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Capitolo II°

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Academic year: 2021

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Capitolo II°

Cenni biografici e formazione

Il seguente capitolo si propone di ripercorrere alcune tappe fondamentali nella vita del regista romano: dalla giovanile militanza nel P.C.I., nei primi anni dopo la seconda guerra, fino al suo esordio dietro alla macchina da presa nel 1961. Un lungo e accurato percorso di formazione artistica e intellettuale sul quale è, senza dubbio, utile soffermarsi per conoscere Elio Petri e per comprenderne le successive scelte e posizioni.

Cenni biografici

Elio Petri era nato (nel 1929) e vissuto in un quartiere di Roma allora popolare, in via dei Giubbonari, a due passi da Campo dei fiori. Nonostante le modeste condizioni della sua famiglia, il padre, artigiano, aveva fatto di tutto per mandarlo a scuola, ma con scarsi risultati: “Mio padre si era dissanguato per mandarmi in una scuola

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di prim’ordine, una scuola di preti, in Piazza di Spagna: non voleva che diventassi un operaio1”. Nonostante questo, Elio fu espulso per ben due volte: per cattiva condotta e per motivi politici. Petri racconterà qualche anno dopo, nel 1972, in un’intervista di Dacia Maraini, che quelle esperienze in scuole private gestite da preti furono comunque utili per la sua formazione: “Ho imparato a conoscere

l’autoritarismo” - dichiara , e soprattutto – “ho compreso la borghesia e sono cresciuto senza complessi di inferiorità verso i borghesi, anzi,

con un certo complesso di superiorità2

A dispetto delle aspettative del padre, dunque, nel 1946, anno del referendum monarchia – repubblica, a soli diciassette anni, quel giovanotto corpulento ed irrequieto sceglie di abbandonare gli studi per dedicarsi a quelle passioni che coltiverà con amore e rigore per tutta la vita: il cinema e la politica.Nei racconti di Petri si scopre che fu la sua adolescenziale ossessione della morte a condurlo su questa strada, un’ossessione profonda, della quale non riusciva a liberarsi, se non rifugiandosi nei cinema o leggendo testi marxisti: ”Le persone, non le vedevo come esseri viventi, ma come cadaveri

ambulanti. Dopo la morte di mia nonna ho avuto la certezza che Dio non esistesse e che il nostro corpo è distrutto definitivamente. La 1Elio Petri in Jean Gili, Elio Petri,Facultè des Lettres et Scences Humaine, Nice, 1974, pag.17 2 Elio Petri in Jean Gili, op. cit., 1974, pag.17

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religione non mi dava più alcuna consolazione(…) ho conquistato la libertà rispetto alla paura della morte grazie alla fede politica3”. Si iscrive al PCI e aderisce alla Federazione giovanile. Si occupa soprattutto della gestione di cineclub, scrive per i bollettini delle associazioni cinematografiche e firma qualche articolo per “Gioventù nuova”, mensile della Federazione giovanile comunista italiana pubblicato dal 1949 al 1952. La sua formazione, tanto in ambito politico che in ambito cinematografico, è dunque quella di un autodidatta: chi ha conosciuto Elio Petri, prima militante nel PCI e giovane appassionato di cinema poi regista affermato e intellettuale critico nei confronti dello stesso partito, lo descrive essenzialmente con un aggettivo: un uomo curioso, pieno di interessi, avido lettore, altrettanto vorace spettatore. La competenza cinematografica che Petri acquisisce, lo porta in breve tempo a collaborare come vice-critico a “L’Unità” di Roma, al fianco di Tommaso Chiaretti. Siamo nel 1950. Per comprendere appieno il contesto nel quale si inserisce l’esordio di Petri nel mondo del cinema, è utile sottolineare come questa data segni, se pur convenzionalmente, la fine del neorealismo e l’inizio di un’epoca di vera e propria “restaurazione”. Dico “convenzionalmente” perché è improbabile pensare che gli autori che fino a questo momento

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avevano manifestato l’urgenza di un discorso “sulla realtà (da mostrare) e sulla verità (da dire)” abbiamo bruscamente dismesso il proprio impegno. Il neorealismo estenderà le proprie propaggini anche nei primi anni del nuovo decennio ma una scrupolosa censura governativa riuscirà gradualmente a dissolvere il carattere così profondamente innovatore dei film del primo periodo e ad emarginare le iniziative considerate troppo audaci. Il contesto politico e sociale è profondamente mutato rispetto all’immediato dopoguerra. Tra il ’48 e il ’49 l’asse politico italiano si sposta decisamente a destra4. I riflessi

sulla società civile delle strette relazioni che il nuovo governo democristiano instaura con l’America da una parte e con la Chiesa Cattolica dall’altra sono inevitabili: “ Cattolicesimo, americanismo,

fordismo: insieme essi crearono un improbabile ma formidabile base per l’ideologia dominante5”. L’Italia sta ricostruendo se stessa, la propria economia e, soprattutto, la propria immagine: il ritratto di un paese desolato e colpito dalla povertà non poteva essere una buona pubblicità. Esemplare a questo proposito fu l’emanazione, nel 1949, della “legge Andreotti” sul cinema: il decreto dell’allora sottosegretario

4 Alle elezioni politiche del 1948 la DC di De Gasperi ottiene il 48,5% dei voti e la maggioranza

assoluta alla camera (305 deputati). Il fronte popolare arriva al 31% dei voti contro il 39,7% di comunisti e socialisti nel 1946.

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allo spettacolo nasceva per limitare l’importazione dei film americani sul mercato italiano ma poneva anche le basi per fornire prestiti alle case di produzione: una commissione statale stabiliva quali film potessero essere finanziati e in che misura in relazione anche alla neutralità politica del soggetto; addirittura poteva essere negata la licenza di esportazione ai film che “diffamavano l’Italia”. La legge Andreotti aveva insomma creato una censura preventiva che andava di pari passo con la censura per oscenità, già votata dall’Assemblea costituente e sostenuta tra gli altri, anche da comunisti e socialisti, non meno severi riguardo alla salvaguardia della “pubblica moralità”. La suddetta legge contribuì inoltre ad accentrare il sistema cinematografico attorno alle due figure che condizionavano il mercato: i produttori e gli esercenti, trasformando in interlocutori privilegiati della politica governativa le rispettive associazioni di categoria nate nell’immediato dopoguerra: l’ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche ed Affini) e l’AGIS (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo). La discussione sulla censura ,in tutte le sue forme ,dovrebbe essere senza dubbio più articolata ed approfondita vista la complessità del campo di indagine; qui mi limito

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ad accennarla per poi riprenderla laddove sarà necessario spiegare in quanti e quali modi Elio Petri ha dovuto subirne le imposizioni.

