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VARIABILITÀ GENETICA DI POPOLAZIONI ITALIANE DI PINO SILVESTRE (PINUS SYLVESTRIS L.): ASPETTI GESTIONALI E SELVICOLTURALI

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– I.F.M. n. 1 anno 2004

STEFANO PUGLISI (*)

VARIABILITÀ GENETICA DI POPOLAZIONI ITALIANE DI PINO SILVESTRE (PINUS SYLVESTRIS L.):

ASPETTI GESTIONALI E SELVICOLTURALI

PARTE II

FDC 165.3 : 174.7 Pinus sylvestris

Nella prima parte sono stati esposti i risultati di uno studio sulla struttura genetica di otto popolazioni di pino silvestre (Pinus sylvestris L.) – sette alpine ed una appennini- ca, rappresentative dell’areale italiano della specie – che hanno evidenziato una marcata differenziazione della popolazione relitta appenninica rispetto alle rimanenti. Le peculia- rità di questo piccolo nucleo consentono di identificarlo come importante risorsa genetica da tutelare mediante l’adozione di specifiche misure protettive e gestionali, che sono state analizzate insieme con i trattamenti selvicolturali che meglio potrebbero garantirne la conservazione in situ, favorendo l’insediamento e lo sviluppo della rinnovazione naturale.

Tali considerazioni sono state estese anche ad alcune popolazioni alpine che, per funzione svolta (boschi da seme) ed altre loro caratteristiche, andrebbero sottoposte a misure con- servative sulla base del principio di precauzione e di riconoscimento del bosco come sog- getto di diritti.

C

ONSERVAZIONE DELLE RISORSE GENETICHE

La scelta della strategia di conservazione delle risorse genetiche indivi- duate deve tener conto delle specifiche caratteristiche biologiche delle spe- cie forestali e delle modificazioni ambientali in atto su scala planetaria. Fra le varie possibili strategie, la più adatta sembra essere la conservazione dinamica in situ, che permette di tutelare l’adattabilità genetica delle popo- lazioni di specie forestali in condizioni di cambiamento climatico globale.

La conservazione dinamica, a differenza della statica (banche di semi o di cloni), permette infatti alle popolazioni di evolversi, e pertanto di conserva- re la loro variabilità genetica – che si origina dai processi di mutazione, migrazione (flusso genico) e riproduzione sessuale (ricombinazione meioti-

(*) Ricercatore, Istituto di Genetica Vegetale - CNR Via Amendola, 165/A - 70126 Bari

(2)

ca) – per mezzo di un continuo adattamento all’eterogeneità spaziale e tem- porale delle condizioni ambientali. Questa modalità di conservazione com- porta la presenza nella popolazione di un carico genetico, cioè di una frazio- ne di informazione genetica «sfavorevole» che, pur essendo meno adatta alle condizioni ecologiche prevalenti in un dato periodo, costituisce la base per l’adattamento a future modificazioni ambientali; questa quota di varia- bilità viene tuttavia limitata dalla selezione naturale, e non può pertanto assumere proporzioni eccessive né diminuire in modo significativo l’adatta- bilità della popolazione (G

REGORIUS

, 1989, 1991; Z

IEHE

et al., 1989).

La conservazione dinamica ex situ consiste nella creazione di popola- menti che, come nel caso precedente, continuano ad evolversi e ad interagi- re con l’ambiente naturale, ma sono ubicati al di fuori delle aree di origine.

È il caso, ad esempio, dei rimboschimenti e delle parcelle sperimentali comparative.

