possono venire in considerazione ai fini dell'applicazione dell'art. 2 del r.d.l. n. 511/1946.

Fatte queste premesse, si deve osservare innanzi tutto che il presupposto di qualunque applicazione dell'art. 2 è la sussistenza di una situazione di "incompatibilità ambientale e/o funzionale" la quale può eventualmente derivare da fatti non addebitabili in alcun modo al magistrato, sia perchè si tratta di fatti non ricollegabili causalmente a suoi comportamenti, sia perchè si tratta di fatti ricollegabili a comportamenti del magistrato ma che appaiono totalmente incolpevoli sotto qualunque punto di vista.

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E' inoltre evidente che l'incompatibilità può derivare, non soltanto dall'attività posta in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni (giurisdizionali o altre), ma anche da attività da lui svolte nell'ambito della sua vita privata o nel tempo libero, indipendentemente dal fatto che esse diano luogo a forme di responsabilità di qualunque tipo.

L'ipotesi in cui il comportamento del magistrato si presenta come a lui rimproverabile a titolo di responsabilità civile, penale o discipli- nare è pertanto una soltanto di quelle che possono dar luogo all'applicazione dell' art. 2, e riassuntivamente può dirsi che non vi è coincidenza fra le due fattispecie, sia perchè l'art. 2 può risultare applicabile indipendentemente dall'accertamento di un comportamento colpevole del magistrato, come abbiamo visto, sia perchè l'accertamento dell'illiceità di un tale comportamento non implica necessariamente che ne sia derivata una situazione di incompatibilità ambientale o funzionale (come accade, ad esempio, quando si tratti di comportamento illecito i cui echi nell'ambiente in cui il magi- strato attualmente lavora non siano sostanzialmente differenziabili da quelli prodotti nell'intero paese, ovvero di comportamento che non sia specificamente collegabile alle funzioni da lui attualmente esercitate). Ed infatti, correttamente la ricordata circolare stabilisce che l'art. 2 non è applicabile quando il magistrato sia stato nel frattempo trasferito ad altra sede o ad altre funzioni, cosicchè la situazione di incompatibilità sia venuta meno.

Ciò posto, è tuttavia indubbio che un comportamento del magistrato il quale si risolva in un illecito civile, penale o disciplinare può assai facilmente determinare un'incompatibilità ambientale e/o funzionale, per cui è normale che in presenza di esso il Consiglio valuti l'opportunità di intervenire ex art. 2, anche perchè un tale intervento può opportunamente assumere il carattere di un provvedimento d'urgenza, precorritore degli altri che eventualmente conseguano all'accertamento, nelle prescritte forme, delle responsabilità suddette.

Posto dunque che i presupposti dell'incompatibilità ambientale e/o funzionale non coincidono con quelli della responsabilità del ma- gistrato, è da ritenere che ai fini dell'eventuale applicazione dell'art. 2 possa e debba essere tenuto presente anche qualunque tipo di provvedimento omissivo che sia qualificabile come produttivo di incompatibilità, ferma restando tuttavia la limitazione della sindacabilità di esso all'ipotesi del

"provvedimento abnorme". E' chiaro tuttavia che l'applicazione della nozione di provvedimento abnorme a comportamenti omissivi risulta molto più difficile (a parte i casi di evidente carenza di diligenza) di quanto non avvenga per gli altri provvedimenti, dato che con riferimento ai primi ovviamente manca qualunque forma di motivazione e spesso anche ogni altro elemento obiettivo che possa venir utilizzato per ricostruire le ragioni che hanno indotto il magistrato ad omettere di compiere un certo atto (al limite, infatti, possono aversi casi nei quali il magistrato non si è neppure posto il problema del compimento di un certo atto, per cui una tale motivazione non è in alcun modo ricostruibile, pur non essendo affatto escluso che un'omissione di questo genere possa risultare costitutiva di responsabilità).

Questo problema si complica poi ulteriormente se lo si riferisce agli atti istruttori, i quali - indipendentemente dal fatto che siano compiuti dal pubblico ministero o da un giudice, col vecchio rito o col nuovo - solo eccezionalmente richiedono una motivazione (per lo più, a garanzia della libertà personale dell'imputato o in altre ipotesi simili a questa), giacchè nella maggior parte dei casi essi trovano la loro motivazione reale nella strategia processuale seguita dal magistrato inquirente che li richiede, la quale è certamente molto meno sindacabile di quanto non siano le decisioni adottate sulle varie questioni di fatto o di diritto su cui i magistrati debbono pronunciarsi. Ed infatti, mentre nell'attività decisoria il pro- blema del rispetto delle norme di legge si risolve, di regola, nel controllo della correttezza del raffronto dei fatti accertati con i parametri legislativi che è stato compiuto dal giudice, nel caso degli atti istruttori, il problema del rispetto delle norme di legge si presenta in questi termini soltanto per quanto riguarda le norme processuali, ma si presenta invece in termini molto meno determinati per quanto riguarda l'individuazione delle norme penali sostanziali delle quali l'atto istruttorio dovrebbe accertare l'avvenuta violazione.

Fra gli atti istruttori, inoltre, esistono, sotto questo profilo, considerevoli differenze poichè, mentre esistono atti istruttori obbligatori in presenza di certi presupposti di fatto, o la cui adozione è comunque specificamente subordinata al rispetto di limiti dettati dal legislatore (come, ad esempio, i provvedimenti limitativi della libertà personale), esistono altresì casi di atti istruttori la cui ammissibilità è valutabile soltanto con riferimento alla loro coerenza logica (come, ad esempio, è il caso delle domande da porre ai testi o agli imputati ed anche delle scelte circa la precedenza da assegnare ad un certo atto istruttorio rispetto ad un'altro, circa l'opportunità di compierlo o meno, ecc.), cosicchè il controllo dell'eventualità "abnormità" di essi finisce per risolversi nel controllo della coerenza della strategia processuale osservata dal pubblico ministero per far riconoscere la validità delle sue richieste o di quella osservata dal giudice nella conduzione del processo (in entrambi i casi nel pieno rispetto del principio d'imparzialità). Ed è appena il caso di osservare che quasi certamente un tale controllo potrebbe portare all'affermazione della sussistenza dell'abnormità soltanto in casi di totale deviazione dai fini del processo penale, quali sono riscontrabili quando il magistrato inquirente si renda responsabile del reato di abuso in atti di ufficio.

