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Capitolo 1 – Quale contraddittorio nel codice del 1930? Sommario

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Capitolo 1 – Quale contraddittorio nel codice del 1930?

Sommario

1.1 Le contestazioni testimoniali nel codice Rocco 1

1.2 Dalla Costituzione al codice Vassalli 12

1.1 Le contestazioni testimoniali nel codice Rocco

Il codice di procedura penale del 1930, c.d. codice Rocco, avendo ricevuto un’impronta di stampo autoritario (siamo in pieno periodo fascista), riservava al diritto di difesa e, conseguentemente, al contraddittorio, una posizione sostanzialmente marginale. Il sistema processuale che ne scaturiva era infatti definibile come modello di tipo "inquisitorio"; ciò risulta evidente se ricordiamo, en passant, alcune delle principali caratteristiche: iniziativa processuale e probatoria d'ufficio; nessun limite all'ammissione delle prove; fase istruttoria improntata alla segretezza più rigorosa, eccezion fatta per la doverosa verbalizzazione delle deposizioni raccolte, con esclusione della difesa da ogni attività probatoria; presunzione di colpevolezza; carcerazione preventiva. Evidente è come da un siffatto sistema non possa che derivarne un diritto alla difesa frustrato in ogni suo aspetto.

Risulta altresì chiaro che, alla luce del codice del 1930, l'istituto delle contestazioni, come oggi lo intendiamo, aveva importanza residuale a causa dell'ampia possibilità di lettura degli atti attinenti alla fase dell'indagine. Effettivamente, in assenza di una marcata e netta

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2 separazione fra fase preliminare e fase dibattimentale, come siamo oggi abituati a conoscere, risultava molto più facile far filtrare elementi probatori dinnanzi al magistrato giudicante per merito dei più ampi poteri del pubblico ministero, nel rito sommario, e del giudice istruttore, nel rito formale. Poteri probatori che, sebbene appartenenti a due soggetti differenti, come rileva già Fanuele, sono del tutto identici fra loro; con più esatte parole «l'identità di posizione sussistente tra i due soggetti costituiva una delle caratteristiche più negative del sistema. Infatti, il pubblico ministero, nell'istruzione sommaria, agiva come un giudice e, poi, nel dibattimento, come un accusatore che, però, utilizzava, in quest'ultima veste, le prove prima assunte in virtù dell'altro ruolo» (1). Per

giustificare l'attribuzione di poteri istruttori ad un soggetto con qualità di parte, il guardasigilli non esitò ad esprimersi in termini che riecheggiavano la teoria del pubblico ministero come organo di giustizia e, in quanto tale, legittimo titolare di funzioni giurisdizionali: «È vero che il P.M. è parte ed è pur vero che l'istruzione sommaria ha carattere accusatorio. Ma il P.M. è una parte sui generis, che non agisce per fini personali, bensì per uno scopo eminentemente pubblico, e che di conseguenza ha interesse ad agire soltanto quando tragga la convinzione della colpevolezza da elementi obiettivi, accuratamente vagliati. Ne segue che non v'è alcuna incoerenza nell'assegnare al P.M. la competenza

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3 per gli atti di cui si tratta, perché, se formalmente si potrà dire che esso compie una istruzione di parte, sostanzialmente si deve riconoscere che tale istruzione non è informata a quei criteri che sono propri delle parti private, e che improntano di parzialità l'attività di queste» (2).

Problemi ulteriori sorgono se concentriamo il focus sul giudice istruttore: egli non aveva né il connotato basilare della giurisdizione, l'imparzialità, né tantomeno erano ravvisabili profili garantistici per la difesa (che, anzi, veniva limitata). Tale giudice era infatti tenuto, ex art. 299 c.p.p. 1930, a compiere tutti gli atti che apparissero «necessari per l'accertamento della verità». Ecco che il giudice istruttore diveniva «specchio fedele della verità e vigile tutore dell'accusato» (3); i suoi atti,

finalizzati a tale ambizioso compito, non potevano non avere, dunque, che pieno valore probatorio. Limpida qui Fanuele nell'ammettere che «fino a quando si fosse attribuito al giudice istruttore il dovere di scoprire il "vero", il principio dell'accertamento della verità sarebbe risultato prevalente, anziché conseguenziale, rispetto al canone del contraddittorio nella formazione della prova. Da qui, dunque, lo scarso valore attribuito ai divieti di letture dibattimentali posti dal codice di rito penale del 1930, poiché la lettura stessa sembrava costituire un mezzo per la scoperta della verità; tale procedura poteva, secondo quell'ottica, anche avvantaggiare

2 Osservava il ministro ROCCO, Relazione sul progetto preliminare di un nuovo codice

di procedura penale, in Lavori preparatori del codice penale, Roma, 1928, 76.

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4 la difesa; donde l'impossibilità di un'autentica attuazione dell'oralità e del contraddittorio» (4).

Al legislatore fascista il congegno delle letture dibattimentali, messo a punto dal codice previgente, appariva ispirato ad una eccessiva diffidenza verso l'attività dell'organo inquirente e fondato sul molto "ingenuo" presupposto che il giudice ignori ciò che è negli atti o che può essere esposto oralmente nella discussione dal p.m. o dal difensore. Prasseologicamente, dunque, il contraddittorio non veniva attuato, poiché si riteneva che il meccanismo delle letture fosse strumento sufficiente ad acquisire elementi probatori utili al giudizio; nella pratica, l'organo giudicante deliberava sulla base dei verbali istruttori. Valorizzare il contraddittorio, scrive Dalia, è volere che «non si rinunci a ricercare ciò che deve formare oggetto del giudizio, rimettendosi ai risultati della ricerca da altri compiuta» (5).

Occorre, però, ora chiederci se tale concezione ideologica trovasse un vero e proprio riferimento normativo. Non si può non ricordare, quindi, che l'art. 462 c.p.p. 1930 individuava una serie d'ipotesi in cui la lettura delle dichiarazioni veniva consentita: tali deroghe apportate