“Roma ore 11”

Nel gennaio del 1951 un fatto di cronaca avvenuto a Roma catalizza su di sé l’attenzione di stampa e cinema: assiepate sulle scale di una palazzina in via Savoia, stavano circa duecento ragazze in attesa di sostenere il colloquio per un unico posto di dattilografa. Così recitava l’annuncio sul quotidiano del giorno prima: “Signorina giovane, intelligente volenterosissima attiva conoscenza dattilografia miti pretese per primo impiego cercasi”. Pochi minuti dopo l’arrivo dell’inserzionista, il peso delle giovani candidate aveva provocato il crollo della scala e l’inevitabile tragedia: settantasette tra loro rimasero ferite in modo più o meno grave e una, Anna Maria Baraldi, morì. La vicenda, tanto tragica e soprattutto emblematica della condizione delle donne in quei primi anni cinquanta e della più generale crisi occupazionale, suscitò l’immediato interesse di un regista che dell’universo femminile sarà sempre sensibile cantore: Giuseppe De Santis. La concezione e la lavorazione del film furono rapide. De Santis si trovò a collaborare nuovamente, dopo Caccia tragica, con Cesare Zavattini. Fu quest’ultimo a proporre di realizzare, alla maniera

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neorealista, un’inchiesta preparatoria al film, necessaria come mezzo conoscitivo della realtà. Quattro mesi più tardi, Elio Petri, ancora impiegato a “L’Unità”, inizierà la sua carriera cinematografica andando ad intervistare per conto di De Santis le ragazze rimaste coinvolte nel crollo. Più che un'indagine sul fatto in

sé, Petri

realizzò un affresco della vita delle ragazze italiane negli anni cinquanta e della Roma di allora arrivando ad analizzare ciò che, secondo De Santis, aveva posto in relazione tante vite diverse: il bisogno. Bisogno morale, materiale, psicologico. Non quindi solo una denuncia della condizione delle donne nel lavoro, ma una scoperta e una più generale presa di coscienza della loro condizione sociale e psicologica:

“Era il bisogno di un lavoro per non morire di fame, il bisogno di

alleviare gli stenti di una misera vita familiare, il bisogno di soddisfare il legittimo desiderio d’un abito o d’un paio di calze in più, o, addirittura, il bisogno di evadere dall’inedia di tutti giorni e di cercare di fare qualcosa per rendersi utili in qualche modo6”.

Petri sa cogliere immediatamente l’essenza dell’ispirazione di De Santis e le sue interviste non sono mere raccolte di dati o di

6 Giuseppe De Santis, Prefazione a Elio Petri, Roma ore 11, Milano – Roma, Edizioni Avanti!

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osservazioni relative al crollo ma tentativi di comprendere e definire un contesto, di suggerire un’atmosfera :

“L’inchiesta ha confermato le nostre intuizioni, fornito un materiale di

base, suggerito un tono, una colorazione; ampliato i nostri punti di vista; stimolato, infine, senza però imprigionarla, la nostra fantasia7”. Il risultato di questa collaborazione, che includeva, oltre ai già citati Zavattini e Petri, anche Puccini, Franchina e Sonego8, fu un vero e

proprio atto di accusa nei confronti della struttura sociale italiana e delle sue contraddizioni: la crisi occupazionale trasversale a tutte le classi sociali negli anni in cui prende avvio l’espansione economica del paese, le molestie subite dalle donne che vogliono emanciparsi, il potere di manipolazione dell’informazione e di fascinazione che esercitano i mezzi di comunicazione di massa. Il film suscitò ovviamente numerose proteste e ben presto fu tolto dalla circolazione, eliminato dal circuito di prima visione ed escluso dalla selezione italiana per il festival di Cannes di quell’anno9. Ulteriore

7Giuseppe De Santis, Prefazione a op.cit., pag17.

8 Gianni Puccini, Basilio Franchina e Rodolfo Sonego erano all’epoca collaboratori di De Santis. In

particolare, Gianni Puccini, critico cinematografico e amico fin dall’università del regista ciociaro, fu colui che lo convinse a collaborare alla rivista”Cinema”e , molti anni più tardi, fu sempre lui a proporre ElioPetri per l’inchiesta sui fatti di via Savoia.

9 De Santis , in un’intervista rilasciata a Stefano Masi nel 1982, racconta che il film suscitò un

piccolo scandalo: “Il funzionario che aveva dato l’approvazione alla sceneggiatura di Roma ore 11si trovò abbastanza nei guai quando sul quotidiano “Il Tempo” comparve un articolo di fondo,

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testimonianza di quanto questo lavoro, grazie anche all’indagine di Petri, avesse colpito nel segno.

In un contributo del 1983 all’opera monografica curata da Pirro in occasione della morte di Petri10, De Santis esprimerà il suo rammarico

per non aver introdotto tra i crediti il nome di quel giovane apprendista che tanta parte aveva avuto nella realizzazione del film: un atto di “ingratitudine”, dice De Santis, idealmente risarcito dall’Oscar che Petri ottenne per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto nel 197111.

La collaborazione con De Santis.

Fu l’inizio di una lunga e preziosa collaborazione tra il regista ciociaro e il giovane Elio, un periodo di formazione essenziale nella vita artistica e personale di quest’ultimo, un apprendistato lungo nove anni (1951-1960), nei quali Petri ebbe modo di collaborare alla realizzazione di sei degli undici film diretti da De Santis: oltre al già citato Roma ore 11, Un marito per Anna Zaccheo del 1953; Giorni

si accusava il governo di aver finanziato un film che serviva alla campagna sovietica in Italia e si invitava l’autorità competente ad indagare su eventuali collegamenti tra chi lo aveva realizzato e l’Unione Sovietica.[….] In realtà il film fu finanziato dal produttore americano Paul Graetz che vi investì il denaro della RKO.” (Stefano Masi, Giuseppe De Santis, Firenze, La nuova Italia, 1982)

10 (a cura di) Ugo Pirro, Elio Petri, La Biennale, XI Mostra internazionale del cinema, Venezia,

1983.