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2.4.- Problemi particolari si pongono poi quando gli atti da sindacare sotto il profilo della loro eventuale "abnormità" siano atti collegiali. Ipotesi questa che non ricorre soltanto nel caso dell'atto deliberato da un vero e proprio organo collegiale, quale un tribunale (ove composto da tre giudici) o una corte, ma anche nel caso in cui un atto sia deliberato da un pool di giudici istruttori, oppure da un gruppo di magistrati del pubblico ministero cooperanti tra loro, ovvero sia eseguito da un singolo magistrato operante sulla base di una strategia processuale deliberata collegialmente, o decisa dal capo dell'ufficio, o da un diverso giudice o pubblico ministero che gli abbia rivolto una rogatoria.

Con riferimento al caso tipico dell'atto di un organo collegiale, il principio della pari responsabilità di tutti i membri del collegio che non abbiano dissentito in sede di deliberazione del provvedimento si impone anche ai fini della valutazione dell'eventuale incompatibilità ambientale e/o funzionale che esso determini. E' ovvio tuttavia che, poichè l'incompatibilità riguarda i soli magistrati ordinari e non anche i magistrati onorari e gli esperti (ai quali sono applicabili altre norme) o i giudici popolari, l'art. 2 non è applicabile a questi ultimi, quand'anche essi abbiano concorso alla deliberazione di un provvedimento siffatto.

Più delicato è il problema che nasce dalla previsione del segreto della camera di consiglio, dal quale potrebbe dedursi l'impossibilità per il componente dissenziente di fornire la prova del proprio dissenso. In contrario può tuttavia dedursi che la previsione legislativa del segreto della camera di consiglio non ha carattere assoluto - nè è da ritenere costituzionalizzata, come ha ritenuto Corte Cost., 19 gennaio 1989, n. 18 - per cui, come il segreto può essere svelato nel caso dei giudizi di responsabilità civile, alle condizioni ora esplicitamente dettate dalla legge 13 aprile 1988, n. 117, è da ritenere che possa essere altresì svelato anche in tutti gli altri casi in cui ciò sia necessario per esercitare il diritto di difesa, in applicazione del principio costituzionale che garantisce questo diritto. E se è vero che le procedure di applicazione dell'art. 2 del r.d.l. n. 511 del 1946 non sono procedure giurisdizionali, è però indubbio che ad esse sono state sempre ritenute applicabili disposizioni simili a quelle previste per i procedimenti disciplinari, per i quali la garanzia del diritto di difesa garantito dall'art. 24 della Costituzione è ovviamente applicabile.

Ben potendo quindi il componente del collegio - o del gruppo di magistrati i quali gestiscono collettivamente un'istruttoria - dedurre il suo eventuale dissenso anche in forme diverse da quelle specificamente previste dalla legge n. 117 del 1988 per i giudizi di responsabilità civile, nulla osta a ritenerlo responsabile degli atti deliberati collegialmente ove il suo dissenso non risulti dedotto e dimostrato nei modi opportuni.

A parte il caso in cui l'incompatibilità derivi da un atto proprio del presidente del collegio, è peraltro evidente che la responsabilità di quest'ultimo per gli atti deliberati collegialmente non è differenziabile da quella degli altri componenti.

3. Le vicende narrate nell'esposto ORLANDO.

3.1. - Premessa.

Il quadro generale fin qui descritto pone dunque in luce con chiarezza i limiti dell'intervento del Consiglio Superiore della Magistratura, il quale (riassuntivamente): a) non può sindacare, in sede di procedimento ex art. 2 della L. n. 511/1946, l'attività giurisdizionale e il contenuto dei provvedimenti adottati nell'esercizio della stessa (eccetto i casi specifici dianzi indicati); b) non può sindacare le scelte investigative compiute dai magistrati inquirenti nella conduzione delle istruttorie e delle indagini loro affidate, e tanto meno può sostituire le proprie valutazioni a quelle scelte; c) non può interferire in procedimenti giudiziari tuttora in corso, specialmente quando essi debbano ancora esser sottoposti al vaglio del giudice del dibattimento.

D'altro canto neppure competono al Consiglio valutazioni di ordine sociopolitico circa il modo di essere e di operare di questo o quell'esponente di altre istituzioni, di pubblici poteri, di forze politiche organizzate o meno che siano.

I precedenti rilievi valgono a definire il quadro generale degli accertamenti espletati ed i limiti dei medesimi. Riflessioni più specifiche saranno svolte trattando delle singole vicende, che si passa ad esaminare secondo l'ordine contenuto nell'esposto a firma GALASSO, MANCUSO, ORLANDO, in data 11 settembre 1991.

3.2. - Il delitto DALLA CHIESA.

Su quel gravissimo fatto di sangue la Corte di Cassazione, nel gennaio u.s., ha annullato con rinvio la sentenza della Corte di Assise di Appello di Palermo (che aveva mandato assolti gli imputati). La vicenda, pertanto, è tuttora sub iudice, e non è dato prevedere a quali conclusioni approderà il nuovo dibattimento che dovrà celebrarsi.

Al riguardo, con riferimento ai rilievi mossi dagli esponenti, gli accertamenti espletati da questa Commissione hanno consentito di acquisire quanto segue.

