III INTRODUZIONE
Questo studio deve la sua genesi ad un prezioso suggerimento fornitomi dal mio relatore durante un colloquio preliminare per l’individuazione dell’argomento di tesi.
Poiché durante il mio percorso universitario avevo già avuto modo di apprezzare lo studio sistematico dell’uomo e lo sforzo – tipico della cultura illuminista – di applicare a questo tipo di indagine il metodo scientifico (basti pensare, ad esempio, al contributo offerto, negli anni a cavallo tra Sette e Ottocento in Francia, da quel fecondo coacervo di naturalisti, filosofi, esploratori, anatomisti, linguisti, che si identificava nel pensiero degli idéologues), ho creduto stimolante provare a gettare lo sguardo oltremanica, per capire
quali prospettive si offrivano alla scienza dell’uomo in campo anglosassone all’incirca nei medesimi anni. Le mie letture, quindi, si sono indirizzate verso la figura del medico inglese, appartenente alla Society of Friends, James Cowles Prichard (1786-1848) e sul suo scritto di debutto, ovvero le Researches into the Physical History of Man (1813).
Questo autore e la sua opera hanno, fin da subito, stimolato la mia curiosità, soprattutto dopo avere accertato la quasi totale mancanza di una bibliografia in lingua italiana, cosa che faceva di Prichard pressoché uno sconosciuto nel nostro paese. Ma se in Italia una lacuna del genere può essere giudicata più o meno comprensibile, appare piuttosto sorprendente che anche in terra anglosassone la memoria di questa importante e influente figura sia stata, se non proprio dimenticata, almeno trascurata per lunghi periodi di tempo. A parte, infatti, i riferimenti presenti negli articoli di riviste specializzate, gli studi più importanti e completi dedicati al medico e antropologo che aveva scelto Bristol come sua città d’adozione, furono quelli di George W. Stocking, ovvero il saggio introduttivo alla ristampa, da lui curata nel 1973, delle Researches into the Physical History of Man e la sua indagine sulle origini dell’antropologia vittoriana, oltre a quello,
più recente, di Hannah F. Augstein, pubblicato nel 1999.
Considero sorprendente l’oblio di cui sono stati oggetto, in ambiente anglosassone, sia Prichard sia la sua opera, proprio perché questo autore, a partire dalla pubblicazione delle Researches e in seguito ai successivi lavori a carattere etno-antropologico, fu considerato in Inghilterra, per quasi cinquanta anni, il fondatore della disciplina etnologica.
Dopo la prima edizione delle Researches (che costituirà l’oggetto principale della mia indagine) Prichard riscrisse il suo capolavoro altre due volte, ampliandolo sempre di più grazie ad una mole incredibile di dati che egli – essendo, come altri in quel periodo, un
“antropologo da tavolino” – aveva tratto dalla lettura delle opere degli autori classici e
IV anche degli esploratori e naturalisti moderni
1. Il successo dell’opera fu grande e i suoi volumi costituirono un valido strumento per la formazione di coloro che desideravano avvicinarsi a questo tipo di studi. Dopo la sua morte, per circa dieci anni, Prichard continuò ad essere letto con discreto interesse, mentre in seguito, con l’avvento e la diffusione delle teorie darwiniane, i suoi testi finirono per essere considerati “soltanto” dei notevoli compendi etnografici. La notorietà e l’importanza di Prichard non possono, in ogni modo, essere messi in discussione. L’autorevolezza di cui godeva in campo scientifico e medico permise, infatti, all’ipotesi monogenetica, da lui strenuamente difesa per tutta la vita, di essere la più diffusa in Inghilterra all’interno del dibattito sull’origine dell’uomo, durante la prima metà del XIX secolo.
Ho creduto, quindi, che potesse essere interessante tentare di restituire un quadro generale al personaggio e alla sua principale opera. Per raggiungere tale scopo ho cercato di offrire una breve sintesi della vita di Prichard, evidenziando gli episodi che costituirono dei punti di svolta per lo sviluppo successivo del suo pensiero (la formazione quacchera impartitagli dai genitori, gli studi all’Università di Edimburgo, il passaggio alla Chiesa Evangelica, ecc.). Poi, per cercare di gettare uno sguardo quanto più completo possibile sulla sua carriera, considerata anche l’importanza dei risultati da lui raggiunti in campo medico – valga su tutti l’elaborazione del concetto di moral insanity –, ho provato a rendere il giusto tributo all’altro impegno, parallelo alla ricerca etnologica, che lo tenne impegnato fino alla morte, ovvero l’esercizio continuo della pratica medica.
Inevitabilmente, mi sono soffermato in maniera più diffusa e attenta sulle Researches into the Physical History of Man, l’opera, cioè, che diede avvio alla sua carriera di
scienziato e nella quale sono esposte, per la prima volta, alcune delle principali idee di Prichard. In questo caso ho cercato di inserire l’analisi del suo scritto all’interno dell’ambiente socio-culturale in cui egli visse per delineare meglio, anche alla luce delle influenze ricevute, quali furono i contributi originali dell’antropologo di Bristol volti a risolvere il problema della dicotomia tra l’unità originaria del genere umano e le differenze fisiche osservabili nelle singole razze.
In conclusione, e sempre all’interno di un contesto più generale, dopo aver tirato le somme della (s)fortuna cui andarono incontro l’opera e il pensiero di Prichard, ho evidenziato come egli, che aveva sempre aborrito qualunque giudizio assiologico volto ad istituire gerarchie razziali, sostenesse l’esigenza di coniugare la ricerca scientifica con un
1 Coloro i quali, alla stregua di Prichard, hanno fondato il proprio lavoro antropologico sull’analisi e sull’interpretazione di dati provenienti dallo studio di opere di altri autori, sono stati inseriti da alcuni studiosi all’interno della cosiddetta «preistoria dell’antropologia», ovvero un periodo in cui l’antropologia non si era ancora affermata come disciplina autonoma, cfr. P. Mercier, Storia dell’antropologia, il Mulino, Bologna, 1972, pp. 11-41.