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d’amore del 1954; Uomini e lupi del 1957; La strada lunga un anno

del 1959; La garconierre del 1960. Petri condusse le inchieste preparatorie per alcuni di questi film che ebbero la fortuna di essere realizzati ma anche per numerosi altri soggetti che non trovarono mai un produttore disposto a finanziarli, come Pettotondo, Prima che vai

soldato, L’uomo senza domenica. Le difficoltà produttive a cui spesso

De Santis andò incontro, così come le accuse della critica che lo condannarono nel tempo ad un doloroso isolamento, suggeriscono un sorprendente parallelismo nel percorso artistico dei due registi. De Santis, come Petri, si avvicina al mondo del cinema scrivendo recensioni e contributi teorici12 per una rivista, “Cinema” allora diretta

da Vittorio Mussolini. Nel 1942, De Santis abbandona per alcuni mesi la sua rubrica per collaborare, in qualità di sceneggiatore e assistente alla regia, alla realizzazione del film d’esordio di Luchino Visconti,

Ossessione. Fino al 1946 continuerà la sua attività di recensore

affiancandola a quella di sceneggiatore e di assistente : nel 1943 è al fianco di Roberto Rossellini per le riprese di un film mai concluso,

12 De Santis collabora con la rivista a partire dal 1940: scrive numerosi contributi, il più importante

dei quali è intitolato “Per un paesaggio italiano”, nel quale si sottolinea la necessità di ambientare i film in un contesto a sua volta significante,di sfruttare il paesaggio ai fini della costruzione drammaturgica. Quando, due anni più tardi, De Santis affiancherà Visconti per la realizzazione di

Ossessione la sua teorizzazione sul paesaggio italiano troverà il suo terreno ideale:la Pianura

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Scalo merci13; due anni più tardi avrà modo di girare alcune scene di

finzione e coordinare il montaggio (con Mario Serandrei14) di G

io

rni

di gloria, un film-documentario sulla guerra partigiana e la fine degli

eventi bellici; nel 1946 firma insieme a Lizzani e Aristarco15 la

sceneggiatura de Il sole sorge ancora, film diretto da Aldo Vergano16:

un preludio del “neorealismo” di ambientazione contadina del quale De Santis diverrà di lì a poco principale esponente. In realtà, a proposito della possibilità di citare il regista ciociaro tra i maestri del neorealismo, tuttora esistono opinioni discordi. Alberto Farassino17

ricorda come la critica abbia letteralmente espulso dal neorealismo sia De Santis sia Rossellini, dopo averli considerati tra i suoi fondatori ma, proprio a partire dal paragone tra due registi tanto diversi, ricorda che il neorealismo non è stato un “momento unitario e unanimistico del

13 Il film ebbe una lavorazione assai tormentata a causa degli eventi bellici e alla fine Rossellini

rinunciò a concluderlo. Due anni più tardi Marcello Pagliero recuperò il girato e realizzò un film del tutto diverso,a partire dal titolo:“Desiderio”.

14 Giornalista e critico, fondatore con Blasetti della rivista “Cinematografo” esordì al cinema proprio

con un film di Blasetti, “Sole” (1929) al quale partecipò come sceneggiatore, montatore e aiuto regista. In seguito decise di specializzarsi nel montaggio e divenne uno tra i più noti e richiesti montatori italiani.

15 Carlo Lizzani esordisce al cinema con questo film nella doppia veste di sceneggiatore e attore (in

questo secondo ruolo al fianco di Gillo Pontecorvo).

Guido Aristarco è stato uno tra i più importanti critici cinematografici italiani.

16 Aldo Vergano, giornalista e critico, fu tra i fondatori del “Cinematografo” insieme a Blasetti e

Serandrei e, come quest’ultimo esordì al cinema firmando il soggetto di “Sole” per la regia dello stesso Blasetti.

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cinema italiano18” ma una tendenza cinematografica caratterizzata da una spaccatura che definisce due campi, l’opposizione baziniana tra registi che credono alla realtà e registi che credono all’immagine. Giuseppe De Santis appartiene a questa seconda schiera, “occupa una

posizione di predominanza su uno dei versanti che la spaccatura instaura19”. Lo stesso Farassino definisce “fiammeggiante” il neorealismo di De Santis: le immagini sono elaborate, lussureggianti, quasi barocche; la macchina da presa è mossa in modo da far sentire la forte presenza del regista, che predilige movimenti di ampio respiro, funzionali alla rappresentazione di una dimensione collettiva, di un’intera classe sociale, agitata da numerose contraddizioni interne ma comunque unita nella solidarietà e nella lotta proletarie. Se lo sfondo sul quale si inseriscono le storie narrate da De Santis è quello dell’Italia, sia questa rurale o urbana, squassata dalla guerra e in fase di ricostruzione, se il contesto dunque rimanda all’attualità, al contrario le vicende narrate rimandano ai moduli narrativi del cinema di genere, del cinema d’azione, del melodramma, del western.

Nel 1946 De Santis esordisce alla regia con un film che ottiene un vastissimo consenso del pubblico in Italia e nel mondo, Caccia tragica.

18 Alberto Farassino, op. cit., pag 8.

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Consenso che ritrova qualche anno dopo all’uscita del suo secondo film, Riso amaro del 1949. Il riferimento ai generi si connota subito negativamente, suggerisce concessioni commerciali e De Santis viene accusato dalla critica di mirare essenzialmente ad assecondare i gusti del grande pubblico rinunciando al cinema d’arte e adeguandosi alle richieste della grande industria. Farassino, a questo proposito, sostiene che “c’è da vedere nel lavoro di De Santis solo una maggiore

consapevolezza del suo rapporto con il cinema e con il pubblico, poiché assume i generi cinematografici come veicoli e garanzie del contatto con lo spettatore e come grandi repertori iconografici e

narrativi da piegare ad esigenze nuove20”.

Nuove esigenze. Raccontare l’Italia post bellica e farlo anche attraverso i nuovi miti che in quell’Italia vanno diffondendosi21; i nuovi modelli

che la realtà contemporanea propone - il cinema e i suoi divi, la radio e i fotoromanzi, la moda americana - si mescolano alle figure mitiche di una cultura arcaica e definiscono quella che oggi comunemente è detta cultura nazional-popolare, cultura di massa: “De Santis elegge a

20 Alberto Farassino, op. cit., pag 69

21 “Se la caratteristica dominante di questo periodo fu la modernizzazione culturale secondo i miti

e i modelli del capitalismo consumistico, è importante ricordare che, più che di un mutamento puro e semplice, si trattò di un processo di sovrapposizione, cioè del radicarsi di una nuova consapevolezza su abitudini e pratiche preesistenti”. (Stephen Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca, Firenze, 1955).

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protagonista del suo cinema questa cultura appunto nel suo essere problema: individua una realtà emergente e non si limita a descriverla, ma la nomina e la inserisce in un quadro di rapporti politici e teorici con le categorie della tradizione culturale e con la sua

stessa pratica di cineasta22”.

