L a g u e r r a d e l K o s o v o : o b i e t t i v i e r i s u l t a t i
∗di Gian Enrico Rusconi
Qualunque analisi della situazione venutasi a creare nei Balcani a seguito del recente conflitto in Kosovo, prima di prendere in consi- derazione il problema del riassetto complessivo degli equilibri geo- politici di un’area, quella balcanica, in cui le questioni legate alla ti- tolarità del potere politico ed economico si intersecano con quelle relative alle rivendicazioni etniche locali e agli interessi egemonici occidentali, non può che cominciare con la domanda sulla con- gruenza fra gli strumenti militari e gli obiettivi politici dell’ope-ra- zione NATO contro la Serbia.
Il Kosovo, infatti, avrebbe dovuto essere la prima regione liberata in modo esemplare dalla nuova guerra umanitaria con la restaura- zione dei diritti umani, invece rischia di rimanere un campo militare trincerato a tempo indeterminato. Sebbene sia percepibile nell’opi- nione pubblica occidentale – specialmente da parte di chi ha difeso, con nobili argomenti ma con scarsa preveggenza politica, l’azione bellica contro Milosevic – una certa propensione a dichiarare chiusa la vicenda serbo-kosovara, conviene dunque riflettere su quanto è successo.
Che il Kosovo potesse rimanere per sempre diviso, secondo criteri sostanzialmente etnici, sotto costante protezione militare interna-
∗ Relazione tenuta il 14 ottobre 1999. Per ulteriori approfondimenti cfr. G.E.
Rusconi, «Obiettivi e risultati della guerra del Kosovo», in il Mulino, XLVIII, 383, 1999.
zionale, con uno statuto costituzionale incerto, permanentemente esposto a violente rivendicazioni a mano armata (da parte dell’UCK);
che potesse addirittura costituire un terreno fertile per la ripresa di una contrapposizione (al momento ancora latente) tra NATO e Rus- sia: tutto ciò non rientrava evidentemente nelle previsioni degli in- terventisti umanitari. Eppure questo è il tragico scenario con cui oggi ci si deve confrontare: uno scenario le cui premesse storiche, politiche ed economiche erano in qualche modo già implicite nelle stesse modalità con cui è stata decisa e condotta l’azione bellica nei famosi «settantadue giorni»; uno scenario, aggiungo, sommessa- mente (ma lucidamente) prefigurato da più d’un commentatore, su- bito diffamato, però, come incurabile relitto di una realpolitik ormai superata dalla nuova età dei diritti che caratterizzerebbe le relazioni internazionali.
Poiché l’azione militare della NATO contro la Serbia – a proposito della quale gli strateghi hanno parlato di affermazione definitiva del
«potere aereo» – è stata presentata dalle potenze occidentali (Stati Uniti e Gran Bretagna in testa) come il modello di «guerre di inge- renza umanitaria» che le democrazie dovrebbero/potrebbero con- durre in futuro, è opportuno approfondire il suo significato, chiarire gli obiettivi che si proponeva di raggiungere e accertare se c’è stata congruenza tra gli obiettivi dichiarati e lo strumento militare impie- gato. Oltre a ciò, è opportuno prendere in considerazione anche la dimensione comunicativa che ha accompagnato l’intera vicenda.
Non v’è dubbio, infatti, che iniziative politiche e militari di questo genere sono possibili soltanto se sostenute dal consenso di gran parte dell’opinione pubblica democratica, benché non si possa pas- sare sotto silenzio il fatto che il grado di consenso manifestato in questa occasione dal grande pubblico europeo è stato ottenuto in larga misura grazie all’ambiguità circa i modi, i tempi e gli effetti previsti dell’operazione; un’operazione che a tutti è sembrato natu- rale chiamare tout court «guerra», ma che ha palesato caratteristiche molto singolari.
Inizialmente, l’azione della NATO si è configurata come una strate- gia coercitiva a sostegno della mediazione tra i contendenti della crisi politica serbo-kosovara (presuntivamente realizzata negli ac- cordi di Rambouillet). Ciò significa che la NATO mirava fondamen- talmente a portare al tavolo delle trattative Milosevic, il quale, dal canto suo, è rimasto fermo su posizioni intransigenti: questo, al-
meno, è il messaggio che si è voluto trasmettere all’opinione pub- blica. In realtà, non sono mai stati chiari i reali margini di trattativa con Milosevic: i documenti ufficiali NATO parlavano generalmente di condizioni che il leader serbo doveva accettare, ma non sempre tali condizioni avevano il tono perentorio del diktat.