La conservazione statica (conservazione di materiale di propagazione in celle frigorifere o in azoto liquido, o allevamento di cloni in apposite parcelle) è la meno adatta alla tutela delle risorse genetiche forestali, in quanto tende a mantenere invariata l’informazione genetica contenuta nel materiale da con- servare, sottraendolo ai processi evolutivi che avvengono in ambienti natura- li, anche se non si può escludere il verificarsi di alcuni fenomeni dinamici come, ad esempio, un’eventuale azione selettiva svolta dall’ambiente artificia- le nel quale il materiale viene conservato. In assenza di selezione naturale, il carico genetico tende a diventare eccessivo, a scapito dell’adattabilità della popolazione alle condizioni ambientali che incontrerà in fase di rigenerazio- ne. Inoltre, una certa quota di variabilità va perduta per effetto della deriva genetica (Z

IEHE

et al., 1989). Questa forma di conservazione è la più utilizzata per le specie di interesse agrario e per le specie selvatiche ad esse affini, e in casi particolari può anche essere applicata a specie forestali, ma solo per limi- tati periodi di tempo, trascorsi i quali occorre mettere il materiale in campo senza indugio, per limitare gli effetti dei fenomeni sopra descritti.

La popolazione appenninica studiata nell’ambito della presente indagi- ne è caratterizzata, oltre che da un eccezionale grado di differenziazione, anche da una diversità genetica paragonabile a quella delle popolazioni alpine, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe di constatare in un nucleo relitto isolato, per effetto della deriva genetica. Secondo Z

IEHE

et al.

(1989), una risorsa genetica può essere definita come una collezione di

materiale biologico contenente un’informazione genetica specifica o carat-

terizzata da una variabilità particolarmente elevata. La popolazione di Casi-

na rientra perfettamente in questa definizione; le sua peculiarità e la sua

importanza richiedono l’adozione di adeguate misure di protezione. Inol-

tre, la conservazione delle popolazioni periferiche geneticamente distinte

(3)

costituisce un aspetto fondamentale della conservazione a lungo termine delle specie cui appartengono, poiché possono contribuire in modo decisi- vo ad assicurarne l’adattabilità a future condizioni ambientali; la loro importanza ai fini della conservazione della diversità genetica è sproporzio- natamente elevata in rapporto alla loro estensione ed alla loro frequenza (L

ESICA

e A

LLENDORF

, 1995).

Si tratta di un piccolo soprassuolo, completamente circondato da campi sia coltivati sia abbandonati. Essendo iscritto nel Libro Nazionale dei Boschi da Seme (n. 100; M

ORANDINI

e M

AGINI

, 1975), esso è già sotto- posto ad alcune forme di tutela previste dalla legislazione vigente; tuttavia, il suo valore genetico renderebbe necessarie misure di conservazione del popolamento e del suo habitat più specifiche ed efficaci, da estendere anche ad altre popolazioni relitte appenniniche mediante l’istituzione di riserve naturali, come già auspicato da A

GOSTINI

(1972).

Le altre popolazioni studiate, distribuite lungo l’arco alpino, non pre-

sentano caratteristiche tali da consentire di classificarle come risorse geneti-

che, stando almeno ai risultati ottenuti sulla base dei marcatori genetici uti-

lizzati nella presente indagine. Tuttavia, dato che nessuna metodologia può

essere considerata esaustiva e nessun marcatore genetico rappresentativo

dell’intero genoma degli individui analizzati, occorre molta cautela nello

stabilire se suggerire o meno l’adozione di particolari forme di tutela, e in

quale misura. In linea di massima, si può pensare di sottoporre a speciali

provvedimenti protettivi, e ad una particolare attenzione nel definire gli

interventi selvicolturali, gli altri tre boschi da seme (Ceriana, Fenestrelle e

Bressanone), data l’importante funzione che è stata loro assegnata e la con-

seguente necessità di garantire la produzione di materiale di propagazione

di qualità elevata. Si tratta, oltretutto, di soprassuoli di grande valore fenoti-