4 FANUELE, Le contestazioni nell'esame testimoniale, cit., 8.

5 DALIA, Il giudizio, in Aa.Vv., Il giudizio di primo grado, a cura di Dalia, Napoli,

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5 all'oralità della prova testimoniale erano così ampie da giustificare il dubbio se, in sostanza, la lettura dei verbali non finisse per costituire la norma anziché l'eccezione. Tali dichiarazioni venivano «non a caso definite "testimoniali", quasi a confermare, anche a livello nomenclatorio, che il momento in cui, di fatto, la prova si formava non era il dibattimento, ma la fase precedente» (6). Invero però, l'atto

istruttorio, per avere efficacia probatoria, doveva essere filtrato tramite la lettura nel dibattimento. L'art. 462, c.p.p. 1930, così esordiva: «può essere data lettura delle deposizioni testimoniali ricevute». Se ci limitassimo a dare una interpretazione letterale del disposto, arriveremmo a ritenere che l'ordinare la lettura dell'atto dipendesse esclusivamente dalla mera volontà del giudice ("può"); sennonché, come ormai è stato da tempo dimostrato, nel processo penale «appare difficile individuare un solo comportamento, normativamente ipotizzato, del giudice o del pubblico ministero, che non assurga ad oggetto di una situazione soggettiva di dovere» (7). Il giudice aveva, quindi, un potere-dovere di dare lettura delle

dichiarazioni, subordinato, tuttavia, ad una duplice condizione. Da un lato, infatti, dovevano ricorrere le ipotesi tassative (8) dettate dall'art. 462;

dall'altro lato, occorreva verificare la necessarietà dell'acquisizione dell'atto ai fini decisori. Sicché il giudice doveva, anzitutto, valutare se la

6 FANUELE, Le contestazioni nell'esame testimoniale, cit., 10.

7 CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1957, 173.

8 Sul carattere di eccezionalità e tassatività dei casi di cui ai numeri 1, 3, e 4 dell'art. 462,

si veda NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974, 433.

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6 situazione di specie rientrava nel numerus clausus dettato dalla disposizione del codice e, contemporaneamente, operare una valutazione di utilizzabilità della prova, poiché solo se effettivamente utile alla sua decisione egli avrebbe potuto acquisire l'atto scritto; trattandosi anzi di un potere, il giudice poteva altresì negare la lettura richiesta dalle parti, se la riteneva inutile. Sebbene, dunque, vi fossero ampie deroghe all'oralità, queste erano, invero, assai limitate.

Per quanto riguarda le contestazioni dibattimentali in particolare, esse erano previste al numero 2 dell'art. 462: era possibile leggere le deposizioni testimoniali per far «risultare contraddizioni o variazioni fra le deposizioni rese nell'istruzione e quelle rese nel dibattimento o quando occorre aiutare la memoria del testimonio». Veniva a prevedersi così una disciplina dicotomica per la quale era possibile contestare tanto per far rilevare contraddizioni, quanto per aiutare il testimone. Tali categorie di letture testimoniali si distaccavano da quelle contemplate agli altri numeri e nell'ultimo comma del medesimo articolo. Il n. 2, infatti, dichiarando leggibili tutte le testimonianze istruttorie, non poteva «realizzare una forma di autonoma acquisizione di testimonianza scritta, come si ha – sia pur eccezionalmente – nelle altre ipotesi previste dal medesimo articolo. Al contrario esso presuppone la diretta ed attuale escussione del teste al dibattimento, rispetto alla quale svolge una funzione soltanto strumentale ed ausiliare. In caso contrario, a tacer d'altro, perderebbero ogni

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7 significato i divieti desumibili dagli altri numeri dell'articolo: ogni testimonianza scritta sarebbe leggibile ex art. 462 n. 2. L'interpretazione corretta della norma consiste, dunque, nel ritenere che le letture ivi consentite non rappresentino un'autonoma acquisizione dibattimentale di attività probatorie precedenti» (9). Ed in effetti, ai sensi dell'art. 467 del

codice Rocco, l'escussione testimoniale, per regola generale, doveva svolgersi nella pienezza dell'oralità, dell'immediatezza e del contraddittorio. Senonché i margini di ambiguità dell'allora vigente regime normativo furono forzati, all'insegna del libero convincimento del giudice e della ricerca della verità materiale, per utilizzare prove testimoniali scritte, ben oltre i limiti consentiti dalla legge. Non è difficile immaginare la criticabile consuetudine giurisprudenziale che venne a diffondersi e che perdurò per molti anni a venire: in primis, l'abuso delle letture "in soccorso della memoria" (10) che in realtà servivano per far

acquisire al processo, prima della dichiarazione del teste, il contenuto dei verbali istruttori; in secundis, il verbale delle dichiarazioni difformi rappresentava uno strumento di condizionamento psicologico, «in effetti, poiché il verbale veniva letto, nella prassi, prima della deposizione del teste, tale procedura si risolveva in uno stimolo per spingere il testimone a non discostarsi dalle precedenti dichiarazioni, così da non poter alterare

9 Ibidem, 432.

10 Su tali abusi e sulla necessità di una modifica del codice, CASTELLANO, Il codice

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8 la "corretta" ricostruzione dei fatti» (11). «È purtroppo frequente»,

rammaricava Carnelutti, «per non dire consueto, lo spettacolo del giudice del dibattimento, il quale richiama il testimone, non di rado con ammonimenti severi, qualche volta con lo spettro del processo per falsa testimonianza, a confermare quanto ha detto nel procedimento preliminare cosicché la istruzione nel procedimento definitivo diventa un'inutile ripetizione di quella compiuta nel procedimento preliminare» (12). Un sistema processuale che pretende di ricercare la verità, come

millantava il codice del 1930, non può che imporre di leggere le dichiarazioni difformi solo successivamente alla deposizione del teste e limitatamente a quanto discordante. Lapidario Carnelutti nel ritenere che, altrimenti, il contraddittorio avrebbe avuto «un sapore di ipocrisia» (13).

Il vero problema che impediva una discussione aperta al confronto fu l'avallo dato alla prassi da una sentenza (a dire il vero molto successiva, ma questo non fa altro che dimostrare l'ormai radicata consuetudine giurisprudenziale) del 1964 della Corte di cassazione: «alla formazione del convincimento del giudice penale può contribuire qualunque elemento e quindi anche la deposizione resa dal teste soltanto nella fase istruttoria» (14).

11 FANUELE, Le contestazioni nell'esame testimoniale, cit., 12. 12 CARNELUTTI, Principi del processo penale, Napoli, 1960, 206.

13 Idem. Di avviso contrario, tuttavia, CASTELLANO, Il codice di procedura penale

nella sua attuazione pratica, cit., 190, il quale ritiene che la lettura per far risultare

contraddizioni non costituisce una violazione del contraddittorio e dell'immediatezza, poiché «il teste è lì che ha deposto o depone».

