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Capitolo 2 L’impegno militare italiano nel corso dei secoli

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Academic year: 2021

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Capitolo 2

L’impegno militare italiano nel corso dei secoli

Come ai nostri giorni anche in età moderna l’impegno militare non era circoscritto esclusivamente agli eventi bellici: erano molte le occasioni in cui chi lo avesse voluto avrebbe potuto mettere le sue capacità al servizio dello Stato. E non necessariamente il proprio, come vedremo meglio in seguito.

La principale istituzione militare permanente degli stati italiani in età moderna è quella delle milizie, create tra XVI e XVII secolo. In Toscana l’idea di una riforma dell’assetto militare toscano fu sostenuta in particolare da Machiavelli e Soderini dopo la disastrosa esperienza della guerra di Pisa; la Provisione della ordinanza fu approvata nel dicembre 1506 (quasi sicuramente, secondo Marchand, con il concreto contributo di Machiavelli1), dopo che lo stesso si era prodigato ad illustrarne l’utilità e l’organizzazione in un altro scritto2. Quindi le prime ad essere organizzate secondo questo modello furono le Bande medicee, reclutate tra i sudditi del Granducato su base territoriale e volontaria3. Come le Bande toscane, troviamo le Cernide della Repubblica di Venezia, e le milizie dello Stato pontificio, del Regno di Napoli, del Ducato di Milano, della Repubblica di Genova e dei Ducati di Parma e Mantova: anche se per quanto riguarda questi

1 Jean-Jacques MARCHAND, Niccolò Machiavelli: i primi scritti politici (1499-1512). Nascita di un pensiero e di uno stile, Padova, Antenore, 1975.

2 Il testo in questione è: La cagione dell’ordinanza, dove la si truovi et quel che bisogni fare, scritto nel

1506 probabilmente in risposta alla richiesta di redigere un rapporto che servisse da base per una futura «provisione». Machiavelli riprenderà ancora l’argomento in opere successive, in particolare in Dell’arte della guerra, scritto tra il 1519 e il 1520.

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ultimi quattro mancano notizie che risalgano ad un periodo precedente al Seicento4.

Dopo la fine delle guerre d’Italia, quasi ovunque si tentò di riorganizzare le milizie in modo che potessero essere utilizzate anche in tempo di pace: nella maggior parte dei casi furono impiegate per presidiare le fortezze di guardia ai confini, oppure per mantenere l’ordine pubblico. Erano guidate generalmente da esponenti dell’aristocrazia – provenienti o meno dallo stesso territorio di stanza delle truppe a seconda del periodo o dello Stato da cui dipendevano5-; con il compito di organizzare e formare le truppe e spesso anche di reclutarle. L’organizzazione delle milizie variava a seconda delle necessità peculiari di ogni stato, ma ovunque questa istituzione presentava contraddizioni di fondo che alla lunga ne determinarono l’inefficacia. Generalmente l’appartenenza alle milizie veniva incentivata attraverso la concessione di privilegi, i quali però non garantivano mai un’ascesa nella scala sociale, così che i miliziani finivano per usarli esclusivamente a danno degli altri membri della comunità causando quindi gravissime fratture al suo interno. Inoltre, nei casi in cui la coscrizione non era volontaria, ma di tipo elettivo, era anche possibile essere esonerati dalla partecipazione attraverso il pagamento di una cospicua somma, oppure la presentazione di un sostituto: con il frequente risultato che l’addestramento delle truppe era così complicato da rendere più semplice ed economico assoldare truppe mercenarie già esperte6.

Sarà solo con l’avvento del XVIII secolo, in alcuni casi addirittura verso la sua fine, che molti stati italiani si decideranno a riorganizzare dalla base il sistema delle milizie, in gran ritardo rispetto alla maggioranza degli stati europei, già da un secolo alle prese con la formazione degli eserciti nazionali, così come del

4 V. ILARI, Storia del servizio cit., p. 52. L’autore ritiene però che anche per quanto riguarda

Milano, Genova, Parma e Mantova la nascita delle milizie si possa far risalire al XVI sec.

5 Si occupa dei cambiamenti organizzativi relativi ai capitani delle milizie e al loro luogo

d’origine il saggio di Giampiero BRUNELLI, Patriziati cittadini e ordinamenti territoriali: il caso

dello Stato della Chiesa (1560-1644), pubblicato in L. ANTONIELLI e C. DONATI, Al di là cit., pp.

39-66.

6 È Virgilio ILARI a fornirci un ottimo quadro delle milizie dei vari stati della penisola nel

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resto consigliava il celebre condottiero Raimondo Montecuccoli7. In effetti il generale modenese proponeva gli «eserciti perpetui» come alternativa valida alle truppe mercenarie: meno costosa, più utile per l’addestramento dei soldati e sicuramente efficace anche come deterrente. La strutturazione di un vero e proprio esercito nazionale sarebbe stata un’ottima alternativa anche alle milizie, le quali avevano sicuramente un carattere molto più precario e non erano comunque frequentemente usate in guerra.

La storiografia militare italiana, a detta dei suoi maggiori esponenti degli ultimi anni privilegia lo studio degli aspetti militari di uno stato in tempo di pace8; sono maggiori, infatti, gli studi sulle milizie, essendo i documenti in proposito ricchi e facilmente reperibili. Al contrario questa nostra indagine, partendo da un diverso tipo di fonti, tende a mettere in evidenza piuttosto coloro che presero parte alle grandi guerre dell’età moderna: i repertori che riportano i nomi di militari recano principalmente notizia di eroi di guerra o noti strateghi, sicuramente più presenti sui campi di battaglia che tra le mura di una città in pace o in una fortezza in un momento in cui nessuno cerca di valicare i confini. Ai fini di una rappresentazione più ampia dei dati ricavati, ci è quindi sembrato più utile affrontare lo sviluppo cronologico dell’impegno militare italiano attraverso le guerre che furono combattute in quegli anni, con la consapevolezza che questa scelta non ci permette di dedicare spazio a quelle

7 «Gli eserciti perpetui recano grandi avvantaggi. Si è rispettato dagli amici, e nimici; onde a

suo grado si mantiene la pace e si è presto ad imprender la guerra, siasi o per prevenir l’inimico, o per impedire la di lui crescente potenza». Da Raimondo MONTECUCCOLI, Della guerra col

Turco in Ungheria, in Le opere di Raimondo Montecuccoli, a cura di Raimondo LURAGHI, Roma,

Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, 1988, vol. II, pp. 466-467.

8 In particolare, sottolinea Livio Antonielli, non essendoci storici militari tout-court, tutti

propendono ad una maggior attenzione verso l’esercito in tempo di pace, piuttosto che verso quello che combatte; la scelta migliore, secondo lo storico, sarebbe quella di studiare l’esercito come corpo, nella sua totalità e all’interno della società in cui agisce. Anche Andrea Romano riflette sulla differenza tra lo studio degli eserciti in tempo di pace e quelli sul campo di battaglia, ma principalmente per incoraggiare un maggiore studio dei primi al fine di indagare più a fondo i rapporti tra il potere – di cui le milizie possono essere considerate il braccio – e la società. Entrambi gli interventi sono stati prodotti all’interno della discussione che chiude il congresso sulle fonti di storia militare tenutosi a Messina nel 1999, pubblicato nel già citato Al di

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che Angelantonio Spagnoletti9 definisce le guerre non ufficiali, in primis la guerra di corsa. In particolare nell’Italia meridionale vediamo spesso nobili che, riunitisi insieme e armata una galera, salpavano verso la costa nordafricana a compiere razzie per poi spartirsi il bottino, tutto in nome della difesa della cristianità.

Non indagheremo a lungo sull’aspetto delle vicende militari del Mediterraneo, perché la materia è così ampia e complessa da richiedere un lavoro a sé, tuttavia non abbiamo escluso dalla nostra indagine gli italiani che si erano occupati esclusivamente di guerra di corsa: molti erano cavalieri dell’Ordine Gerosolimitano e di quello di Santo Stefano, ma ne ho trovato anche qualche esempio un po’ fuori dai canoni. Curioso è il caso di Abramo Ecchellense10, siriano, educato a Roma dopo la morte del padre e rientrato in patria nel 1630, a venticinque anni, per porsi al servizio dell’emiro druso Fakhr ed-dīn, alleato del Granduca Cosimo II, e occuparsi per lui di affari internazionali. Successivamente al fallito trasporto del carico del suo secondo viaggio dalla Toscana, a causa di un blocco imposto da alcune navi ottomane, ebbe occasione di dedicarsi brevemente ad operazioni di guerra corsara. Dopo questa brevissima parentesi tornò in Italia, inizialmente a Livorno, per poi recarsi e Roma e consacrarsi definitivamente agli studi, occupandosi della sezione siriana ed araba della Biblioteca Vaticana. Tale vicenda è particolarmente interessante perché ci dà la misura di quanto fosse variegato il mondo della corsa, al punto da includere perfino un cristiano maronita e per giunta studioso. Dopo questi brevi accenni all’organizzazione delle milizie e alla guerra di corsa, cerchiamo adesso di indagare la presenza degli italiani sugli scenari bellici europei.

9 Anche questo intervento è contenuto nella discussione contenuta nel volume più volte citato

Al di là della storia militare, p. 216.