Dunque, la disapprovazione della critica e la diffidenza dei produttori; la necessità di ricercare una committenza che lo lasci libero di raccontare; le difficoltà sempre maggiori e il progressivo isolamento: un cammino, come ripeto, che ricorda da vicino quello percorso da Elio Petri. Un parallelismo curioso, è vero. Un legame ulteriore tra i due registi che instaurarono, negli anni della loro collaborazione, una profonda e fraterna amicizia. Possiamo comprendere quanto per Petri sia stata importante la figura del suo maestro rileggendo i pensieri che proprio a lui dedica in tre audio-lettere registrate poche settimane prima di morire e recentemente trascritte da Jean Gili in un volume che raccoglie testi inediti o di difficile reperibilità firmati da Petri dal 1957 in poi23. Ormai debilitato dalla malattia, ritorna con la mente

all’infanzia, alla sua triste infanzia romana e a quella piena di sole dell’amico Peppe; riflette su quanto questa fanciullezza così diversa

22 Alberto Farassino, op. cit., pag 9

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possa aver influito sui rispettivi approcci alle cose della vita, alla politica, alle donne; ragiona su come le diverse prospettive dalla quale si osserva una medesima cosa possano diventare spunti per una nuova storia da scrivere insieme24.

1956

Scrivere insieme. La collaborazione con De Santis, come ho già avuto modo di dire, durerà circa nove anni, dal 1951 al 1960, anno in cui Petri trentenne esordisce alla regia con L’assassino. Ma è importante ricordare che il metodo di lavoro adottato da De Santis era quello, tipicamente “neorealista”, della scrittura collettiva25: Petri ebbe dunque

possibilità di entrare in contatto con molti altri autori esordienti, con taluni dei quali tornerà in futuro a lavorare: Tonino Guerra26, ad

24 “Il punto di riferimento in questo strano periodo, oscuro periodo in cui non sento più l’amore per

il cinema, non mi trovo più in nulla di tutto quello che mi circonda, sei tu, cioè la tua figura. Vorrei chiarire con te che cosa? Prima di tutto forse proprio questo: perché tu sei un punto di riferimento? E poi, forse, per parlarti di me, sentire te che parli di me, di te, di te, cioè forse ottenere con un uomo che io considero importantissimo nella mia vita un definitivo chiarimento. Su che cosa si poteva essere, su che cosa si poteva divenire, su cosa poteva divenire la nostra società e perché ci siamo sperduti”.( Jean Gili (a cura di), op. cit.,Bulzoni Editore, Roma,2007, pag. 213)

Le tre lettere di cui ho riportato solo un brevissimo, ma significativo, brano sono un commovente documento della profonda amicizia che legò i due registi e un’ulteriore testimonianza dell’amore e della coerenza con le quali Petri praticava la sua attività di cineasta.

25“ Il lavoro di gruppo sulla sceneggiatura è un dato tipicamente neorealista al quale De Santis

resta legato anche al di la dei confini puramente cronologici del movimento. Al sistema del collettivo è legata, probabilmente la ricchezza della sua scrittura, quello spessore che ha fatto parlare di lui come di un barocco di gran classe.(…)” (Stefano Masi, Giuseppe De Santis, La

nuova Italia, Firenze, 1982).

26 “Elio sapeva essere provocatorio e paradossale, nel mezzo di quelle interminabili riunioni di

sceneggiatura; magari, interrompendo la scrittura di una sequenza, poneva a Tonino Guerra interrogativi imbarazzanti, scommesse infantili,, erano amici e credo che sia stato proprio Elio a spingerlo a lasciare la Romagna, venire a Roma e tentare l’avventura del cinema. Si erano

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esempio, ma, soprattutto, Ugo Pirro. Di origine salernitana, era approdato a Roma dopo un’infanzia da “girovago” al seguito del padre ferroviere. Pirro stesso racconta i faticosi anni Cinquanta di un “giornalista senza giornali”, di uno scrittore di soggetti acquistati e mai realizzati, destino comune, come ho già osservato, a molti giovani autori che si avvicinavano al cinema. Nello stesso anno in cui Petri inizia a collaborare con De Santis, il giovane autore campano ottiene la sua prima occasione di comparire nei titoli di testa del film d’esordio di Lizzani, Achtung!Banditi! (1951), per la realizzazione del quale, tra l’altro, Petri svolge un piccolo incarico: per tre volte porta da Roma a Genova il denaro della Lega delle Cooperative che servirà a condurre a termine le riprese. Ma l’incontro “professionale” tra i due avvenne in occasione delle riunioni di sceneggiatura per il primo film di De Santis a cui Pirro fu chiamato a collaborare: Uomini e lupi. Siamo nel 1956. Un anno di fondamentale importanza nella vita di Elio Petri artista e intellettuale: è l’anno in cui il materiale dell’inchiesta preparatoria per

Roma ore 11 viene rielaborato e pubblicato nella collezione “Il gallo”,

collana Omnibus, n°27, per le Edizioni Avanti!(Milano - Roma). Il volume contiene una prefazione di Giuseppe De Santis e una lettera di

conosciuti e avevano stretto amicizia quando Elio era andato a girare il suo primo documentario proprio nel paese di Tonino, a Santarcangelo.(…)”. (Ugo Pirro, Il cinema della nostra vita, Lindau,

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Cesare Zavattini spedita da Cuba, nella quale si rimarca la fondamentale utilità dell’inchiesta come mezzo conoscitivo della realtà e la naturalezza con la quale Petri, a soli vent’anni, lo avesse compreso27. Ma il 1956 fu soprattutto un anno di cambiamenti radicali

per la sinistra italiana. Nel febbraio di quell’anno si tenne il XX Congresso del Pcus nel quale Chruscev presentò una relazione in due parti che aprì la strada ad un lungo dibattito all’interno del partito comunista. La prima parte della relazione, letta pubblicamente, conteneva “un nuovo e significativo richiamo alla possibilità che

diversi paesi arrivassero al socialismo con mezzi diversi28”; la seconda parte era un rapporto segreto nel quale Chruscev denunciava Stalin e il regime dittatoriale basato sul culto della personalità che aveva imposto e nel quale faceva luce sulle atrocità da lui perpetrate. Era l’inizio della destalinizzazione. Per quanto alcuni dirigenti del Pci cercassero di minimizzare l’importanza delle rivelazioni e sostenessero che talune degenerazioni nella società sovietica non avrebbero in alcun modo inficiato il giudizio positivo sul sistema monopartitico, la frattura interna al partito era già aperta. I fatti d’Ungheria di quell’anno contribuirono inevitabilmente a renderla insanabile: il 23 ottobre 1956,

27 La lettera di Zavattini non compare nella riedizione di Sellerio del 2004. La riporta per intero Jean

Gili in op. cit., pag 16.