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9 Eppure dall'analisi dell'art. 462 c.p.p. si ricavavano una serie di limiti, sottintesi nel dettato legislativo, che avevano il fine appunto di evitare tali prassi; limiti più volte rilevati dalla dottrina che costantemente veniva tuttavia ignorata dalla giurisprudenza. Un primo limite riguarderebbe il momento a partire dal quale il giudice avrebbe potuto ordinare la lettura. «Per quanto riguarda la lettura motivata dall'esigenza di "far risultare" – quindi, non di "prevenire" contraddizioni e variazioni, il momento non può che essere successivo al manifestarsi del contrasto tra le due versioni dei fatti. Analogo discorso va svolto in ordine alla lettura disposta per "aiutare" – dunque, non per "supplire" – la memoria del testimone. Solo dopo che il testimone abbia dichiarato di non serbare più memoria dei fatti esposti nel precedente esame il giudice, che ritenga credibile una simile dichiarazione, può tentare di stimolare i ricordi del teste tramite la lettura del verbale istruttorio» (15). Un secondo limite

(l'unico effettivamente rispettato) era costituito dal dovere del giudice di leggere al teste comparso in dibattimento solo la deposizione resa in istruttoria da quest'ultimo, e non da altri testimoni: questa risultava, infatti, subordinata dallo stesso articolo a specifiche e diverse condizioni. Terzo limite discendeva dal dovere del giudice di leggere al testimone solo la parte della deposizione scritta che contrastava con quella orale o

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10 che fosse idonea a ravvivare la memoria. Ma questa ulteriore barriera creava non meno problemi pratici. Infatti, «al di là della facile enunciazione teorica, il rispetto di questa elementare esigenza non può che rimanere affidato alla sensibilità dell'organo incaricato di dirigere l'escussione o, quando si controverte sui limiti della lettura, al collegio. Soprattutto quando la lettura è stata motivata dall'esigenza di "aiutare la memoria" si può immaginare come sarebbe arduo individuare a posteriori i brani del verbale istruttorio capaci di eccitare le reminescenze del testimone, senza pregiudicare l'obbligo di deporre "oralmente". Ognuno intende, d'altro canto, che risulterebbe, a dir poco, incongruo dichiarare – ai sensi dell'art. 462 ultimo comma c.p.p. - la nullità di un esame dibattimentale e della sentenza che lo recepisce, solo perché al teste è stata letta qualche riga in più della sua deposizione istruttoria» (16).

Il codice Rocco lasciava, in conclusione, cocenti delusioni agli studiosi del tempo. Fu solo con la caduta del fascismo nel 1943 che le vere e proprie critiche al sistema penalistico italiano si levarono, con più convinzione, da più parti. La frequente pratica delle letture riduceva manifestamente gli spazi del contraddittorio e dell'oralità; inoltre, si iniziò ad ammettere che il riconoscere valore probatorio ad atti compiuti in una fase istruttoria come quella costruita dal codice Rocco, determinava la

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11 precostituzione di prove per il dibattimento, pregiudicandone l'accertamento della verità (e quindi il principio cardine sul quale si fondava l'assetto normativo stesso), poiché la segretezza «è quella che più di ogni altra si presta all'insidia dell'errore giudiziario» (17). Il codice del

1930 veniva considerato ormai come il responsabile della «malattia» o, addirittura, della «bancarotta della giustizia» (18).

17 PISAPIA, Lavori congressuali, in Criteri direttivi per una riforma del processo

penale, (Atti del IV Convegno di studio "Enrico de Nicola"). Problemi attuali di diritto e procedura penale dal centro nazionale di prevenzione e difesa sociale,

Milano, 1965, 209.

18 FINI, Appunti di diritto comparato sul processo accusatorio e sul processo

inquisitorio, in Criteri direttivi per una riforma del processo penale, (Atti del IV

Convegno di studio "Enrico De Nicola"). Problemi attuali di diritto e procedura

penale dal centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, cit., 5; ILLUMINATI, La presunzione d'innocenza dell'imputato, Bologna, 1979, 3.

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1.2 Dalla Costituzione al codice Vassalli

Dopo l'arresto di Benito Mussolini, avvenuto il 25 luglio del 1943, il re Vittorio Emanuele III nominò il maresciallo Pietro Badoglio per presiedere un governo che ripristinò in parte le libertà dello Statuto Albertino, soppresse durante il ventennio fascista. Iniziò così il c.d. "regime transitorio", della durata di cinque anni, periodo in cui si ebbe la conclusione della seconda guerra mondiale nel 1945 e in cui si cominciò a respirare nuovamente in Italia un clima di tipo liberale, ma soprattutto momento storico che culminò con l'entrata in vigore della nuova Costituzione italiana, il primo gennaio 1948.

Benché la Carta fondamentale non contenesse un'esplicita presa di posizione a favore del sistema accusatorio, per la dottrina maggioritaria sembrava quantomeno presumibile un netto rifiuto al permanere del processo inquisitorio nell'ordinamento italiano. Se da un lato infatti l'art. 112 Cost. prevede l'obbligatorietà dell'azione penale, dall'altro lato sono previste notevoli garanzie di tipo accusatorio, basti pensare alla presunzione di non colpevolezza o alla separazione delle funzioni di accusa, difesa e giudizio. Sul punto è doveroso riportare l'ottima ricostruzione della Fanuele circa il pensiero della dottrina: «È da osservare, invero, che v'è, certamente, un'incompatibilità di fondo tra l'ordinamento democratico previsto dalla Costituzione e un tipo di processo rigidamente inquisitorio; quest'ultimo, come risulta

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13 dall'indagine storica, è stato il metodo più consono ai governi autoritari, sia perché la ricostruzione del fatto, da parte dell'autorità inquirente, vi avviene unilateralmente, sia in quanto l'inquisito vi viene considerato come soggetto al potere statuale e depositario di una verità da cercare di strappargli con ogni mezzo. La valorizzazione della persona anche con riferimento all'imputato implica, invece, non solo il rifiuto nei confronti di ogni trattamento che riduca ad oggetto l'individuo, ai fini della ricerca della verità “materiale”, ma anche la consapevolezza dell'esigenza che il prevenuto possa partecipare alla ricostruzione del fatto» (19). Trattare

l'imputato come persona significa garantirgli la possibilità di partecipare attivamente in ogni fase del procedimento a suo carico, anche durante l'istruzione dello stesso, al fine di consentirgli una doverosa difesa, in particolar modo tramite il contraddittorio. Poter mettere in discussione quanto sostenuto dall'accusa, infatti, è già sintomatico di un pensiero in mutamento: l'aborrire l'impianto inquisitorio. Prosegue la Fanuele: «Tutti ammettevano che il permanere del sistema fino ad allora in vigore non era auspicabile, proprio per le gravi disfunzioni all'amministrazione della giustizia e poiché il codice del 1930 risultava, ormai, “inconsultabile”, dato il susseguirsi d'interpolazioni a carattere “garantistico” nel contesto di una struttura inquisitoria: tale situazione, creando un sistema “ibrido”, aveva finito per scontentare sia coloro che sottolineavano la funzione di

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14 difesa sociale del processo sia coloro che ne valorizzavano l'aspetto di tutela dei diritti individuali; di conseguenza si facevano sempre più pressanti le istanze per la riforma del processo penale» (20).