10 Anche noto come Ibrāhīm al-Hāqilānī, nato a Hāqil (presso Giubail) nel 1605 e morto a Roma

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Per un primo generale sguardo d’insieme, vediamo innanzitutto come i militari da me rintracciati nei repertori11 si suddividono tra i vari secoli.

27% 14% 30% 19% 8% 2% 0% 5% 10% 15% 20% 25% 30% 35%

Solo XVI Tra XVI e XVII

Solo XVII Tra XVII e XVIII

Solo XVIII Tra XVIII e XIX

Figura 1. Distribuzione nei secoli dei militari italiani. Dati estrapolati dal Dbi e dal repertorio curato da Corrado Argegni.

La prima impressione suscitata da questo grafico è che la percentuale di militari italiani impegnati in battaglia non diminuisca assolutamente con la scomparsa delle guerre dal territorio italiano, anzi, aumenti12. Il calo, piuttosto, lo notiamo

11 Purtroppo nella compilazione di questo grafico non ho potuto inserire i dati relativi al

repertorio compilato da Aldo Valori. Riferendosi infatti solo ai militari italiani del Seicento e riportando una quantità di dati pari almeno al triplo di ognuno degli altri due repertori, non avrebbe fatto altro che recare un’immagine sbagliata della divisione nei vari periodi. Inoltre anche il quadro rappresentato da questo grafico è leggermente falsato dal fatto che Corrado Argegni, nel suo repertorio, raramente considera militari operanti nel Settecento: percentuale quindi più bassa rispetto a quella trovata considerando il solo Dbi (che ha comunque un dato non alto: il 3%); ma vista la lievissima differenza tra i due dati ho scelto comunque di utilizzare il massimo possibile delle informazioni. Per poter avere un’idea di quanto variano le percentuali a seconda dei repertori presi in considerazione fornisco questa breve tabella esemplificativa:

Dbi

Argegni Valori Tutti Argegni

e Dbi

Solo XVI secolo 39% 0 17% 9 % 27 %

Tra XVI e XVII secolo 8% 3% 19% 7 % 14 %

Solo XVII secolo 21% 94% 37% 73 % 30 %

Tra XVII e XVIII secolo 31% 3% 10 % 8 % 19 %

Solo XVIII secolo 1% 0 13 % 3 % 8 %

Tra XVIII e XIX secolo 0 0 3 % 1 % 2 %

La suddivisione nei secoli è stata operata in base alle date di inizio e fine dell’attività militare: per evitare sovrapposizioni è stato così necessario inserire tre ulteriori insiemi composti da coloro che avevano cominciato a combattere in un secolo e terminato nel successivo.

12 Ovviamente il grafico rispecchia i limiti temporali della mia ricerca: ovvero esclude tutti

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nel Settecento trovando un’apparente conferma alla teoria di Gregory Hanlon, che definisce il periodo che si apre con la seconda metà del Seicento come il crepuscolo della tradizione militare dell’aristocrazia della penisola13. Gli storici italiani non sembrano, però, d’accordo con questa teoria14 e anche la diminuzione dei dati potrebbe essere dovuta in primo luogo alle fonti prese in considerazione. Avremo comunque modo di affrontare l’argomento nell’ultima parte di questo capitolo.

Prima di entrare nel vivo dell’analisi, indagando l’impegno militare per i diversi eventi bellici, è interessante vedere il grafico che rappresenta il numero dei militari suddiviso per ogni decennio15.

0 50 100 150 200 250 1 560-69 1 570-79 1 580-89 1 590-99 1 600-09 1 610-19 1 620-29 1 630-39 1 640-49 1 650-59 1 660-69 1 670-79 1 680-89 1 690-99 1 700-09 1 710-19 1 720-29 1 730-39 1 740-49 1 750-59 1 760-69 1 770-79 1 780-89

Figura 2 Presenza di militari italiani attivi per ogni decennio. Dati ricavati dal Dbi e dal repertorio curato da Corrado Argegni.

Rivoluzione francese, mentre include chi ha combattuto nel periodo precedente al 1559, ma ha proseguito e coloro che hanno continuato una carriera avviata prima del 1789.

13 G. HANLON, The twilight cit.

14 Lo afferma Piero DEL NEGRO nel suo Guerra ed eserciti da Machiavelli a Napoleone, Roma,

Laterza, 2001, dove sostiene, anche se sta riferendosi ad un contesto europeo, che l’aristocrazia continua a dominare la scena per tutto l’Ancién Régime. E anche Claudio DONATI parla di un cambiamento radicale nell’organizzazione militare europea (e di conseguenza anche degli stati della penisola) senza però far cenno alcuno alla diminuzione della presenza nobiliare, piuttosto ad una sua maggior difficoltà nell’integrarsi in un sistema che sta cominciando a dar vita a diversi nuovi indirizzi almeno sul piano meritocratico (analisi contenuta in molti suoi lavori, in particolare in Il «militare» nella storia cit.).

15 Anche in questo caso, come per il grafico precedente e ovviamente per le stesse ragioni, ho

utilizzato solo i dati ricavati dal Dbi e dal repertorio dell’Argegni. A differenza dell’altro, dove ogni persona viene inserita una sola volta a seconda del secolo (o parte di secolo) in cui opera, in questo si verificano frequentemente delle compresenze, anche perché chi intraprendeva la carriera delle armi spesso la portava avanti per più di un decennio. Inoltre, vista la peculiarità dei dati, è infatti più interessante avere la rappresentazione di quanti operassero in ogni periodo piuttosto di come fossero distribuiti nel corso dell’età moderna. Lo stesso vale anche per i grafici delle figure 3, 5 e 6.

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Risaltano chiaramente il picco degli anni Settanta del Cinquecento – decennio della battaglia di Lepanto – e la tendenza alla diminuzione dalla fine della guerra dei Trent’anni, già chiara dal grafico precedente, ma qui più evidente. Analizzando in dettaglio capiremo meglio le ragioni di tali movimenti.

2.1 Il Cinquecento

Il periodo delle guerre d’Italia e i condottieri italiani

È noto che le guerre d’Italia furono l’epoca d’oro dei grandi condottieri e delle compagnie di ventura italiane: espressione di una cultura militare nata nella penisola nel secolo precedente e che in questo periodo raggiunge il suo picco massimo, per poi lasciare spazio a nuove forme e modi di fare la guerra. Piero Del Negro identifica proprio la prima metà del XVI secolo come periodo in cui gli Stati europei sperimentano un «format militare di massa» (format che poi verrà ridimensionato e rivisto dopo la fine del conflitto) e contemporaneamente come momento in cui «l’ultima generazione dei condottieri italiani avrebbe giocato un ruolo di rilievo»16.

Il periodo delle guerre d’Italia è considerato centrale e determinante da quasi tutti gli storici militari. Oltre al tentativo di riorganizzazione compiuto dai grandi Stati europei ci limitiamo ad accennare – per non allontanarci troppo dall’argomento peculiare della nostra indagine - a tutti i cambiamenti avvenuti a livello tecnico; dalle fortificazioni, che vedono l’architettura bastionata diventare essenziale già all’inizio del secolo, spingendo moltissime città ad investimenti spesso eccessivamente costosi17, fino all’evoluzione delle armi da fuoco, portatili e campali, dovuta principalmente ai cambiamenti architettonici18. Più pertinente invece è la riflessione di Michael Howard che

16 P. DEL NEGRO, Guerra ed eserciti cit., pp. 6 e 10.

17 La costruzione di una più moderna cinta muraria è una delle cause della caduta di Siena: al

momento dell’attacco, nel 1555, non solo la costruzione non era ancora terminata, ma la città non aveva più denaro per assoldare truppe mercenarie per la difesa. Ne parla P. DEL NEGRO in Guerra ed eserciti cit., pag. 25.

18 La bibliografia in merito è sterminata, mi limiterò a citare un classico: Geoffrey PARKER, La

rivoluzione militare. Le innovazioni militari e il sorgere dell’occidente, Bologna, Il Mulino, 1990 (ed.

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individua la prima metà del Cinquecento come momento in cui la guerra diventa un mestiere: ci si arruola per bisogno, per sopravvivenza. Un drastico cambiamento di mentalità, secondo l’autore, rispetto alla vecchia ideologia cavalleresca che vedeva le battaglie, oltre che come un mezzo per conquistare gloria e onore, una questione per i pochi che avevano il denaro sufficiente per armare se stessi e mantenere una truppa19.

Sulle guerre d’Italia e il loro impatto non solo militare sulla società sono state scritte pagine interessantissime e fondamentali per la storia della penisola20, ma non sono argomento di questa tesi; ciò che ci interessa mettere in luce è, oltre alla loro importanza, il ruolo preminente e centrale che gli italiani ebbero sui molti campi di battaglia, non solo perché queste si combatterono a lungo sul nostro territorio, ma anche e soprattutto perché la loro fama e abilità erano note in tutta Europa.

Dopo le guerre d’Italia. Quali cambiamenti

A lungo la storiografia militare si è fermata su una teoria rivelatasi poi errata: le guerre d’Italia avevano segnato l’apogeo della classe combattente italiana, il loro allontanarsi dal territorio della penisola non avrebbe fatto altro che far declinare la componente italiana del corpo militare.