pico, caratterizzati da fusti assai ben conformati, soprattutto nel caso di

Ceriana, provenienza questa che B

ERNETTI

(1995) raccomanda infatti per

l’impiego a quote inferiori a quelle alpine, mentre per ambienti alpini consi-

glia provenienze principalmente dell’Alto Adige (fra le quali rientra il bosco

da seme di Bressanone) e, in parte, del Trentino e della Valle d’Aosta. Allo

stato attuale delle conoscenze, non è possibile valutare in quale misura le

loro caratteristiche fenotipiche dipendano dalla loro struttura genetica, dai

trattamenti cui sono sottoposti o dalle caratteristiche stazionali, ma il prin-

cipio di precauzione impone comunque scelte di tipo conservativo. Scelte

che dovrebbero ispirarsi alla recente evoluzione del pensiero forestale che,

elaborando nuovi criteri gestionali su basi naturali derivanti dalla nozione

di selvicoltura sistemica, porta a considerare il bosco non più come bene

strumentale – oggetto cui attribuire determinate funzioni in una visione

antropocentrica delle risorse presenti in natura – ma come soggetto di dirit-

(4)

ti, quindi come entità che ha valore in sé, considerando altresì la conserva- zione come forma alternativa di gestione, da far rientrare «a pieno titolo nell’alveo delle scienze forestali» (C

IANCIO

e N

OCENTINI

, 1996a).

Quando misure di conservazione dinamica in situ vengono applicate a popolazioni relitte, isolate e di limitata estensione, come nel caso della popolazione appenninica di Casina, esse dovrebbero essere accompagnate da forme appropriate di conservazione dinamica ex situ, come programmi di rimboschimento da eseguire nelle zone limitrofe utilizzando seme raccol- to dalla popolazione da proteggere, o costituzione di parcelle sperimentali (avendo cura che queste siano rappresentative della variabilità genetica pre- sente nella popolazione naturale). In casi molto particolari, può essere opportuno il ricorso alla conservazione statica di semi o cloni, sempre con l’accortezza di limitare al massimo il periodo in cui il materiale conservato viene sottratto ai processi evolutivi naturali. Con queste modalità comple- mentari di conservazione è possibile proteggere importanti risorse geneti- che da avversità di vario genere che potrebbero provocarne la scomparsa, quali incendi estesi e ricorrenti (assai comuni negli ambienti mediterranei, e che possono provocare la distruzione delle piante adulte in assenza di rin- novazione) o le successioni, che non sono propriamente delle avversità bensì fenomeni naturali, ma che porterebbero comunque all’eliminazione delle popolazioni portatrici dell’informazione genetica da tutelare.

Anche il bosco da seme di Ceriana, pur non essendo una popolazione relitta ed isolata, necessiterebbe di misure complementari alla conservazio- ne dinamica in situ, essendo la sua sopravvivenza minacciata dalla succes- sione in atto verso un bosco di latifoglie; inoltre, l’eccellente conformazione dei fusti di questo soprassuolo costituisce una ragione in più a favore dell’a- dozione di provvedimenti atti a scongiurarne la scomparsa.

I

NDICAZIONI GESTIONALI E SELVICOLTURALI

Una possibile forma di conservazione in situ per la popolazione di

Casina, complementare al semplice mantenimento del nucleo originario

nelle attuali condizioni, potrebbe essere rappresentata dall’adozione di

misure che favoriscano lo sviluppo della rinnovazione naturale che si

diffonde spontaneamente e abbondantemente in alcune aree circostanti,

assecondando il processo naturale di colonizzazione dei campi abbandona-

ti. Si tratterebbe pertanto di agevolare l’espansione spontanea della superfi-

cie occupata dal popolamento, a patto però che i terreni limitrofi vengano

acquisiti dal demanio pubblico o sottoposti ad un rigoroso regime vincoli-

stico e l’intera area venga trasformata in riserva naturale, creando nel con-

(5)

tempo – ove possibile – una rete di aree protette che includano altri nuclei relitti dell’Appennino ligure-emiliano con caratteristiche simili, da sotto- porre ad analoghe misure gestionali. Questa forma di conservazione potrebbe divenire alternativa al mantenimento del nucleo originario, anzi- ché complementare, poiché renderebbe possibile la salvaguardia dell’infor- mazione genetica contenuta nella popolazione attuale lasciando nel frattem- po che la successione in atto, e quindi la sua graduale evoluzione in querce- to, segua il suo corso senza ricorrere a pesanti interventi di rimozione della fitta rinnovazione di roverella (Quercus pubescens Willd.) ed altre specie arboree ed arbustive che si sono insediate sotto il pino silvestre.