Così, nell'intento d'innestare nel codice Rocco talune garanzie fondamentali per la persona, venne emanata la l. n. 517 del 1955. Questa consentì un parziale rafforzamento dei diritti dell'imputato e della sua difesa, nel quadro di una generale tendenza alla par condicio rispetto ai poteri del pubblico ministero. In particolar modo, per quanto riguardava la formazione della prova nella fase istruttoria, l'ago della bilancia continuava a pendere inevitabilmente a vantaggio della figura del p.m. (21). Invece, nell'ambito della fase dibattimentale, v'è da sottolineare

come la legge del '55 riuscì a riequilibrare notevolmente i poteri e i ruoli delle parti, grazie anche a quei principi che ormai venivano oggettivamente riconosciuti (22). Per ciò che attiene al nostro tema, in

particolare: «la richiesta di richiamare documenti […] a tutte le parti è riconosciuta solo come una facoltà, in quanto il provvedimento del giudice è assolutamente discrezionale» (23); si riconosceva così un ampio

potere decisorio al giudice, il quale però non poteva agire d'ufficio ma

20 Ibidem, 6 ss.

21 Per una casistica approfondita, si veda FARANDA, La par condicio nel processo

penale, Milano, 1968, 64 ss.

22 Ibidem, 127 ss., per una analisi sui principi caratteristici che regolano il dibattimento

consentendo l'attuazione della par condicio.

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15 doveva attendere la richiesta di parte, questa se ritenuta superflua poteva essere rigettata dal giudice. Deve comunque ritenersi positivo il risultato generale raggiunto dalla riforma del '55, che venne definita addirittura come «la più importante delle riforme novellistiche che hanno propiziato l'estenuante protrarsi del codice del 1930» (24). Non sarebbe infatti

corretto creare una visione d'insieme basandosi esclusivamente sulle considerazioni attinenti alla mera fase istruttoria, in quanto preparatoria a quella dibattimentale. Essendo quest'ultima il perno centrale del processo penale tutto, si può ben allora sostenere che una sorta di avvantaggiamento della figura dell'imputato, e quindi della difesa, fu ristabilito.

Al fine di tutelare il diritto al silenzio dell'indagato, venne successivamente emanata la legge n. 932 del 1969: questa modificava completamente l’art. 78 del codice Rocco. I primi due commi chiarivano il momento in cui l’indagato assumeva ruolo di imputato; ma la vera rivoluzione veniva data dal comma 3: dove si stabiliva che «l'autorità giudiziaria o l'ufficiale di polizia giudiziaria, prima che abbia inizio l'interrogatorio, in qualsiasi fase del procedimento, deve avvertire l'imputato, dandone atto nel verbale, che egli ha la facoltà di non rispondere, salvo quanto dispone l'articolo 366, primo comma, ma che,

24CONSO-GREVI-NEPPI MODONA, La legge delega del 1974 e il progetto

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16 se anche non risponde, si procederà oltre nelle indagini istruttorie». Tale disposizione veniva seguita da diverse critiche; per molti, in particolare, l’interrogatorio avrebbe finito di svuotarsi di significato perché, garantendosi il diritto al silenzio dell’imputato, perdeva d’efficacia sul piano della ricerca della verità. D’altro canto, non si può negare che la facoltà di rimanere in silenzio era però divenuta ormai «un indiscusso principio della nostra civiltà giuridica», sicché era indubitabile che l’imputato andava «lasciato libero di difendersi collaborando o non collaborando con l’autorità giudiziaria» (25). Riconosciuto all’accusato il

diritto di non collaborare, come in ogni processo penale moderno, non si può non ammettere il dovere per l’organo dell’accusa di ricordare tale facoltà, che è, si noti, comunque diverso che suggerire di servirsene o meno. D’altronde, «se così non fosse, il legislatore verrebbe sostanzialmente a “speculare” sull’eventuale ignoranza, da parte dell’imputato, della facoltà che gli compete ex lege» (26). Abusare di tale

ignoranza significherebbe ledere al diritto alla difesa: è vero che il difensore tecnico potrebbe sempre ricordare al suo assistito di rimanere in silenzio, ma (e questo è vero in riferimento al codice Rocco) vi sono dei momenti dove l’avvocato non è presente, come appunto l’interrogatorio. Ecco la vera importanza della norma: questa non solo

25 GREVI, “Nemo tenetur se detegere”: interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio

nel processo penale italiano, Milano, 1972, 69.

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17 dispone che debba essere dato avviso della facoltà di tacere, ma, soprattutto, obbliga a ricordare tale facoltà «in qualsiasi fase del procedimento», tanto da parte dell’autorità giudiziaria quanto da parte della polizia giudiziaria. Da altro angolo visuale, inoltre, la norma si interseca nell’ambito della previsione di cui all’art. 13 comma 4 Cost., giacché l’autorità deve condurre l’interrogatorio assicurando la libertà di autodeterminazione dell’imputato alla collaborazione o meno: rientrano così nel concetto di «violenza fisica e morale» tutte quelle attività volte a stimolare o ad indurre l’interrogato a parlare. L’interrogatorio passava, così, da istituto volto alla ricerca di prove ad istituto rivolto ad assicurare l’autodifesa dell’imputato; a dimostrazione dell’ormai centralità della persona e del suo rispetto piuttosto che del principio dell’accertamento della verità storica ad ogni costo. In conclusione, la scelta di emanare una siffatta legge, evidenzia, sicuramente, un sempre più evidente allontanamento dal modello inquisitorio, «ed assume il significato di una decisa sterzata verso la costruzione di un processo adeguato ad una società che tutela come sommi valori la libertà e la dignità dell’individuo» (27).

Il sistema processuale che veniva a crearsi era definibile come una sorta di “miscela” derivante dall'innesto forzato in disposizioni autoritarie

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18 di valori e principi di stampo liberale. «In definitiva, veniva messo in crisi il fondamento logico-giuridico del modello inquisitorio, che non rispondeva più ad un “tipo” con determinate proprie specifiche caratteristiche» (28).

Non di meno, la ratifica e l'ordine di esecuzione da parte dell'Italia della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (con la legge 4 agosto 1955 n. 848) accelerava questo processo di smantellamento del codice penale e di procedura penale. Invero, il sottoscrivere una Carta che prevedeva principi di tipo garantistico, quali il rispetto della persona umana, la presunzione d'innocenza, il fair and speedy trial ecc., per l'Italia sarebbe stato un duro colpo al sistema processuale di tipo inquisitorio. A lungo si discusse circa la recepibilità della convenzione tra le fonti del diritto interno: alcuni davano alle norme della convenzione carattere di norme ordinarie, facendo leva sull'ordine di esecuzione; altri, spostandosi sul settore costituzionale, davano rilievo di fonte superiore alla convenzione europea, facendo perno sugli artt. 10 e 11 Cost.; ma la dottrina maggioritaria era concorde nel ritenere determinante la struttura delle singole norme quale elemento fondamentale ai fini della loro applicazione sul piano interno. Così si concludeva che talune tra le

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19 disposizioni, come gli artt. 2 (sanzioni capitali), 3 (interdizione di pene e trattamenti inumani e degradanti) e 7 (principio di legalità dei delitti e delle pene), «attribuiscono determinati diritti corrispondenti a doveri di comportamento a carico degli organi giudiziari, il cui adempimento non esige alcuna precisazione ulteriore di modalità né alcun apprestamento di mezzi particolari, mentre altre richiedono un'integrazione, attraverso norme più specifiche» (29), come ad es. gli artt. 5 e 6.