In realtà non fu così; il decennio che ha seguito la pace di Cateau-Cambrésis è stato decisamente scarso in battaglie, sicuramente almeno per quanto riguarda la penisola; di conseguenza non furono molti ad avere la possibilità di compiere imprese che li rendessero così famosi da essere inseriti nei repertori che abbiamo controllato. Ed è per questo che il grafico che mostra la quantità di uomini impegnati in attività militari nella seconda metà del Cinquecento presenta una colonna così bassa in corrispondenza degli anni Sessanta.

19 Michael HOWARD, La Guerra e le armi nella storia d’Europa, Bari, Laterza, 1978 (ed. or. War in European history, 1976).

20 Anche in questo caso citerò un solo titolo, col preciso scopo di rendere omaggio ad uno dei

fondatori di una nuova visione della storia militare italiana: Piero PIERI, Il Rinascimento e la crisi

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85 216 117 146 0 50 100 150 200 250 1560-69 1570-79 1580-89 1590-99

Figura 3. Presenza di militari italiani nei decenni della seconda metà del '500. Dati estrapolati dal Dbi e dai repertori curati da Aldo Valori e Corrado Argegni.

Gli uomini che risultano attivi negli anni Sessanta hanno incarichi di vario genere. Escludendo coloro che sono impegnati sui diversi fronti europei, ai quali ci dedicheremo in seguito, sono pochi quelli segnalati per attività svolte esclusivamente in questi anni. La stragrande maggioranza, invece, ha preso parte alle Guerre d’Italia, rimanendo poi attiva nel periodo successivo21, o, viceversa, ha cominciato a compiere i primi passi nell’ambito militare durante gli anni Sessanta e poi ha combattuto nelle grandi imprese che segnarono il decennio seguente22. Invece i militari che hanno svolto la loro attività prevalentemente in questi anni sono pochissimi e principalmente membri di eserciti in pace impegnati in piccole azioni o di controllo o di supporto, ad esempio, alle navi mercantili23. Molti altri, la cui carriera però non si riduce

21 Un esempio tra tutti è Marcantonio Colonna, nato nel 1535 a Civita Lavinia; al servizio degli

Imperiali nell’attacco a Siena del 1553, impegnato negli anni Sessanta prima con gli spagnoli e poi con l’esercito pontificio, di cui ricevette il comando e che guidò nella battaglia di Lepanto. Morì a Medinaceli nel 1584 dopo essere stato nominato vicerè di Sicilia da Filippo II. Cfr. F. PETRUCCI, Colonna Marcantonio, in Dbi, ad voc., XXVII, pp. 371-383.

22 Anche in questo caso citerò un solo personaggio, non perché sia l’unico esempio, ma perché

uno dei più emblematici: Giovanni Bembo, veneziano, nato nel 1543 da un’antichissima famiglia nobile. Cominciò la sua carriera in mare appena dodicenne, per poi essere nominato sopracomito di galera nella guerra antiturca; successivamente fu capitano della guardia a Candia, provveditore d’armata negli anni Novanta, e venne infine eletto, nel 1607, capitano generale da Mar. Cfr. G. BENZONI, Bembo Giovanni, in Dbi, ad voc., VIII, pp. 119-122.

23 Per quanto riguarda l’esercito della Repubblica di Venezia abbiamo molti nomi, ma l’unico

che non partecipa alla successiva guerra contro il Turco - per altro non per scelta, ma perché muore di scorbuto poco prima della prima azione offensiva – è Bartolomeo Celsi; appartenente

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esclusivamente a questo periodo, si impegnarono in attività contro i corsari, privatamente o sotto la bandiera di uno Stato24.

Abbiamo quindi un buon novero di nomi che riescono ad emergere con il loro mestiere anche senza necessità di essere impiegati in imprese belliche. Un numero comunque basso, se confrontato con quello degli altri decenni. Questo dato ci può portare a due conclusioni che non si elidono necessariamente a vicenda, anzi da tenere contemporaneamente presenti. In primo luogo, non è escluso che il dato non corrisponda del tutto alla realtà, considerata la mancanza di grandi conflitti bellici (se escludiamo l’inizio del lungo conflitto nelle Fiandre e il confronto che l’Impero ebbe con il Turco in Ungheria). E inoltre, per lo stesso motivo, è probabile che diversi militari non abbiano avuto la possibilità di esprimere le loro capacità in grandi imprese o di conquistare ruoli di prestigio e quindi non abbiano avuto il modo di essere inseriti nei repertori di argomento.

al patriziato di media condizione, impegnato nel Maggior consiglio dal 1554, cioè dai suoi vent’anni, e attivo in mare dal ’57, riesce a giungere fino alla carica di governatore di galera. Cfr. F. COLASANTI, Celsi Bartolomeno, in Dbi, ad voc., XXIII, pp. 470-471.

Abbiamo anche alcuni esponenti di altri illustri eserciti. Gerolamo Casati, nato presumibilmente a Milano nel 1530, cominciò la sua carriera militare a vent’anni, percorrendola brillantemente fino a diventare commissario generale della cavalleria leggera dello Stato di Milano nel 1564. Non conosciamo le motivazioni né il momento in cui decise di abbandonare questa carriera per entrare nell’amministrazione civile dello Stato: sicuramente però avvenne prima dell’inizio degli anni Settanta. Cfr. A. BORROMEO, Casati Gerolamo, in Dbi, ad voc., XXI, pp. 253-254. E per il Ducato di Savoia, Onorato Grimaldi nato nel 1520, ricoprì le prime cariche militari importanti nel 1560 con la nomina a governatore e luogotenente generale della città e contea di Nizza; nel 1573 divenne, con il figlio, cavaliere dell’Ordine cavalleresco –appena istituito - dei Ss. Maurizio e Lazzaro. Interruppe l’attività di tipo strettamente militare nel 1576 e morì a Nizza nel 1591. Cfr. B. A. RAVIOLA, Grimaldi Onorato, in Dbi, ad voc., LIX, pp. 579-580.

24 Ancora una volta mi limiterò a citare solo due persone tra le molte che intrapresero questo

tipo di attività. Paolo Ghislieri nato nella zona di Alessandria nel 1539 non ci ha lasciato quasi nessuna notizia della sua infanzia ed adolescenza, sappiamo che, imbarcato su una nave da guerra come militare, fu rapito dai corsari e tenuto prigioniero ad Algeri dove subì numerosi e gravi maltrattamenti. La sua carriera militare ricominciò al suo ritorno, prima nell’esercito pontificio –con il quale prese parte alla battaglia di Lepanto- e poi con qualche incarico per il vicerè di Napoli. Morì nel 1594. Cfr. N. PASTINA, Ghisleri Paolo, in Dbi, ad voc., LIV, pp. 63-64. L’altro esempio ci mostra una personalità di spicco dell’esercito del Regno di Sicilia, Giovanni Cardona, nato intorno al 1530 dal vicerè di Sardegna, nel 1565 era comandante delle galere del Regno di Sicilia e tre anni dopo capitano generale; con questi incarichi si impegnò molto nella lotta ai pirati barbareschi che affollavano il Mediterraneo. La sua brillante carriera nell’esercito spagnolo non si fermò certo a questi ruoli, divenne anche vicerè e capitano generale del regno di Navarra. Morì al principio del Seicento. Cfr. Cardona Giovanni, in Dbi, ad voc., XIX, pp. 792-796.

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La battaglia di Lepanto

La possibilità di lasciare il proprio nome impresso a lettere di fuoco nella storia fu invece data a coloro che presero parte alla grande battaglia navale svoltasi a circa sedici miglia dalla città di Lepanto il 7 ottobre 1571. «Non doveva esistere in quella battaglia navale di Lepanto, né ammiraglio, né avventuriero, né marinaio, né soldato, per quanto piccolo, il cui nome non fosse scritto in qualche bel foglio o libro per servire da eterno ricordo del valore di questi uomini generosi, tanto di quelli che furono uccisi tanto di quelli che si salvarono.» Questa frase, scritta non molto tempo dopo la conclusione della battaglia da Pierre de Bourdeilles, abate e signore di Brandôme, rende perfettamente l’idea dell’effetto che l’evento ebbe sui contemporanei, ma anche del valore che conservò nei secoli avvenire. Ancora oggi, dopo quattro secoli, lo scontro navale a largo delle acque di Lepanto conserva un fascino particolare che fa sì che rimanga uno dei più studiati e analizzati, nonostante i suoi risvolti concreti non siano stati in nessun modo paragonabili alle epiche parole utilizzate. Il pathos che ancora avvolge questa vicenda emerge chiaramente anche dal saggio di Athanasiadis Novas25 che, mentre parla della necessità di studi che si distacchino dalla memoria emotiva, non riesce tuttavia ad esprimersi senza evocare «magiche atmosfere». Nello stesso convegno aperto dallo studioso greco, Manlio Cortellazzo ci parla di trecento diversi cantori di Lepanto, quasi tutti appartenenti a diversi ceppi linguistici26. Forse fu proprio questo il grande risultato di Lepanto: da un punto di vista strettamente militare non portò nessun decisivo cambiamento nei rapporti tra la cristianità e l’Impero Ottomano27, e si risolse per altro in se stessa, perché non fu neppure tentato un

25 Giorgio ATHANASIADIS-NOVAS, Discorso introduttivo, in Gino BENZONI (a c.), Il

Mediterraneo cit., pp. 1-18.