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A seguito delle dichiarazioni rese dal pentito di mafia Antonino CALDERONE, i COSTANZO furono indiziati del delitto di cui all'art. 416 bis C.P.. Ciò emerge dall'audizione del dott. Pietro GIAMMANCO (pag. 90 e segg. del relativo verbale), il quale ha riferito che nel marzo del 1988 i COSTANZO si presentarono al G.I. per chiarire la loro posizione (in quella sede ricevettero la comunicazione giudiziaria); che il 5 luglio 1988 ebbe luogo un animato confronto tra CALDERONE e Pasquale COSTANZO; che il 12 luglio 1988 il dott. FALCONE trasmise alla Procura, per il parere, una istanza della difesa dei COSTANZO, diretta a sollecitare un provvedimento di archiviazione; che il 27 luglio 1988 la Procura espresse parere negativo, richiedendo nel contempo l'espletamento di ulteriore attività istruttoria; che gli atti ritornarono alla Procura il 13 settembre 1988 con una nota del Consigliere Istruttore MELI (v. anche l'audizione di quest'ultimo); che la Procura formulò richiesta di nuovi accertamenti; che il 23 novembre 1988, a seguito di una sentenza della Corte di Cassazione su un conflitto di competenza, riguardante altro procedimento, gli atti concernenti la posizione dei COSTANZO furono trasmessi all'Autorità Giudiziaria di Catania, ritenuta territorialmente competente.

Il dott. GIAMMANCO ha anche precisato che, a seguito delle dichiarazioni rese da Francesco Marino MANNOIA, è stato in- trapreso un altro procedimento penale per l'omicidio DALLA CHIESA.

A sua volta il dott. FALCONE, nel confermare che i COSTANZO furono raggiunti da comunicazioni giudiziarie per partecipazione ad associazione mafiosa, ha osservato che - per quanto concerne l'omicidio DALLA CHIESA - le dichiarazioni attribuite da CALDERONE a Gino COSTANZO (rimaste prive di riscontro, anche a seguito di un confronto tra i due) si rivelarono non suscettibili di alcuno sviluppo istruttorio (cfr.

pag. 39 e segg. del relativo verbale).

Non è dunque esatto che non vi sia stato alcun accertamento sulle dichiarazioni rese in parte qua dal pentito CALDERONE. All'esito del confronto non si ritennero acquisiti elementi utili per il coinvolgimento dei COSTANZO nell'omicidio DALLA CHIESA mentre restano insindacabili in questa sede le valutazioni effettuate nella competente sede giurisdizionale.

Quanto alle vicende connesse all'appalto-concorso per il Palazzo dei congressi di Palermo, esse hanno formato oggetto di esame nell'ordinanza-sentenza del Giudice Istruttore presso il Tribunale di Palermo, emessa nel giugno 1991 nel procedimento penale contro GRECO Michele + 18 (v. vol. 7, pag. 1104 e segg.). Su quel complesso provvedimento, in ordine al quale dovrà pronunziarsi la competente Corte di Assise, si tornerà in prosieguo.

Qui mette conto notare che la vicenda è venuta più volte all'esame dell'autorità giudiziaria e che, verosimilmente, tornerà ad essere esaminata, sia in sede di rinvio dopo la menzionata sentenza della Corte di Cassazione sia davanti alla Corte d'Assise di Palermo a seguito dell'ordinanza-sentenza del giudice istruttore di quella città (ora richiamata). Saranno quelle le sedi in cui approfondire, ed eventualmente riproporre, le piste ipotizzabili e le scelte investigative adottate, trattandosi di verifiche prettamente processuali che soltanto nel quadro del processo possono essere eseguite.

Considerazioni analoghe valgono circa gli approfondimenti che, ad avviso degli esponenti, su taluni aspetti della complessa trama del delitto DALLA CHIESA sarebbero mancati.

Per quanto attiene al riferimento specifico - contenuto nell'esposto nel capitolo concernente l'omicidio DALLA CHIESA - circa l'asserito vuoto di investigazioni in ordine alla presenza, sul luogo del delitto e al momento di questo, dell'agente di P.S. Calogero ZUCCHETTO, a sua volta assassinato due mesi dopo l'omicidio DALLA CHIESA, si osserva che il riferimento prende le mosse dalla sentenza della Corte di Assise di Appello di Palermo resa nel primo maxiprocesso, e, nella parte che qui interessa, recentemente annullata dalla Corte di Cassazione, sicché il punto dovrà essere riesaminato in sede processuale.

A parte ciò, tuttavia, il dott. FALCONE ha chiarito che ZUCCHETTO era uomo della sua scorta ed era la persona più fidata di Ninni CASSARA', a sua volta assassinato dalla mafia; che fu ucciso perché cercava di giungere al covo di Salvatore MONTALTO e di Mario PRESTIFILIPPO (due fra i più pericolosi killers della mafia); che in ordine all'omicidio DALLA CHIESA, pur essendosi trovato sul posto, non aveva elementi da aggiungere oltre quelli esposti nella relazione di servizio agli atti (v. verbale dell'audizione, pagg. 96-99). La posizione ZUCCHETTO fu quindi vagliata dagli inquirenti e ritenuta irrilevante ai fini delle indagini, con una valutazione che finora non ha trovato alcuna con- vincente smentita.

3.3. - I delitti REINA, MATTARELLA, LA TORRE

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Come si è già accennato, su questi gravissimi episodi criminosi è intervenuta nel giugno 1991 un'ampia e complessa ordinanza-sentenza, emessa dal Giudice Istruttore di Palermo. Tutti i temi in essa trattati dovranno essere discussi nel pubblico dibattimento davanti alla Corte di Assise di Palermo, e ciò è sufficiente per escludere qualsiasi possibilità d'intervento di questo Consiglio nella materia de qua.