Anche per gli altri tre boschi da seme sarebbe opportuno prevedere l’istituzione di aree protette, sia pure con l’imposizione di vincoli meno rigi- di di quelli richiesti dalla popolazione di Casina. In ogni caso, andrebbe stabilito per questi soprassuoli il principio di subordinazione di ogni altra funzione e attività alle esigenze della conservazione delle risorse genetiche e dell’adattabilità delle popolazioni, nonché, naturalmente, della produzione di seme di qualità elevata.

In molti casi, le misure meramente conservative debbono essere inte- grate con l’adozione di idonei trattamenti selvicolturali. A questo proposi- to, G

REGORIUS

(1989) avanza il dubbio se la selvicoltura – nel modo in cui viene comunemente praticata – sia in grado di fronteggiare cambiamenti ambientali i cui sviluppi appaiono imprevedibili; è facile constatare come gli anni trascorsi da quando tali considerazioni venivano esposte non ne abbiano intaccato l’attualità. Inoltre, G

REGORIUS

(1989) propone di divide- re le foreste in due categorie: quelle da gestire a fini conservativi (conserva- tion forests) e quelle da gestire a fini produttivi (production forests); nelle prime le pratiche selvicolturali dovrebbero essere espressamente pianificate in funzione dello scopo loro assegnato, senza restrizioni o condizionamenti di sorta e a prescindere dal loro potenziale produttivo. Le foreste dei due tipi dovrebbero essere individuate e gestite in modo da consentire un limi- tato flusso genico bidirezionale; pertanto, il potenziale adattativo presente nelle foreste dedicate alla conservazione potrebbe essere saggiato di conti- nuo nelle foreste produttive, e nel contempo potrebbe essere valutato l’ef- fetto sulla conservazione dell’adattabilità del lavoro di selezione e migliora- mento genetico effettuato in queste ultime. Il flusso genico dovrebbe aver luogo per tramite sia del polline che dei semi, affinché venga trasmessa l’informazione genetica nucleare ed extranucleare (DNA presente negli organelli cellulari). In questo modo, potrebbe essere perseguito il duplice fine della conservazione dell’adattabilità e delle utilizzazioni a fini economi- ci (G

REGORIUS

, 1989).

Nei soprassuoli studiati, il primo obiettivo degli interventi selvicoltu-

(6)

rali deve essere quello di favorire la rinnovazione naturale, soprattutto quando questa è insufficiente o compromessa, come pure prevenire l’inse- diamento di altre specie sotto le piante adulte, come accade spesso nelle popolazioni mediterranee di specie pioniere ed eliofile come il pino silve- stre – ed altre, come il pino d’Aleppo – tipicamente interessate da feno- meni successionali. La programmazione degli interventi, inoltre, necessite- rebbe del supporto di indagini ecologiche e selvicolturali sulla rinnovazio- ne naturale e sulle successioni in popolamenti di questo genere (Z

IEHE

et al., 1989).

L’insediamento della rinnovazione naturale richiede il verificarsi di condizioni ambientali simili a quelle che hanno originariamente consentito alla specie di colonizzare la superficie considerata. Pertanto, il trattamento da prescrivere nella maggioranza dei casi è il taglio a raso, che in territori montani va ovviamente eseguito su piccole superfici, come buche di 500 m

2

o strisce di 20-25 m di larghezza ed una superficie di 3000-5000 m

2

; in entrambi i casi, la rinnovazione naturale può insediarsi per disseminazione laterale, mentre su terreni meno declivi si può ricorrere al taglio a raso con riserva di portaseme, sempre che le piante residue siano resistenti all’isola- mento (A