A ciò si aggiunga che l’imprevista resistenza di Belgrado ai bom- bardamenti della prima settimana – o, per un altro verso, l’ina-de- guatezza dello strumento aereo, almeno nelle ridotte dimensioni con cui è stato inizialmente impiegato – e quindi la necessità di intensifi- care i raid hanno creato una certa qual confusione tra obiettivi mili- tari e scopo politico, finendo per cambiare, di fatto, la natura stessa dell’intera operazione. Mentre all’inizio, infatti, nessuno aveva par- lato di paralizzare e mettere in ginocchio l’intera economia della Serbia, successivamente la logica militare – che imponeva prima l’intensificazione delle incursioni aeree e poi dava alla concentra- zione di 50 mila uomini ai confini del Kosovo (ivi raccolti con com- piti «umanitari») la funzione intimidatoria di un possibile intervento armato via terra – ha fornito una nuova e diversa caratterizzazione politica all’impresa. Tocca peraltro osservare come solo pochi com- mentatori abbiano colto questo salto di qualità, essendosi nel frat- tempo il dibattito pubblico tutto concentrato sulla tragedia dei pro- fughi e quindi sulla necessità di ripetere ad alta voce e rafforzare le
«buone ragioni» dell’intervento – erano i giorni in cui, per esempio, si è abusato dell’inaccettabile analogia storica tra il dramma dei pro- fughi/deportati kosovari e l’esperienza dell’Olo-causto.
Tornando all’operazione aerea della NATO, è doveroso a questo punto chiedersi se essa supererebbe un esame condotto in base ai tre criteri con cui abitualmente si giudica un’operazione militare: l’uni- voca definizione degli obiettivi, l’adeguatezza allo scopo politico della strategia adottata e la previsione di effetti indesiderati. Ebbene, sono convinto che l’azione NATO contro la Serbia non possa preten- dere di ottenere un buon voto secondo nessuno dei tre criteri summenzionati, a cominciare dalla definizione degli obiettivi, o me- glio dalla determinazione dell’obiettivo militare rispetto allo scopo po- litico prefissato, per riprendere la nota distinzione di Clausewitz. È, questa, una distinzione essenziale, proprio per la natura coercitiva (quindi limitata) dell’operazione in oggetto, che presupponeva un’alta selettività degli obiettivi militari.
Con il trascorrere delle settimane si è invece assistito al paradosso
di obiettivi militari NATO che venivano dichiarati raggiunti, ma nello stesso tempo riformulati in vista del perseguimento di uno scopo politico che sfuggiva continuamente. Detto altrimenti, a fronte del chiaro raggiungimento (e di una declinazione sostanzialmente cor- retta) degli obiettivi militari, lo scopo politico dichiarato dell’ope-ra- zione continuava a risultare labile e indeterminato, a meno di non identificare il vero scopo politico dell’azione contro la Serbia nella resa senza condizioni di Milosevic o, ancor meglio, nella caduta del regime nazional-comunista di Belgrado. In tal caso, troverebbe con- ferma la tesi secondo cui si sarebbe passati dalla volontà di costrin- gere con la forza l’avversario a trattare in nome di «buone ragioni» a quella di distruggerlo perché «non è in grado di sentire ragioni».
Non sappiamo se questo scopo politico fosse presente sin dal- l’inizio in alcuni vertici della NATO, che avrebbero provveduto a mascherarlo dietro posizioni più morbide per ottenere il consenso più ampio possibile dell’opinione pubblica occidentale. E ancora: il comando NATO pensava davvero che bastasse una breve serie di raid aerei per portare Milosevic alla trattativa? Ha condiviso cioè il giu- dizio (rivelatosi sbagliato) dei politici sui tempi brevi di tenuta del regime serbo? Oppure è ripiegato sull’intervento aereo sotto la pres- sione dei «civili», scartando a malincuore opzioni alternative? E la programmata gradualità e selettività delle incursioni aeree nasceva da un calcolo ben ponderato o era un’altra concessione ai politici? Si può andare avanti all’infinito a sollevare interrogativi come questi, ma a essi potremo rispondere esaurientemente soltanto se e quando potremo disporre di una documentazione affidabile sul processo de- cisionale all’interno degli organi dell’Alleanza Atlantica: capiremo allora come sono andate effettivamente le cose.