26 Manlio CORTELAZZO, Plurilinguismo celebrativo, in G. BENZONI, Il Mediterraneo cit., pp.

121-126.

27 Le cause che hanno determinato la mancanza di azioni utili dopo la vittoria di Lepanto sono

molteplici. Sicuramente non mancò una spinta entusiastica iniziale per cercare di sfruttare a proprio vantaggio la situazione, ma ogni Stato aderente e non alla Lega aveva probabilmente mire di tipo diverso, o almeno una diversa concezione di come raggiungere questi obiettivi (a questo proposito vedi David y Enrique GARCÍA HERNÁN, Lepanto: el día después, Madrid, Actas, 1999). Ovviamente una delle cause principali fu il crollo della Lega, determinato sicuramente dai fattori elencati prima, ma indubbiamente – e non dobbiamo aver timore a dirlo

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inseguimento di ciò che rimaneva della flotta turca. Ma se guardiamo al cambiamento da prima a dopo la battaglia, conveniamo con Fernand Braudel quando afferma «la vittoria apparirebbe come la fine di una miseria, la fine di un reale complesso d’inferiorità, la fine di un’altrettanto reale supremazia turca»28.

Alla luce di tutti gli effetti che la battaglia di Lepanto ebbe su governi e popolazioni di tutta Europa, i nostri dati, che ci mostrano un altissimo numero di militari per gli anni Settanta del Cinquecento, appaiono più comprensibili. Dobbiamo però fare attenzione al fatto che questi non sono agevolmente confrontabili con quelli di altri decenni. Infatti la grande risonanza della battaglia di Lepanto ha fatto sì che rimanesse notizia di tutti coloro che vi parteciparono, alti ufficiali o semplici rematori che fossero, come si dice nella citazione riportata ad inizio paragrafo.

– anche dalla scelta di Venezia, la quale non solo pagò cara la decisione di entrare a farne parte, ma anche quella di uscirne, perché agli occhi dei contemporanei sembrò essere colei che aveva fatto crollare il sogno (Carlo DIONISOTTI, Lepanto nella cultura italiana del tempo, in G. BENZONI, Il Mediterraneo cit., pp. 127-152). Il crollo della coalizione era stato abbondantemente previsto dalle due grandi assenti, sicuramente anch’esse cariche di responsabilità nella mancanza di risultati: Francia e Impero ebbero i loro buoni motivi per non prendere parte alla Lega, uno tra tutti era che avevano previsto la sua breve vita e quindi la sua pressoché totale inutilità (Alberto TENENTI, La Francia, Venezia a la Sacra Lega e Adam WANDRUSZKA,

L’impero, la Casa d’Austria e la Sacra Lega; entrambi in G. BENZONI, Il Mediterraneo cit., pp

393-408 e 435-444). Oltre a tutti questi motivi, fu una vittoria strategicamente inutile anche grazie alla grandiosità degli avversari, che, è vero che non trovarono nessun impedimento a farlo, ma comunque riuscirono a ricostruire l’intera flotta per l’estate seguente (Ömer Lûtfi BARKAN,

L’Empire Ottoman face au monde chrétien au lendemain de Lépante, in G. BENZONI, Il Mediterraneo

cit., pp. 95-108).

28 Fernand BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 2002,

pp. 1182 (ed. or., La Méditerranée et le Monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, 1982⁵, 1949¹). Questa valenza emotiva ha però anche specifici risultati pratici, primo fra tutti la possibilità, per le navi cristiane, di spingersi con meno timore un po’ più a fondo nel Mediterraneo orientale (Fernand BRAUDEL, Bilan d’une bataille, in G.BENZONI, Il Mediterraneo cit. pp. 109-120), ma dette anche il coraggio a diversi capi politici e religiosi delle zone balcaniche di prendere contatto con alcuni sovrani della cristianità senza sentirsi obbligati al giogo turco (Angelo TAMBORRA, Dopo Lepanto: lo spostamento della lotta antiturca sul fronte terrestre, in G. BENZONI,

Il Mediterraneo cit. pp. 109-120). Infine la vittoria navale dette nuovi stimoli anche agli altri fronti

di lotta contro l’Impero Ottomano già incoraggiati dall’azione dello zar russo contro i Tartari (Zygmunt ABRAHAMOVICZ, L’Europe orientale et les états islamiques au temps de la bataille de

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La guerra nelle Fiandre

Ben prima di impegnarsi nella Sacra Lega per la lotta contro il Turco, Filippo II si era già trovato a dover affrontare una grave rivolta nei suoi domini nei Paesi Bassi, rivolta presto trasformatasi in una guerra che durò più di ottanta anni e contribuì almeno in parte a determinare la perdita di importanza della monarchia spagnola29.

La storia del conflitto nelle Fiandre è lunga e molto complessa, non indagheremo qui le sue origini, il suo sviluppo, le scelte affrontate e le conclusioni. Basterà dire che portò alla creazione di un nuovo stato indipendente: la Repubblica delle sette province unite e dell’Olanda, riconosciuta anche dal trattato di Westfalia del 1648 e che si trasformò in breve tempo da una ribellione locale ad un conflitto di spessore internazionale, non solo perché vi presero parte più Stati, ma anche perché tra le file dei combattenti militavano uomini delle più varie provenienze. Ci concentreremo proprio su questo aspetto; oltre a quelli della nostra indagine, gran parte delle riflessioni sul coinvolgimento italiano in questo conflitto è stata svolta sui dati forniti da Geoffrey Parker nel suo ampio lavoro sull’esercito delle Fiandre30. Per tutti questi motivi, oltre che per il fatto che fu una sorta di guerra endemica protrattasi per moltissimo tempo, il conflitto divenne in primo luogo il banco di prova della Rivoluzione militare31, ma anche una sorta di palestra per i militari

29 I fratelli HERNÁN, nella conclusione del loro già citato lavoro Lepanto: el día después (p. 162),

riflettono su come la vittoria di Lepanto dette la possibilità alla Spagna di tentare numerosi altri interventi di riorganizzazione dell’equilibrio internazionale; interventi che nella maggior parte dei casi non andarono a buon fine, ma mostrarono comunque una capacità organizzativa dell’Impero iberico, tale da permettergli di assumere per quasi tutto il secolo successivo il ruolo di arbitro incontrastato delle dinamiche internazionali. Alla fine del sanguinoso conflitto nelle Fiandre questo ruolo è ormai quasi esaurito; indubbiamente il dispendio economico e di forze che questo comportò fu centrale nel determinare la perdita di potere della monarchia, ma Parker ci invita anche a riflettere su quante e quanto differenti l’una con l’altra possano essere state le cause di questa caduta, una tra tutte il prepotente ingresso della Francia non solo nel conflitto dei Paesi Bassi, ma in generale in tutte le dinamiche “calde” della scena europea e mondiale. Cfr. Geoffrey PARKER, The Army of the Flanders and the Spanish Road 1567-1659, Cambridge University Press, Cambridge, 1972.

30 G. PARKER, The Army cit.

31 P. DEL NEGRO, Guerra ed eserciti cit., p. 55. È infatti durante il conflitto che verrà

sperimentato quanto la nuova architettura bastionata serva a trasformare la guerra in una lunga serie di assedi, o quanto ormai il successo nella battaglia dipenda in maniera considerevole dalla disponibilità di denaro.

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italiani, che vi prendevano parte per cominciare la loro carriera, utilizzandola esattamente alla stregua di un’accademia32.

A combattere per la Spagna, come accennavamo prima, erano presenti soldati di tutte le nazionalità, generalmente organizzati per provenienza: la fanteria spagnola, quella tedesca, inglese, italiana, borgognona e quella dei valloni; mentre la cavalleria leggera e quella pesante erano a formazione plurinazionale33. Generalmente si attribuiva ad ogni nazionalità una caratteristica ben precisa; Parker ci riporta i giudizi su alcune: i migliori moschettieri erano valloni, ai tedeschi si riconosceva la capacità di essere assolutamente affidabili nelle avversità, mentre gli spagnoli erano considerati i più coraggiosi e i più arditi34.

I primi italiani fecero la loro apparizione sui campi di battaglia nel 1580, ma erano un numero decisamente esiguo, la vera forza giunse nel 1582. Inizialmente non godettero di buona fama, anzi, erano considerati al pari delle truppe native, e come queste utilizzate, sembra, solo in caso di necessità35. In realtà i militari provenienti dalla penisola riuscirono in breve tempo a farsi un nome e dimostrare il proprio valore, e in soli dieci anni giunsero ad un’altissima considerazione, inferiore solo a quella degli spagnoli36.

Concentriamoci adesso sui numeri. I militari provenienti dalla penisola italiana erano raggruppati in un unico gruppo, la fanteria italiana, appunto. Recuperando i dati dalle ricerche di Parker, possiamo calcolare la rilevanza che questa aveva in percentuale sul totale dell’armata presente nelle Fiandre.

32 Claudio DONATI, Il “militare” nella storia dell’Italia moderna dal Rinascimento all’età napoleonica,

in C. DONATI (a c.), Eserciti e carriere cit., pp. 21-22.