A noi interessa concentrarci in particolar modo sull'art. 6, da un lato, per il suo contenuto (in specie il comma 3 lettera d), dall'altro, poiché privo di auto-esecutività. D'altro canto, «la tematica relativa alle prove offre il terreno, forse, più idoneo per misurare la distanza intercorrente fra una disciplina del processo penale che, ad onta delle parziali riforme, lascia trasparire l'ispirazione autoritaria del suo nucleo fondamentale, ed un corpus normativo che, pur nei limiti proprii della Convenzione di Roma, si caratterizza per un'impostazione di tipo garantistico» (30). A fini

di maggior precisione, ritengo necessario riprodurre il testo originale dell'art. 6, comma 3, lett. d), nella versione ufficiale francese: «Tout accusé a droit notamment à: […] d) interroger ou faire interroger les témoins à charge et obtenir la convocation et l'interrogation des témoins à décharge, dans les mêmes conditions que les témoins à charge». Da un

29 CHIAVARIO, La convenzione europea dei diritti dell'uomo nel sistema delle fonti

normative in materia penale, Milano, 1969, 57.

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20 primo angolo visuale, si nota subito come sorga il diritto per l’imputato di esaminare o far esaminare un testimone, giacché «non è ammissibile che i testimoni a carico rimangano nell’ombra, confinati in un atto istruttorio o peggio ancora in un rapporto. Se l’imputato o la sua difesa vuole che vengano al dibattimento (o nell’istruzione ove per esempio siano stati sentiti soltanto dalla polizia giudiziaria) ha il diritto di ottenerlo» (31). La disposizione è, poi, forte nello stabilire una par

condicio fra accusa e difesa nelle citazioni dei testi, sia a carico che a discarico dell'imputato. Contrariamente a come si potrebbe pensare, infatti, non è meramente teorico l'interesse dell'imputato ad esaminare o addirittura citare un teste a carico: si pensi alla possibilità di utilizzo di precedenti deposizioni oppure la possibilità di far cadere in contraddizione il teste stesso per via dell'esame. E a maggior ragione, «ammessa, o comunque raccolta, una prova testimoniale a carico su un determinato punto della causa, non è consentito al giudice di escludere una prova testimoniale addotta a discarico sullo stesso punto» (32): e

questo dovrebbe valere sia per la fase istruttoria che per quella dibattimentale. È poi evidente che la disposizione consacri il metodo dell'esame incrociato dei testimoni, tipico dei paesi di common law. Per un'analisi più attenta occorrerebbe però domandarsi, da un lato, quale sia

31 VASSALLI, Il diritto alla prova nel processo penale, in Riv. it. dir. e proc. Pen., 1968,

17.

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21 il senso da attribuire al termine «interroger» e «faire interroger», e, dall'altro, quale valore abbia la disgiuntiva «ou». È qui più opportuno limitarsi però ad una ricostruzione sintetica, sicché, per i più, era ancora impensabile l'introduzione di un vero e proprio sistema di esame incrociato; si preferiva, per evitare contrasti col codice, riconoscere un diritto all'imputato di richiedere, sia in fase istruttoria sia in fase dibattimentale, l'esame ope iudicis dei testi, con facoltà di scegliere fra la possibilità di formulare domande in prima persona o che queste venissero formulate dal soggetto preposto alla direzione del procedimento (33). La

disposizione dell'art. 6, comma 3, lett. d), rileva anche sulla determinazione dell'ambito entro il quale può essere data lettura delle deposizioni istruttorie. La previsione della lettera d), infatti, contrasta nettamente con la prassi della lettura e della conferma da parte del testimone di quanto detto anzitempo, giacché l'imputato ha sempre il diritto di “esaminare o far esaminare” il teste. Sicché, tenuti fermi i principi di cui al comma 1, nn. 1, 2 e 3, dell'art. 462 (far risultare contraddizioni; aiutare la memoria del testimone; testimone morto, assente dallo Stato o inabile a deporre), problemi sorgevano in rapporto al comma 2; «o meglio ove ci si rifiuti di riconoscere che, già per le normali vie interpretative, operi in proposito il principio per cui se una

33 Per un approfondimento sul tema si veda ancora CHIAVARIO, La convenzione

europea dei diritti dell'uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, cit.,

356-364; cfr. VASSALLI, Il diritto alla prova nel processo penale, in Riv. it. dir. e

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22 delle parti ha richiesto la citazione, il giudice non può esimersi dall'accogliere l'istanza, si deve ammettere che, almeno per la maggior parte dei casi, tale conclusione è ora imposta dalla Convenzione di Roma. Né, a fortiori, si potrà ulteriormente sostenere, in fronte a principi fissati dall'art. 6 comma 3° lettera d, che l'art. 466 c.p.p. consentirebbe di dare ingresso, per il tramite dei verbali di denunzia o dei rapporti di polizia, a “deposizioni” raccolte in sede preistruttoria» (34).

Questa sintetica analisi dovrebbe aver chiarito come anche la ratifica della Convenzione di Roma abbia notevolmente influito sulla necessità di un ripensamento a livello ermeneutico-applicativo del codice Rocco.

Tuttavia, l'idea di una riforma totale del processo penale e del codice di riferimento emerse formalmente solo nel 1962, quando venne formata una Commissione per la riforma del codice di procedura penale, presieduta da Francesco Carnelutti. L'elemento sicuramente di spicco dello schema di progetto (modificato) fu l'ideazione della c.d. “inchiesta preliminare”: questa «serve a fornire non la certezza ma la probabilità che il reato sia stato commesso, correggendo così il gravissimo errore del codice vigente» (35). L'inchiesta preliminare sembrerebbe equivalere

all'istruzione sommaria del p.m. disposta dal codice Rocco, ma in realtà

34 CHIAVARIO, La convenzione europea dei diritti dell'uomo nel sistema delle fonti

normative in materia penale, cit., 365-367.