Tocca adesso, piuttosto, analizzare nei suoi molteplici risvolti la situazione venutasi a creare nel Kosovo dopo la cessazione delle ostilità. Quel che appare chiaro è che i bombardamenti, se alla fine hanno piegato Milosevic, non hanno sciolto nessuna delle ambiguità che si frappongono al raggiungimento della effettiva pacificazione del Kosovo e della democratizzazione della Serbia. La celebrata vit- toria del «potere aereo» non esclude, anzi, la ripresa di una qualche forma di conflitto. Certo, non ci sarà quell’intervento convenzionale di terra, sotto forma di invasione, ipotizzato e minacciato da alcuni membri della NATO e sempre spavaldamente sfidato dalla contro- parte serba. Ma potrebbe crearsi una situazione di conflitto armato
sul terreno, magari innescato dall’UCK, che non sembra affatto in- tenzionato a farsi disarmare.
Quale tipo di guerra si potrebbe allora registrare? L’ipotesi di un nuovo Vietnam, avanzata con toni drammatici da qualcuno mesi or sono, è da scartare perché configurerebbe un conflitto frontale NATO- Serbia che è già stato di fatto superato e sostituito dalle operazioni condotte sin qui. D’altra parte il Kosovo, luogo deputato per questo scontro, non presenta oggi le condizioni ambientali e materiali di una guerra civile, interna, etnica; nel Kosovo non c’è la disgrega- zione dell’autorità statale, causa ed effetto dell’esplosione delle vio- lenze etniche e dell’imbarbarimento negatore di ogni diritto umano tipici di altre aree balcaniche. La violenza scatenatasi in Kosovo nei mesi scorsi non nasceva dal tracollo delle strutture statuali, ma dall’azione di uno Stato militarmente forte che, sentendosi minac- ciato da quelli che formalmente erano i suoi stessi cittadini, ha eser- citato contro di essi una violenza preventiva attraverso l’espul-sione, l’oppressione, il terrore. L’azione militare condotta dai serbi in Kosovo non era una new war, nel senso attribuito da Mary Kaldor a questa espressione (cioè una guerra segnata dalla privatizzazione dell’uso della violenza, una guerra di bande in un contesto di crimi- nalità organizzata), ma era per molti aspetti una guerra vecchia per il controllo statale del territorio, anche se in parte ha dispiegato la fe- nomenologia postmoderna della «politica dell’identità».
La situazione è poi cambiata con la presenza della forza interna- zionale, incaricata non solo di riportare a casa i kosovari, ma anche di ricostruire la legalità di una società civile e politica. Viene da do- mandarsi, tuttavia, se sia veramente possibile immaginare una so- cietà civile pacificata in Kosovo, in presenza di (ormai) pochi serbi e di una moltitudine di kosovari di etnia albanese che covano nel cuore sentimenti di vendetta, o se invece non si tratti di una mera illusione, a meno di non trasferire forzosamente altrove tutti i serbi rimasti. La mia opinione è che, contro la logica idealistica della rico- struzione di una società civile multietnica, ipotizzata dagli interven- tisti umanitari, finirà per prevalere la logica della divisione etnica, della separazione forzata dei contendenti ostili.
Questa prospettiva rimanda a due altre questioni, tra loro colle- gate: l’assenza di un vero «decisore» ultimo per risolvere il pro- blema kosovaro e il ruolo incerto dell’Unione Europea. La difficoltà di trovare un decisore ultimo e autorevole è stata chiara sin
dall’inizio. L’organismo che in linea di principio, agli occhi di molti, avrebbe dovuto affrontare e risolvere la crisi era l’ONU, ma davanti alla sua palese incapacità di agire l’iniziativa è stata assunta dall’Alleanza Atlantica, che si è rivelata un organismo politico-mi- litare di sorprendente vitalità, al punto da sollevare interrogativi imbarazzanti circa il suo rapporto con l’Unione Europea, la quale, nel caso del Kosovo (come già nelle precedenti situazioni di conflitto che hanno condotto al drammatico smembramento della Jugosla- via), non è stata capace di esprimere un profilo alto di politica inter- nazionale, non solo a causa della mancanza di un esercito europeo, o almeno di una forza di intervento rapido coordinata dai vertici dell’UE, ma anche (forse soprattutto) perché la presa di coscienza del ruolo internazionale che spetta all’Unione Europea è tuttora ritar- data da ragioni di opportunità politica e dal permanere di forti ten- denze all’appiattimento sulle decisioni angloamericane.