In ordine alla richiesta di "chiarimento" (pagg. 6-7 della memoria), formulata dagli esponenti, si osserva:

1) I tempi dell'istruttoria e le ragioni che ne hanno determinato la lunghezza certo inusitata sono dettagliatamente esposti nel volume IE della cennata ordinanza-sentenza, alle pagine 13-19, sotto il titolo "Breve cronistoria: perché un decennio di istruttoria". A quella motivata esposizione si fa qui rinvio, non essendo emersi elementi che inducano a discostarsi dai fatti ivi menzionati;

2) i profili critici concernenti l'andamento e le modalità (cd. composizione - collage) dell'istruttoria nonché le dichiarazioni di Marino MANNOIA riguardano il momento processuale e vanno perciò riversati nella competente sede dibattimentale.

3.4. - Il delitto INSALACO.

Come riferito dal Procuratore della Repubblica di Palermo, dott. GIAMMANCO, la c.d. lista INSALACO (rinvenuta e sequestrata a seguito dell'omicidio DELL'INSALACO avvenuto il 12 gennaio 1988) fu trasmessa dal dott. CURTI GIARDINA - Procuratore della Repubblica dell'epoca - al P.M. di Catania il 19.1.1988 per la parte concernente il dott. PALAZZOLO (ai sensi dell'art. 41 bis C.P.P. del 1930). La parte degli scritti dell'INSALACO concernente i dottori PAINO e CARRARA, magistrati in servizio a Palermo, fu trasmessa dallo stesso dott. CURTI GIARDINA alla Procura Generale di Caltanissetta sempre in data 19.1.1988. Quanto alle altre persone (politici, imprenditori e pubblici funzionari) menzionati nella lista e, più ampiamente, nel cd. "memoriale", essi sono stati esaminati, ai fini delle indagini relative all'omicidio dell'INSALACO, nell'ambito del procedimento 93/88 B P.M. riguardante tale delitto. Per quanto riguarda, invece, il loro ruolo nell'ambito della vicenda dei cd. grandi appalti di Palermo, cui principalmente si riferivano gli scritti dell'INSALACO, essi sono stati oggetto d'indagini nell'ambito del procedimento penale contro BRONTE Salvatore, CIANCIMINO Vito, CASSINA Arturo ed altri, definito di recente con sentenza della Corte di Appello di Palermo.

In ordine all'episodio concernente l'arresto dei giornalisti Attilio BOLZONI e Saverio LODATO che pur destò perplessità e scalpore, deve osservarsi che il provvedimento restrittivo fu emesso dal Procuratore della Repubblica dell'epoca (marzo 1988), dott. Salvatore CURTI GIARDINA, successivamente trasferito su sua domanda ad altro ufficio. L'ordine di cattura fu poi revocato dal Tribunale della Libertà (ordinanza 21.3.1988), il quale, pur riconoscendo la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza circa il delitto di peculato contestato ai prevenuti, non ritenne dimostrate le esigenze di cautela processuale idonee a giustificare la custodia preventiva.

Gli esponenti definiscono "paradossale" la configurazione a carico dei due giornalisti del delitto di peculato, che sarebbe stato ravvisato nella sottrazione di qualche foglio di carta per le fotocopie degli atti. Si deve però notare che nella specie si verte in tema di censura ad attività giurisdizionale cui non può darsi ingresso in questa sede, non essendo configurabile alcun errore macroscopico determinato da colpa.

3.5. - Il delitto BONSIGNORE.

Il 15 novembre 1989 il dott. Giovanni BONSIGNORE, direttore regionale in servizio presso l'Assessorato enti locali della Regione Sicilia, presentò alla Procura della Repubblica di Palermo un esposto-querela contro l'On.le Salvatore LOMBARDO, assessore regionale alla cooperazione e al commercio.

Nell'esposto-querela il dott. BONSIGNORE - richiamata la normativa sugli orari di apertura e chiusura degli impianti stradali di distribuzione di carburante e sul divieto di deroghe in favore di singoli impianti - dedusse che tuttavia il 30.8.1989 l'assessore aveva autorizzato una deroga per un impianto di distribuzione sito in contrada Liccio di Marina di Modica; che esso BONSIGNORE, venuto a conoscenza del provvedimento, aveva ritenuto doveroso rilevarne l'illegittimità; che, a seguito di ciò, gli era stata notificata una lettera di contestazione a firma del direttore regionale ing. COSTA ma scaturita da una nota dell'assessore LOMBARDO, che aveva ascritto al BONSIGNORE "scarsa conoscenza dei principi fondamentali dell'ordinamento, mancata conoscenza delle disposizioni che regolano la materia, sensibilità per gli interessi privati del settore che suscita non poche perplessità"; che inoltre il LOMBARDO aveva chiesto ed ottenuto il trasferimento di esso BONSIGNORE ad altro assessorato. L'esponente dichiarò quindi di proporre querela-denunzia "qualora dovessero ravvisarsi gli estremi della calunnia e soprattutto della diffamazione" in suo danno.

La mattina del 9 maggio 1990 il dott. BONSIGNORE fu assassinato mentre usciva di casa per recarsi in ufficio. I responsabili sono allo stato non identificati.

Sulla denunzia-querela da lui presentata furono svolte approfondite indagini, con l'esame di numerosi testi, l'acquisizione di varia documentazione, l'interrogatorio dell'On.le LOMBARDO quale persona sottoposta ad indagini per il delitto di cui all'art. 323 C.P., sotto il duplice

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profilo dell'abuso di ufficio per l'autorizzazione al distributore di carburanti a Marina di Modica e dell'abuso di ufficio per il trasferimento del dott.

BONSIGNORE dall'Assessorato della cooperazione a quello degli enti locali.

All'esito il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo, su conforme richiesta del P.M., con motivato provvedimento dispose l'archiviazione degli atti.