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23 «ne differisce profondamente per la funzione, in quanto l'attuale istruzione sommaria, al pari dell'istruzione formale, tende a offrire immediatamente i suoi risultati al giudice del reato affinché se ne serva al dibattimento, mentre l'inchiesta preliminare li offre soltanto al pubblico ministero affinché se ne avvalga al dibattimento, così che il giudice li apprende solo mediatamente attraverso l'azione di lui» (36). Per quanto

riguarda il nostro oggetto di discussione, il “progetto Carnelutti”, all'art. 128 comma 2, disponeva che «il pubblico ministero non può esibire i documenti per rappresentare le dichiarazioni orali fatte nel corso dell'inchiesta preliminare, salvo quanto previsto dall'art. 131»; quest'ultimo articolo eccepiva al divieto generale prevedendo che «solamente quando non sia assolutamente possibile ottenere al dibattimento la presenza dei dichiaranti, il pubblico ministero può esibire documenti dai quali risultino le dichiarazioni da essi fatte nell'inchiesta preliminare. Questa norma si applica pure all'interrogatorio dell'imputato». Si sarebbe venuto a costituire così un sistema entro il quale le dichiarazioni rese anteriormente al processo non sarebbero state suscettibili d'essere poste a fondamento della decisione, in quanto sarebbero filtrate innanzi all'organo giudicante solo in casi residuali. Per Carnelutti, invero, la prova suscettibile di valutazione da parte del giudice doveva nascere nel dibattimento.

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24 Proprio perché ritenuto da molti troppo “avveniristico” (37), il

“progetto Carnelutti” non ebbe un riflesso immediato sul piano legislativo. Nonostante ciò, vi è da riconoscere alla commissione il merito di aver stimolato l'ipotesi di riformare completamente il codice Rocco, seppellendo l'idea di limitarsi ad un mero aggiornamento in ossequio ai dettami costituzionali. Con parole più carismatiche dello stesso Carnelutti: «Io sono convinto che lo studio del diritto processuale perseguito in Italia negli ultimi trenta anni consenta, anzi esiga, una modificazione dei principii, sui quali è fondato il codice vigente, così profonda che non è possibile provvedere ad un restauro del codice stesso, del quale è invece necessaria una coraggiosa ricostruzione” (38).

Così, messa da parte la soluzione offerta dal “progetto Carnelutti” di ridurre il processo alla misura del dibattimento, preceduto da un'inchiesta preliminare irrilevante ai fini del decidere, lo sforzo volto ad adeguare l'assetto codicistico ai principi della Costituzione si sviluppò nel solco di una progressiva, ma non completa, estensione del contraddittorio alle fasi originariamente coperte dal segreto. Ma ciò comportò più problematiche che soluzioni, smuovendo critiche da più parti. Su tutti, Ferrua: «Per effetto di queste molteplici “correzioni”, il sistema processuale appare,

37 Termine utilizzato da CHIAVARIO, Procedura penale. Un codice tra “storia” e

cronaca, Torino, 1998, 36.

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25 oggi, composto di fasi che non corrispondono ad altrettante specifiche funzioni, ma risultano tra loro inutilmente ripetitive, per il continuo sovrapporsi dell'attività investigativa a quella di formazione delle prove» (39). Oltre che ridondanti, e quindi superflue, tali fasi erano evidentemente

antieconomiche e, ancor peggio, tendevano ad allungare, per conseguenza, tutto il procedimento. Proseguiva Ferrua: «in un simile contesto sembra evidente che la lotta alle componenti inquisitorie del sistema non può essere proseguita nel solco di un ulteriore potenziamento delle garanzie difensive in istruzione. L'ammissione della difesa agli esami testimoniali non esporrebbe solo al rischio che una divulgazione prematura dei risultati delle prime indagini comprometta l'esito di quelle successive; ma accentuerebbe l'influenza già esorbitante delle dichiarazioni scritte sul giudizio, vanificando la garanzia dell'oralità proprio in relazione alle prove per le quali essa assume il maggior valore» (40). E ciò risultava quantomeno inappropriato, giacché il favorire del

proliferare di elementi scritti a discapito di quelli orali, nel processo penale, avrebbe giustificato, in un certo qual modo, l'“auto-tutelarsi” del sistema inquisitorio. In conclusione, «la via migliore per restituire al processo la necessaria efficienza e, al tempo stesso, assicurare il rispetto dei diritti individuali è quella di una radicale riforma in senso accusatorio che concentri le attività probatorie nel dibattimento, assegnando alle fasi

39 FERRUA, Oralità del giudizio e letture di deposizioni testimoniali, cit., 276. 40 Ibidem, 277.

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26 anteriori funzioni eminentemente investigative, ossia di semplice ricerca delle fonti di prova» (41). In senso conforme, Dominioni sottolineava la

necessità di «ricomporre all'interno della struttura processuale i ruoli del giudice e dell'accusatore nella loro specifica autenticità, depurando il primo di funzioni proprie del secondo e viceversa» (42); solo in questo

modo si sarebbero potuti superare efficacemente gli ostacoli posti da un processo penale in un sistema di «garantismo inquisitorio» (43).

Ad una vera e propria riforma del codice di procedura penale si arrivò, però, soltanto nel 1989, dopo l'emanazione di due leggi delega: la l. n. 108 del 1974, a cui seguì l'elaborazione del Progetto preliminare del 1978, e la l. n. 81 del 1987, seguita, a sua volta, dalla predisposizione di un ulteriore Progetto preliminare, nel 1988.

L'art. 1 comma 1 del disegno di legge delega per il nuovo codice di procedura penale del 1974 aveva previsto, nel suo inciso iniziale, che la delega dovesse essere esercitata entro due anni dall'entrata in vigore della legge. A tal fine veniva istituita lo stesso anno una commissione, presieduta da Gian Domenico Pisapia, incaricata di redigere il testo del

41 Ibidem, 277-278; cfr. CORDERO, Linee di un processo di parti (1964), in Ideologie

del processo penale, Milano, 1966, 173.

42 DOMINIONI, Il pubblico ministero come organo dell'investigazione nel progetto

preliminare del codice di procedura penale, in Giust. Pen., 1979, I, c. 97 ss.

43 L'espressione è di AMODIO, in Un questionario sul nuovo processo penale, in

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27 nuovo codice. La legge delega prevedeva numerosi punti di principi da far rispettare alla commissione; ne riporto i più salienti: massima semplificazione del processo con eliminazione di ogni atto o attività non essenziale; passaggio al modello accusatorio; partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e grado del procedimento; adozione del metodo orale, nonché dei principi di immediatezza e concentrazione del dibattimento; facoltà del p.m. e dei difensori di presentare memorie e di indicare elementi di prova nonché di prendere visione di ogni verbale istruttorio (44). Rivelatosi impossibile concludere

i lavori entro il 1976, il termine venne prorogato di un anno, dapprima, e poi nuovamente rimandato per due volte (l'iter avrebbe dovuto concludersi entro il 31 ottobre 1979). Grazie ai primi due spostamenti, la Commissione redigente era in grado di ultimare la stesura del progetto preliminare; grazie al terzo spostamento, la Commissione era in grado di formulare il suo parere complessivo, senza che, però, si potesse dare inizio alla stesura del testo definitivo. Per quanto riguarda le letture in dibattimento, nell'ambito del Progetto, la Commissione Consultiva specificava che se il dibattimento stesso è «caratterizzato dall'oralità e soprattutto dall'immediatezza e dalla concentrazione, non dovrebbe esserci posto per la lettura di atti acquisiti in precedenza. Il rigoroso rispetto di questo principio, tuttavia, priverebbe il giudice e le stesse parti

44 Per l'elenco completo si veda CONSO-GREVI-NEPPI MODONA, La legge delega

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28 della possibilità di utilizzare quegli elementi di prova che è stato possibile acquisire nelle fasi precedenti ma che successivamente non sono più riproducibili in assoluto, ovvero sono riproducibili solo con molto disagio e in modo non compatibile con la celerità e la stessa concentrazione del dibattimento. Perciò il legislatore delegante ha ritenuto di dover ammettere la lettura di taluni atti, in via eccezionale» (45). Sicché, l'art.