33 G. PARKER, The Army cit., appendice B.

34 Ivi, pp. 31-32.

35 Le truppe composte da nativi del luogo in cui si combatteva erano generalmente considerate

inaffidabili perché al loro interno erano più frequenti e massicci i casi di diserzione. LuisRIBOT GARCÍA, Las naciones en el esercito de los Austrias, in Antonio ÁLVAREZ-OSSORIO ALVARIÑO y Bernardo J. GARCÍA GARCÍA (a c.), La Monarquía de las naciones. Patria, nación y naturaleza en

la Monarquía de España, Madrid, Fundación Carlos Amberes, 2004, p. 667. 36

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Gli italiani sono una delle sei componenti dell’esercito spagnolo e la loro presenza si aggira intorno al 7 %, con alcuni picchi nel primo e nel secondo decennio del XVII secolo.

Data Fanteria

Italiana dell’armata delle Totale uomini Fiandre Percentuale degli italiani 1580 384 45435 1% 1582 4754 61162 8% 1588 5339 63455 8% 1591 2421 62164 4% 1607 3679 41471 9% 1609 2613 15259 17% 1611 2118 14661 14% 1619 1833 29210 6% 1620 4126 44200 9% 1623 3907 62606 6% 1624 8212 71288 12% 1627 4137 69340 6% 1633 3793 52715 7% 1640 3872 88280 4% 1643 3348 77517 4% 1647 2415 65458 4% 1661 1179 33008 4%

Tabella 1. Dati sulla presenza dei militari italiani nelle Fiandre. Da G. PARKER, The Army cit., appendice A.

Possiamo supporre che fossero presenti anche altri italiani, non necessariamente inclusi nella fanteria omonima. La monarchia iberica estendeva il suo dominio su gran parte dell’Italia; addirittura, all’interno della fanteria spagnola, troviamo i tercios siciliano, napoletano e lombardo, chiamati così dal luogo di partenza delle truppe. È possibile che, dato che alcuni punti di raccolta si trovavano in terra italiana, vi fosse coinvolto anche qualche nativo. Sono comunque ipotesi difficilmente verificabili all’attuale stato di conoscenza delle fonti e rimarranno quindi tali.

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Presenza italiana nell'armata delle Fiandre 0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 15 80 15 82 15 88 15 91 16 07 16 09 16 11 16 19 16 20 16 23 16 24 16 27 16 33 16 40 16 43 16 47 16 61

Figura 4. Andamento della presenza italiana nelle Fiandre. Dati in percentuale ricavati dalla tabella 1.

Un ultimo sguardo a queste cifre ci può portare, ancora una volta, ad una riflessione sulla scarsità delle fonti relative ai militari italiani in età moderna: la cifra totale della fanteria italiana in tutto il conflitto delle Fiandre è di poco inferiore al totale dei militari da me rintracciati nei tre repertori.

Alcuni grandi condottieri dell’armata delle Fiandre furono italiani: le esperienze di Alessandro Farnese37, Ambrogio Spinola38 e Giorgio Basta39 sono

37 Alessandro Farnese (Roma 1545-Arras 1596), figlio di Ottavio Farnese duca di Parma,

Piacenza e Castro e di Margherita d’Austria, figlia naturale di Carlo V. Partecipò a Lepanto con le truppe di Don Juan d’Austria e poi fu suo luogotenente con l’incarico di occuparsi delle truppe di stanza in Italia in attesa di essere mandate nelle Fiandre. Nel 1578, alla morte di Don Juan assunse la carica di governatore dei Paesi Bassi e la conservò per soli due anni, quando Filippo II gli lasciò solo il comando militare. Nell’’86 divenne duca, ma continuò a rimanere nelle Fiandre lasciando come reggente il suo primogenito Ranuccio. Comincia a scendere nella considerazione della corte spagnola dopo la sconfitta dell’Invincibile Armata, morirà durante un viaggio in Francia compiuto per combattere Enrico IV e per la precisa volontà del sovrano spagnolo di tenerlo lontano dai campi di battaglia. Cfr. L. VAN DER ESSEN, Alessandro Farnese, in Dbi, ad voc., II, pp. 219-230.

38 Ambrogio Spinola (Genova 1569 - Castelnuovo 1630) appartenente ad una delle più

importanti famiglie genovesi, combatté nelle Fiandre dai primi anni del XVII secolo, dal 1604 al 1625 fu comandante generale dell’armata. Successivamente tornò in Italia dove fu governatore di Milano negli anni 1629 e ’30 ed ebbe il comando della guerra del Monferrato.

39 Giorgio Basta (Rocca 1540 – Troppau ? 1612) cominciò giovanissimo la carriera militare,

riuscendo quindi ad adeguarsi molto facilmente a tutti i cambiamenti che stavano investendo gli eserciti in quegli anni. Arrivò nelle Fiandre negli anni ’70 e fu Alessandro Farnese a notarlo e a farne uno dei suoi più stretti collaboratori. La sua carriera fu brillante, ma come molti altri fedeli compagni del duca di Parma, fu costretto ad abbandonare l’esercito spagnolo alla sua morte. Per un ventennio combatté nell’esercito imperiale fino al 1606 quando si ritirò a vita privata per darsi all’elaborazione di diversi trattari di tecnica militare. Cfr. G. DE CARO, Basta

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largamente note; ma vorrei qui parlare di altri militari, sicuramente più sconosciuti, ma forse proprio per questo anche più interessanti.

Uno è Niccolò Guidi di Bagno, figlio del marchese di Montebello, nato a Rimini nel 1584; cominciò la sua carriera militare nell’esercito pontificio, ma per la prima esperienza bellica dovette attendere la guerra del Monferrato nel 1616, combattendo per l’esercito spagnolo. Partecipò alla guerra delle Fiandre non sappiamo bene in quale periodo, ma per non più di quattro anni, conquistando il grado di colonnello. Al ritorno in Italia tornò a militare per l’esercito pontificio con il quale partecipò alla guerra di Castro come luogotenente generale delle armi di Ferrara, Bologna e Romagna, limitandosi però alla cura delle retrovie. La sua carriera si concluse qui, quando, alla morte del fratello, riprese gli studi e poi scelse di prendere i voti. Morì nel 1663 a Roma40. Niccolò Guidi di Bagno è uno dei molti italiani non provenienti da stati sudditi della monarchia spagnola, e la sua breve e limitata esperienza nelle Fiandre sembra dimostrare la tesi di Claudio Donati secondo cui tale guerra era intesa dall’aristocrazia italiana come una palestra di tecnica bellica41.

Un’altra vicenda ancora più interessante e sicuramente curiosa è quella che vede protagonista Andrea Casali, giovane bolognese, nato nel 1584 e diventato senatore all’età di sedici anni. Questa carica sarà da lui abbandonata solo dopo due anni, probabilmente anche a causa di un fatto di sangue in cui era stato coinvolto e che l’aveva portato ad essere interdetto dalle cariche pubbliche. Nel 1603 si fece attirare dal forte richiamo della guerra delle Fiandre e si arruolò come venturiere nell’esercito spagnolo; arrivò sul campo di battaglia nel febbraio dell’anno successivo, ma morì colpito da un’archibugiata a luglio dello stesso anno. La notizia giunse a Bologna insieme ad un testamento che rendeva erede universale del defunto il cugino Michele che lo passò a suo figlio insieme anche al seggio senatorio che era stato di Andrea. È adesso che la vicenda diventa curiosa: dopo circa tre anni cominciarono a giungere alla famiglia lettere di Andrea Casali che chiedeva di essere riscattato. Viste le testimonianze

40 Cfr. G. BRUNELLI, Guidi di Bagno Niccolò, in Dbi, ad voc., LXI, pp. 341-346. 41

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dei compagni sul campo di battaglia, le lettere furono considerate un falso, ma dopo circa una decina d’anni giunsero altre notizie di un uomo, schiavo ad Algeri, che sosteneva essere il senatore Casali. A questo punto alcuni parenti cominciarono a ricercare le testimonianze di compagni d’arme che l’avessero visto morire, mentre nel 1634 il presunto senatore giungeva a Roma e cominciava le pratiche per il riconoscimento. Cominciò un processo che durò tre anni e alla fine del quale l’imputato fu giudicato colpevole di aver assunto una falsa identità e rinchiuso nel carcere di Civitavecchia, dove morì nel 163942. L’autore della voce del Dbi si dichiara abbastanza sicuro della veridicità delle affermazioni dell’imputato parallelamente ad una chiara volontà della corte di condannarlo43. Come il Guidi di Bagno anche Casali non proviene dai domini spagnoli, ma la sua scelta di partecipare alla guerra delle Fiandre sembra determinata non tanto dalla necessità di fare esperienza bellica, quanto piuttosto dalla voglia di avventura.

Studiare i casi che abbiamo rintracciato nel corso di questa indagine può aiutare a formarci un’idea di quali erano le motivazioni che spingevano gli italiani di età moderna ad affrontare un certo tipo di carriera: le storie a nostra disposizione non sono molte, visto che l’Argegni e il Valori per ogni voce forniscono solo le informazioni essenziali, ma almeno quelle del Dbi sono abbastanza variegate e approfondite da permetterci un buon grado di analisi. Sfortunatamente sarà abbastanza difficile riuscire ad avere la stessa panoramica anche per i soldati semplici, le cui biografie all’interno del Dizionario sono veramente scarse.