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a Budapest, un corteo pacifico organizzato a sostegno degli studenti polacchi di Poznan, le cui manifestazioni di dissenso nei confronti del governo erano state violentemente represse, si trasformò in una vera e propria rivoluzione contro la dittatura di tipo stalinista presente anche in Ungheria. Nel giro di pochi giorni migliaia di ungheresi si unirono alla rivolta e la sostennero. Le truppe sovietiche entrarono in città con i mezzi armati. A causa della forza della resistenza della classe operaia, furono le zone industriali e proletarie di Budapest ad essere bersagliate di preferenza dall'artiglieria sovietica e dai raid aerei. Queste azioni continuarono in modo improvvisato fino a quando i Consigli di lavoratori, studenti e intellettuali chiesero il cessate il fuoco il 10 novembre.

I dirigenti del Pci si pronunciarono in favore dell’invasione sovietica. Molti membri del partito dissentirono apertamente nell’ambito del congresso che si tenne in dicembre ma la direzione ottenne comunque il consenso della maggioranza dei delegati. I dissidenti al congresso furono espulsi o si dimisero di propria iniziativa. Moltissimi intellettuali restituirono immediatamente la tessera del partito. Italo Calvino, nella sua lettera di dimissioni, esprime tutta la delusione nel constatare che il Pci “ ha posto l’accento sulla lotta contro i “così

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detti” revisionisti e si è chiuso in un sostanziale conservatorismo29”. Già nell’ottobre , per la precisione il 29 ottobre del 1956, dopo sei giorni dall’invasione sovietica dell’Ungheria, centouno intellettuali e artisti comunisti avevano sottoscritto un appello al comitato centrale del Pci nel quale esprimevano totale disapprovazione per la posizione assunta dalla dirigenza del partito e nel quale manifestavano la speranza che i partiti comunisti potessero porsi alla guida dei movimenti popolari per il rinnovamento. Tra i firmatari del “Manifesto dei 10130” c’è anche Elio Petri.

“Città aperta” (maggio 1957- luglio 1958)

Pur avendo apertamente esplicitato il suo dissenso e la sua posizione critica nei confronti delle scelte del partito, Elio Petri appartiene a quella schiera di intellettuali che cercano un ulteriore dibattito, che pensano si possa ancora parlare, “tra comunisti”, degli errori commessi in passato e che lo si possa fare senza reticenze, prendendo le distanze da qualsiasi dogmatismo. Sono questi intellettuali che, pur rimanendo iscritti al partito, scelgono di dar voce alla propria dissidenza per mezzo di riviste o giornali non autorizzati.

29 Il frammento della lettera di dimissioni di Calvino è citato da Nello Ajello, Intellettuali e

Pci.1944-1958, Laterza, Bari, 1979.

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“Città aperta” è una rivista nata nel maggio del 1957 per iniziativa di un gruppo di intellettuali tra i più critici e attivi: la redazione è composta dai pittori Ugo Attardi, Renzo Vespignani e Marcello Muccini, dai letterati Dario Puccini e Mario Socrate, dal filosofo Luca Canali, dall’architetto Piero Moroni, da Elio Petri e da Gian Fabrizio Sacripante, industriale e finanziatore. Il direttore della rivista è Tommaso Chiaretti, nominato da Mario Alicata, allora responsabile culturale del Pci31. La rivista era stata concepita come “Quindicinale di

cultura” ma in realtà uscì con cadenza assai irregolare: sette numeri in tutto dal maggio del 1957 al luglio del 1958. Nella prima pagina del primo fascicolo il gruppo di redattori si presenta:

“Siamo un gruppo di intellettuali che si ritengono impegnati nel rinnovamento sociale, morale e culturale del nostro paese, mossi dall’ideale socialista, non inquinato da compromessi riformistici, decisi a combattere l’arretratezza dell’attuale società capitalistica italiana, le nebbie feudali del clericalismo, le varie manifestazioni del conformismo. Vogliamo fare un foglio di “tendenza”.Tendenza per noi 31 Nello Ajello descrive con dovizia di particolari la storia tormentata della nascita della rivista. In

particolare racconta come e per quali motivi la nomina di Tommaso Chiaretti fu caldeggiata da Alicata stesso: “(…) In un successivo incontro con Puccini e Vespignani, Alicata si rese conto che

ormai era difficile fermare l’iniziativa e perciò penso di controllarla alla meno peggio, proponendo come direttore Enzo Modica, dirigente della federazione giovanile comunista. Essendo stata bocciata questa candidatura, Alicata ne avanzò un’altra, quella di Tommaso Chiaretti: in quanto redattore dell’”Unità” egli avrebbe rappresentato una garanzia almeno formale agli occhi del partito. La proposta venne accettata anche perché i promotori sapevano che Chiaretti era su posizioni assai vicine alle loro.” (Nello Ajello,op. cit., pag 439).

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è anzitutto la misura e il limite delle nostre intenzioni e ambizioni [….] Non temiamo di sbagliare, poiché il nostro sarà soprattutto un giornale di esperienza e di battaglia. […] Rispettiamo la legittimità culturale di ogni ricerca, ma vogliamo esercitare una critica costante e militante per l’elaborazione e la difesa di una nostra poetica: siamo dalla parte del movimento realista nelle arti, nel cinema, nella letteratura, ma cerchiamo di contribuire acciocché essa si purifichi di tutte le degenerazioni e le mistificazioni populistiche e folcloristiche. Facciamo nostro l’ideale del progresso civile e tecnico, quello della civiltà industriale, ma ne respingiamo tutte le idolatrie meccanicistiche

e gli incubi ossessivi32”.

Come si evince da questa dichiarazione di intenti, le tematiche che la rivista sviluppa sono molteplici: la pittura, l’architettura, la letteratura,il cinema; il tutto inevitabilmente collegato all’intervento, diretto o figurato, nel dibattito politico in corso all’interno del partito. Elio Petri si occupa ovviamente di cinema e firma in tutto nove testi, nella maggior parte dei quali riflette sul rapporto tra cinema e impegno politico, sull’urgenza di una scelta morale che permetta agli artisti di ritrovare una solidarietà di categoria grazie alla quale salvaguardare la

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libertà d’espressione33. Nel primo numero della rivista, datato 25

maggio 1957, Petri pubblica una lettera aperta a Pietro Germi, in risposta ad un’accesa discussione politica che il regista genovese, notoriamente anticomunista, aveva intavolato qualche tempo prima in occasione di un loro incontro casuale. A partire dalla constatazione che l’anticomunismo è “un atteggiamento umano e intellettuale prima di

tutto scostante per quel tanto di religioso e di irrazionale che esso contiene, mentre vorrebbe combattere nel comunismo il religioso e l’irrazionale34”, Petri rivolge al suo interlocutore una sorta di appello: in un periodo di crisi profonda per il cinema italiano, crisi non solo economica ma qualitativa, è necessario andare oltre i propri interessi contingenti e gli odi personali : “La soluzione delle nostre questioni

fondamentali richiede prima di tutto l’unità profonda dei registi e degli scrittori,vecchi e giovani, che hanno contribuito all’affermazione del