Ciò posto, se è vero che il dott. BONSIGNORE non fu sentito dal magistrato inquirente fino alla data del suo assassinio nonostante ripetute richieste anche pubbliche, è anche vero però che la denunzia-querela presentata dal funzionario non conteneva elementi tali da lasciar supporre una sua esposizione a pericolo; che i fatti da lui dedotti sembravano iscriversi in un contesto circoscritto e non allarmante; che nessun collegamento è emerso tra i fatti di cui alla denunzia-querela del dott. BONSIGNORE e l'assassinio perpetrato sei mesi dopo. Il ritardo nell'esame del dott. BONSIGNORE, in relazione ad un procedimento che apparentemente non presentava connotazioni di straordinarietà o di urgenza, non sembra significativo e ad esso non sono comunque riconducibili conseguenze ex art. 2 L.G..

Quanto agli altri rilievi prospettati dagli esponenti, essi sembrano riflettere le linee investigative concernenti le indagini sull'omicidio, onde non possono trovare spazio in questa sede, risultando tra l'altro le dette indagini ancora in corso. Analogamente può dirsi per i fatti esposti dall'AMBROSETTI.

3.6. - Gli omicidi degli imprenditori.

Gli esponenti lamentano che negli ultimi dieci anni sono stati assassinati in Sicilia più di trenta imprenditori e che non sono stati conseguiti purtroppo apprezzabili risultati in ordine alla identificazione degli autori di una così lunga serie di delitti.

Il rilievo si presta senza dubbio ad amare riflessioni sulla gravità della compromissione della realtà economica della città di Palermo a causa degli inquinamenti mafiosi e sull'efficienza (o sull'inefficienza) della risposta complessiva delle istituzioni di fronte al gravissimo attacco portato dalla criminalità organizzata di stampo mafioso. Ma, nei termini generali in cui è formulato, esso non concerne certo le competenze del Consiglio Superiore della Magistratura e può assumere valenza soltanto come sollecitazione a tutti a potenziare l'efficacia di quella risposta.

Quanto al cosiddetto libro mastro della cosca mafiosa dei MADONIA (pag. 10 dell'esposto ORLANDO), come chiarito nel corso delle audizioni si tratta in realtà di una lunga serie di appunti rinvenuti durante una perquisizione domiciliare, appunti in ordine ai quali sono state disposte specifiche indagini (v. in particolare audizioni GIAMMANCO e FALCONE). Nessun dato rilevante per le competenze del Consiglio Superiore della Magistratura è emerso al riguardo né è stato prospettato dagli esponenti.

3.7. - Le elezioni politiche del 1987.

Si afferma che, durante la campagna elettorale del 1987 per il rinnovo del Parlamento nazionale, furono denunciate pressioni su elettori da parte di personaggi mafiosi o contigui alla criminalità mafiosa. Si aggiunge che, a seguito delle ripetute denunce, fu aperta un'inchiesta della Procura della Repubblica (Sostituto Procuratore dott. GAROFALO), ma si afferma che l'inchiesta non avrebbe avuto ulteriore sviluppo dopo l'impulso iniziale, benché fenomeni di inquinamento abbiano continuato a segnare le competizioni elettorali.

Dagli accertamenti espletati - e, in particolare, dai dati forniti dal Procuratore della Repubblica di Palermo, dott. GIAMMANCO - è emerso che l'inchiesta in questione fu affidata al Sostituto dott. GAROFALO, il quale, dopo approfondite indagini, chiese l'archiviazione, trasmettendo poi gli atti al Pretore per quanto di sua competenza (eventualmente). Nel corso delle indagini furono esaminati numerosi esponenti politici, dalle cui deposizioni non risultano però emersi contributi utili. Le dichiarazioni di Marino MANNOIA - come risulta dall'all. 102 prodotto dal dott. GIAMMANCO nel corso della sua audizione - non si sono rivelate producenti sul punto, in quanto egli non parla di apporti o appoggi a singoli candidati, ma di una indicazione generale a favore di taluni gruppi politici.

Infine parecchi mesi dopo la richiesta di archiviazione il dott. GAROFALO fu trasferito, a sua domanda, dalla Procura al Tribunale.

Si trattò di un normale tramutamento dovuto ad una scelta personale dell'interessato non collegata alla detta inchiesta, come emerge dall'audizione dello stesso dott. GAROFALO; sicché non v'è spazio per interventi del Consiglio.

3.8. - Gli appalti del Comune di Palermo.

Sui temi generali concernenti i cosiddetti grandi appalti del Comune di Palermo e sulle linee investigative dirette ad accertare le infiltrazioni in quegli affari della criminalità organizzata il Consiglio non ha potestà d'intervento, vertendosi in materie riservate rispettivamente alla competenza dell'autorità amministrativa (per quanto concerne le procedure) e dell'autorità giudiziaria penale per quel che riguarda le indagini dirette ad accertare le fattispecie penalmente rilevanti.

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In questo contesto gli esponenti pomgono l'accento su due episodi: a) un provvedimento restrittivo richiesto ed ottenuto dalla Procura della Repubblica di Palermo nei confronti di Vito CIANCIMINO, poi revocato; b) accertamenti su alcune imprese legate al clan mafioso degli SPATOLA, disposti dal Procuratore della Repubblica di Palermo dott. Gaetano COSTA (poi assassinato il 6 agosto 1980) e successivamente non più completati.

Orbene, per quanto riguarda il punto sub a), gli accertamenti compiuti hanno consentito di acclarare quanto segue.

Il 4 giugno 1990 il Procuratore della Repubblica di Palermo avanzò al Giudice per le indagini preliminari in sede richiesta per l'applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di Vito CIANCIMINO ed altri soggetti, imputati del delitto di cui all'art.