42 Vicende di questo tipo non dovevano essere infrequenti in età moderna. Il caso di un altro

scambio di identità è quello narrato da Natalie ZEMON DAVIS in Il ritorno di Martin Guerre. Un

caso di doppia identità nella Francia del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1984 (ed. or. Le retour de Martin Guerre, 1982).

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2.2 Il Seicento 0 50 100 150 200 250 300 350 400 450 500 1600-09 1610-19 1620-29 1630-39 1640-49 1650-59 1660-69 1670-79 1680-89 1690-99

Figura 5. Presenza dei militari italiani nei decenni del Seicento.

Dati estrapolati dal Dbi e dai repertori curati da Corrado Argegni e Aldo Valori.

La Guerra dei Trent’anni

Stando alle affermazioni di Piero Del Negro, la guerra dei Trent’anni può essere considerata l’ultimo conflitto di tipo religioso e paradossalmente anche l’apoteosi della guerra basata su un vero e proprio mercato militare, dove erano più seguiti gli interessi professionali dei grandi combattenti piuttosto che le loro appartenenze nazionali o religiose44. È questo il periodo di massimo fulgore degli imprenditori militari: grandi e ricchi condottieri che si mettevano agli ordini del proprio sovrano accollandosi oneri e spese della formazione di un esercito e generalmente ricevendo in cambio onori, titoli e terre.

Il più famoso di questa nuova generazione di condottieri fu sicuramente il Wallenstein, la cui indubbia abilità guerriera fu forse la ragione principale, ma sicuramente non l’unica, della sua strabiliante ascesa sociale e allo stesso tempo anche la motivazione che segnò la sua fine45. Fine cui contribuirono anche due illustri generali italiani: Ottavio Piccolomini46 e Mattia Galasso47.

44 P. DEL NEGRO, Guerra ed eserciti cit. pp. 61-62.

45Albrecht von Waldstein (1583-1643), appartenente alla nobiltà minore boema, aveva raggiunto

posizioni più elevate grazie al matrimonio, alla partecipazione alla campagna del 1605 contro i protestanti d’Ungheria e Transilvania e all’acquisizione di terre sequestrate ai protestanti

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Piccolomini e Galasso fanno parte del grandissimo numero di italiani che militarono in Germania, prevalentemente tra le file imperiali. Come vediamo anche dal grafico in apertura di paragrafo, la quantità di militari italiani attivi cresce notevolmente proprio nei decenni della guerra dei Trent’anni, per raggiungere un picco massimo negli anni Quaranta (giustificato anche dalla guerra di Castro che si svolge proprio in questi anni e di cui ci occuperemo in seguito).

In tutti gli Stati della penisola, come fu per i Paesi Bassi, anche questo conflitto esercitò una forte attrattiva: «la guerra in Germania appare come il nuovo palcoscenico del valore militare aristocratico, al pari delle Fiandre alla fine del Cinquecento»48. Dallo Stato della Chiesa partirono molti rampolli della grande e piccola nobiltà, ancora poco interessati ai tentativi di papa Barberini di trattenere le forze militari per l’esercito “di casa”.

boemi; ma la vera ascesa iniziò nel 1625 con la concessione, da parte dell’imperatore Ferdinando II del titolo di duca di Friedland e il compito di reclutare e guidare un esercito. Furono però la sua grande ambizione e il suo perseguire un’ambigua politica personale a segnare la fine dei suoi successi: l’imperatore, non fidandosi più del suo comandante e dell’immenso esercito che guidava, chiese ai suoi generali di assassinarlo. Cfr. P. DEL NEGRO, Guerra ed eserciti cit., pp. 62-65.

46 Ottavio Piccolomini (Pisa 1599 – Vienna 1656) cominciò la sua carriera militare nel 1616 al

servizio dell’Impero nelle campagne di Ungheria e Boemia; nel ’23 ritornò in Italia al soldo della Spagna, per poi rientrare nelle file imperiali, sotto il Wallenstein, nel 1627. La sua carriera proseguì incessante, ma quando il comando supremo fu affidato al Galasso, ritornò al servizio della Spagna, militando per quattro anni nella guerra delle Fiandre. Infine come comandante in capo seguì l’ultima campagna della guerra dei Trent’anni e partecipò alle trattative della Pace di Westfalia. Cfr. Thomas M. BARKER, Army, Aristocracy, Monarchy. Essays on War, Society and

Government in Austria. 1618-1780, Columbia University Press, New York, 1982.

47 Mattia Galasso (Trento ? 1584 – Vienna 1647) all’epoca della Defenestrazione di Praga era già

capitano e comandante della fortezza di Riva: al principio della guerra si arruolò nella Lega cattolica, ma nel 1629 passò al servizio imperiale, dopo essere già stato nominato barone dall’imperatore due anni prima, senza neppur attendere che la sua richiesta di abbandono della Lega fosse approvata. Una delle ragioni principali del trasferimento stava anche nella richiesta esplicita che il Wallenstein aveva fatto per averlo al suo fianco. Negli anni il sodalizio col generalissimo dell’esercito imperiale aumentò fino a quando, nel 1633, a riprova della fiducia che nutriva in lui, lo fece nominare generale luogotenente; anche per questo è probabile che il Galasso fosse a conoscenza dei piani di ribellione all’imperatore del nobile boemo. Fatto sta che fu comunque lui a prendere provvisoriamente il suo posto al comando delle forze imperiali quando il Wallenstein fu destituito. Rimase in carica, godendo del favore della casa imperiale, fino al 1645, per poi essere richiamato un anno dopo e sfortunatamente dover rinunciare al comando per malattia dopo pochi mesi. Cfr R. BECKER, Galasso Mattia, in Dbi, ad voc., LI, pp. 355-359.

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Emblematico è il caso del Granducato di Toscana: la necessità di mostrarsi all’Europa come uno Stato forte, con velleità di dominio su tutta l’Italia centrale, passava anche dall’impegno militare. Fu così che quando scoppiò la guerra dei Trent’anni e l’Imperatore chiese l’aiuto di tutti i principi della cristianità, Cosimo II rispose mandando un contingente in terra tedesca che giunse nel 1619. Nel Granduca era viva la speranza di ricevere in cambio del suo contributo almeno qualche aiuto per aggiungere ai suoi territori Piombino o l’isola d’Elba ma, non vedendo alcun cenno in proposito da parte dell’imperatore, il contributo delle truppe toscane non fu rinnovato dopo i primi sei mesi. Questo però non implicò una scomparsa dei toscani dai campi di battaglia europei, semplicemente un «forte cambiamento di rotta nell’atteggiamento militare mediceo, dovuto non solo alla necessità di commisurare le disponibilità dello stato ai pressanti bisogni economici interni, ma anche a un modo diverso, sempre più politico, di concepire la partecipazione alla guerra»49.

Furono infatti le reggenti, le Granduchesse Maria Maddalena d’Austria e Cristina di Lorena, ad impostare il nuovo metodo di partecipazione alla guerra del Granducato, facendo sì che la Toscana fornisse comunque il suo contributo senza eccessive spese da parte del governo, incoraggiando quindi l’aristocrazia, non solo fiorentina, ad andare sui campi di battaglia e mandando, come esempio, gli stessi membri della famiglia Medici. Mattias e Francesco, fratelli di Ferdinando II, partirono nel 1632 per raggiungere l’esercito imperiale; combatterono sotto il Wallenstein, sempre seguiti dalle attenzioni di Ottavio Piccolomini (era infatti cura del Granduca far sì che i principi toscani che andavano a combattere fossero sempre accompagnati da un militare esperto, anche a livello tecnico). Per i due fratelli il momento di dividersi per aver modo di giungere entrambi al grado di colonnello e arrivare quindi ad aumentare l’influenza toscana nell’esercito imperiale, sembrava giunto in occasione della

49 Carla SODINI, L’Ercole tirreno. Guerra e dinastia medicea nella prima metà del Seicento, Firenze,

Olschki, 2001, p. 6. La maggior parte delle informazioni a proposito del Granducato di Toscana sono ricavate da quest’opera, una delle più recenti sul coinvolgimento militare della famiglia Medici nel XVII secolo.

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morte del generalissimo; Francesco, però, morì di peste durante l’assedio di Ratisbona. Mattias cercò di proseguire la sua carriera, ma non fu foriera di successi così come ci si aspettava a Firenze: in parte perché non riuscì mai ad abituarsi alla nuova morale della guerra, così poco cavalleresca e apparentemente priva di onore, ma anche perché il nuovo imperatore, Ferdinando III, non sembrava nutrile la stessa stima del padre per gli stranieri. Indipendentemente dal giudizio degli imperatori, sembra che la considerazione degli italiani non fosse molto alta tra i membri delle truppe in Germania: «un sentimento diffuso di ostilità dei tedeschi contro gli italiani che continuerà per tutto il tempo della guerra. Venivano considerati poco coraggiosi e bastava un niente perché la loro reputazione fosse intaccata»50: lottare contro i pregiudizi era infatti uno dei più ardui compiti dei soldati.