GOSTINI

, 1955; B

ERNETTI

, 1995). Il taglio a raso con riserva di por- taseme rappresenta una forma di transizione verso i tagli successivi, che potrebbero costituire un’alternativa al taglio a raso dove le condizioni sta- zionali li rendano possibili. I tagli successivi in popolamenti di pino silve- stre richiedono un taglio di sementazione molto intenso – fino al 75-80%

della massa legnosa – da far seguire a breve dal taglio di sgombero; anche in questo caso i tagli a gruppi, su piccole superfici, sono da preferire ai tagli uniformi (A

GOSTINI

, 1955).

Dove è presente una struttura disetanea, per effetto di utilizzazioni irregolari, questa può essere mantenuta in modo da favorire lo sviluppo della rinnovazione già affermata e l’insediamento di nuovo novellame, ricorrendo al taglio saltuario (B

ERNETTI

, 1995). È il caso, ad esempio, di alcuni tratti della popolazione di Malborghetto, che presentano una struttu- ra disetanea per gruppi; in questo soprassuolo, nel quale il pino silvestre si mescola al pino nero, che non sembra manifestare una vocazione produtti- va e che potrebbe essere destinato ad una gestione prevalentemente conser- vativa (pur non presentando caratteristiche peculiari rispetto alle altre popolazioni alpine), si potrebbe estendere gradualmente questa struttura anche ai tratti a struttura monoplana con una serie – opportunamente pia- nificata – di tagli a piccole buche, favorendo nel contempo i gruppi di novellame già insediati, piuttosto frequenti e spesso anche estesi.

Fra i quattro boschi da seme studiati, quello di Ceriana, in Liguria, è il

(7)

più interessante sotto l’aspetto fenotipico; tuttavia, la sua conservazione è la più problematica, dato che il massiccio insediamento di latifoglie sotto la copertura delle piante adulte rende praticamente impossibile la rinnovazione del pino silvestre. In casi come questo, quando le esigenze di tipo conservati- vo dovrebbero essere anteposte a qualsiasi altra, interventi di rimozione dello strato di latifoglie – seguiti dal taglio a raso a buche o a strisce, o dal taglio con riserva di portaseme (che l’ottima conformazione delle piante presenti potrebbe rendere possibile), o ancora dai tagli successivi a gruppi – sembre- rebbero inevitabili, per quanto costosi e complessi possano essere, tenendo conto anche della necessità di ripeterli periodicamente per impedire ai pollo- ni di prendere il sopravvento sul novellame di pino silvestre.