416 C.P. e di altri reati. Il G.I.P., con ordinanza in pari data, accolse la richiesta.

Con istanza del 23 giugno 1990 la Procura palermitana chiese al medesimo G.I.P. l'applicazione di analoga misura nei confronti del CIANCIMINO e di altri, chiamati a rispondere di abuso in atti di ufficio, falso ideologico aggravato, corruzione ed altro. Anche tale richiesta fu accolta con ordinanza del 25 giugno 1990 (v. copia degli atti prodotti dal dott. GIAMMANCO, all. 8 al verbale della sua audizione). La prima ordinanza di custodia cautelare fu poi annullata senza rinvio dalla Corte di Cassazione (I Sezione penale). A seguito di ciò il G.I.P. sostituì la misura della custodia cautelare in carcere con quella dell'obbligo di presentazione periodica alla Polizia Giudiziaria. Anche tale misura fu revocata con ordinanza del G.I.P. in data 12 settembre 1990. Il procedimento penale tuttavia proseguì con richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura nei confronti del CIANCIMINO (v. audizione GIAMMANCO e FALCONE).

Essendo questa la sequenza dei fatti, è evidente che non vi possono essere nella specie provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, vertendosi in tema di attività giurisdizionale non sindacabile in questa sede. Né vale addurre una presunta fragilità delle motivazioni poste a base delle ordinanze di custodia cautelare (v. audizione GALASSO), dovendosi sottolineare che - come emerge dalle copie dei provvedimenti acquisite - le dette ordinanze erano motivate, mentre la congruenza e la consistenza delle argomentazioni esposte sono suscettibili di verifica esclusivamente in ambito processuale.

Quanto al punto sub b), si deve osservare che la questione degli accertamenti patrimoniali disposti dal Procuratore della Repubblica dott. COSTA ha formato oggetto di specifiche indagini e di ampio dibattito nel corso del processo per l'omicidio dello stesso dott. COSTA, celebrato dinanzi alla Prima Sezione della Corte di Assise di Catania e concluso con sentenza dell'8 aprile 1991 (che assolse l'unico imputato, INZERILLO Salvatore, dai reati ascrittigli, per non aver commesso i fatti). In quel processo (v. i verbali di dibattimento, acquisiti in copia) furono dettagliatamente esaminati anche gli ufficiali della Guardia di Finanza che avevano ricevuto incarico di compiere gli accertamenti. A quanto è dato desumere, in particolare, dalle deposizioni dei testi MOLA e PASCUCCI una serie di indagini bancarie e patrimoniali sulle ditte facenti capo a Rosario SPATOLA fu compiuta (va notato, a questo punto, che le indagini erano state disposte dal dott. COSTA nell'ambito del procedimento penale iniziato a seguito dell'omicidio dell'On.le Piersanti MATTARELLA). Comunque, come riferito dal dott. FALCONE (pagg. 16 e seguenti del verbale della sua audizione), tutti gli accertamenti patrimoniali, compresi quelli concernenti lo SPATOLA, furono eseguiti nell'ambito delle investigazioni confluite nel processo n. 1817/85, da cui furono di volta in volta separati procedimenti per singoli episodi delittuosi. Il dott. FALCONE ha richiamato "le centinaia di migliaia di documenti, che si trovano ancora lì, al Palazzo di Giustizia di Palermo, e che documentano tutta la imponente massa di documenti bancari e di accertamenti vari che sono stati effettuati" (v. pag. 25 verb. audizione). Non è dunque esatto parlare di sentieri interrotti con riferimento a tale vicenda, che peraltro, come si è accennato, ha formato oggetto di attento esame nella competente sede processuale, nella quale non risultano emersi elementi di rilievo ai fini delle indagini. Quanto agli altri risvolti della vicenda, e in particolare ai rapporti tra il dott.

COSTA e i Sostituti del suo ufficio, a parte il rilievo che anch'essi sono stati accuratamente esaminati durante il dibattimento penale celebrato innanzi alla Corte d'Assise di Catania, deve osservarsi che al riguardo già in precedenza il Consiglio aveva compiuto accertamenti (delibere 28.9.1983 e 6.3.1990) nelle sedute del 28 settembre 1983 e 6 marzo 1990, che non avevano posto in luce condotte di magistrati rilevanti ai fini di competenza.

La Commissione ha ritenuto di effettuare nuove indagini, procedendo anche alle audizioni della vedova e del figlio del dott. COSTA, ma tali indagini non hanno condotto ad acquisire elementi idonei a giustificare un mutamento delle precedenti conclusioni.

3.9. - Le frequentazioni di Salvo LIMA e Stefano BONTATE.

Gli esponenti richiamano le dichiarazioni di un pentito di mafia, Giuseppe PELLEGRITI, il quale fece il nome di Salvo LIMA (nei giorni scorsi assassinato a Palermo da delinquenti allo stato ignoti) come mandante dei delitti MATTARELLA e DALLA CHIESA. Menzionano il mandato di cattura emesso dai magistrati inquirenti di Palermo nei confronti dello stesso PELLEGRITI, provvedimento poi annullato dal Tribunale della Libertà. Richiamando la sequenza dei fatti sostengono che, mentre era in pieno svolgimento il dibattimento davanti alla Corte di Assise di

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Appello di Palermo nel cosiddetto maxiprocesso, i magistrati inquirenti avrebbero compiuto indagini ed atti istruttori rilevanti in quel dibattimento, senza informarne la Corte di Assise. Richiamano poi le dichiarazioni di un altro pentito, Francesco Marino MANNOIA (che cominciò a collaborare con i magistrati inquirenti di Palermo nell'autunno del 1989), e deducono che i verbali dei suoi interrogatori, richiesti dalla Corte di Assise di Appello di Palermo, pervennero in aula con numerosi e non motivati OMISSIS, sicché soltanto dopo più di un anno si seppe che il pentito aveva rivelato di essere stato presente in varie occasioni ad incontri tra Salvo LIMA e Stefano BONTATE, presso una casa-ufficio di un altro mafioso, a nome Gaetano FIORE, e presso il bar Baby Luna di proprietà dello stesso FIORE, nei giorni di chiusura al pubblico. Aggiungono che, dopo le dichiarazioni del Marino MANNOIA, la Procura di Palermo non avrebbe fatto nulla per oltre un anno, procedendo all'esame dell'On.le LIMA soltanto dopo che, nel corso di un convegno pubblico a Trapani svoltosi il 27.4.1991, il giudice palermitano Salvatore BARRESI aveva dato notizia delle dichiarazioni di Marino MANNOIA.