Le guerre sul territorio della penisola

Quando nell’aprile 1613 Carlo Emanuele di Savoia attaccava il Monferrato per vedersi riconosciuto il diritto di successione sul ducato di Mantova, il suolo italiano non vedeva una guerra da almeno mezzo secolo. In questo caso, per altro, l’iniziativa era stata presa da un sovrano “interno” e, almeno inizialmente, sembrava non vi fosse alcuna ingerenza – o aiuto – da parte di nessuna potenza straniera. In realtà la Spagna intervenne molto presto a fianco del piccolo Ducato; anche Venezia volle mandare aiuti economici, ma quando fu il momento di decretare la propria neutralità (richiesta dalla Spagna per poter attaccare la Savoia) non si espresse; la contesa si risolse, comunque, nel 1615 con il Ducato di Mantova che restava al fratello del defunto duca, Ferdinando Gonzaga.

Dopo poco più di dieci anni si ripropose esattamente la stessa situazione. Ferdinando morì nel 1626 e suo fratello Vincenzo nel 1627, la successione si presentava adesso molto complicata: il designato era Carlo di Gonzaga-Nevers del ramo francese della famiglia e la Spagna non poteva tollerare tale presenza. Nel 1628 truppe sabaude e spagnole (dal ducato di Milano) entrarono nel

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Monferrato; all’inizio del 1629 scendevano anche quelle francesi, a marzo fu stipulata una Lega che vedeva coinvolte Francia, Repubblica di Venezia, ducato di Mantova, Stato della Chiesa e addirittura il ducato di Savoia, strappato all’accordo con la Spagna. Ancora una volta, come per le guerre d’Italia, il territorio era italiano, ma lo scenario europeo. Spagna e Impero si divisero i compiti, Ambrogio Spinola scese appositamente per gestire il “versante spagnolo”, ma insieme alle truppe imperiali penetrò nella penisola anche la peste. Le trattative di pace ebbero la sanzione definitiva nel 1631 a Cherasco, papa Urbano VIII vi figurava come l’artefice principale: la Francia otteneva Pinerolo, l’Impero abbandonava la Valtellina e la Savoia otteneva qualche terra nel monferrino, ma rinunciava alle sue pretese sul ducato di Mantova.

La partecipazione di soldati italiani a questi episodi bellici è indubbiamente molto alta. E in particolare è alta la presenza di veri e propri eserciti assoldati dagli stessi stati: il 1613 fu l’occasione, per Cosimo II di mettere in mostra la sua volontà di potenza. La spedizione fu guidata da Francesco, fratello del Granduca ed ebbe molto successo, finendo per «offrire a Cosimo II la possibilità di presentarsi agli altri signori d’Italia come “principe guerriero” ed accrescere la reputazione dell’esercito toscano»51.

Per altro fu anche l’occasione di passare in mezzo alla Garfagnana, dove si stava svolgendo una piccola, ma non ininfluente, guerra volta a ridefinire i confini tra Lucca e Modena, di cruciale importanza per le vie di transito.

Come già detto, i Granduchi mandavano in guerra i loro parenti sempre affiancati da ufficiali di chiara esperienza; insieme a Francesco nel Monferrato c’era infatti, tra gli altri, Biagio Capizzucchi, generale di indubbia fama e pratica che aveva combattuto nella marina pontificia a Lepanto, nelle Fiandre con Alessandro Farnese, per poi tornare al servizio del pontefice ad Avignone. Rientrato in Toscana e ricevuto il feudo di Pontieri, aveva accettato la nomina a generale della cavalleria e con questo ruolo aveva accompagnato Francesco de Medici nella conduzione dell’impresa del Monferrato, anche se era poi stato

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richiamato nello stesso anno per presidiare le spiagge della Repubblica di Lucca in attesa di uno sbarco sabaudo mai avvenuto52.

Gli interventi armati in Monferrato sono quindi ancora un’occasione per i militari italiani di dare prova della loro abilità e allo stesso tempo anche di mostrare che gli stati della penisola hanno degli eserciti che, se anche non possono competere direttamente con quelli delle grandi potenze, sono ottimamente organizzati e non solo sotto l’aspetto difensivo.

Un’altra guerra a lungo ignorata, ma recentemente rivalutata nella sua importanza per vari motivi, non ultimo quello di essere l’ultima combattuta sul suolo italiano per un lunghissimo periodo, è quella nata per il controllo di un piccolo feudo dell’alto Lazio. La guerra di Castro vede Urbano VIII occupare con le sue truppe il feudo, appartenente ai Farnese, nel 1641 e immediatamente gli altri stati italiani reagire contro l’azione pontificia. Dopo tre anni il Papa fa rientrare le truppe dai domini farnesiani, abbandonando quindi i suoi propositi, ma l’uccisione del vescovo di Castro nel 1649 sarà la causa di un nuovo intervento papale che porterà alla distruzione della città e alla sua annessione allo Stato della Chiesa. Fu una guerra indubbiamente determinante per gli assetti interni della penisola, non tanto da un punto di vista territoriale, quanto piuttosto perché fu una prova decisiva per le politiche militari degli stati regionali53 che proprio in quei decenni stavano cambiando.

Contro l’invasione di papa Barberini si mobilitarono il Granducato di Toscana, la Repubblica di Genova e il Ducato di Mantova. Carla Sodini ci illustra la precisa volontà di Ferdinando II di costituire una sorta di lega di stati italiani contro papa Urbano VIII «il destabilizzatore»: per la Toscana fu una scelta estremamente fruttuosa, non solo perché fu una vittoria, ma soprattutto perché lo fu dal punto di vista politico; allo stesso tempo, però, rappresentò un investimento eccessivo per le casse toscane: fu infatti l’ultima volta che il Granducato armò un suo proprio esercito54. Al contrario, per lo Stato della

52 Cfr. M. GIANSANTE, Capizzucchi Biagio, in Dbi, ad voc., XVIII, pp. 560-564. 53 G. BRUNELLI, Soldati del Papa cit., in particolare il settimo capitolo.

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Chiesa fu una disfatta totale, testimonianza del fallimento della politica militare del Barberini, l’esercito non era pronto: troppi erano gli ufficiali ancora impegnati per altre potenze. Fu l’ultima grande apparizione del papato come soggetto politico con forti connotazioni temporali55.

Le guerre di Venezia

La Repubblica di San Marco è uno degli stati della penisola più impegnati in attività belliche nel XVII secolo, nonostante il suo attento perseguimento della neutralità. Infatti Venezia era riuscita a rimanere fuori dalla guerra dei Trent’anni, e il suo coinvolgimento nella guerra di Castro, seppur non ininfluente, era stato breve, economicamente non disastroso e comunque di successo. Ciò che invece non riuscì a evitare fu lo scontro con l’Impero Ottomano per l’isola di Candia, una guerra durata ventiquattro anni e cominciata non per una diretta azione della Serenissima, ma per un’aggressione ad un galeone turco da parte di alcune galere dei cavalieri di Malta. La Porta credette subito che fosse coinvolta anche Venezia, o comunque valutò che non c’era momento migliore per predisporre un attacco all’isola di Candia; infatti le maggiori potenze europee erano occupate nella fase finale della guerra dei Trent’anni e la Chiesa era in rapporti talmente pessimi con la Serenissima che sicuramente non le avrebbe dato il suo aiuto.

Come previsto, Venezia si trovò praticamente sola a fronteggiare l’aggressione turca, anche con discreti successi, come la vittoria navale ai Dardanelli nel 165756. Contemporaneamente, però, erano continuate sin dal 1645 le trattative per la pace, cui però non si trovava una fine perché la Serenissima si rifiutava di cedere alle richieste dell’Impero che pretendeva l’intera isola.

55 G. BRUNELLI, Soldati del papa cit., p. 245 e sgg.

56 La Repubblica di San Marco non fu totalmente sola in queste battaglie: ai Dardanelli erano

presenti cinque navi mandate da Alessandro VII per soccorrere Candia, agli ordini del commissario e luogotenente Giovanni Bichi, che già aveva partecipato alla difesa dell’isola come comandante di una galera dell’Ordine Gerosolimitano (Cfr. G. DE CARO, Bichi Giovanni, in Dbi, ad voc., X, pp. 349-351). Tra i componenti della flotta pontificia appare anche Lorenzo Adami, comandante di vascello, di cui sfortunatamente sappiamo ben poco oltre al fatto che fu nativo di Fermo e prese parte alla guerra di Candia. (Cfr. Adami Lorenzo, in Dbi, ad voc., I, pp. 236-237).

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A partire dagli anni Sessanta giunsero i primi aiuti. La Francia mandò infatti quattromila uomini comandati dal generale modenese Almerico d’Este57, i quali però servirono a ben poco: furono quasi totalmente decimati dalle malattie insieme al loro comandante.

Fu nel 1667, dopo aver coraggiosamente fronteggiato un attacco, che Venezia si rese conto che non avrebbe sicuramente retto al secondo e chiese disperatamente aiuto. Moltissimi volontari si recarono spontaneamente a portare il loro contributo alla Repubblica e infine anche i principi europei si decisero ad appoggiare concretamente: in molti mandarono aiuti economici o dettero a Venezia il permesso di reclutare uomini nelle loro terre, altri invece si impegnarono con veri e propri contingenti: la Savoia mandò 500 uomini58, l’Ordine Gerosolimitano sessantatre cavalieri e più di trecento armati e infine papa Clemente IX, oltre a notevoli agevolazioni al reclutamento nei suoi territori e ad un cospicuo donativo, inviò anche una flotta di cinque navi, ma pretese anche che il comando della guerra passasse al suo generale, facendo quindi in gran parte scemare l’ardore veneziano, che fino a quel momento si basava molto sull’orgoglio di aver fronteggiato praticamente da sola l’Impero Ottomano.