33 Riporto qui di seguito i titoli degli articoli firmati da Petri per “Città aperta” :

-“I germi dell’odio e della speranza:lettera a Pietro Germi” ( “Città aperta”,I, 25 maggio 1957; il testo è stato ripubblicato in “Bianco & nero”,I,gennaio-marzo,1998)

-“Henri Beyle ringrazia” (“Città aperta”,I, 25 maggio 1957) -“La lezione di Calle Mayor” (“Città aperta”, 2,10 giugno 1957) -“Duecentomila lire” (“Città aperta”,3, 25 giugno 1957)

-“Non è un luogo comune” (“Città aperta”,3, 25 giugno 1957)

-“Il cinema italiano:un elefante castrato”(“Città aperta”, 4-5, 25 luglio 1957)

-“Morte di uno scrittore. Appunti per un film in economia”( “Città aperta”,4-5, 25 luglio 1957)

-“Elia Kazan:una coscienza boomerang” (“Città aperta”,7-8 ,aprile –maggio 1958) -“Intellettuali di paglia”(“Città aperta”, 9-10, giugno-luglio 1958)

Tutti gli articoli sopra citati si trovano ora in Jean Gili, op. cit., 2007

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realismo come metodo e come clima nel cinema italiano. Senza una tale unità la crisi morale e artistica che travaglia il nostro cinema non potrà mai più essere risolta […]Lo spegnersi di un impegno collettivo può influire fatalmente anche sul lavoro di un solo isolato artista35”. Petri ribadisce l’urgenza di ritrovare la solidarietà e le responsabilità collettive per fronteggiare i divieti della censura e per garantire a ciascuno la possibilità di esprimersi liberamente, qualunque sia il proprio convincimento politico: “La libertà d’espressione va difesa per

quello che essa fondamentalmente rappresenta: il diritto degli artisti di esprimersi e di indagare criticamente sul corpo della realtà in cui vivono,qualunque sia la società in cui vivano36”. La medesima tematica della censura e della libertà espressiva degli artisti ritorna negli altri articoli firmati da Petri : “Il non aver compreso che la difesa della

libertà d’espressione – per tutti gli intellettuali – significa difesa dei principi costituzionali, della democrazia, è un sintomo di cecità abbastanza grave, che ha compromesso le sorti del cinema italiano37”. Un altro argomento che assurge a filo conduttore tra i vari articoli è quello relativo alla necessità di andare oltre qualsiasi schematismo, a qualsiasi cristallizzazione tematica o stilistica : “Il neorealismo se non

35 Ibidem, pag.34 36 Ibidem, pag 33

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è inteso come vasta esperienza di ricerca e di indagine, ma come vera e propria tendenza poetica, non ci interessa più […]La torbida Italia nata dai compromessi del dopo guerra non può essere più affrontata col candore implicitamente cristiano del “neorealismo”: urgono storie ed immagini più pertinenti alle lacerazioni morali che la restaurazione capitalistica ha compiuto nelle coscienze. Occorre fare i conti con i miti moderni, con le incoerenze, con la corruzione, con gli esempi splendidi di eroismi inutili, con i sussulti della morale: occorre sapere e potere rappresentare tutto ciò38”. Ecco, in nuce, l’idea che Petri ha del cinema e alla quale tenderà in tutta la sua attività di regista: il contesto nel quale ciascun individuo vive inevitabilmente condiziona la sua esistenza, la sua capacità di prendere decisioni, le relazioni con gli altri individui. Un indagine condotta all’interno della coscienza umana rimanda per conseguenza all’analisi critica delle strutture sociali, politiche ed economiche che l’individuo subisce. L’impegno di Elio Petri sarà sempre quello di mettere in luce i conflitti drammatici che sorgono nella società moderna tra gli individui e le loro coscienze.

“Le scelte morali sono il centro psicologico da cui si dipartono le azioni quotidiane di miliardi di individui che costituiscono l’umanità moderna. L’esistenza non è che un accelerato succedersi di scelte, 38 Ibidem, pag. 56

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sempre meno casuali, tra la verità e la non verità. La chiave di tanti personaggi tipici del nostro tempo è costituita dai termini delle alternative che essi quotidianamente affrontano: e dal modo in cui ciascuno di essi decide.39

Nell’estate del 1957 i redattori della rivista vengono sottoposti ad una sorta di processo intentato dal Pci a causa delle posizioni non ortodosse che assumono – è il caso,ad esempio, della solidarietà manifestata ai compagni che avevano ritirato la tessera in seguito ai fatti d’Ungheria – e vengono deferiti alla commissione provinciale di controllo della federazione romana. Il dialogo tra gli intellettuali di “Città aperta” e la dirigenza del partito divenne impossibile. La rivista sospese le pubblicazioni (per poi riprenderle otto mesi più tardi,nel marzo del 1958, con periodicità mensile). I redattori, e tra loro Petri , omisero di rinnovare la tessera per il 1958. Nell’estate dello stesso anno, il direttore Tommaso Chiaretti, che, in quanto redattore de “L’Unità”, è considerato come un funzionario di partito, venne addirittura radiato.

La decisione di abbandonare il partito nel quale aveva militato fin da giovanissimo e nel quale aveva profondamente creduto fu senza dubbio dolorosa per Petri ma necessaria poiché era diventato impossibile per

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lui riconoscersi nel rigido dogmatismo e nella chiusura al nuovo che il partito stesso dimostrava. In un intervista che Petri rilascerà ad Aldo Tassone ne 1979 si legge: “Ho scelto la posizione del compagno di

strada, per lunghi anni, nella speranza che qualcosa cambiasse, fuori e dentro il partito. Ma i grandi ostacoli frapposti dai vertici del partito ad un reale, sostanziale processo di destalinizzazione erano il sintomo più appariscente del fatto che per questo partito comunista fosse quasi impossibile cambiare40”.