483 del Progetto preliminare prevedeva la lettura incondizionata dei verbali degli atti urgenti assunti a norma dell'art. 443 (Atti urgenti del presidente del tribunale; Testimonianza a futura memoria) e degli atti di istruzione diversi dalle dichiarazioni, salvo quanto previsto dagli artt. 484 (Lettura di deposizioni testimoniali rese al giudice istruttore), 485 (Lettura delle dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero e al giudice istruttore) e 486 (Letture vietate). L'art. 484, in particolare, disponeva la possibilità, anche d'ufficio, per il giudice di leggere i verbali delle deposizioni testimoniali rese al giudice istruttore, ma solo se il testimone è deceduto o non può essere esaminato in dibattimento per sopravvenuta infermità di mente o assoluta impossibilità a comparire. A noi occorre però valutare quale rapporto vi fosse tra la possibilità di servirsi delle dichiarazioni rese dal testimone o dall'imputato al giudice istruttore per contestare il contenuto della deposizione dibattimentale ed il principio del contraddittorio. L'art. 472, comma 2, del Progetto stabiliva

45 Parere Commissione Consultiva, p. 369-371, in CONSO-GREVI-NEPPI MODONA,

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29 che «fermi i divieti di lettura, di allegazione ed utilizzazione ai fini della decisione, le parti possono servirsi delle dichiarazioni rese dal testimone nel corso degli atti di istruzione per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione». Identico testo veniva poi utilizzato dal terzo comma dell'art. 475, in riferimento questa volta all'esame delle parti private. In base al disposto, «il verbale non fa ingresso ufficialmente nel processo ma serve alla parte per formulare la domanda. Quel che si inserirà alla fine nel dibattimento sarà pur sempre la risposta della persona esaminata. Di conseguenza ove il teste neghi di aver fatto certe dichiarazioni in istruttoria o ne dia una interpretazione diversa, il giudice non potrà mai in sentenza basarsi sul verbale richiamato da chi ha posto la domanda, perché tale documento è estraneo al dibattimento. Per bandire ogni dubbio in proposito si è inserito in esordio del comma il limite del divieto di letture, allegazioni ed utilizzazioni ai fini della decisione, divieto che funge da sbarramento rigoroso» (46). Di idea

contraria il Consiglio giudiziario presso la Corte d'appello di Firenze che suggerì di modificare ed ampliare la normativa, tendendo a precisare che «se appare condividibile l'opportunità che il giudice del dibattimento non risulti influenzato dalla conoscenza degli atti già compiuti, è per contro indispensabile che egli sia posto in condizioni di perseguire l'accertamento della verità. Da ciò consegue che è necessaria

46 Relazione al testo del Progetto, p. 410-411, in CONSO-GREVI-NEPPI MODONA,

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30 l'acquisizione al dibattimento degli atti d'istruzione di cui il p.m. ed i difensori si avvalgono per contestare in tutto o in parte il contenuto delle difformi dichiarazioni rese in udienza dalle parti e dai testimoni. Tali precedenti dichiarazioni, nel momento in cui vengono contestate in udienza alle parti e ai testi, devono diventare valutabili ai fini della decisione a tutti gli effetti e nella loro interezza» (47). Risultava poi

quantomeno «incoerente che, nel redigere il progetto de quo, si fosse avvertita, per la prima volta, l'esigenza di delimitare il contenuto del fascicolo per il dibattimento e d'individuare l'esposizione introduttiva come il momento in cui le parti, e non i verbali, avrebbero dovuto rappresentare i fatti al giudice, mentre, poi, si permettesse la conoscenza (e l'utilizzazione) di atti d'istruzione attraverso il meccanismo delle contestazioni» (48). L'istituto delle contestazioni al testimone, nonché le

letture in dibattimento, veniva così rivisitato in ottica eccezionale, quasi a livello di extrema ratio. Era manifesta ormai la volontà di combattere la consueta attività d'uso che se ne faceva nelle aule giudiziarie. Seppur lasciando diverse perplessità, dunque, il testo del Progetto preliminare del 1978 recepiva, senza dubbio, le idee in antitesi al codice Rocco. L'iter non si concluse, tuttavia, che con una richiesta di una nuova delega nel 1979. «La verità è che il progressivo crescere del tempo a disposizione,

47 Parere del Consiglio giudiziario presso la Corte d'appello di Firenze, p. 22, 25-26, in

CONSO-GREVI-NEPPI MODONA, La legge delega del 1974 e il progetto

preliminare del 1978, cit., 1114.

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31 lungi dal giovare, aveva via via, e sempre di più, compromesso le sorti della delega, soprattutto per il profondo mutare delle condizioni sociopolitiche ed il diffondersi di gravissime forme di criminalità (cui cercavano di contrapporsi le cosiddette leggi dell'emergenza), moltiplicando le critiche e le perplessità» (49). Così, proprio il 31 ottobre

del '79, si presentava alla Camera dei deputati un disegno di legge dal titolo “Disposizioni per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale”, che preannunciava nella relazione introduttiva la presentazione di significativi emendamenti da parte del Governo al Progetto preliminare, con la conseguenza di ufficializzare la necessità di una nuova delega.