Che l’Unione Europea, sprovvista di una forza militare autonoma, avesse a sua disposizione la NATO in caso di necessità, era parsa per lungo tempo una soluzione di comodo o una modesta anomalia, cui si sarebbe prima o poi trovato rimedio. La vicenda serbo-kosovara ha però evidenziato che ormai ci si trova di fronte a una vera e pro- pria delega d’autorità dell’Unione Europea a favore della NATO. Volendo essere benevoli, si può dire che si è creata una singolare di- visione del lavoro: mentre Solana, segretario politico dell’Alleanza Atlantica, gestiva con determinazione l’operazione militare contro la Serbia, il cancelliere tedesco Schröder, presidente di turno dell’UE, teneva le fila dell’azione diplomatica, con i suoi alti e bassi.
Di fronte a questa situazione si è riaccesa la discussione circa la necessità che l’Unione Europea disponga direttamente di un proprio strumento militare in grado di sostenere un’autonoma iniziativa po- litico-diplomatica. In realtà questa richiesta sottovaluta le radici sto- riche profonde della mancata costituzione di un esercito europeo sino ad oggi. Senza contare gli enormi costi che imporrebbe l’istitu- zione di una forza armata europea capace delle stesse prestazioni della NATO. Tutto ciò non esclude che si proceda verso la formazione di un corpo europeo di «pronto impiego» a carattere misto, umanitario e armato limitato, razionalizzando e perfezionando le esperienze già fatte negli anni passati. Ma la mia impressione è che l’operazione militare contro la Serbia possa allontanare anziché av- vicinare la costituzione di un vero esercito europeo, equivalente in
termini di prestazioni e di efficienza alla NATO. Eppure, se si vuol sbloccare la situazione di «congelamento» politico ed economico che attualmente sta caratterizzando l’area balcanica nel suo complesso, non si può prescindere dal richiamo a un ruolo militarmente più forte e politicamente più significativo dell’Unione Europea.
Dibattito
A fronte delle critiche di scarsa razionalità rivolte da più parti a molte delle azioni militari condotte dalle forze alleate contro la Serbia, viene spontaneo chiedersi se sarebbe stato possibile per la NATO condurre una campagna militare secondo criteri di maggiore efficienza: qual è la Sua opinione al ri- guardo?
Il conflitto in Kosovo ha messo chiaramente in luce la difficoltà, per gli osservatori occidentali e per gli studiosi di strategie militari, di valutare con sufficiente precisione la qualità e il grado di
«razionalità» delle operazioni della NATO. Non v’è dubbio tuttavia, almeno dal mio punto di vista, che i vertici militari della NATO non abbiano compreso appieno (e in itinere) quali fossero gli obiettivi politici generali che ci si proponeva di raggiungere nei confronti della Serbia, e che quindi non vi sia stata, durante la guerra del Ko- sovo, adeguata corrispondenza tra uso dei mezzi bellici e persegui- mento degli scopi politici.
Ora che la guerra del Kosovo è finita, come pensa che debba essere affron- tato dai Paesi occidentali il difficile problema della ricostruzione-pacifica- zione dei Balcani? Gli aiuti economici occidentali dovranno indirizzarsi anche verso la Serbia? E, se sì, a quali condizioni?
Il «patto di stabilità» recentemente siglato prevede l’erogazione ai Paesi dell’area balcanica di un cospicuo aiuto economico (si parla di interventi per circa 12 mila miliardi di lire) ed è del tutto evidente che questo aiuto dovrà indirizzarsi anche verso la Serbia. Anche perché, abbandonata a se stessa, senza un forte aiuto economico da parte dell’Occidente, la Serbia è condannata a rimanere in balia di
una classe politica nazionalcomunista arrogante e prevaricatrice e di una società civile appiattita su nostalgiche rivendicazioni di supe- riorità etnica. Non è però ancora chiaro se l’intervento economico occidentale in Serbia debba essere assai selettivo, e quindi riguar- dare esclusivamente gli aiuti umanitari alla popolazione civile, op- pure possa comprendere anche operazioni ricostruttive di tipo strut- turale per il comparto industriale serbo, messo in ginocchio dalla guerra. Più in generale, si pone il problema di come specificare
«politicamente» l’aiuto economico da elargire a Belgrado. Per esem- pio, si potrebbe legittimamente immaginare di «comprare», in un certo senso, la «razionalizzazione democratica» della Serbia, la quale, con un governo «più morbido», sarebbe in grado di venire in- contro alle aspettative degli occidentali e a quelle dei kosovari per una soluzione su basi confederali, oppure su basi di piena indipen- denza, della questione del Kosovo, all’interno di un’area balcanica resa più stabile e realmente pacificata.