Elio Petri regista

Dopo il lungo apprendistato di tipo decisamente “tradizionale” – dall’esperienza giornalistica alle molteplici collaborazioni in qualità di aiuto regista e sceneggiatore41 – Elio Petri, alle soglie degli anni

Sessanta, realizza il suo primo lungometraggio: L’assassino. Lino Miccichè, a proposito di questo, scrive: “L’episodio registico di

Petri fu preceduto da un lungo tirocinio(…).Il dato meno inaspettato de L’assassino(…) era dunque, la padronanza del mezzo espressivo, la 40 Tassone Aldo, Parla il cinema italiano,vol. II, Il Formichiere,Milano, 1979-1980

41 Tra il 1951 e il 1960, Petri, oltre al suo costante impegno al fianco di De Santis, collabora con

svariati registi, sempre in veste di sceneggiatore : con Giuseppe Amato nel 1954 per la realizzazione di Donne proibite;con Guido Brignone nel 1955 per Quando tramonta il sole; con Aglauco Casadio nel 1958 per Un ettaro di cielo; con Leopoldo Savona nel 1959 per Le notti dei teddy boys; con Veljko Bulajic nel 1959 per Treno senza orario;con Gianni Puccini nel 1960 per L’impiegato e Il

carro armato dell’8 settembre; con Enzo Provenzale per Vento del sud e con Carlo Lizzani per Il gobbo nello stesso 1960.

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sicurezza di scrittura, frutto evidente di un lungo e non trasandato apprendistato42”.

Il film del 1961, non è propriamente un “esordio” alla regia, dal momento che – prima nel 1954 e poi nel 1957 - il giovane allievo di De Santis aveva girato due cortometraggi, tappe anche queste di un percorso “canonico” di apprendimento. Nasce un campione del 1954 è un breve documentario sul mondo del ciclismo prodotto dallo stesso Petri; del 1957 è invece I sette contadini: un progetto finanziato dall’ANPI sulla storia dei fratelli Cervi, contadini emiliani, militanti antifascisti, fucilati per rappresaglia all’alba del 28 dicembre 194343.

Volendo, per praticità, proporre una schematizzazione nella filmografia del regista, diremo che generalmente si riconoscono tre fasi, i confini delle quali possono mutare a seconda del punto di vista che l’analista adotta44. Alfredo Rossi, ad esempio, propone una lettura dell’opera di

Petri decisamente affascinante, che rimanda alle manifestazioni

42 Lino Miccichè, Il cinema italiano degli anni Sessanta, Marsilio, Venezia, 1975.

Miccichè sarà sempre uno tra i più severi critici dell’opera di Petri : in questo stesso contributo, poche righe più avanti, sostiene che, per quanto il “mestiere”di Petri, lungamente esercitato e puntualmente applicato abbia dato adito a non poche speranze all’inizio degli anni Sessanta, la fondamentale contraddittorietà del regista sminuisce la portata ideologica del suo cinema.

43 La sceneggiatura del cortometraggio è di Cesare Zavattini, Luigi Chiarini e Renato Nicolai. 44 Riporto le schematizzazioni di Alfredo Rossi e Lucia Cardone, autori di due testi monografici tra i

più interessanti sulla figura di Elio Petri: se il primo propone un’analisi dell’intera filmografia del regista in termini di maschera, la seconda sceglie di tracciare un ritratto dell’autore a partire da un punto di vista assolutamente originale, lo studio di un film “marginale”, inconsueto: “La decima vittima”.

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ritualistiche del fatto teatrale45. Il cinema politico, a differenza della

commedia all’italiana, non mette in scena dei “mascheroni”46 ma delle

maschere: quest’ultima, nel rito, designa “ il desiderio di sussumerla

per accedere a ciò che rappresenta47”,ovvero l’assoluta mimesi: negati dalla maschera si impersona l’oggetto del desiderio.

Ed è in termini di maschera che Alfredo Rossi elabora la sua interpretazione: se nella prima fase, che include i film realizzati dal 1961 al 1968, Petri mette in scena la maschera del privato48, le tensioni

di coscienza ancora superficiali, le contraddizioni interiori che sfociano in nevrosi, la seconda fase, che include Indagine su un cittadino al di

sopra di ogni sospetto (1970) e La classe operaia va in paradiso

(1971), è quella della “piazza carnevalizzata”, della messa in scena della maschera del politico, inteso come insieme dei desideri del collettivo in ordine al Potere: la nevrosi diviene patologica, si trasforma in schizofrenia individuale e poi collettiva.

45 Alfredo Rossi, Elio Petri,La nuova Italia, Firenze, 1979.

46 “Sordi, Manfredi e Gassman funzionano nella tipologia di genere come supporti di italianità:

sono i mascheroni, grotteschi,dell’italiano connotato dal suo essere di classe. (…)Questo è il segreto della commedia all’italiana: riorganizzare a livello del simbolico un ordito di classe attraverso una fisiognomica di classe. I rapporti con la commedia dell’arte sono evidenti.” (A.

Rossi, op. cit.,pag15).

47 Alfredo Rossi, op. cit., pag.16

48 Ovvero Marcello Mastroianni. Il suo volto e il suo corpo diventano il tramite per la messa in

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L’ultima fase è definita “delle apocalissi laiche” : la crisi è totale, non esiste speranza di ricomporla. A partire da La proprietà non è più un

furto (1973), il discorso di Petri si fa irrimediabilmente oscuro, “la fantasmagoria della piazza carnevalizzata si spegne in un bagno di colore viola: subentra la disperazione della colpa immaginaria49”. Lucia Cardone propone invece una schematizzazione che rimanda al succedersi delle età dell’uomo: ad una prima fase di “assestamento”, di sperimentazione linguistica e formale, segue la fase della maturità artistica: a partire da A ciascuno il suo (1967), film che Aldo Tassone definisce “cerniera” proprio per il suo collocarsi tra due fasi ed esserne anello di congiunzione, Petri elabora un linguaggio assolutamente personale, ricco di simboli e richiami, nel quale prevale l’elemento grottesco, caricaturale; veicola un messaggio più propriamente politico coniugandolo ad uso eclettico dei moduli narrativi tradizionali. È importante sottolineare quanto abbia influito su questa fase di crescita, l’autonomia garantita a Petri dalla collaborazione con produttori non professionisti, finanziatori semplicemente appassionati di cinema, esterni al circuito produttivo classico e alle sue dinamiche di autocensura. Negli anni Sessanta la maggior parte dei grandi produttori sono interessati a finanziare solo film disimpegnati, leggeri, per andare

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incontro ad un successo di pubblico il più vasto possibile e per contrastare la colonizzazione del mercato da parte dell’industria hollywoodiana50. Inoltre, per evitare di incappare nei rigidi interventi

censori, i produttori stessi, De Laurentis in testa, propongono una sorta di “patto” di autocensura sul modello, riveduto e aggiornato, del codice Hays51: “(…)quello che De Laurentis caldeggia (è in corso la

discussione sulla nuova legge del cinema) è un sistema rigidamente integrato che non dia adito a smagliature e sorprese: alla censura economica di stato (regolata attraverso il credito della Banca nazionale del lavoro: credito negato,discrezionalmente, ai film ritenuti di scarso “affidamento”), si dovrebbe accompagnare un’autocensura

ufficialmente istituita e regolamentata52”.