Orbene, le dichiarazioni di Giuseppe PELLEGRITI (e, bisogna aggiungere, il ruolo di Angelo IZZO) hanno formato oggetto di lunga ed accurata disamina nell'ordinanza-sentenza del Giudice Istruttore di Palermo emessa a conclusione dell'istruttoria sui cd. delitti politici (dianzi richiamata; v. pagg. 1473 - 1545). Di tale disamina non deve qui darsi conto, visto che si tratta di attività e valutazioni giurisdizionali, non sindacabili in questa sede. Argomento analogo vale per il mandato di cattura, emesso dal G.I. nei confronti del PELLEGRITI su richiesta del P.M. per il delitto di calunnia continuata, vertendosi sempre in tema di censura ad attività giurisdizionale, che anch'essa dovrà essere esaminata nel dibattimento in Corte d'Assise, poiché il PELLEGRITI è stato rinviato a giudizio per rispondere del contestatogli delitto di calunnia.

Un dato però deve essere segnalato. Nell'esposto ORLANDO si legge testualmente quanto segue: "La Corte di Assise di Appello di questa città, presso la quale si stava svolgendo il dibattimento di secondo grado del maxiprocesso, decide di ascoltare il pentito nel carcere di Alessandria, dove si trova detenuto. Siamo ai primi di ottobre del 1989. PELLEGRITI fa il nome di Salvo LIMA come mandante dei delitti MATTARELLA e DALLA CHIESA. Qualche ora dopo, i giudici inquirenti di Palermo emettono mandato di cattura nei confronti di Giuseppe PELLEGRITI, che viene poi esteso ad Angelo IZZO ..." (v. pag. 13 esposto ORLANDO). Come si vede, il documento lascia intendere con chiarezza che il mandato di cattura contro PELLEGRITI potrebbe essere posto in relazione con la decisione della Corte di procedere all'esame del medesimo PELLEGRITI. Ma il sospetto alimentato dalla coincidenza cronologica si rivela privo di riscontri oggettivi. Risulta soltanto che ai primi di ottobre del 1989 sulle dichiarazioni del PELLEGRITI (che aveva cominciato a parlare all'inizio di agosto di quell'anno) già erano stati compiuti numerosi accertamenti istruttori, che avevano condotto gli inquirenti a maturare sull'attendibilità del pentito il convincimento di poi espresso col provvedimento restrittivo, che il P.M. richiese il 4 ottobre 1989, dopo aver ricevuto gli atti per le proprie determinazioni.

Sembra poi irrilevante l'addebito secondo cui i magistrati inquirenti non avrebbero informato la Corte di Assise di indagini ed atti istruttori significativi per il dibattimento in corso. Gli inquirenti, infatti, procedevano per il delitto MATTARELLA e dovevano comunque svolgere degli accertamenti per verificare la consistenza delle dichiarazioni del PELLEGRITI anche nel dibattimento in corso davanti alla Corte di Appello, la quale era evidentemente venuta a conoscenza di quelle dichiarazioni se è vero che, come si deduce nell'esposto, adottò la decisione di ascoltare il PELLEGRITI ai primi di ottobre del 1989, e cioé appena due mesi dopo le prime affermazioni del pentito.

Quanto alle dichiarazioni di Francesco Marino MANNOIA, è emerso, in particolare dall'audizione del dott. Pietro GIAMMANCO (v. il relativo verbale e l'allegato n. 47 da lui prodotto), che, subito dopo l'acquisizione di quelle dichiarazioni, la Procura di Palermo dovette procedere in tempi molto brevi ad una valutazione complessiva della strategia investigativa e processuale da adottare sul vasto materiale di conoscenza offerta dal "collaboratore" in ordine alle caratteristiche dell'associazione criminale denominata "Cosa Nostra", a circa 50 episodi di traffico di stupefacenti ed a più di cento omicidi commessi nell'arco di un decennio. Va notato che su tutte codeste indicazioni occorrevano specifici accertamenti, specialmente in relazione al disposto dell'art. 192 del vigente C.P.P..

Ad avviso del dott. GIAMMANCO per un buon esito di tale strategia investigativa sarebbe stato più producente mantenere per tutto il tempo necessario alle indagini un rigoroso segreto (anche nel quadro dell'art. 329 C.P.P.), dando corso nel contempo agli accertamenti del caso (in tale ottica copia integrale dei verbali d'interrogatorio fu trasmessa al Gruppo Carabinieri Palermo I, al Procuratore della Repubblica di Termini Imerese e all'Alto Commissario Antimafia che ne aveva fatto richiesta). L'ufficio, tuttavia, ritenne di dover contemperare tale esigenza con quella di fornire alla Corte di Assise di Appello, che stava giudicando circa 400 imputati (cd. maxiprocesso), le parti delle dichiarazioni di Marino MANNOIA che potevano costituire un prezioso contributo probatorio sui fatti criminosi oggetto di quel giudizio. In tale quadro si operò la scelta di privilegiare, prima di tutto, la necessità di ottenere dal G.I.P. l'emissione di numerose ordinanze di custodia cautelare nei confronti di persone di cui era stata accertata la particolare pericolosità (per es. i componenti del cd. "gruppo di fuoco") e nei cui confronti non esistevano già provvedimenti

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restrittivi della libertà personale. Si selezionarono poi le parti delle dichiarazioni del Marino MANNOIA necessarie a supportare probatoriamente i fatti criminosi oggetto del giudizio della Corte d'Assise di Appello.