A differenza della popolazione di Ceriana, quella di Fenestrelle e quel-

la di Bressanone non presentavano problemi legati alla successione, all’epo-

ca del campionamento, grazie alla loro elevata densità. Entrambe sono

caratterizzate da una struttura tendenzialmente coetaneiforme e da fusti

generalmente ben conformati. La prima presenta rinnovazione in gruppi

frequenti e piuttosto estesi; la seconda presenta una certa abbondanza di

novellame solo lungo i margini e nelle chiarie, ma nel complesso la rinnova-

zione è piuttosto scarsa. Le piante del popolamento di Bressanone sono in

maggioranza fittissime e filate, secondo la consuetudine praticata in molte

zone, ma in particolare in Valle Isarco e in Val Pusteria, di omettere del

tutto i diradamenti «in parte per il ruolo economico marginale della specie

e talvolta nella intenzione di avere legno ad anelli compatti» (B

ERNETTI

,

1995); in queste condizioni, il sottobosco si presenta rado e la lettiera

abbondante. È evidente che la scelta del trattamento più adatto al popola-

mento di Fenestrelle non presenta particolari problemi: qualsiasi tipo di

taglio (a raso o successivo), eseguito avendo cura di liberare al più presto

dalla concorrenza delle piante adulte gli estesi gruppi di rinnovazione già

insediati, potrebbe essere tranquillamente applicato. Nel caso di Bressano-

ne, invece, occorrerà tener conto della minore resistenza meccanica delle

piante adulte, operando con notevole cautela. Nei tratti più fitti, potrebbe

essere opportuno eseguire un diradamento dal basso alcuni anni prima di

avviare i tagli a raso a buche molto piccole, al fine di preparare le piante

situate ai margini delle tagliate ad affrontare il parziale isolamento in cui si

verranno a trovare; in questo soprassuolo, il taglio a strisce non sembra pra-

ticabile, ed anche i tagli successivi potrebbero presentare dei problemi a

causa del troppo brusco isolamento in cui verrebbero a trovarsi gli indivi-

dui rilasciati con il taglio di sementazione.

(8)

C

ONCLUSIONI

Le indicazioni sopra fornite sono da considerarsi puramente orientati- ve, dal momento che non è possibile proporre prescrizioni rigide e valide in assoluto. Dato l’obiettivo di garantire la conservazione delle risorse indivi- duate, e quindi – in primis – di permetterne la sopravvivenza favorendo l’insediamento e lo sviluppo della rinnovazione naturale, sarà cura dei tec- nici interessati adottare, a seconda dei casi, gli interventi più adatti al rag- giungimento dello scopo, evitando l’applicazione di schemi precostituiti e procedendo secondo il nuovo approccio «intuitivo, sintetico, olistico e non lineare» che caratterizza la «saggezza del forestale» (C

IANCIO

e N

OCENTINI

, 1996b). Ciò si rende quanto mai necessario ove le esigenze legate alla con- servazione vengono anteposte a qualsiasi preesistente funzione produttiva dei soprassuoli considerati.

Questa ricerca, pur avendo per oggetto popolazioni che, per le loro caratteristiche ed ubicazione, possono essere considerate rappresentative dell’areale italiano del pino silvestre, non può certo essere considerata esau- stiva. Pur mostrando i tratti distintivi e la distribuzione su larga scala della diversità genetica di questa specie nel nostro Paese, essa necessita dell’inte- grazione di indagini che analizzino in dettaglio certi determinati territori, come dimostrano i lavori di B

ELLETTI

e G

ULLACE

(1999) e B

ELLETTI

et al.

(2002) sulle popolazioni piemontesi di pino silvestre, dai quali risulta che anche su scala più ridotta è possibile individuare delle risorse genetiche da tutelare e valorizzare (L

ESICA

e A

LLENDORF

, 1995).

R

INGRAZIAMENTI

Si ringraziano: il prof. G. Müller-Starck per aver seguito la prima fase

di questa ricerca e per la successiva collaborazione; il prof. F. Viola e tutti

coloro che hanno collaborato al campionamento delle popolazioni prescel-

te; la sig.ra M. Attolico e il sig. S. Cifarelli per l’eccellente collaborazione

tecnica; la dr.ssa R. Lovreglio per aver collaborato ad una parte del lavoro

di laboratorio e di interpretazione dei dati ottenuti; il dr D. Pignone per il

suo aiuto nella preparazione delle figure al computer. Si ringrazia altresì la

Arbora Publishers per aver autorizzato l’utilizzo di figure e tabelle già pub-

blicate su Forest Genetics.

(9)

SUMMARY

Genetic variability in Italian populations of Scots pine (Pinus sylvestris L.):

managerial and silvicultural aspects – Part II

In the first part the results of a study have been presented, carried out on the genetic structure of eight populations of Scots pine (Pinus sylvestris L.) – seven from the Alps and one from the Apennines – representative of the Italian range of this species. They have highlighted a sharp differentiation of the Apennine relict population from the remaining ones. Its peculiarities make it an important genetic resource that requires specific protection and management measures, which have been analysed together with the silvicultural treatments which could better guarantee its in situ conservation by helping the settlement and development of natural regeneration.

Such considerations have also been extended to some Alpine populations which, for the function they perform (seed collection areas) and other features, should be subjected to conservation measures on the basis of the principle of precaution and of the recognition of the forest as a subject of rights.

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