50 Nella prima metà degli anni Sessanta si registra un effettivo sviluppo della produzione

cinematografica italiana: dai 140 film prodotti nel 1958 si passa ai 246 del 1962. In realtà, questa ripresa è diretta conseguenza della crisi dell’industria hollywoodiana, una volta superata la quale l’industria italiana deve tonare a fare i conti con la competizione americana.

51Il “Production code”, più comunemente detto “Codice Hays”, era una specie di manuale

d’autocensura al quale tutti i produttori, registi e attori dovevano uniformarsi. Will H.Hays, presidente della Motion Pictures Producers and Distributors of America, detto “lo zar del cinema”, avvocato e ministro, fanatico moralizzatore, ne fu l’estensore. Il "Production Code" elencava tre "Principi generali":

1. Non sarà prodotto nessun film che abbassi gli standard morali degli spettatori. Per questo motivo la simpatia del pubblico non dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male o il peccato.

2. Saranno presentati solo standard di vita corretti, con le sole limitazioni necessarie al dramma e all'’intrattenimento. 3. La Legge, naturale, divina o umana, non sarà mai messa in ridicolo, né sarà mai sollecitata la simpatia dello spettatore per la sua violazione.

Diverse restrizioni specifiche vennero poi stilate come "Applicazioni particolari" di questi tre principi fondamentali.

52 Ferrero A., Grignaffini G., Quaresima L., Il cinema italiano degli anni ’60, Guaraldi, Firenze -

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I film che Petri realizza nel quinquennio 1960-1965 sono profondamente condizionati dalle ingerenze della produzione. La sceneggiatura per un film da farsi con Alberto Sordi commissionata a Petri da Dino De Laurentis nel 1962 era, all’origine, tutt’altra cosa rispetto a Il maestro di Vigevano: “Era un film comprendente dai

quindici ai sedici episodi tutti improntati alla mostruosità e al cinismo dei personaggi della piccola e media borghesia. Era un film politico molto forte. I personaggi erano in un certo senso storditi ma non alienati. Raccogliemmo sedici storie e Sordi doveva interpretare sedici mostri: è del resto portato alla caricatura espressionista del piccolo borghese. Ma il film era politico, c’era dentro l’uomo politico, c’era Agnelli, c’era il chirurgo53”.

La sceneggiatura è quella de I mostri : il film fu affidato a Dino Risi che ne smorzò la vis polemica. A Petri, per conseguenza, fu offerto di realizzare Il maestro di Vigevano che, come giustamente osserva Alfredo Rossi, divenne “un personaggio di Sordi piuttosto che

un’opera di Petri54”.

Ancora più significativa è la vicenda produttiva de La decima vittima: il regista riadattò insieme a Tonino Guerra e ad Ennio Flaiano il

53 Jean Gili, Elio Petri, Nice, Facultè des Lettre set Sciences Humaines section d’Histoire, 1974. 54 Alfredo Rossi, , op.cit.,1979, pag.44

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racconto fantascientifico di Robert Sheckely, “The seventh victim”, amplificandone taluni spunti al fine di proporre una serrata critica dell’americanismo, un vero e proprio pamphlet contro il modello imposto dalla società dei consumi, contro un sistema basato essenzialmente sulla crudeltà dei rapporti interpersonali, un’ipotesi di futuro risultante dalla dilatazione dei difetti della realtà contemporanea, il tutto attraverso una chiave satirica. Il film venne prodotto da Carlo Ponti che non fu mai pienamente soddisfatto della sceneggiatura e che addirittura, all’insaputa di tutti, ne commissionò versioni alternative ad altri autori. Il produttore rifiutò l’ipotesi di ambientare il film negli Stati Uniti e alla fine, dopo una serie infinita di modifiche, rivoluzionò completamente il progetto iniziale: “Fu una tortura.(…)Dopo aver

atteso tanto tempo, dovemmo ambientare il film quasi interamente a Roma e, in pratica, sconvolgere tutto: non era più ciò che noi avevamo pensato lavorando alla sceneggiatura, divenne il classico film su Roma. Dopo tutto quel tempo, due anni di attesa, di discussioni, la sceneggiatura definitiva fu scritta in trenta giorni”

Dunque, la necessità di una committenza coraggiosa che garantisse a Petri la possibilità di sviluppare appieno i propri progetti: l’incontro nel 1965 con Zaccariello, che si occupava di piastrelle a Sassuolo,

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definisce il punto d’avvio della suddetta “seconda fase”, dell’elaborazione più matura e articolata di un significato politico forte e di una modalità espressiva più marcatamente espressionistica. La terza ed ultima fase nella filmografia del regista è segnata da un’irrimediabile pessimismo : a partire da La proprietà non è più un

furto (1973), il discorso di Petri si fa sempre più cupo e senza speranza: “Nell’ultimo periodo della mia vita ho fatto film sgradevoli. Si, film sgradevoli in una società che ormai chiede la sgradevolezza a tutto, persino all’impegno. I miei film, al contrario, oltrepassano addirittura il segno della sgradevolezza. A cosa è imputabile tutto ciò?Perche faccio film così? Evidentemente è per via di una netta sensazione di essere arrivato al punto in cui mi pare che tutte le premesse che c’erano quando io ero ragazzo si siano proprio vanificate. La società ha preso tutto un altro indirizzo, e in me questo non poteva non lasciare una traccia profonda55

Poiché la mia tesi intende occuparsi dei film frutto della collaborazione tra Elio Petri e Ugo Pirro applico, per praticità, la seguente schematizzazione, solo in minima parte differente rispetto a quella di Cardone: la prima fase, di assestamento, include i film realizzati tra il

55 Citazione di Elio Petri tratta dal video di Federico Bacci, Nicola Guarnieri e Stefano Leone, Elio

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1960 e il 1965 ( L’assassino (1960); I giorni contati (1962); Il maestro

di Vigevano (1963); Peccato nel pomeriggio ( episodio di Alta infedeltà) (1964); La decima vittima (1965) ); la seconda fase, quella

della collaborazione con Ugo Pirro include i film realizzati tra il 1967 e il 1973 ( A ciascuno il suo(1967); Indagine su un cittadino al di sopra

di ogni sospetto (1970); La classe operaia va in paradiso (1971); La proprietà non è più un furto (1973) ); infine la terza ed ultima fase

include i film realizzati dal 1976 al 1979 ( Todo modo (1976); Le mani

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