La scelta di rinunciare all'esercizio della delega e di chiedere al parlamento una preliminare valutazione, pur apparendo anomala, ha la propria giustificazione nella situazione di incertezza venutasi a creare a causa della lunghezza e difficoltà dell'impegno per rispettare pienamente la delega stessa del 1974. Nonostante tutto, nel 1987, e quindi a distanza di parecchi anni e di altrettante proposte fallite anche a causa di decadute legislature, si ebbe una nuova legge delega da parte del Parlamento; essa modificava numerosi punti della legge del 1974 mentre non pochi altri venivano aggiunti ex novo, come consigliato dal Governo nelle

49CONSO-GREVI-NEPPI MODONA, La legge delega del 1974 e il progetto

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32 disposizioni del 1979. «L'abbondanza di principi e criteri direttivi in una delega legislativa per un nuovo codice può apparire il frutto di una scelta pienamente rispettosa del dettato costituzionale dell'art. 76. In realtà essa presenta alcuni gravi rischi che è opportuno tenere presenti. Innanzitutto la formulazione analitica dei criteri direttivi può comportare l'inclusione in essi di disposizioni normative di dettaglio scarsamente coerenti con il sistema complessivo del codice e destinate a porre al legislatore delegato vincoli forse neanche percepiti in sede di stesura della delega. Inoltre, l'abbondanza di criteri rende più facile la prospettazione di questioni di costituzionalità relative alla conformità agli stessi delle norme contenute nel codice […] specie se le disposizioni della delega presentano difetti di coerenza e d chiarezza. E c'è il pericolo che un'ampia quantità di questioni di costituzionalità pendenti possa finire col bloccare il concreto funzionamento dell'intero codice proprio nel non facile periodo di applicazione iniziale» (50). A noi non occorre una analisi analitica della

nuova delega, ma è qui sufficiente considerare quelle modifiche che incisero sui caratteri fondamentali del sistema processuale. Le novità più significative della seconda delega erano quelle concernenti la netta separazione tra le fasi preliminari ed il dibattimento. Questa scissione veniva realizzata grazie a due punti fondamentali: attraverso l'eliminazione dell'istruzione e mediante la previsione di due distinti

50 LATTANZI – LUPO, La nuova legge delega per il codice di procedura penale:

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33 fascicoli, destinati a raccogliere gli atti formati nelle due fasi. Circa il primo punto, la legge delega del 1974 già operava al riguardo cercando di rendere il pubblico ministero più “parte” ed il giudice istruttore più “terzo”; la nuova delega tuttavia eliminava il giudice istruttore, ritenendo tale soluzione più coerente col modello accusatorio. Certo, per i casi eccezionali di c.d. incidente istruttorio veniva previsto un giudice ad hoc, ma netta è la sua differenza rispetto al giudice istruttore: «il primo raccoglie i singoli atti richiesti dalle parti rimanendo estraneo al compimento delle indagini, che continuano, anche dopo l'incidente istruttorio, ad essere di competenza del pubblico ministero; il secondo, invece, una volta disposti gli atti di istruzione, assume sia pure nel contraddittorio delle parti la conduzione delle indagini, snaturando così la propria posizione di terzietà [...]» (51). Per quanto atteneva al secondo

punto, il nodo centrale era quello di «trovare la definizione di due diverse efficacie probatorie, e questo può essere realizzato attraverso ciò che per ora è soltanto implicito nel testo della Commissione, cioè la creazione di un doppio fascicolo: il fascicolo di ciò che è piena prova e che il giudice esaminerà prima di entrare in aula (in cui troveranno gli atti dell'incidente istruttorio), e questo consentirà al giudice di non avere prevenzioni, di presentarsi al processo come una tabula rasa; un secondo fascicolo, in cui tutto ciò che è stato raccolto dal pubblico ministero e dalla polizia

(34)

34 deve essere contenuto, e nessun frammento deve essere perso» (52). Il

fascicolo del dibattimento doveva, così, contenere ex art. 2, n. 57 gli atti tassativamente indicati: «immediata trasmissione al giudice del dibattimento del provvedimento che dispone il giudizio con gli atti relativi alla procedibilità e all'esercizio dell'azione civile, con quelli non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero e con quelli compiuti dal giudice negli incidenti probatori». Questo doveva servire ad evitare, attraverso la lettura, disposta d'ufficio o richiesta di parte, uno spostamento di massa degli elementi della fase investigativa al dibattimento. Per quanto riguarda il fascicolo del pubblico ministero, si prevedeva che fosse messo a disposizione di tutte le parti, con il divieto per il giudice di accedervi. «Mentre oggi gli atti del pubblico ministero hanno piena efficacia probatoria ai fini della decisione, nel nuovo processo essi hanno una efficacia limitata a giustificare le contestazioni dibattimentali, la cui possibilità presuppone in primo luogo che la prova sia assunta in dibattimento […]; e in secondo luogo che l'assunzione della prova avvenga senza che il giudice dibattimentale conosca preventivamente il contenuto della stessa [...]» (53). Si ordinava quindi al

numero 76 dell'art. 2 della legge dell'87 il doversi prevedere che «a condizioni specificamente determinate» le parti avessero il diritto a

52 CASINI, Cam., IX, Disc., 26.6.1984, 14909, in MAGARAGGIA, I principi per la

riforma del processo penale, Padova, 1988, 539.

53 GARGANI, Cam., IX, Disc., 26.6.1984, 14891, in MAGARAGGIA, I principi per la

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35 richiedere ed il giudice avesse il potere di disporre, anche d'ufficio «la lettura in dibattimento degli atti indicati nel numero 57 del presente articolo»; nonché la facoltà per le parti di «utilizzare, per le opportune contestazioni, gli atti depositati ai sensi del numero 58 del presente articolo»; inoltre, il potere del giudice di «allegare nel fascicolo processuale, tra gli atti utilizzati per le contestazioni, solo quelli assunti dal pubblico ministero cui il difensore ha diritto di assistere e le sommarie informazioni assunte dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell'immediatezza del fatto». Presupposto implicito, ma essenziale, dell'istituto è che il teste o la parte a cui la contestazione è mossa sia presente. Questa utilizzazione, pertanto, si differenzia nettamente dall'istituto della lettura, che può essere fatta anche in assenza del soggetto la cui dichiarazione si legge, ed è coerente col sistema accusatorio, poiché svolto nel contraddittorio delle parti. In conclusione, la delega del 1987 veniva largamente e positivamente accolta, in quanto i suoi nuovi contenuti «non contraddicono l'opzione di fondo per il sistema accusatorio, ma presentano al contrario una maggiore coerenza con il modello adottato, pur se le motivazioni che li hanno determinati non hanno natura meramente teorica, ma sono intese a rendere più funzionali, agili e dunque praticabili i meccanismi processuali» (54). La Commissione per la redazione del progetto del

54 LATTANZI – LUPO, La nuova legge delega per il codice di procedura penale:

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36 nuovo testo di codice di procedura penale, ancora una volta presieduta da Gian Domenico Pisapia, in meno di un anno, esattamente il 29 gennaio 1988, presentò il progetto preliminare al Consiglio dei Ministri; dopo essere stato diffuso e sottoposto alla commissione bicamerale, il testo, ulteriormente rifinito ancora dalla commissione Pisapia, fu emanato con d.p.r. 22 settembre 1988, n. 447, e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 24 ottobre 1988; al termine di una vacatio legis di un anno, entrò, finalmente, in vigore il 24 ottobre 1989.

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