Dopo alcuni mesi, con lo sviluppo delle indagini su molti dei fatti narrati dal Marino MANNOIA e in un primo tempo mantenuti segreti (circa una quarantina), si potè procedere ad un riesame complessivo delle esigenze delle indagini preliminari e si decise di trasmettere copia integrale delle dichiarazioni stesse alla Commissione parlamentare antimafia (9.7.1990), nonché di sollecitarne l'acquisizione al G.I. dei processi relativi ai cd. omicidi politici.

Concetti sostanzialmente analoghi sono stati svolti dal dott. FALCONE (v. pag. 109 e segg. verb. aud.). Non risulta che alla Corte di Assise di Appello siano state trasmesse le dichiarazioni di Marino MANNOIA riguardanti i rapporti LIMA-BONTATE.

Relativamente alla posizione dell'On.le Salvo LIMA, va detto che quell'uomo politico (assassinato a Palermo il 12.3.1992) fu coinvolto in più occasioni in procedimenti penali, conclusi peraltro sempre in modo a lui favorevole, in istruttoria o in dibattimento. Una sommaria ricostruzione di tali vicende si trova nella requisitoria del P.M. e nel conforme decreto del G.I. datato 7 novembre 1987, con cui si fece luogo alla archiviazione di un dossier intitolato "Un amico a Strasburgo - Documenti della Commissione Antimafia su Salvo LIMA", presentato alla magistratura palermitana da appartenenti a Democrazia Proletaria.

Con riferimento alle dichiarazioni di Marino MANNOIA sugli incontri tra l'On.le LIMA e Stefano BONTATE nei locali del bar Baby Luna in epoca precedente al 23.4.1981 (data dell'assassinio del BONTATE), il dott. GIAMMANCO ha dedotto che quelle dichiarazioni furono giudicate dalla Procura della Repubblica di per sè non suscettibili di sviluppi istruttori, dato che non facevano riferimento nè al contenuto del colloquio nè ad altre circostanze oggettivamente riscontrabili. Nel luglio del 1990, peraltro, sulla base dei risultati delle indagini già svolte, si ritenne l'opportunità che esse formassero oggetto di valutazione nel quadro più complessivo dell'istruttoria sui cd. delitti politici, sicché ne fu sollecitata l'acquisizione a quel giudice istruttore. Terminata l'istruzione formale (durante la quale furono sentiti, tra gli altri, anche LIMA e Francesco Marino MANNOIA, che si rifiutò di rispondere sul punto dei rapporti tra mafia e politica, come già aveva fatto in altre sedi), si fece luogo ad un interrogatorio del Marino MANNOIA in U.S.A. nonchè ancora all'esame dell'On.le LIMA e di FIORE Gaetano (sul punto v. anche il verbale dell'audizione del dott. NATOLI). Dagli accertamenti espletati è dunque emerso, per quanto riguarda l'On.le LIMA, che quest'ultimo è stato in più occasioni inquisito; che gli esiti di tali investigazioni hanno formato oggetto di valutazione nella competente sede giurisdizionale; che anche sulle dichiarazioni di Francesco Marino MANNOIA si è indagato. La congruità e i risultati di codeste indagini possono essere ovviamente oggetto di libera critica, la quale tuttavia dovrebbe tener conto che i tempi e le scelte investigative compiute nelle indagini rispondono sovente a logiche istruttorie ed a meccanismi legali non sempre agevolmente percepibili dall'esterno. Comunque va esclusa, alla stregua delle risultanze raccolte, la sussistenza di elementi idonei a giustificare un intervento del Consiglio Superiore della Magistratura, pur dovendosi sottolineare l'opportunità che sulle dichiarazioni di Marino MANNOIA concernente i rapporti tra LIMA e BONTATE fossero condotte indagini più incisive e tempestive.

3.10. - La loggia massonica DIAZ.

Prendendo le mosse dalla scoperta di una loggia massonica con sede in Palermo, alla via Roma 391 (e richiamando la ricorrente presenza di sigle massoniche in inchieste di mafia), gli esponenti lamentano che in concreto sul nodo cruciale dei rapporti tra mafia e massoneria non risulterebbero espletati accertamenti miranti a ricostruire un quadro probatorio di tali rapporti.

Dagli accertamenti espletati è emerso che - nell'ambito del procedimento penale n. 69/86 A P.M. e 644/86 R.G.U.I., avente ad oggetto un vasto traffico di stupefacenti tra la Sicilia, la Francia e gli Stati Uniti - furono emessi vari ordini di cattura e, contestualmente, vennero effettuate alcune perquisizioni domiciliari. Tra gli immobili perquisiti, su ordine del P.M., figurava la sede di una loggia massonica, sita in Palermo, alla Via Roma, palazzo Ammirata, ove vennero sequestrati gli elenchi dei soci. Il processo principale seguì poi il suo corso. Gli atti relativi al sequestro presso la loggia massonica furono separati e in data 28 ottobre 1989 ne fu disposta l'archiviazione, non essendo emerso alcun collegamento tra la loggia medesima ed il traffico di stupefacenti oggetto del procedimento. Il 9 novembre 1989 fu redatto il verbale di riconsegna degli elenchi dei soci ai legali rappresentanti della loggia, senza che agli atti ne sia rimasta copia (il che sarebbe stato opportuno).

La loggia DIAZ fu poi oggetto di altre indagini, concluse con decreto 8 aprile 1991 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo dott. G. CONTE, che dispose l'archiviazione del procedimento non essendo emersi elementi penalmente rilevanti.

Da ultimo sui rapporti tra mafia e massoneria si sofferma l'ordinanza-sentenza del G.I. presso il Tribunale di Palermo, con cui è stata conclusa l'istruttoria sui cd. delitti politici (REINA, MATTARELLA, LA TORRE, DI SALVO: v. cap. VI, vol. 9, pagg. 1418 e segg. del citato provvedimento).

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