Gli aiuti contribuirono in qualche modo a dare un po’ di respiro alla flotta veneziana, tuttavia nel 1669 non c’era più alcuna speranza: l’unica soluzione era capitolare prima che le condizioni per la pace diventassero troppo dure. Questa infatti arrivò, comportò la perdita di Candia, ma la conquista delle zone

57 Il giovane modenese (nato nel 1641) aveva già ottenuto il brevetto di luogotenente generale

dell’esercito da Luigi XIV nel 1658, ma si era dimesso dal ruolo alla fine della guerra. Su volontà del fratello duca e dello zio cardinale Rinaldo, al fine di rafforzare i legami con la corona di Francia, si cercò di combinargli un matrimonio interessante, ma il cardinale Mazzarino trovò più utile impiegarlo per guidare le truppe dirette in aiuto della Repubblica di Venezia: l’idea era infatti quella che un comandante non francese avrebbe creato meno problemi nei rapporti tra la Francia e l’Impero Ottomano. (Cfr. P. PORTONE, Este Almerico, d’, in Dbi, ad voc., XLIII, pp. 314-315).

58 Molti di questi uomini inviati dal duca di Savoia in aiuto alla Repubblica di Venezia sono

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occupate dai veneziani in Dalmazia e Albania. La Repubblica ne uscì stremata: aveva dato tutto e trenta mila morti (di cui 280 patrizi) per niente59.

Dopo questa esperienza la Repubblica di San Marco si prodigò se possibile ancora di più per mantenere sempre una costante neutralità, anche a discapito di tutte le pressioni, in particolare della Francia di Luigi XIV. Non poté però evitare di prendere parte nel 1684 alla sacra lega, istituita con l’intento di dare al Turco il colpo di grazia dopo quello inflittogli dall’Impero all’assedio di Vienna del 1682.

Nell’ ’86, sotto la guida di Francesco Morosini, tremila veneziani e tedeschi, centoventi cavalieri di Malta, soldati toscani e dell’esercito pontificio muovevano alla conquista della Morea; contemporaneamente il resto della lega si occupava dell’Impero Ottomano sull’altro versante. Nel ’90 la Morea era conquistata, ma le vittorie sul fronte danubiano subivano invece una battuta d’arresto, permettendo subito al Turco di riconquistare la Serbia e Belgrado. Le battaglie decisive per le sorti della guerra saranno sia quelle guidate dal grande condottiero Eugenio di Savoia, che il combattimento navale ai Dardanelli. Nel 1699 sarà conclusa la pace di Karlowitz con la quale l’Impero asburgico riotteneva Ungheria e Transilvania, ma anche la Serenissima tornava con nuove e importanti acquisizioni.

Le guerre di Venezia - se così possiamo chiamarle - della seconda metà del XVII secolo, coinvolsero quindi tutta la cristianità: anche se in alcuni casi i principi furono inizialmente restii a dare il loro contributo, sicuramente furono moltissimi i volontari che accorsero autonomamente60.

Secondo Bercé, Venezia, così come Roma, grazie alle sua volontà espansionistica incarna l’idea della libertà italiana, ma solo fino alla metà del

59 In questo clima di sfiducia generalizzata fu anche intrapreso un lungo processo contro il

comandante dell’esercito da Mar, Francesco Morosini, accusato, non solo di aver intrapreso le trattative per la pace senza l’approvazione del Senato, ma anche di non aver voluto continuare la guerra per viltà. L’imputato fu però assolto ed avrà modo di dare ancora prova della sua bravura ed esperienza.

60 «Spiriti avventurosi e generosi si erano offerti volontariamente di militare a Candia al servizio

della Repubblica» Gaetano COZZI, Politica, società, istituzioni, in Gaetano COZZI, Michael KNAPTON, Giovanni SCARABELLO, La Repubblica di Venezia nell’età moderna, Torino, UTET, 1992, vol. 1, p. 125.

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secolo, quando, sempre secondo lo storico francese, finisce la vocazione militare di tutta la penisola61. Questa affermazione sembra contrastare con quanto detto finora, indubbiamente è vero che Venezia tentò di mantenersi neutrale il più a lungo possibile, e sicuramente la sua «vocazione espansionistica» nella seconda metà del Seicento era forse un po’ ridimensionata rispetto al periodo precedente; questo però non implica necessariamente che scompaia tutta la sua tradizione militare: la sua potenza, come la sua capacità bellica rimangono indubbie, come dimostrano la vittoria dei Dardanelli del ’57 e la conquista della Morea. Probabilmente il cambiamento degli assetti internazionali e la comparsa di fortissimi eserciti nazionali così come il progressivo aumento dei costi della guerra, portarono la Serenissima a valutare i suoi interventi bellici con molta più cautela. Non è improbabile estendere questo discorso a tutti gli altri stati italiani «indipendenti» della penisola: ormai il confronto con le altre entità statali europee cominciava ad essere decisamente sproporzionato.

2.3 Il Settecento

Il ruolo degli Stati italiani negli sconvolgimenti dell’assetto militare europeo

Com’è noto, il Settecento fu un secolo ricco di guerre, vide l’affermarsi di nuove potenze e la comparsa di nuovi scenari bellici, oltre al fatto che contribuì a cambiare notevolmente l’assetto politico del vecchio continente. Si susseguirono, infatti, a brevissima distanza l’una dall’altra, le guerre di successione spagnola, polacca, austriaca e la guerra dei Sette anni.

Il cambiamento degli assetti di potere sulla penisola fu veramente straordinario, ma, a parte questo, il ruolo degli Stati italiani non fu molto rilevante, se non addirittura nullo in certi casi. La guerra di successione per il trono di Spagna vide la partecipazione del Ducato di Savoia, unico Stato della penisola (tra quelli indipendenti), schieratosi prima con Francia e Spagna e successivamente con la Triplice Alleanza (Inghilterra, Olanda, Impero e in un secondo momento

61 Yves-Marie BERCÉ, Les guerres dans l’Italie du XVIIe siècle, in Yves-Marie BERCÉ, Gérard

DÉLILLE, Jean-Michel SALLMANN, Jean-Claude WAQUET, L’Italie au XVIIe siècle, Sedes, Paris, 1989, pp. 313-331.

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anche Portogallo) e il guadagno fu la Sicilia, col relativo titolo di re per Vittorio Amedeo II. Nel 1720, cioè sette anni dopo, l’Impero e la Savoia organizzarono uno scambio, affatto paritetico, la Sardegna per la Sicilia, che però permise al duca di conservare il titolo di re e alla Savoia di diventare Regno di Sardegna. La guerra portò anche ad un drastico cambio della potenza dominante in Italia: tutti i possedimenti spagnoli, ad esclusione, ovviamente, della Sicilia passarono in mano austriaca.

La guerra di successione polacca, che vide l’affermarsi della Prussia come nuova grande potenza, non si avvantaggiò della partecipazione militare di nessuno Stato italiano, ma alla sua conclusione la Toscana passava dai Medici, ormai estinti, a Francesco Stefano di Lorena, marito di Maria Teresa d’Austria, che venne dichiarato imperatore alla fine della guerra di successione austriaca, a cui di nuovo non prese parte nessun dominio della penisola.

Infine gli stati italiani furono esclusi anche dalla guerra dei Sette anni, fondamentale per molti fattori tra i quali le battaglie svoltesi nei domini coloniali che dettero al conflitto una dimensione realmente moderna e anche la scoperta dell’incredibile forza dell’esercito prussiano.

Sembra quasi che il Settecento abbia portato ad una totale perdita di capacità politica internazionale degli stati italiani: scelsero di rimanere fuori dai grandi conflitti che aprirono il secolo, ma vi furono comunque coinvolti, divenendo in alcuni casi anche termini di scambio. Allo stesso tempo però non possiamo parlare di una crisi italiana: il XVIII secolo è sicuramente carico di idee, innovazioni e cambiamenti delle normali dinamiche stali. Si entra quindi, a mio parere, in un apparente conflitto che si rispecchia palesemente anche nella situazione strettamente militare: gli Stati indipendenti non prendono più parte autonomamente alle guerre, ma l’impegno bellico dei singoli (persone, ma anche eserciti) non scompare. Gli Stati soffrono del loro essere probabilmente troppo piccoli e quindi con troppe poche risorse per fronteggiare i grandi stati nazionali e cominciano a sperimentare altre strategie politiche, tra le quali quella di lasciare una maggior indipendenza ai singoli e alle iniziative individuali.

Figura

Figura 1. Distribuzione nei secoli dei militari italiani. Dati estrapolati dal Dbi e dal repertorio  curato da Corrado Argegni
Figura 2 Presenza di militari italiani attivi per ogni decennio. Dati ricavati dal Dbi e dal  repertorio curato da Corrado Argegni
Figura 3. Presenza di militari italiani nei decenni della seconda metà del '500.   Dati estrapolati dal Dbi e dai repertori curati da Aldo Valori e Corrado Argegni
Tabella 1. Dati sulla presenza dei militari italiani nelle Fiandre.   Da G. PARKER,  The Army cit., appendice A
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